I patti in vista del divorzio

Dopo la sentenza n. 18287/2018 delle Sezioni Unite, è lecito tornare ad interrogarsi sulla questione della validità dei patti conclusi dai coniugi, con cui si dispone del diritto di uno di essi a ricevere l’assegno divorzile, in vista di una eventuale cessazione del rapporto matrimoniale.

Il discorso riguarda non soltanto le convenzioni “prematrimoniali” (con cui i coniugi, prima ancora di contrarre matrimonio, raggiungono un’intesa sugli effetti di un’eventuale crisi del rapporto), ma anche i patti stipulati al momento della separazione (con cui i coniugi regolano il divorzio nel caso di mancata ricomposizione della crisi coniugale), quelli stipulati al momento del divorzio (con cui i coniugi pattuiscono la immodificabilità dell’assegno stabilito in sentenza) e gli accordi “divorzili” raggiunti dai coniugi dopo il matrimonio, quando la loro relazione è ancora stabile.

Nel corso degli ultimi decenni, come è noto, si è escluso che i coniugi possano validamente stipulare un accordo per il riconoscimento e la quantificazione di un futuro assegno divorzile, in considerazione della natura assistenziale riconosciuta all’assegno dalla riforma del 1987 ed in considerazione del tenore letterale dell’art. 5, comma 8, Legge n. 898/1970 (norma che, imponendo ai fini dell’efficacia una verifica di equità da parte dell’Autorità Giudiziaria del patto con cui il coniuge – al momento del divorzio – rinuncia all’assegno periodico ed accetta una prestazione in un’unica soluzione, dovrebbe trovare applicazione anche nell’ipotesi del patto – avente ad oggetto l’assegno periodico divorzile – stipulato dai coniugi in vista del divorzio).

Il problema nasce, più in generale, dalla difficoltà di riconoscere efficacia all’autonomia privata nell’ambito del diritto di famiglia.

L’art. 160 c.c., infatti, stabilendo che “gli sposi non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio”, rappresenta per l’autonomia dei coniugi un limite invalicabile per quanto concerne l’indisponibilità degli status familiari, l’inderogabilità dei diritti ad essi connessi (si pensi al diritto agli alimenti o al dovere di assistenza morale e materiale ex art. 143 c.c.) e la salvaguardia dell’interesse superiore dei figli minori; in virtù dell’art. 160 c.c., quindi, i diritti e i doveri derivanti per Legge dal matrimonio acquisiscono una valenza pubblicistica sottratta alla libera negoziabilità delle parti.

Al contempo, però, i coniugi possono stipulare convenzioni matrimoniali finalizzate a regolamentare i loro rapporti economico-patrimoniali e possono optare per il regime della separazione dei beni, derogando in tal modo alla regola che prevede la comunione come regime patrimoniale legale (cfr. l’art. 159 c.c.: “Il regime patrimoniale legale della famiglia, in mancanza di diversa convenzione stipulata a norma dell’articolo 162, è costituito dalla comunione dei beni”; cfr. l’art. 162 c.c.: “Le convenzioni matrimoniali debbono essere stipulate per atto pubblico sotto pena di nullità. La scelta del regime di separazione può anche essere dichiarata nell’atto di celebrazione del matrimonio. Le convenzioni possono essere stipulate in ogni tempo, ferme restando le disposizioni dell’articolo 194. Le convenzioni matrimoniali non possono essere opposte ai terzi quando a margine dell’atto di matrimonio non risultano annotati la data del contratto, il notaio rogante e le generalità dei contraenti, ovvero la scelta di cui al secondo comma”; cfr. l’art. 215 c.c.: “I coniugi possono convenire che ciascuno di essi conservi la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio”; si veda anche l’art. 6 D.L. n. 132/2014, convertito con modificazioni dalla L. n. 162/2014, sulla “convenzione di negoziazione assistita” per le soluzioni consensuali di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio).

Se così è, allora, non si comprende perché mai i coniugi non possano stabilire di comune accordo – prima di contrarre matrimonio, al momento del matrimonio, al momento della separazione o al momento del divorzio – il riconoscimento e la quantificazione dell’assegno di divorzio.

L’indisponibilità dei diritti (e dei doveri) derivanti dal matrimonio consente davvero di affermare la nullità dei patti stipulati dai coniugi in vista del divorzio o, piuttosto, si può sostenere l’inapplicabilità dell’art. 160 c.c. ai contratti relativi alla crisi coniugale?

La Giurisprudenza della Suprema Corte sostiene la tesi della nullità, desumendo l’indisponibilità dell’assegno di divorzio dalla sua natura (esclusivamente) assistenziale (cfr. Cass., Sez. I, Sent. n. 1758/2008, secondo cui la determinazione dell’assegno divorzile, alla stregua dell’art.5 della legge 1 dicembre 1970, n.898, modificato dall’art.10 della legge 6 marzo 1987, n. 74, è indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti in vigenza di separazione dei coniugi, con la conseguenza che il diniego dell’assegno divorzile non può fondarsi sul rilievo che negli accordi di separazione i coniugi pattuirono che nessun assegno fosse versato dal marito per il mantenimento della moglie, dovendo comunque il Giudice procedere alla verifica del rapporto delle attuali condizioni economiche delle parti con il pregresso tenore di vita coniugale; cfr. Cass., Sez. I, Sent. n. 5302/06, secondo cui gli accordi dei coniugi diretti a fissare, in sede di separazione, i reciproci rapporti economici in relazione al futuro ed eventuale divorzio con riferimento all’assegno divorzile sono nulli per illiceità della causa, avuto riguardo alla natura assistenziale di detto assegno, previsto a tutela del coniuge più debole, che rende indisponibile il diritto a richiederlo; ne consegue che la disposizione dell’art. 5, ottavo comma, della Legge n. 898/1970 nel testo di cui alla Legge n. 74 del 1987 – a norma del quale, su accordo delle parti, la corresponsione dell’assegno divorzile può avvenire in un’unica soluzione, ove ritenuta equa dal Tribunale, senza che si possa, in tal caso, proporre alcuna successiva domanda a contenuto economico – non è applicabile al di fuori del giudizio di divorzio, e gli accordi di separazione, dovendo essere interpretati “secundum ius“, non possono implicare rinuncia all’assegno di divorzio; cfr., altresì, Cass., Sez. I, Sent. n. 2076/2003; v. Cass., Sez. I, Sent. n. 1810/2000, secondo cui gli accordi con i quali i coniugi fissano – in sede di separazione – il regime giuridico-patrimoniale in vista di un futuro ed eventuale divorzio sono invalidi per illiceità della causa, perché stipulati in violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale espresso dall’art. 160 c.c., sicché di tali accordi non può tenersi conto sia quando essi limitano o addirittura escludono il diritto del coniuge economicamente più debole al conseguimento di quanto è necessario per soddisfare le esigenze di vita, sia quando soddisfano pienamente dette esigenze, per il rilievo che una preventiva pattuizione – specie se allettante e condizionata alla non opposizione al divorzio – potrebbe determinare il consenso alla dichiarazione degli effetti civili del matrimonio; cfr. Cass, Sez, I, Sent. n. 2955/98, per la quale gli accordi con i quali i coniugi fissano in sede di separazione il regime giuridico del futuro ed eventuale divorzio devono considerarsi invalidi per illiceità della causa, sia nella parte riguardante i figli, sia in quella concernente l’assegno spettante all’ex coniuge, in forza della indisponibilità preventiva dei diritti patrimoniali conseguenti allo scioglimento del matrimonio; cfr., ancora, Cass., Sez. I, Sent. n. 5244/97, secondo cui: a) gli accordi economici intervenuti fra i coniugi al momento della separazione non possono spiegare efficacia preclusiva alla determinazione giudiziale dell’assegno di divorzio, atteso che, ove la causa di tali accordi fosse la liquidazione preventiva e forfettaria dell’assegno di divorzio, essi sarebbero nulli, sia per l’indisponibilità dell’assegno di divorzio (rafforzata dalla Legge n. 74/1987 che ha conferito al suddetto assegno natura eminentemente assistenziale), sia per illiceità della causa (avendo tali accordi sempre l’effetto di condizionare il comportamento delle parti nel giudizio concernente uno status); b) diverso è il caso delle intese economiche prospettate dalle parti con la domanda congiunta di divorzio ai sensi dell’art. 4 Legge n. 74/1987, poiché tali intese (che vanno pur sempre sottoposte ad una valutazione giudiziale) si riferiscono ad un divorzio che le parti hanno già deciso di conseguire e non semplicemente prefigurato; cfr. anche Cass., Sez. I, Sent. n. 9416/95, secondo cui l’accordo intervenuto tra i coniugi al momento della separazione di fatto, con cui essi abbiano regolato ogni rapporto patrimoniale e dichiarato di non avere altro da pretendere l’uno dall’altro, non assume rilievo ai fini del riconoscimento dell’assegno di divorzio, essendo sottratto alla disponibilità delle parti il potere di regolare in via preventiva ed autonoma gli effetti patrimoniali del divorzio; Cass., Sez, I, Sent. n. 8912/94; cfr., infine, Cass., Sez. I, Sent. n. 9840/91, per la quale, con riguardo agli accordi di contenuto patrimoniale fra coniugi separati, la nullità del patto, che ne preveda la persistente operatività anche in regime di divorzio – nullità derivante da illiceità della causa, alla stregua dei condizionamenti del patto stesso sulla libertà di difesa nel giudizio di divorzio, nonché della sua interferenza su decisioni collegate anche ad interessi di ordine generale – deve essere affermata pure in riferimento al godimento della casa familiare, senza che rilevi la circostanza che questa sia oggetto di comproprietà dei coniugi medesimi, sempre che si verta in tema di convenzione sui rapporti correlati al matrimonio e non di contratto modificativo dell’assetto dominicale o costitutivo di diritti reali implicanti detto godimento).

Prima della novella del 1987, la Giurisprudenza di legittimità limitava l’indisponibilità dell’assegno di divorzio alla sua componente assistenziale ed affermava la disponibilità delle componenti compensativa e risarcitoria (cfr. al riguardo, Cass., Sez. I, Sent. n. 3080/85, secondo cui la facoltà di chiedere una revisione dell’assegno di divorzio, ai sensi dell’art. 9 della Legge 1 dicembre 1970 n. 898, non può trovare ostacolo in una transazione circa i rapporti economici che sia intervenuta fra i coniugi nel corso del procedimento di divorzio, in considerazione della nullità per illiceità della causa di un siffatto accordo prima che venga pronunciato lo scioglimento del matrimonio (stante la sua interferenza sul comportamento delle parti e sulla loro libertà di difesa in un giudizio di “status”), e della conseguente impossibilità di ravvisare nell’accordo stesso una valida rinuncia alla predetta revisione; cfr. Cass., Sez. I, Sent. n. 3777/81, secondo cui: a) in tema di divorzio, il preventivo accordo con cui gli interessati stabiliscono, in costanza di matrimonio, il relativo regime giuridico, anche in riferimento ai figli minori, convenendone l’immodificabilità per un dato periodo di tempo, è invalido nella parte riguardante i figli, per l’indisponibilità dell’assegno dovuto ai sensi dell’art 6 della Legge 1 dicembre 1970 n 898, e nella parte riflettente l’assegno spettante all’exconiuge a norma del precedente art. 5, per contrasto sia con l’art 9 della stessa legge, che non consente limitazioni di ordine temporale alla possibilità di revisione del suindicato regime, sia con l’art 5 cit., che, fissando i criteri per il riconoscimento e la determinazione di un assegno all’exconiuge, configura un diritto insuscettibile, anteriormente al giudizio di divorzio, di rinunzia o transazione, attesa l’illiceità della causa di un negozio siffatto, perché sempre connessa, esplicitamente o implicitamente, all’intento di viziare, o quanto meno di circoscrivere, la libertà di difendersi in detto giudizio, con irreparabile compromissione di un obiettivo d’ordine pubblico come la tutela dell’istituto della famiglia; b) in tale giudizio, nessuna delle parti potrebbe impedire all’altra di provare la verità delle condizioni di fatto alle quali la Legge subordina e commisura l’assegno di divorzio e quello di mantenimento per i figli, eccependo l’intangibilità dell’accordo intervenuto in merito prima dell’inizio del giudizio medesimo; cfr. anche Cass, Sez. I, Sent. n. 4223/80, secondo cui l’assegno di divorzio può validamente formare oggetto di transazione o di rinunzia, purché queste risultino in modo certo ed univoco, non siano affette da vizi della volontà o della dichiarazione e sempreché resti salvaguardata l’esigenza di soddisfare ciò che è necessario ai bisogni di vita del coniuge più debole, non passato a nuove nozze: ne consegue che la volontà di rinunciare all’assegno di divorzio può manifestarsi anche prima della instaurazione del giudizio di scioglimento del matrimonio, ma limitatamente alle componenti risarcitoria e compensativa dell’assegno stesso, in quanto riferite ad elementi determinabili in quel momento, mentre, sotto il profilo assistenziale, la rinuncia preventiva all’assegno incide su un diritto indisponibile e indeterminabile in quel momento, e pertanto il Giudice del divorzio conserva il potere-dovere di statuire al riguardo e conseguentemente di valutare le condizioni economiche delle parti; cfr., infine, nello stesso senso, Cass., Sez. I, Sent. n. 1305/77).

La Suprema Corte, a ben vedere, afferma la nullità dei patti stipulati in vista del divorzio sulla base della considerazione che essi si risolvono in un patto dispositivo dellostatusdi coniuge(giacché non si limitano a disciplinare profili meramente patrimoniali conseguenti a talestatus) e consentono al coniuge più forte di ottenere da quello più debole il consenso al divorzio in cambio di determinati vantaggi patrimoniali.

Fino ad ora, la Giurisprudenza di merito si è adeguata all’orientamento tradizionale proposto dalla Cassazione (cfr., in senso contrario, Trib. Torino Ord. 20.04.2012, che ha escluso la nullità dei patti in vista del divorzioexart. 160 c.c. ed ha ritenuto valida e vincolante la rinuncia del coniuge debole a ricevere dall’altro l’assegno divorzile).

La Dottrina più autorevole ha fatto notare – in senso critico – che:

– in realtà, nel nostro Ordinamento la volontà di un coniuge è di per sé sufficiente ad ottenere la pronuncia di scioglimento/cessazione degli effetti civili del matrimonio;

– viceversa, anche qualora vi fosse il consenso di entrambi i coniugi, non si potrebbe comunque ottenere la pronuncia di divorzio, in difetto dei presupposti indicati negli artt. 1, 2 e 3 della Legge 898/1970.

Il timore che con tali accordi si possa realizzare un “mercimonio” dello status, quindi, non appare fondato.

Negli ultimi tempi, la Cassazione sembra aver preso atto delle critiche rivolte al proprio insegnamento e ha dimostrato di voler riconoscere ai coniugi spazi di autonomia sempre più ampi nella regolamentazione dei propri rapporti economici, anche nei casi di crisi coniugale, senza alcun pregiudizio ideologico (cfr. Cass., Sez. I, Sent. n. 23713/2012, secondo cui è valido l’impegno negoziale assunto dai nubendi in caso di fallimento del matrimonio – nella specie trasferimento di un immobile di proprietà della moglie al marito, quale indennizzo delle spese da questo sostenute per ristrutturare altro immobile destinato ad abitazione familiare di proprietà della stessa moglie – in quanto contratto atipico con condizione sospensiva lecita, espressione dell’autonomia negoziale dei coniugi diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela, ai sensi dell’art. 1322, secondo comma, c.c., essendo il fallimento del matrimonio non causa genetica dell’accordo, ma mero evento condizionale; si veda, però, più di recente, Cass.Sez. I, Sent. n. 2224/2017, per la quale, in ossequio all’orientamento tradizionale, gli accordi con i quali i coniugi fissano – in sede di separazione – il regime giuridico-patrimoniale in vista di un futuro ed eventuale divorzio sono invalidi per illiceità della causa, perché stipulati in violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale di cui all’art. 160 c.c., sicché di tali accordi non può tenersi conto sia quando essi limitano o addirittura escludono il diritto del coniuge economicamente più debole al conseguimento di quanto è necessario per soddisfare le esigenze di vita, sia quando soddisfano pienamente dette esigenze, in quanto una preventiva pattuizione potrebbe determinare il consenso alla dichiarazione della cessazione degli effetti civili del matrimonio).

La sentenza n. 18287/2018 – con cui le Sezioni Unite hanno affermato che all’assegno divorzile deve essere riconosciuta una funzione non soltanto “assistenziale”, ma anche compensativa e perequativa – apre senza dubbio nuovi interessanti orizzonti interpretativi.

La valorizzazione della vocazione compensativa e perequativa dell’assegno, infatti, potrebbe indurre la Cassazione a “rimeditare” il proprio orientamento e a riconoscere piena validità agli accordi conclusi dai coniugi per regolamentare tutti gli aspetti di carattere patrimoniale della propria sfera giuridica, in vista dell’eventuale cessazione del rapporto matrimoniale.

Alessandro Di Tano