Finalmente la sede del Consiglio Superiore della Magistratura, da oggi, sarà non più il Palazzo dei Marescialli, bensì Palazzo Vittorio Bachelet.

Sono passati oltre 60 anni da quanto il CSM trovò sede nel palazzo in Piazza Indipendenza che era intitolato ai  Marescialli d’Italia, grado militare creato dal Governo fascista nel 1935, e ben 24 anni dal 12 febbraio 1980, quando Vittorio Bachelet fu ucciso barbaramente sulle scale della Facoltà di scienze politiche della Università  la Sapienza di Roma. Bachelet continuava ad insegnarvi anche da vicepresidente del CSM. Una attenzione alle giovani generazioni, quella di Bachelet — in un momento tumultuoso, caratterizzato da violenza terroristica e disorientamento — che esprimeva la certezza che mai il dialogo vada interrotto e che dai giovani possa venire una diversa chiave di lettura del reale. Non a caso Bachelet scriveva che il diritto allo studio, anche superiore, realmente libero,  fosse assolutamente necessario, «se si vuole garantire, non solo a parole, quella libertà dall’ignoranza, cioè quella capacità di conoscere, di pensare con la propria testa, di esercitare la propria azione e la propria critica, che è indispensabile in una democrazia sostanziale, almeno tanto quanto la libertà dal bisogno o la libertà politica e la parità di fronte alla legge», riferendosi così all’art. 34, commi 3 e 4 , Cost., e alla necessità che tali norme impegnino lo Stato a rendere effettivo questo diritto [1].  

Va dato merito al CSM per questa intitolazione, che deve andare ben oltre la forma, rappresentando invece in sé l’auspicio del recupero di uno stile e di un metodo, quello del dialogo che si nutre di ascolto, del senso di responsabilità che deve caratterizzare chi ricopre incarichi istituzionali, della prospettiva del bene comune, che va di pari passo con l’essere chiamati a svolgere il compito proprio dell’Istituzione che si rappresenta, senza sconti o compromessi al ribasso. Non a caso, il CSM eletto nel 1976 e guidato da Bachelet ebbe un ruolo di salvaguardia della indipendenza e della autonomia della magistratura molto intenso, in funzione di tutela della democrazia, come anche fu chiaramente un Consiglio impegnato sul fronte della politica giudiziaria, non limitandosi a una attività di mera amministrazione. Quel CSM difese la magistratura accusata di connivenze con il terrorismo da una interpellanza parlamentare; non accettò la logica della legislazione dell’emergenza e la riduzione dello Stato di diritto, convinto che una democrazia matura avesse in sé le risorse legislative ordinarie per sconfiggere la barbarie terroristica; garantì l’indipendenza interna con la prima forma di tabellarizzazione degli uffici giudiziari e con le richieste di Bachelet ai capi degli uffici di assicurare l’autonomia ai propri giudici. Lo stesso Bachelet, non appena eletto, richiese che ogni compagine consiliare indicasse un proprio capogruppo, per poter meglio coordinare le attività consiliari, a riprova del profondo rispetto per le diverse sensibilità, tanto da essere definito «costruttore di unità».

E’ stato scritto che «Vittorio Bachelet recava con le sue parole umana fiducia nella democrazia, cioè una democrazia fatta per gli uomini che naturalmente si parlano e discutono e insieme ricercano la verità e le prospettive di azione. […] Bachelet non era un mediatore, nel senso che non si limitava ad accostare gli uni agli altri i punti vista per ridurre le divergenze; era un infaticabile partecipe e dava generosamente la sua parte. Non andava alla ricerca di unanimismi, ma sintetizzava la dialettica del Consiglio, rappresentandolo per intero e così rappresentando, verso gli altri poteri e le forze politiche, l’intera magistratura. Forse lo uccisero anche per questo, per la sua fiducia di trovarsi insieme»[2].

Intitolare la sede del CSM a un martire del terrorismo perché testimone dei valori della Costituzione repubblicana, autentico interprete del senso costituzionale dell’organo di Governo autonomo, nel quale portò il senso di laicità e l’impegno per le istituzioni proprio del cattolicesimo democratico — alimentato nelle file della Fuci e poi dell’Azione Cattolica, della quale fu illuminato Presidente nella transizione che si innestò nel passaggio conciliare — assume un grande significato. Bachelet ha ancora molto da dire alla magistratura e alla politica oggi, sia come vicepresidente che come docente di diritto amministrativo, che studiò il rapporto fra autorità e libertà cogliendo nel coordinamento una leva democratica perché il cittadino acquistasse una propria dignità di fronte allo Stato e fosse garantito il pluralismo nelle istituzioni e fra le istituzioni.

La fiducia nella democrazia e nei suoi strumenti, nonostante la temperie che il paese stava vivendo, dopo l’omicidio Moro e in piena emergenza terroristica, gli fecero dire, come oggi si legge all’ingresso dell’Aula magna del CSM: «Sono inguaribilmente ottimista e credo che, nonostante tutte le difficoltà, ci sia la possibilità di un futuro migliore per la vita del nostro paese e per la vita delle nostre istituzioni» [3] . Ma non si trattava di un ottimismo di maniera, bensì di una speranza concreta che scaturiva dalla fiducia nella democrazia e nell’impegno per trovare le vie dell’unità, unico modo per difendere l’autonomia e l’indipendenza della magistratura nella stagione del terrorismo, nel quale concreto era il pericolo del disimpegno, per la paura di morire come anche per la solitudine istituzionale sperimentata. Il Csm garantì il sostegno ai magistrati grazie alla presenza di Vittorio Bachelet, che nel 1979 disse:  «Per questo, a difesa della libertà di tutti e soprattutto dei diritti dei più deboli, non potrà non esserci un comune impegno di tutte le forze sociali e politiche, non per sradicare il diritto e la funzione del giudice, ma piuttosto per avere leggi sempre più giuste e magistrati che per umanità, rigore morale, capacità professionale, imparzialità di giudizio sappiano essere corretti interpreti di quelle leggi nella concreta realtà sociale».

La possibilità di un futuro migliore, anche in questi tempi difficili segnati dalle guerre, ha un metodo disponibile, il cd. «metodo Bachelet». Spetta a tutti noi farcene interpreti appassionati. 

La Direzione Nazionale di Unicost.


[1] In Civitas, 33, 1982, pp. 20 e 21, citata in Vittorio Bachelet, La responsabilità della Politica, Scritti politici, a cura di Rosy Bindi e Paolo Nepi,  Ed.  Ave, Roma, 1992, p. 120 e ss.

[2] Così Luigi Scotti, consigliere nel CSM di Bachelet, in un recente ricordo che può leggersi in Vittorio Bachelet e lo stile del dialogo, https://rivistadialoghi.it/profili/vittorio-bachelet-e-lo-stile-del-dialogo.

[3] Così ad un incontro di studio del CSM a Camerino, nel maggio 1979, in  Il Consiglio Superiore di Vittorio Bachelet,  Roma, p. 30