di Marco Marinaro in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la Costituzione

1. Il difficile “risveglio” della giustizia civile.

Le prevedibili difficoltà connesse alla ripresa delle attività giudiziarie nella “fase 2” dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, il c.d. periodo cuscinetto iniziato il 12 maggio e che durerà sino al 31 luglio per poi congiungersi con la sospensione feriale, lasciano emergere quelle criticità della giustizia civile – pur note – ma che si palesano oggi nella loro disarmante evidenza, esponenzialmente acuite dalla oggettiva complessità dell’attuale contesto emergenziale.

E discutere sulla opportunità o meno di rimettere la regolamentazione di questa fase ai singoli uffici giudiziari con l’inevitabile conseguente frammentazione e diversificazione organizzativa e procedurale anche tra territori contigui, non soltanto non risolverà i gravi problemi da affrontare, ma finirà per distogliere l’attenzione dai problemi strutturali che non solo traspaiono con preoccupante evidenza, ma che vengono giocoforza esaltati dalla crisi in atto.

Ma è dalla crisi che occorre ripartire per una riflessione sul futuro della giustizia civile che non può continuare ad identificarsi con l’esercizio della giurisdizione e non può continuare a ricercare soluzioni ridondanti nel rincorrersi di continue riforme del processo; riforme che peraltro mirano sempre più ad una sommarizzazione in grado di dare l’avvio a forme di diversificazione nelle prassi locali delle regole processuali analoghe a quelle cui si assiste in questo periodo per l’organizzazione degli uffici, per lo svolgimento delle udienze e  per la trattazione scritta delle cause.

2. La mediazione (demandata) in videoconferenza.

In tale quadro, la mediazione quale strumento di composizione delle liti aventi ad oggetto diritti disponibili, ha svolto e può svolgere in questo periodo un ruolo cruciale anche perché la procedura può svolgersi integralmente in modalità telematica e, in ogni caso, può utilizzare le potenzialità dei sistemi di videoconferenza per gli incontri, peraltro agevolati dalla recente riforma che pare essere rimasta un po’ tra le righe dell’alluvionale normativa dell’emergenza.

Detto rilievo, se coniugato alla possibilità per il giudice di disporre la mediazione, anche in sede di appello (“valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti”, ex art. 5, comma 2, D.lgs. 28/2010) costituisce una opportunità da valorizzare nell’interesse delle parti e del complessivo sistema della giustizia civile messo oltremodo alle corde da una situazione emergenziale i cui esiti non sono ancora del tutto pronosticabili.

Invero, nelle cause per le quali occorrerà calendarizzare con tempi inevitabilmente lunghi determinati dall’ingorgo prodotto dalla situazione emergenziale, il giudice ben può valutare se disporre l’esperimento del procedimento di mediazione, in modo da offrire alle parti la possibilità di usufruire di uno spazio di dialogo al fine di ricercare, con l’assistenza di un mediatore qualificato, in un’ottica non di preconcetto antagonismo giudiziario, un equo, adeguato e sollecito contemperamento dei loro interessi, soprattutto in questo periodo nel quale l’esigenza di rafforzare la coesione sociale, in una prospettiva solidaristica di rilievo costituzionale, può orientare al meglio anche la ricerca di soluzioni condivise.

E ciò non senza considerare le agevolazioni tributarie che possono essere ottenute in mediazione, i costi comunque limitati per lo svolgimento dell’obbligo di mediazione che si esaurisce al primo incontro, la possibilità di accedere gratuitamente alla procedura sussistendo i presupposi reddituali per l’accesso al patrocinio a spese dello Stato, la rapidità del procedimento (non oltre tre mesi) e la possibilità di rendere esecutivo l’accordo conciliativo. Non senza tenere presente che la durata della mediazione “e il periodo del rinvio disposto dal giudice ai sensi dell’articolo 5, commi 1-bis e 2, non si computano ai fini di cui all’articolo 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89” (art. 7, D.lgs. 28/2010) e che detto termine di durata non è nemmeno soggetto a sospensione feriale (art. 6, comma 2, D.lgs. 28/2010).

A ciò soccorre poi l’esperienza maturata in questi anni in particolare presso il Tribunale di Firenze (dapprima con il “Progetto Nausicaa” e poi con “Giustizia semplice” che vede quale partner principale l’Ateneo fiorentino) dove anche per fare fronte a situazioni di riorganizzazione e ridistribuzioni dei ruoli dei singoli magistrati in molti casi le parti sono state avviate alla mediazione dal giudice nelle more del rinvio già disposto per l’udienza di precisazione delle conclusioni (e, quindi, con ordinanza resa fuori udienza) per le cause ritenute mediabili, sul rilievo che nessun aggravio si determina in tal modo alle tempistiche processuali collocandosi la mediazione in un arco temporale comunque non destinato e non destinabile alla trattazione.

In tale prospettiva, la possibilità di svolgere la mediazione “a distanza” utilizzando sistemi di videoconferenza assume anche un valore aggiunto considerato che consente lo svolgimento degli incontri tutelando al massimo la salute di tutte le persone coinvolte a vario titolo nel procedimento. E sulla base della nuova disciplina il giudice potrà sicuramente sollecitare le parti ad adottare sistemi di comunicazione a distanza per svolgere gli incontri, valorizzando opportunamente tali potenzialità al fine di evitare anche eventuali ritardi determinati da rinvii richiesti per il legittimo timore di esporsi con la presenza personale.

3. La “riforma” della mediazione telematica.

Uno specifico interesse assume così l’inserimento in sede di conversione del comma 20-bis all’articolo 83 del D.L. 18/2020 (convertito in L. 27/2020) che contiene tre norme finalizzate ad agevolare e rendere effettiva l’opportunità offerta dalla mediazione “a distanza” all’intero sistema della giustizia civile.

Il legislatore, infatti, ha ritenuto necessario agevolare e implementare soprattutto in questa fase (nella quale com’è noto sono in atto misure restrittive e di «distanziamento sociale» che potrebbero anche protrarsi) l’utilizzo dei sistemi di comunicazione a distanza (non soltanto nel processo civile, ma anche -e ancor di più –) nella mediazione anche attraverso una semplificazione procedurale che ne alleggerisse i vincoli informatici per gli incontri, ma senza pregiudizio per l’efficienza della procedura e per la tutela della riservatezza oltre che dei dati personali.

D’altronde, in base alla normativa già vigente in materia di mediazione, per gli organismi che intendano utilizzare la modalità telematica è stabilito in linea generale che nel regolamento debbano essere previste le procedure all’uopo eventualmente utilizzate «in modo da garantire la sicurezza delle comunicazioni e il rispetto della riservatezza dei dati» (articolo 16, comma 3, D.lgs. 28/2010).

Ed analizzando la nuova disciplina, la prima disposizione contenuta nel comma 20-bis dell’articolo 83 mira ad agevolare lo svolgimento delle mediazioni secondo modalità telematiche («gli incontri di mediazione in ogni caso possono svolgersi in via telematica») nel periodo trascorso di sospensione delle attività processuali ed anche nella fase c.d. “cuscinetto”, introducendo quale solo presupposto il consenso preventivo di tutte le parti coinvolte nel procedimento. La norma perciò stesso si pone quale deroga – sulla base del presupposto indicato – alle modalità della mediazione telematica regolamentate dal D.lgs. 28/2010, per il periodo che dal 9 marzo si concluderà il 31 luglio 2020.

Al riguardo si rileva che il competente ufficio del ministero della Giustizia con un avviso pubblicato il 4 maggio 2020 sul sito ufficiale (www.giustizia.it) è intervenuto tempestivamente per precisare che «Secondo quanto stabilito dall’art. 83, comma 20-bis, del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, nella legge 24 aprile 2020, n. 27, come modificato dall’art. 3, comma 1, lett. i), del decreto legge 30 aprile 2020, n. 28, fino al 31 luglio 2020 tutti gli organismi iscritti nel registro tenuto da questo Dicastero potranno svolgere la mediazione telematica, dotandosi di sistemi di videoconferenza, anche in assenza di apposita previsione nel proprio regolamento di procedura. Si ricorda che è necessario il preventivo consenso di tutte le parti che partecipano alla mediazione».

Con le due successive norme contenute nel comma 20-bis dell’articolo 83, il legislatore interviene poi con disposizioni aventi natura strutturale e che, quindi, prescindono dalla fase emergenziale tali da incidere integrando e modificando parzialmente quanto già previsto dal D.lgs. 28/2010.

E così con la seconda previsione normativa si prevede che anche dopo il 31 luglio 2020 gli incontri di mediazione potranno essere svolti in via telematica «con il preventivo consenso di tutte le parti coinvolte nel procedimento … mediante sistemi di videoconferenza». Ciò significa che, almeno per quanto riguarda gli incontri di mediazione, gli organismi potranno avvalersi dei comuni sistemi di videoconferenza (che ovviamente consentano il riconoscimento dei partecipanti) purché vi sia l’espresso consenso delle parti, che alla luce della nuova norma, diviene stabilmente l’unico presupposto necessario per l’attivazione della modalità di incontro “a distanza”.

Infine, con la terza norma si mira ad offrire ulteriori strumenti per semplificare ed agevolare l’utilizzo della modalità “a distanza” consentendo di superare taluni problemi relativi alla sottoscrizione del verbale di mediazione e dell’accordo conciliativo.

In primo luogo, infatti, viene disposto che nel caso di procedura che si svolga in videoconferenza «l’avvocato, che sottoscrive con firma digitale, può dichiarare autografa la sottoscrizione del proprio cliente collegato da remoto ed apposta in calce al verbale ed all’accordo di conciliazione».

Sul punto si deve rilevare che il Consiglio Nazionale Forense l’8 maggio 2020 ha inviato agli Ordini forensi alcuni “suggerimenti operativi” destinati agli organismi di mediazione forense per la gestione dei procedimenti di mediazione nel periodo di contenimento dell’emergenza epidemiologica. Nel documento si suggerisce che qualora le parti private che partecipano all’incontro di mediazione siano collegate da una postazione separata dal proprio difensore debbano essere dotate di firma digitale in corso di validità ai sensi del Codice dell’Amministrazione Digitale (CAdES, PAdES o sistema SPID) o, in alternativa, di stampante e scanner al fine di garantire la possibilità di sottoscrivere analogicamente il verbale e l’eventuale accordo. Si precisa poi che il difensore, con la propria firma digitale sul verbale e/o accordo certifichi anche l’autografia della sottoscrizione della parte assistita.

Detta ipotesi non esclude ovviamente che l’assistito possa anche avvalersi dei sistemi di firma digitale OTP (one time password) che potrà eventualmente essere messa a disposizione da parte dell’organismo di mediazione. D’altronde una soluzione del genere potrebbe agevolare notevolmente l’utilizzo della modalità telematica anche da parte di coloro che non sono ancora in possesso della firma digitale.

Infine, la norma in commento prevede che il verbale della mediazione svoltasi in videoconferenza sia «sottoscritto dal mediatore e dagli avvocati delle parti con firma digitale ai fini dell’esecutività dell’accordo» di cui all’articolo 12 D.lgs. 28/2010.

4. – La mediazione quale antidoto al conflitto per una giustizia sostenibile.

In questa prospettiva un particolare significato assume il “Manifesto della giustizia complementare” sottoscritto il 27 marzo 2020 dagli esperti del Tavolo tecnico per le procedure ADR istituito nel dicembre 2019 dal Ministero della Giustizia che ha trovato l’adesione di numerosi ed autorevoli esponenti della magistratura, dell’accademia, delle professioni.

Il richiamo ivi contenuto per gli operatori del settore è un vero appello alla coesione sociale in un momento di grave crisi globale nella consapevolezza che “non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose”.

Allora seguendo il “Manifesto”, si può chiedere «agli Avvocati di lavorare con convinzione e massimo impegno, considerata la mole del contenzioso, nelle sedi negoziali della composizione bonaria dei conflitti, nell’interesse dei cittadini e delle imprese loro clienti»; e si può chiedere «ai Giudici di concedere alle parti delle cause pendenti quello stesso tempo generato dall’inevitabile differimento delle udienze affinché trovino una soluzione secondo i loro interessi, con senso di responsabilità e spirito di collaborazione»; come si può chiedere «ai Mediatori di lavorare tanto e bene, portando la loro competente assistenza alle parti del conflitto, in via telematica fino a quando sarà necessario e in presenza appena possibile».

Il servizio telematico di mediazione ed anche soltanto lo svolgimento degli incontri di mediazione in videoconferenza in questo momento invero divengono non soltanto una modalità integrativa e complementare di fruizione del servizio stesso, con una maggiore flessibilità e rapidità nella gestione della procedura, ma consentono anche di rendere effettiva l’erogazione di un servizio pubblico di giustizia alternativa, tutelando anche la salute degli operatori e di tutte le parti coinvolte, orientato al raggiungimento di soluzioni “coesistenziali” e di pacificazione sociale indispensabili nel momento attuale.

E condividendo le motivazioni del citato “Manifesto”, in una prospettiva di sostenibilità della giustizia, occorre valorizzare infatti «l’indiscussa efficacia della mediazione come collante sociale, non solo per la riattivazione di una comunicazione interrotta fra le parti del conflitto, ma anche per la generale condivisione dei valori dell’autonomia, della consapevolezza e della responsabilità, volano di rinascita delle relazioni sociali.

La coesione sociale è l’esito tipico della mediazione, la grande sfida del nostro impegno, il presupposto della rinascita anche economica del Paese.

La pratica della mediazione potrà essere l’antidoto per disinnescare l’inevitabile esacerbarsi dei conflitti in un tessuto sociale profondamente lacerato».

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di David Mancini in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la Costituzione

1. La pandemia propulsore dei diritti di (alcuni) lavoratori invisibili

L’emergenza sanitaria mondiale del Covid 19 ha reso ancora più grave la situazione delle centinaia di migliaia di persone straniere che vivono in Italia da tempo, prive di permesso di soggiorno o richiedenti asilo ai quali è stata negata tutela. Essi occupano settori importanti del mercato del lavoro nazionale, ma a causa della loro condizione precaria o irregolare sono divenuti ancora più vulnerabili e serbatoio della criminalità organizzata che li recluta e impiega in condizioni di sfruttamento. Da più parti si sono levate voci, anche autorevoli[1], nell’auspicio di interventi di regolarizzazione tesi a garantire l’emersione dall’invisibilità di migliaia di persone che vivono e/o lavorano nel territorio italiano ed una conseguente migliore tutela della salute personale e pubblica. Alla luce della pandemia, la stessa Commissione europea – seppure incidentalmente, in tema di emergenza Covid 19, nelle “linee guida sull’attuazione delle disposizioni dell’UE nel settore delle procedure di asilo e di rimpatrio e sul reinsediamento (2020/C 126/02) pubblicate in data 17.4.2020[2] – afferma che, nell’ipotesi in cui i rimpatri dei migranti irregolarmente soggiornanti non possano essere effettuati, a maggior ragione in periodo di pandemia, gli Stati membri dispongono di un ampio potere discrezionale per concedere il permesso di soggiorno o altra autorizzazione così da riconoscere ai migranti irregolari il diritto di soggiornare per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura, a norma dell’articolo 6, paragrafo 4, della direttiva 2008/115/CE (“direttiva rimpatri”).

Il dibattito si è sviluppato con vigore su un tema che tradizionalmente è terreno di scontro ideologico ed elettorale, intriso di pregiudizi, ma in realtà espressione di diritti fondamentali, di affermazione del rispetto della dignità umana e di contrasto allo sfruttamento, spesso governato dalla criminalità organizzata, che nell’emarginazione e nelle vulnerabilità trova da sempre il miglior serbatoio per produrre profitti.

Al termine di un vigoroso confronto ha visto la luce l’articolo 103 nel d.l. “rilancio” che prevede una disciplina denominata “emersione dei rapporti di lavoro” che rappresenta una risposta significativa alle istanze provenienti dalle istituzioni e dalla società civile.

L’intervento presenta luci ed ombre, chiaramente rinvenibili nei commi che compongono l’articolo e che verranno sinteticamente descritti nel prosieguo. Tuttavia, in via di sintesi, si può dire che l’intervento legislativo presenta alcuni pregi. Intanto, un intervento di regolarizzazione vede la luce dopo anni e seppure improntato alla temporaneità, presenta i presupposti affinchè molti lavoratori si stabilizzino anche nel prosieguo. Ma il vero pregio della norma, simbolico prima ancora che nei fatti, è quello di accomunare sotto il concetto di emersione sia i lavoratori migranti irregolari che i lavoratori italiani (o europei).

Questa equiparazione accomuna l’impiego di migranti irregolari (ed il loro sfruttamento) al lavoro in nero a cui sono costretti i lavoratori italiani. Non esistono più vulnerabili di diversa categoria o cittadinanza; non esistono piani paralleli tra lo sfruttamento criminale da un lato ed il lavoro nero, tollerato con qualche mal di pancia, ma sostanzialmente consentito, dall’altro. Vi è semmai una progressione in cui il lavoro nero (che già ontologicamente sfruttamento) è l’anticamera di una violazione ancora più aggressiva dei diritti che, al suo vertice di disvalore, può culminare nella tratta a scopo di sfruttamento del lavoro.

Secondo un approccio autentico e complessivo, dunque, parlare di emersione di lavoratori invisibili (italiani o stranieri migranti) è un valore straordinario rispetto alla mera “sanatoria” di migranti irregolarmente soggiornanti. Un piccolo passo di un nuovo percorso con cui erodere l’area grigia del lavoro irregolare in favore della tutela dei diritti.

Accanto a questi lampi di speranza, varie ombre promanano dal testo dell’articolo 103. Intanto, la temporaneità della regolarizzazione – seppure elastica e convertibile – mal si concilia con l’affermazione di diritti fondamentali e con la loro generale valenza, anche in ragione della brevità del termine temporaneo (6 mesi) che è anche in contraddizione con la premessa delle ragioni pandemiche che, verosimilmente, si protrarranno oltre.

La condizione di partenza da cui sembra generare la norma (l’esigenza di garantire all’economia nazionale – o meglio ad alcuni settori di essa – un’ancora di salvezza; l’interesse specifico dei cittadini italiani ad avere garantiti certi bisogni primari a rischio in assenza di determinata manodopera) non pare esattamente ispirata alla tutela dei diritti dei lavoratori, ma tradisce uno spirito egoistico della comunità nazionale che vuole garantirsi – per suo diretto beneficio – la certezza di disporre dei prodotti agricoli o di ricevere i servizi di colf e badanti. Peraltro, ove la ratio del provvedimento fosse davvero quella della tutela sanitaria individuale e collettiva, le misure di emersione dal lavoro irregolare, per il loro carattere parziale e settoriale, non possono risolvere i problemi profondi che attanagliano la stragrande maggioranza dei lavoratori irregolari presenti sul territorio nazionale. Anche per risolvere il tema urgente sanitario occorrerebbe risolvere (si pensi ai lavoratori stagionali occupati in agricoltura) la mancanza di adeguate soluzioni abitative, le precarie condizioni igienico sanitarie sui luoghi di lavoro, le modalità di trasporto dei lavoratori). In questo modo la regolarizzazione si traduce in un intervento basato sulle esigenze economiche e produttive, senza attenzione al tema più ampio e complesso dei diritti.

Questo motivo ispiratore, neanche troppo velato, genera l’altro grave vulnus della norma di emersione, dato dalla indicazione esclusiva di alcuni settori di lavoro. Solo i lavoratori impiegati in certi settori e non in altri potranno accedere all’emersione. Questa limitazione appare irragionevole e iniqua e si traduce nell’abbandono nello stato sommerso dei lavoratori che – loro malgrado – abbiano operato in settori lavorativi non previsti dalla norma. C’è da augurarsi che durante i sessanta giorni necessari alla conversione del decreto legge si maturi una riflessione ampia e si introducano opportuni correttivi.

2. La vulnerabilità specifica dei lavoratori irregolari

Introdurre una normativa, seppur riduttiva rispetto a quanto invocato, di emersione di lavoratori in condizione di emarginazione e irregolarità deve essere spiegata con le necessarie premesse che descrivano in quale ampio contesto socio-economico i diritti negati dei lavoratori si collocano.

Allo sfruttamento del lavoro, nelle diverse gradazioni di disvalore, corrisponde sempre un approfittamento di uno stato di bisogno o – secondo l’accezione più evoluta – di una condizione di vulnerabilità del lavoratore, sia esso migrante extra UE, sia cittadino europeo o italiano. L’approfittamento dà luogo a soprusi e violazioni di natura talvolta negoziale, altre amministrativa o infine, penale.

Attraverso l’attuazione nazionale delle fonti internazionali, anche le norme interne si soffermano, pur se con tenori lessicali non sempre chiari e aderenti, sul concetto di vulnerabilità diversamente espresso (stato di bisogno, stato di soggezione continuativa, etc.).

Il percorso interpretativo è costantemente illuminato anche dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che valorizza lo squilibrio che caratterizza la relazione di lavoro patologica, in cui una parte non è nella facoltà di optare in autonomia per una scelta accettabile e tollerabile, diversa dalla condizione di sfruttamento a cui viene assoggettata.

Le comunità nazionali non possono restare passive e sono obbligate: – ad adottare un quadro normativo repressivo; – a porre in essere strumenti di assistenza e protezione dei diritti umani; – a prevedere strumenti per l’adozione di indagini effettive e azioni efficaci di tutela dei diritti.

Peraltro, le recenti evoluzioni normative in materia di contrasto allo sfruttamento del lavoro ed al caporalato hanno contribuito a fare chiarezza su alcuni pregiudizi diffusi: lo sfruttamento del lavoro, anche in forme gravi riconducibili alla tratta di persone, non riguarda solo i lavoratori migranti, ma anche quelli italiani. L’approfittamento illecito della vulnerabilità dei lavoratori, spesso operata dalla criminalità organizzata, germina nelle enormi sacche di lavoro nero e irregolare, che accentuano le diseguaglianze dei poteri negoziali tra parte datoriale, intermediari e lavoratori.

Con riferimento ai lavoratori migranti, è noto come la complessa disciplina che regola l’ingresso degli stranieri nel territorio italiano per motivi di lavoro prevede uno stretto collegamento tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro.

I presupposti dell’intera procedura di assunzione del lavoratore straniero consistono, da un lato, nella pubblicazione del “decreto flussi”, che annualmente determina (o dovrebbe farlo) le quote di lavoratori stranieri ammessi a svolgere un’attività lavorativa, anche stagionale, in Italia, sempre che dette quote non siano già esaurite; dall’altra, nel fatto che il primo incontro fra domanda ed offerta di lavoro debba avvenire quando l’aspirante lavoratore si trova nel suo Paese di origine. Il “progettista” di tale sistema, nella migliore delle ipotesi, non deve aver avuto una corretta idea dei meccanismi di incontro di volontà nel mercato del lavoro. Peraltro, oltre alla (in)capienza del decreto flussi, il datore di lavoro dovrebbe anche accertarsi che un medesimo lavoratore del tipo di quello richiesto non si trovi già in Italia.

Siccome il lavoratore straniero per il legislatore sembra essere ontologicamente un pericolo per l’ordine pubblico, occorre verificare l’esistenza di ragioni ostative al suo ingresso. In presenza di tutti i requisiti il lavoratore, ottenuto il nulla osta all’ingresso, procederebbe con le ulteriori fasi. In realtà, è di tutta evidenza che normalmente lo straniero fa ingresso in Italia irregolarmente (o comunque in virtù di un permesso che non consente l’esercizio di un’attività lavorativa o di un permesso stagionale) entra in contatto con un datore di lavoro (normale incontro di domanda ed offerta) e quindi, torna nel suo Paese di origine, per rientrare nuovamente in Italia, stavolta legalmente, secondo la procedura appena descritta dal testo unico sull’immigrazione e quindi, nell’ambito delle quote fissate dal decreto flussi.

Tuttavia, la migrazione economica ha carattere spesso temporaneo, soprattutto in agricoltura, per cui il ricorso al permesso di soggiorno per contratto di lavoro stagionale va per la maggiore e certamente non favorisce una presenza sul territorio nazionale del migrante nel senso di una accettabile forma di integrazione sociale.

Il complesso di regole in materia sembra essere orientato a produrre ostacoli normativi all’accesso legittimo dei migranti al mercato del lavoro, con la conseguenza della loro esposizione “ope legis” ad una condizione di vulnerabilità economica e sociale di secondo livello, che si somma a quella di partenza dovuta alla condizione di irregolarità. Questa elementare fotografia della condizione del migrante sfruttato sul lavoro – soprattutto nel settore agricolo – viene offuscata dalla propaganda della crimmigration, che tende ad avviluppare tutto in una massa indistinta in cui migranti irregolari, “caporalato”, datori di lavoro senza scrupoli sono accomunati come fenomeno quasi naturale. Il primo decreto “Salvini” (d.l. 4 ottobre 2018 n. 113) ha costituito un ulteriore esempio di approccio orientato a tutelare – apparentemente – la sicurezza pubblica a discapito dei diritti dei lavoratori migranti.

La sostanziale eliminazione di una seria politica di flussi, la residualità degli ingressi per motivi di studio o famiglia – a parte la stagionalità – ha determinato negli ultimi anni ingressi sul territorio nazionale per lo più attraverso il sistema della richiesta di protezione internazionale. Ed in questo ambito la protezione umanitaria ha giocato un ruolo prezioso. Peraltro, pur in presenza di autentiche vergogne nazionali (ad es. il ghetto di Rignano, Borgo Mezzanone, Rosarno, etc.) il sistema di accoglienza per i richiedenti asilo consentiva – in linea di massima – l’attivazione di una piattaforma di servizi di integrazione sociale e tutela dei diritti umani dei richiedenti.

La risposta normativa interna in termini repressivi dello sfruttamento del lavoro, dopo lunghi anni di lacune, ha subito una positiva innovazione nel 2016 con l’approvazione della legge 29 ottobre 2016 n. 199.

L’evoluzione interna del contrasto allo sfruttamento lavorativo ha segnato un cambio di passo con la nuova formulazione dell’articolo 603bis c.p.. I riflettori si sono accesi sullo sfruttamento del lavoro, che tanta responsabilità imputa alla parte datoriale, nonché sulla giusta considerazione del fenomeno dell’intermediazione illecita (caporalato) fino a pochi anni fa considerata la causa regina dello sfruttamento, quando invece è soltanto una concausa o spesso solo una conseguenza delle politiche miopi in tema di migrazioni, regolazione del mercato del lavoro, accesso ai diritti delle fasce deboli, contrasto alle organizzazioni criminali.

3. Il settore agricolo come traino della nuova regolarizzazione

Abbiamo anticipato circa l’iniquità della esclusione della procedura di emersione di lavoratori che abbiano operato in settori diversi da quelli espressamente previsti (si pensi tra tutti all’edilizia, al turismo, alla logistica, alla ristorazione, etc.).

Ciò si spiega anche con il fatto che il lavoro agricolo in Italia sempre più poggia sul contributo di manodopera dei lavoratori migranti. Secondo gli ultimi dati disponibili INPS riferiti al 2017 gli addetti dipendenti con regolare contratto e i lavoratori autonomi sono oltre un milione; ovviamente la rilevazione statistica INPS non conteggia i lavoratori irregolari, laddove il concetto di irregolare non si riferisce soltanto ai migranti irregolarmente soggiornanti (volgarmente detti “clandestini”) ma anche ai braccianti italiani impiegati al di fuori di una regolare contrattazione e a coloro che, pur provvisoriamente regolari (si pensi ai richiedenti protezione internazionale) non dispongono di contratto di lavoro e lavorano rigorosamente in nero.

Su circa un milione di lavoratori agricoli finora “emersi”, i migranti si confermano una risorsa fondamentale. Secondo i dati INPS, nel 2017 oltre un terzo dei lavoratori agricoli registrati con contratto regolare sono stranieri (343.977), circa il 32% del totale, di cui la metà provenienti da paesi non UE (costantemente cresciuti e poi raddoppiati nell’ultimo decennio) provenienti principalmente dall’India, Pakistan, Marocco, Tunisia e Albania.

In queste rilevazioni ufficiali non sono menzionati i lavoratori impiegati “in nero”, molti dei quali provenienti dall’Africa subsahariana, spesso in condizione di irregolarità di soggiorno e di lavoro (e dunque invisibili nelle rilevazioni INPS). La presenza di lavoratori stranieri nell’agricoltura italiana è un dato ormai strutturale e in crescita costante e a tal proposito è interessante evidenziare che se il numero degli occupati stranieri nel 2017 era pari a 2,4 milioni di persone ovvero il 10,5% dell’occupazione totale, in agricoltura rappresentano oltre il 30%degli occupati.

In base a quanto riportato dalle stime dell’ISTAT, il tasso di lavoro irregolare tra gli addetti all’agricoltura è il più alto di tutti i settori economici, attestandosi al 24,2% nel 2018 ,9%[3].

Secondo l’ultimo Rapporto Agromafie e caporalato – Osservatorio Placido Rizzotto, Flai-Cgil, sono oltre 400.000 i lavoratori agricoli (italiani e stranieri) esposti al rischio di un ingaggio irregolare e sotto caporale; di questi più di 130.000 sono in condizione di grave vulnerabilità sociale e forte sofferenza occupazionale. Inoltre, più di 300.000 lavoratori agricoli, ovvero circa il 30% del totale, lavorano meno di 50 giornate l’anno e il tasso di irregolarità dei rapporti di lavoro in agricoltura sarebbe pari al 39%.

I lavoratori sottoposti a grave sfruttamento in agricoltura non hanno tutele e diritti garantiti dai contratti e dalla legge; ricevono una paga media tra i 20 e i 30 euro al giorno; svolgono lavoro a cottimo per un compenso di 3/4 euro per un cassone da 375Kg; percepiscono un salario inferiore di circa il 50% di quanto previsto dalla contrattazione. Anche tra gli sfruttati le diseguaglianze di genere sono attuali, infatti le donne sfruttate (dai “caporali” o da datori di lavoro) percepiscono un salario inferiore del 20% rispetto ai loro colleghi. Nei gravi casi di sfruttamento analizzati in varie regioni italiane dall’Osservatorio Placido Rizzotto, alcuni lavoratori migranti percepiscono un salario di 1 euro l’ora. L’orario medio va da 8 a 12 ore di lavoro al giorno. I lavoratori che dipendono dalle vessazioni del caporale devono inoltre pagare a questi il trasporto a seconda della distanza e i beni di prima necessità. L’Osservatorio valuta in circa 30.000 il numero di aziende che ricorrono all’intermediazione tramite caporale, il che significa che tale metodo è perseguito da circa il 25% del totale delle aziende del territorio nazionale che impiegano manodopera dipendente.

Questi dati evidenziano la strutturalità del lavoro nero e dello sfruttamento nel mercato del lavoro agricolo italiano e i lavoratori stranieri stagionali in agricoltura sono le principali vittime o potenziali vittime di sfruttamento lavorativo a causa di più fattori e multiformi vulnerabilità, prima fra tutte la condizione giuridica nella quale versano. Questa consistenza endemica e strutturale testimonia la necessità di interventi altrettanto robusti basati sulla pianificazione e sulla rivoluzione del sistema di incontro di domande e offerta, che costituisce il fulcro attorno al quale si intrecciano le condizioni di vulnerabilità e gli interessi criminali.

In passato gli stranieri tendevano a lasciare il settore agricolo man mano che riuscivano a regolarizzare la loro posizione amministrativa, ma negli ultimi anni l’occupazione in agricoltura ha costituito un ricovero degradato ma rassicurante, in cui trovare una fonte di  minimo guadagno e sostentamento, seppure al di sotto della soglia di dignità.

Le politiche di chiusura delle frontiere, la restrizione dei canali di ingresso regolare, la difficoltà a mantenere una condizione continuativa di regolarità amministrativa hanno incentivato processi che a loro volta hanno spinto verso aree marginali un numero sempre più crescente di cittadini stranieri.

Il lavoro stagionale condotto in condizioni di illegalità ha riflessi sulla sicurezza e sulla sua percezione da parte dei cittadini. Esso favorisce la concentrazione di immigrati irregolari in zone spesso già degradate del Paese (il proliferare di ghetti o baraccopoli agricole) e favorisce condotte delittuose che si alimentano con le condizioni di vulnerabilità del lavoratore.

Dal 2011, le quote per lavoro dipendente non stagionale sono state ridotte drasticamente, mentre le quote per i lavoratori stagionali sono state praticamente dimezzate. Allo stesso tempo, non è stato adottato alcun provvedimento per regolarizzare i migranti senza permesso di soggiorno; l’ultima sanatoria risale infatti al 2012. In questo scenario, l’assenza di un sistema di ingresso efficace per i lavoratori stranieri, in grado di soddisfare la domanda di manodopera in settori quali l’agricoltura, è stata compensata principalmente dall’arrivo di un numero crescente di migranti dagli Stati membri dell’Est Europa, ma anche da richiedenti asilo e rifugiati extracomunitari.

Le stime dei migranti irregolari mostrano una crescita costante dal 2013 ad oggi e se al 2018 l’ISMU stimava 530mila irregolari sul nostro territorio, a seguito dell’entrata in vigore del d.l. 113/2018 entro la fine del 2020 gli irregolari in Italia potrebbero diventare quasi 700mila, anche in considerazione del fatto che i rimpatri complessivi assommano ad una percentuale irrisoria dell’’1%.

In questo contesto già drammatico (e sommerso agli occhi volutamente distratti del Paese) piomba l’emergenza Covid19 che spiega effetti devastanti su un doppio binario. Da un lato il lockdown della fase 1 e le perduranti restrizioni (soprattutto in termini di viaggi e spostamenti) delle fasi successive impediscono il reperimento della solita manodopera migrante impegnata nei lavori caratterizzati dalla stagionalità e intrinsecamente connotati dallo spostamento in relazione alle diverse coltivazioni. Dall’altro, la mancanza di lavoro, per quanto sfruttato in modi variabili, fino a pervenire a forme di asservimento ricadenti nel fenomeno della tratta a scopo di sfruttamento lavorativo, determinando un ulteriore aumento della vulnerabilità dei lavoratori, comporta ulteriori vantaggi per le organizzazioni criminali, che sono rapidissime nel fornire soluzioni alternative in momenti di difficoltà. Accanto a ciò, le gravissime condizioni dei migranti nei ghetti e nelle baraccopoli non garantiscono alcuna forma di distanziamento sociale e di cautele connesse all’emergenza pandemica.

E purtroppo anche questo intervento normativo non sembra poter essere risolutivo, anche se potrebbe almeno essere un primo passo. Non è detto neanche che l’emersione costituirà un successo. Le procedure ideate dal legislatore sono abbastanza farraginose, non di agile uso per chi si trova a vivere in condizioni di grande disagio. Per altro verso, non è chiaro se ai datori di lavoro convenga effettivamente procedere alla regolarizzazione o assunzione di lavoratori, soprattutto in un momento di grave crisi sanitaria, sociale ed economica (che richiede anche costi di adeguamento della propria attività alle linee guida dell’emergenza).
Inoltre, non sembra che l’urgenza di provvedere manifestata dai rappresentanti dei datori di lavoro, possa essere realizzata con i tempi amministrativi della procedura di regolarizzazione, pur se il comma 23 prevede la possibilità che il ministero dell’interno si avvalga dell’ausilio di agenzie di somministrazione di lavoro per un periodo massimo di sei mesi per un più rapida definizione delle procedure.

4. La disciplina dell’art. 103 del d.l. 34/2020

Con lo scopo dichiarato di garantire la salute pubblica e individuale l’art. 103 prevede che l’emersione avvenga attraverso due strade complementari.

La prima è nel comma 1, che stabilisce che i soggetti attivi corrispondenti ai datori di lavoro, italiani, cittadini UE oppure stranieri in regola con il permesso di soggiorno ex art. 9 d.lgs. 286/1998 possono presentare istanza per concludere un contratto di lavoro subordinato con cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale ovvero per dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare, tuttora in corso, con cittadini italiani o cittadini stranieri. Riguardo ai cittadini stranieri, la condizione è:

1) che siano stati sottoposti a rilievi fotodattiloscopici prima dell’8 marzo 2020;

2) che abbiano soggiornato in Italia precedentemente alla suddetta data, in forza della dichiarazione di presenza, resa ai sensi della legge 28 maggio 2007, n. 68 o di attestazioni con data certa provenienti da organismi pubblici (ad esempio un timbro di ingresso per lavoratori extra Schengen);

3) che non abbiano lasciato il territorio nazionale dall’8 marzo 2020.

Al comma 2 si descrive la seconda opzione in cui i soggetti promotori sono gli stessi cittadini stranieri, con permesso di soggiorno scaduto dal 31 ottobre 2019, non rinnovato o convertito in altro titolo di soggiorno, i quali possono richiedere un permesso di soggiorno temporaneo – il cui rilascio è previsto al comma 13 – valido solo nel territorio nazionale, della durata di 6 mesi dalla presentazione dell’istanza. Le condizioni sono che i predetti cittadini stranieri:

1) devono risultare presenti sul territorio nazionale alla data dell’8 marzo 2020, senza che se ne siano allontanati dalla medesima data;

2) devono aver svolto attività di lavoro, nei settori di cui al comma 3, antecedentemente al 31 ottobre 2019.

Se nel periodo temporaneo il cittadino straniero esibisce un contratto di lavoro subordinato ovvero la documentazione retributiva e previdenziale comprovante lo svolgimento dell’attività lavorativa nei settori di cui al comma 3, il permesso viene convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

Come detto in precedenza, i settori di attività per i quali la presente disciplina è valevole sono soltanto:

a) agricoltura, allevamento e zootecnia, pesca e acquacoltura e attività connesse;

b) assistenza alla persona per sé stessi o per componenti della propria famiglia, ancorchè non conviventi, affetti da patologie o handicap che ne limitino l’autosufficienza;

c) lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare.

E’ evidente l’iniquità della norma rispetto a coloro che hanno svolto lavoro irregolare o sono stati sfruttati in ambiti diversi come, ad esempio, l’edilizia, il turismo e la ristorazione, il settore tessile, la logistica, etc., questa limitazione non ha alcuna giustificazione rispetto alle esigenze primarie di tutela dei diritti, manifesta limiti di ragionevolezza che potrebbero anche essere oggetto di attenzione del giudice costituzionale.

Quanto ai requisiti dell’istanza, il comma 4 stabilisce che nell’istanza/dichiarazione di emersione devono essere indicati:

– la durata del contratto di lavoro;

– la retribuzione convenuta, conforme alla contrattazione

L’istanza/dichiarazione può essere presentata dal 1° giugno al 15 luglio 2020, con le modalità stabilite con separato decreto del ministro dell’interno concertato con i dicasteri di economia, lavoro, politiche agricole e secondo le tappe stabilite dal comma 12. Verosimilmente arriveranno anche delucidazioni rispetto ad espressioni generiche che potrebbero far sorgere dubbi applicativi e quesiti.

La domanda va inoltrata presso:

a) l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) se è relativa ai lavoratori italiani o per i cittadini di uno Stato membro dell’Unione europea;

b) lo sportello unico per l’immigrazione, di cui all’art. 22 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 e successive modificazioni, se riguarda i lavoratori stranieri;

c) la Questura per il rilascio dei permessi di soggiorno temporanei, di cui al comma 2.

Il separato decreto deve stabilire i limiti di reddito del datore di lavoro richiesti per la conclusione del rapporto di lavoro, la documentazione idonea, nonché le modalità di dettaglio di svolgimento del procedimento. Tuttavia, nelle more della definizione dei procedimenti, la presentazione delle istanze consente lo svolgimento dell’attività lavorativa.

Le istanze sono presentate previo pagamento di un contributo forfettario per ciascun lavoratore. E’ inoltre previsto il pagamento di un contributo forfettario per le somme dovute dal datore di lavoro (che fino al momento dell’istanza aveva beneficiato dell’impiego in nero del lavoratore emerso) a titolo retributivo, contributivo e fiscale, da determinarsi con altro separato decreto concertato.

Uno degli argomenti oggetto di avversione della normativa in questione veniva indicato nel timore di un suo uso strumentale a favore di soggetti resisi responsabili di gravi reati. E’ stata perciò prevista una causa di inammissibilità delle istanze di cui ai commi 1 e 2, limitatamente ai casi di conversione del permesso di soggiorno in motivi di lavoro, consistente nella condanna comminata al datore di lavoro negli ultimi cinque anni, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per:

a) favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’immigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite, nonché per il reato di cui all’art. 600 del codice penale;

b) intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro ai sensi dell’articolo 603-bis del codice penale;

c) reati previsti dall’articolo 22, comma 12, del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni ed integrazioni.

E’ davvero singolare che in questo elenco manchi il reato di sfruttamento lavorativo più grave, vale a dire quello di cui all’articolo 601 c.p., vera traduzione nazionale dell’obbligo di incriminare il trafficking in persons come scaturisce dal Protocollo addizionale alla Convenzione ONU di Palermo del 2000. Forse il legislatore ha ritenuto di assorbirne la portata nella disposizione di cui all’art. 600 c.p., ma così gravemente errando, salvo che nella decretazione attuativa non si voglia porre rimedio espressamente includendo l’articolo 601 c.p. al novero dei reati ostativi (seppure con modalità discutibile di interpretazione autentica a mezzo decreto di una norma di legge).

La mancata sottoscrizione, da parte del datore di lavoro, del contratto di soggiorno presso lo sportello unico per l’immigrazione ovvero la successiva mancata assunzione del lavoratore straniero costituisce causa di rigetto delle istanze, limitatamente ai casi di conversione del permesso di soggiorno in motivi di lavoro.

Sono previste cause di non ammissione alle procedure di emersione anche per i cittadini stranieri:

a) nei confronti dei quali sia stato emesso un provvedimento di espulsione ai sensi dell’articolo 13, commi 1 e 2, lettera c), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e dell’articolo 3 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, e successive modificazioni.

b) che risultino segnalati, anche in base ad accordi o convenzioni internazionali in vigore per l’Italia, ai fini della non ammissione nel territorio dello Stato;

c) che risultino condannati, anche con sentenza non definitiva, compresa quella pronunciata anche a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei reati previsti dall’articolo 380 del codice di procedura penale o per i delitti contro la libertà personale ovvero per i reati inerenti gli stupefacenti, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite;

d) che comunque siano considerati una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l’Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone. Nella valutazione della pericolosità dello straniero si tiene conto anche di eventuali condanne, anche con sentenza non definitiva, compresa quella pronunciata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei reati previsti dall’articolo 381 del codice di procedura penale.

Al comma 10 si precisa che dalla data di entrata in vigore del presente decreto fino alla conclusione dei procedimenti di cui ai commi 1 e 2, sono sospesi i procedimenti penali e amministrativi nei confronti del datore di lavoro e del lavoratore, rispettivamente:

a) per l’impiego di lavoratori per i quali è stata presentata la dichiarazione di emersione, anche se di carattere finanziario, fiscale, previdenziale o assistenziale;

b) per l’ingresso e il soggiorno illegale nel territorio nazionale, con esclusione degli illeciti di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni.

E’ stato opportuno specificare che non sono in ogni caso sospesi i procedimenti penali nei confronti dei datori di lavoro per le seguenti ipotesi di reato:

a) favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’immigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite, nonché per il reato di cui all’art.600 del codice penale (anche qui manca il riferimento all’art. 601 c.p.);

b) intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro ai sensi dell’articolo 603-bis del codice penale.

La sospensione di cui al comma 10 (che ricalca altre ipotesi di illeciti penali e amministrativi subordinati ad accertamenti e/o sanatorie) cessa nel caso in cui non venga presentata l’istanza di cui ai commi 1 e 2, ovvero si proceda al rigetto o all’archiviazione della medesima o non si proceda alla successiva stipula del contratto. Con singolare espressione si dice che si procede comunque all’archiviazione dei procedimenti penali e amministrativi a carico del datore di lavoro se l’esito negativo non sia ascrivibile al datore medesimo. In realtà la disposizione va collegata con il successivo comma 14, laddove si precisa che la stipula del contratto per i lavoratori stranieri ed il perfezionamento dell’emersione per i lavoratori italiani determina l’estinzione dei reati e degli illeciti di cui al comma 10.

Il comma 11bis prevede l’introduzione di una circostanza aggravante per l’impiego lavorativo irregolare degli istanti di cui al comma 2, poichè le sanzioni previste dall’art. 22, comma 1, del d.lgs. del 14 settembre 2015, n. 151 sono raddoppiate così come sono raddoppiate le sanzioni previste dall’art. 603 bis codice penale. La disposizione lascia abbastanza perplessi per la sua scarna formulazione che potrà eventualmente presentare non pochi problemi applicativi.

Il comma 13 prevede che il cittadino straniero che richiede il rilascio del permesso di soggiorno temporaneo di cui al comma 2 inoltri richiesta al Questore, dal 1° giugno al 15 luglio 2020, unitamente alla documentazione in possesso, individuata dal decreto di cui al comma 5, idonea a comprovare l’attività lavorativa svolta nei settori di cui al comma 3 e riscontrabile da parte dell’Ispettorato Nazionale del lavoro cui l’istanza è altresì diretta. Nelle more della definizione dei procedimenti, lo straniero non può essere espulso. All’atto della presentazione della richiesta, è consegnata un’attestazione che consente all’interessato di soggiornare legittimamente nel territorio dello Stato, di svolgere lavoro subordinato, esclusivamente nei settori di attività di cui al comma 3, nonché di presentare l’eventuale domanda di conversione del permesso di soggiorno temporaneo in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. E’ consentito all’istante altresì, di iscriversi al registro di cui all’art.19 del decreto legislativo 14 settembre 2015 n. 150 esibendo agli Uffici per l’impiego l’attestazione rilasciata dal Questore di cui al presente articolo.

La formulazione della norma lascia molti dubbi. Il cittadino straniero riceve l’attestazione che gli consente il soggiorno una volta presentata l’istanza di cui al comma 2 e gli consente anche di lavorare, ma solo nei settori lavorativi ammessi. Ne consegue, stando alla norma, che il cittadino straniero che dovesse trovare lavoro in un settore diverso (ad es. in edilizia invece che nella pesca) non potrebbe farlo regolarmente e dunque, sarebbe di nuovo vulnerabile (necessariamente invisibile) e soggetto a sfruttamento da parte di intermediari o datori di lavoro operanti nei settori non ammessi. Resta anche il dubbio se l’omogeneità del settore lavorativo condizioni (come sembrerebbe dal dato testuale) anche la successiva domanda di conversione del permesso di soggiorno temporaneo in permesso per motivi di lavoro. Una tale conclusione sarebbe, tuttavia, irragionevole poiché precluderebbe al lavoratore di progredire nel proprio percorso lavorativo in modo trasparente e regolare.

Un segnale positivo, anche se abbastanza generico, è dato dalle disposizione del comma 17, in base al quale, al fine di contrastare efficacemente i fenomeni di concentrazione dei cittadini stranieri di cui ai commi 1 e 2 in condizioni inadeguate a garantire il rispetto delle condizioni igienico-sanitarie necessarie al fine di prevenire la diffusione del contagio da Covid-19 (il riferimento velato alle indegne baraccopoli è chiaro) le Amministrazioni dello Stato competenti e le Regioni, anche mediante l’implementazione delle misure previste dal Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato 2020-2022[4], adottano soluzioni e misure urgenti idonee a garantire la salubrità e la sicurezza delle condizioni alloggiative, nonché ulteriori interventi di contrasto del lavoro irregolare e del fenomeno del caporalato. Al Tavolo operativo istituito dall’art. 25 quater del D.L. n.119/2018 convertito con modifiche dalla legge n.136/2018, vengono ammessi ad apportare un contributo anche il Dipartimento per la protezione civile e la Croce Rossa Italiana.

E’ evidente, tuttavia, che il lavoro per rendere efficace il Piano triennale e per garantire l’adozione di iniziative concrete (che procurino alloggi in condizioni igienico sanitarie di base e che stimolino a fornire servizi di trasporto ai lavoratori, sottraendoli dalla morsa di caporali e datori di lavoro compiacenti) è ancora molto lungo e faticoso.

Ogni sanatoria passata è stata anche fonte di molti illeciti penali (si pensi a quelli in tema di frode e falso, spesso commessi con l’apporto fondamentale di professionisti senza scrupoli). Non è un caso che l’articolo 103 chiuda con il comma 19 che introduce una specifica norma penale.

Salvo che il fatto costituisca reato più grave, si punisce chiunque presenta false dichiarazioni o attestazioni, ovvero concorre al fatto nell’ambito delle procedure previste dal presente articolo. La sanzione viene individuata nell’articolo 76 del testo unico di cui al d.p.r. 28 dicembre 2000, n. 445. Nel caso in cui il fatto è commesso attraverso la contraffazione o l’alterazione di documenti oppure con l’utilizzazione di uno di tali documenti, si applica la pena della reclusione da uno a sei anni. La pena è aumentata fino ad un terzo se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale.

Il diritto penale come norma di chiusura svolge un ruolo logico e funzionale alla sua natura. L’auspicio è che, ora più di prima, non debba operare in funzione sostitutiva e che la tutela dei diritti ed il contrasto allo sfruttamento del lavoro divengano snodo centrale dell’agenda politica nazionale.


[1] Il pensiero di Papa Francesco riportato dall’agenzia di stampa Agensir in: https://www.agensir.it/quotidiano/2020/4/28/migranti-la-risposta-di-papa-francesco-alla-fai-cisl-regolarizzazione-auspicabile/.

[2] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52020XC0417(07)&from=IT.

[3] ISTAT: Occupazione regolare, irregolare e popolazione (ISTAT, edizione settembre 2019).

[4] https://www.lavoro.gov.it/priorita/Documents/Piano-Triennale-contrasto-a-sfruttamento-lavorativo-in-agricoltura-e-al-caporalato-2020-2022.pdf

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di Andrea Penta

È stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 107 dell’11 maggio 2015 la legge 6 maggio 2015. n. 55 con disposizioni in materia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili dei matrimonio, nonché di comunione tra i coniugi, il c.d. «divorzio breve», che riduce in modo significativo i tempi per il passaggio dalla separazione ai divorzio (dai tre anni sino a oggi previsti a sei o dodici mesi, a seconda che la separazione sia consensuale o giudiziale). Restano, tuttavia, fermi i presupposti del divorzio e ciò dà luogo a una serie di disarmonie e incongruenze. Se la separazione è giudiziale, la pendenza del processo rischia, infatti, di frustrare il significato della riforma. E se la separazione è consensuale, che senso ha imporre il doppione di un secondostepcosi ravvicinato?

Sennonché la nuova legge riduce i tempi, ma conserva tra i presupposti necessari per richiedere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, la previa pronuncia della separazione (art. 3, comma 1, lett. b), n. 2, 1. div.). Rimane, quindi, indispensabile un provvedimento definitivo sullostatus: sentenza di separazione passata in giudicato o verbale di separazione consensuale omologato.

Da ciò consegue che, nel caso della separazione giudiziale, l’effetto acceleratore sarà in concreto assai limitato, perché, in mancanza di una sentenza parziale sulla sola separazione (come avviene nella maggior parte dei casi), le parti dovranno comunque attendere la sentenza definitiva. In sintesi, i dodici mesi finiranno per decorrere inutilmente per le parti che nella causa di separazione siano ancora in attesa della sentenza (così F. Danovi).

Queste pericolose implicazioni potranno essere attenuate solo nei casi in cui, non appena si sia svolta l’udienza presidenziale, venga pronunciata subito (su istanza almeno di una delle parti) la sentenza parziale, senza attendere lo svolgimento della fase avanti all’istruttore e senza dover prima concedere i termini di cui all’art. 183 c.p.c.

Ovviamente, tutto ciò presuppone altresì che venga operato un corretto coordinamento tra i due giudizi di separazione e di divorzio. Invero, nelle ipotesi di contemporanea pendenza dei due processi parte della giurisprudenza tende a sospendere ex art. 295 c.p.c. il giudizio di divorzio. Tuttavia, a rigore, tra i due processi non sussiste un nesso di pregiudizialità che legittimi la sospensione, e il giudice del divorzio dovrebbe potere statuire sulle domande delle parti senza che possa avere valenza condizionante la perdurante pendenza della causa di separazione.

Una conseguenza che non è stata presa in considerazione o, comunque, è stata evidentemente sottovalutata è che la riduzione dei termini tra separazione e divorzio comporterà nella prassi una netta erosione dei procedimenti di modifica delle condizioni di separazione ex art. 710 c.p.c. (il rilievo è di F. Danovi).

Nel caso della separazione consensuale i problemi sopra descritti non ci sono. Una volta concluso l’accordo, dopo soli sei mesi le parti potranno anche richiedere il divorzio. Ciò rappresenterà senz’altro un incentivo per la ricerca di accordi di separazione (e di divorzio), poiché l’alternativa per le parti sarà duplice: trovare un’intesa (e con essa la possibilità concreta del «divorzio breve»), ovvero continuare il conflitto e allontanare in tal modo anche la possibilità di una pronuncia definitiva sullostatus. E’ vero anche, però, che questo risvolto pratico potrebbe essere strumentalizzato da uno dei due coniugi, nel senso di acconsentire ad una separazione consensuale a condizione di ottenere migliori riconoscimenti economico-patrimoniali.

In questo panorama, sorge spontaneo domandarsi se abbia ancora senso mantenere uno spazio di riflessione ridotto all’essenziale (sei mesi) e imporre un doppiostep, che nella maggior parte dei casi sarà ripetitivo e inutile, ovvero se sia a questo punto più opportuno allineare la legislazione italiana a quella di molti paesi a noi contigui, ove il divorzio costituisce una possibile (spesso la più frequente) opzione immediata, senza il necessario previo transito per l’anticamera della separazione legale.

De iure condendo, pertanto, il prossimo obiettivo sul piano normativo dovrebbe essere quello di introdurre la possibilità di un «divorzio diretto». Invero, proprio la brevità del termine rende ancora più incomprensibile la rinnovata scelta legislativa di confermare comunque la necessità di separazione prima del divorzio: se tale scelta aveva un senso nella prospettiva di prevedere una sosta di riflessione prima di sciogliere il matrimonio o farne cessare gli effetti i civili, ora il semestre o l’anno tra un’azione e l’altra risultano inutili. Senza tralasciare che il necessario doppio passaggio (prima separazione e poi divorzio) in un così breve lasso di tempo, da un lato, affatica la giustizia e manca l’obiettivo della deflazione e, dall’altro lato, onera le parti di una doppia spesa, senza benefici sul piano della riflessione, né per loro né per l’eventuale prole (così M. G. Ruo).

Va altresì posto in rilievo il mancato raccordo della nuova normativa con quella sulla convenzione di negoziazione assistita dagli avvocati (introdotta dal d.Igs. n. 132/2014, convertito dalla legge 162/2014), se solo si considera che la comparizione delle parti davanti al presidente rappresenta una mera eventualità, che si realizza solo nel caso in cui il Pm ritenga l’accordo non rispondente all’interesse dei figli minori e lo trasmetta al presidente; solo in siffatta evenienza, infatti, quest’ultimo fissa entro 30 giorni la comparizione delle parti. Alla stessa stregua, nell’ipotesi in cui la procedura di separazione si sviluppa direttamente davanti all’ufficiale di stato civile (cfr. l’articolo 12 della menzionata normativa), la comparizione dei j coniugi davanti al presidente del tribunale non esiste.

La legge sul divorzio breve avrebbe, quindi, dovuto prevedere anche in tali diverse ipotesi una decorrenza del termine adatta alle nuove procedure. E’ ragionevole ritenere che nei casi di separazione “assistita”, si dovrebbe applicare il termine abbreviato semestrale per pervenire al divorzio breve, essendo la situazione equiparabile a quella che si realizza con la separazione consensuale.

Da ultimo, merita senz’altro un plauso l’aver anticipato la cessazione del regime di comunione legale tra i coniugi al momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati nella separazione giudiziale (ovvero alla data di sottoscrizione del verbale di separazione consensuale dei coniugi davanti al presidente, purché omologata). In precedenza, invece, la comunione dei beni, ai sensi del vecchio articolo 191 del c.c., sopravviveva fino a sentenza di separazione. Il rischio era, ad esempio, che venissero effettuati ingenuamente acquisti subìto dopo udienza presidenziale ed i relativi provvedimenti interinali da un coniuge che presupponeva di non essere più in comunione dei beni, i quali ricadevano invece in tale regime (l’esempio è di M. G. Ruo).

Tuttavia, come altro risvolto della stessa medaglia, ciò comporterà un aggravio dei giudizi di separazione, in quanto potranno essere proposte nel suo ambito domande che prima erano inevitabilmente inammissibili. A tal riguardo è sufficiente ricordare che lo scioglimento della comunione legale dei beni fra i coniugi si verificavaex nuncsoltanto con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione, non spiegando effetti – al riguardo – il precedente provvedimento presidenziale (provvisorio e funzionalmente limitato) con cui i coniugi erano stati autorizzati ad interrompere la convivenza, nè, a maggior ragione, il semplice fatto in sè della separazione dei coniugi, sicché risultava improponibile la eventuale domanda di scioglimento della comunione proposta prima della formazione del giudicato sulla separazione (Cassazione civile, sez. I, 06/10/2005, n. 19447; conf. Cassazione civile 26 febbraio 2010 n. 4757 sez. I, Cass. 25 marzo 2003 n. 4351 e Cass. 23 giugno 1998 n. 6234). Invero, rappresentava principio pacifico che erano inammissibili le domande di divisione di beni mobili ed immobili, nonché di divisione del risparmio, rimborso e restituzione delle somme spettanti in dipendenza dell’amministrazione dei beni comuni prima della cessazione del regime della comunione legale tra i coniugi, in quanto esse si potevano proporre solo al momento della divisione dei beni comuni che coincide con il passaggio in giudicato della relativa pronuncia (cfr. Cass. Civ. Sez. 1, Sentenza n. 10896 del 24/05/2005 Cass. 15 settembre 2004 n. 18564; Cass. 5 dicembre 2003 n. 18619; Cass. 24 luglio 2003 n. 11467).

In definitiva, sembra di essere al cospetto di una legge attesa, ma, come purtroppo sempre più di frequente avviene, tecnicamente imprecisa, oltre che non adeguatamente coordinata con istituti direttamente o indirettamente da essa coinvolti.

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fonte Altalex

Disegno di legge, Camera dei deputati 16/02/2016 n° 2953

Pubblicato il 18/02/2016

Arriva il primo sì alla riforma del processo civile da parte della Commissione Giustizia della Camera.

Si è concluso infatti l’esame degli emendamenti al disegno di legge C. 2953 recante “Delega al Governo recante disposizioni per l’efficienza del processo civile”, il quale, dopo i pareri delle Commissioni interessate, approderà in Aula.

Queste le linee direttrici lungo le quali si sviluppa l’intervento di riforma, che prende spunto dal lavoro della Commissione Berruti, costituita presso il Ministero della giustizia:

  • specializzazione dell’offerta di giustizia, attraverso l’ampliamento delle competenze del tribunale dell’impresa e l’istituzione del tribunale della famiglia e della persona;
  • accelerazione dei tempi del processo civile, attraverso la razionalizzazione dei termini processuali e la semplificazione dei riti: è attribuito un ruolo centrale alla prima udienza, è potenziato il carattere impugnatorio dell’appello, sono accelerati i tempi del giudizio in Cassazione mediante un uso più diffuso del rito camerale;
  • introduzione del principio di sinteticità degli atti di parte e del giudice;
  • adeguamento delle norme processuali al processo civile telematico.

Le Sezioni specializzate in materia di impresa diventeranno “Sezioni specializzate per l’impresa e il mercato”, con nuove e più estese competenze.

La nuova “Sezione specializzata per la famiglia, i minori e la persona”, sarà competente su tutti gli affari relativi alla famiglia e su tutti i procedimenti che attualmente non rientrano nella competenza del Tribunale per i minorenni in materia civile.

Per il processo di cognizione la delega mira ad assicurare anche una riduzione dei tempi dei giudizi in primo grado, in appello e in Cassazione, e a rendere prevedibile la durata del processo.

Per il processo di primo grado è prevista l’applicazione obbligatoria del rito sommario (cd. “rito sempificato di cognizione”) a tutte le cause nelle quali il tribunale giudica in composizione monocratica, ad eccezione delle cause assoggettate al rito del lavoro.

Sarà inoltre potenziato l’istituto della proposta di conciliazione del giudice (art. 185-bis c.p.c.): la mancata presenza delle parti ed il rifiuto ingiustificato della proposta di transazione da parte del giudice saranno comportamenti valutabili ai fini della decisione e fonte di responsabilità processuale aggravata.

Tra le novità riguardanti l’appello si segnalano la trattazione in forma monocratica delle cause di ridotta complessità giuridica e limitata rilevanza economica ed il filtro esteso alle impugnazioni contro i provvedimenti di primo grado emessi con rito sommario di cognizione.

Sono inoltre previste novità riguardanti il processo esecutivo ed i procedimenti speciali in una prevalente ottica di semplificazione, maggiore efficienza e riduzione dei tempi processuali.

Per il processo del lavoro è prevista la cancellazione del cd. “rito Fornero” per l’impugnazione dei licenziamenti (art. 1, commi 47 e ss., legge 92/2012) e l’introduzione della negoziazione assistita.

Il Governo avrà 18 mesi di tempo per predisporre uno o più decreti legislativi relativi al tribunale delle imprese e al tribunale della famiglia e della persona e uno o più decreti legislativi per il riassetto formale e sostanziale del codice di procedura civile.

Per approfondimenti:

(Altalex, 18 febbraio 2016)

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Il Sole 24 Ore – Sezioni specializzate. Requisiti più stringenti sulla professionalità e sull’incompatibilità dei giudici tributari. Nuovi criteri per la rotazione dei presidenti di Ctp e Ctr e regole meno complesse per l’elezione dell’organo di autogoverno della giustizia tributaria. Lo schema di Dlgs sul contenzioso – ora al secondo esame delle commissioni parlamentari- attua un restyling delle commissioni tributarie. Un restyling che non cambia, però, la loro denominazione in Tribunali e Corte d’appello tributari, come richiesto dalle commissioni del Senato nel primo parere, perché come recita la relazione illustrativa del nuovo testo trasmesso alle Camere «tale modifica dovrebbe essere riservata a una riforma più profonda della giustizia tributaria». Ma vediamo nel dettaglio.

La complessità delle materie trattate e la valorizzazione delle competenze già conseguite o conseguibili dai giudici tributari passerà dall’istituzione di sezioni specializzate all’interno delle Commissioni tributarie di primo e secondo grado. Con questa disposizione si potrebbe assicurare una linea di continuità per istruire ed esaminare «questioni controverse» senza però determinare un aumento delle sezioni attualmente esistenti. In questo modo per l’assegnazione della controversia il presidente della Commissione tributaria dovrà tener conto in primo luogo dell’istituzione delle sezioni specializzate per materia, all’interno delle quali si applicheranno i criteri cronologici e casuali. Sarà un provvedimento del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria (Cpgt) a disciplinarne l’istituzione. In realtà, non dovrebbe trattarsi di una novità in assoluto perché come sottolinea il presidente del Cpgt, Mario Cavallaro, «nelle Commissioni tributarie più grandi c’è stata già una prassi per attribuire la trattazione delle controversie sulla base di una specializzazione». Non si tratta della sola novità in arrivo dal prossimo anno. Lo schema di Dlgs, infatti, modifica anche le norme relative alle incompatibilità per l’incarico di giudice tributario. Rispetto alla versione in vigore, il nuovo provvedimento precisa che non possono essere componenti delle commissioni tributaria «direttamente o attraverso forme associative». L’incompatibilità scatterà anche per chi ricopre incarichi direttivi o esecutivi nei movimenti politici, e non solo nei partiti come già stabilito ora. E comunque i giudici (naturalmente la precisazione riguarda i non togati) dovranno essere laureati in materie giuridiche o economico-aziendali.

Altra modifica riguarda la rotazione dei ruoli direttivi. L’incarico di presidente ha durata quadriennale eventualmente rinnovabile per altri quattro anni, ma solo a seguito di una valutazione positiva del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria al termine dei primi tre anni di incarico. Inoltre il presidente non potrà essere scelto tra i soggetti che raggiungeranno l’età pensionabile nei quattro anni successivi alla nomina.