I criteri di priorità nella trattazione degli affari penali: confini applicativi ed esercizio dei poteri di vigilanza

di Lucia Russo

Il presente contributo ha ad oggetto la verifica di ammissibilità, e gli eventuali limiti applicativi, dell’elaborazione di criteri di priorità nella trattazione degli affari penali.Dopo avere analizzato il quadro normativo ordinario, è stata affrontata la questione della compatibilità di tali criteri con l’assetto costituzionale, focalizzando in particolare l’attenzione per un verso sul principio di obbligatorietà dell’azione penale, per altro verso sui principi di buona amministrazione e di ragionevole durata del processo.La tematica è stata quindi approfondita alla luce delle indicazioni provenienti nel corso del tempo dal C.S.M., tendenti a valorizzare l’elaborazione di tali criteri -sia pure tracciandone limiti invalicabili- nell’ambito delle scelte di organizzazione degli Uffici giudiziari.E’ stata inoltre affrontata la questione afferente all’esercizio dei poteri di vigilanza dei Procuratori generali presso le Corti d’appello nell’ottica dell’uniformità di esercizio dell’azione penale.Da ultimo, l’attenzione è stata focalizzata sul rapporto tra elaborazione ed applicazione dei criteri di priorità ed esercizio del potere di avocazione da parte del Procuratore generale, per l’evidente connessione tra tali opzioni, pervenendo ad escludere automatismi avocativi nei casi di ritardata definizione dei procedimenti in attuazione di scelte organizzative.

Sommario: 1. L’elaborazione di criteri di priorità nella trattazione degli affari penali: inquadramento normativo, riflessi sull’assetto costituzionale e soluzioni operative. – 2. Le indicazioni del C.S.M. in tema di “priorità”. – 3. I poteri di vigilanza e coordinamento del Procuratore generale presso la Corte d’appello ai fini dell’uniformità di esercizio dell’azione penale. – 4. Criteri di priorità e potere di avocazione del Procuratore generale presso la Corte d’appello. – 5. Brevi osservazioni conclusive.

1. L’elaborazione di criteri di priorità nella trattazione degli affari penali: inquadramento normativo, riflessi sull’assetto costituzionale e soluzioni operative.

L’individuazione di parametri orientativi nella tempistica di trattazione degli affari penali costituisce da tempo questione complessa e dibattuta, nella quale si intrecciano principi costituzionali, scelte legislative, necessità operative e resistenze culturali.

Sotto il profilo normativo, il tema veniva introdotto per la prima volta nel 1998, con l’art. 227 del d.lvo n. 51, istitutivo del giudice unico di primo grado. Con tale disposizione il legislatore, al fine di assicurare la rapida definizione dei procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del decreto, disponeva di tener conto della gravità e concreta offensività del reato, del pregiudizio che poteva derivare dal ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti, dell’interesse della persona offesa.

Il successivo passaggio normativo in materia si registrava nel 2000, con l’introduzione dell’art. 132 bisdisp.att. c.p.p. ad opera del d.l. 341/2000, convertito in legge n. 4/2001. Tale disposizione, nella sua originaria formulazione assegnava priorità assoluta nella formazione dei ruoli di udienza ai quei soli procedimenti nell’ambito dei quali risultassero applicate misure cautelari custodialistiche i cui termini fossero prossimi alla scadenza.

Il tema delle priorità, sia pure implicitamente, veniva nuovamente affrontato dal legislatore nel 2006, con la legge di riforma dell’ordinamento giudiziario. Precisamente, l’art. 1 del d.lvo 106/2006 attribuiva al Procuratore della Repubblica il potere-dovere di determinare i criteri di organizzazione dell’ufficio ed altresì i criteri cui dovevano attenersi i sostituti procuratori (o gli eventuali Procuratori aggiunti) nell’esercizio delle deleghe da lui conferite; l’art. 4 del citato decreto attribuiva inoltre al Procuratore il potere (non l’obbligo) di definire nel progetto organizzativo dell’ufficio i criteri generali da seguire per l’impostazione delle indagini in relazione a settori omogenei di procedimenti. Da tali previsioni derivava, sia pure implicitamente, il potere di stabilire le priorità nella trattazione degli affari penali, segnando il passaggio da una previsione necessariamente transitoria (quale quella afferente all’istituzione del giudice unico) ad una situazione strutturale.

La questione veniva infine nuovamente ripresa nel 2008 con il d.l. n. 92, convertito in legge n. 125/2008, che riformulava l’art. 132 bis disp.att. c.p.p., introducendo indicazioni vincolanti per gli uffici giudicanti in tema di formazione dei ruoli di udienza e trattazione dei processi, con attribuzione di priorità assoluta a talune tipologie di reato connotate da speciale gravità. Tale disposizione veniva ulteriormente integrata con il d.l. 93/2013 convertito nella legge n. 119/2013.       Nella sua attuale formulazione, la norma attribuisce priorità assoluta:

a)     Ai processi relativi ai delitti di cui all’art. 407 comma 2 lett. a) c.p.p. e ai delitti di criminalità organizzata, anche terroristica;

b)     Ai delitti di cui agli artt. 572, da 609bisa 609octiesc.p., e 612bisc.p.;

c)      Ai processi relativi a delitti commessi con violazione della normativa in tema di sicurezza del lavoro e circolazione stradale, ovvero concernenti delitti in tema di immigrazione e condizione dello straniero, ovvero ancora sanzionati con reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni;

d)     Ai processi a carico di imputati detenuti, anche per altra causa;

e)      Ai processi nei quali l’imputato sia stato sottoposto a misure coercitive, anche se cessate;

f)       Ai processi nei quali sia stata contestata la recidiva ex art. 99 comma 4 c.p.;

g)     Ai processi da celebrare con giudizio direttissimo ovvero con giudizio immediato.

Il d.l. 92/2008, con l’art. 2ter, proprio al fine di agevolare la rapida definizione dei procedimenti “prioritari”, attribuiva ai dirigenti degli uffici giudicanti la possibilità di rinviare per un tempo non superiore a 18 mesi e con sospensione della prescrizione, i processi afferenti a reati commessi in epoca antecedente il 2.5.2006 rientranti nell’ambito di applicazione dell’indulto disposto con legge n. 241 del 2006. Per quanto poi attiene ai criteri del rinvio, ribadiva i parametri già dettati dal legislatore del 1998, e cioè: gravità e concreta offensività del reato, pregiudizio potenzialmente derivante dal ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti, interesse della persona offesa.

Le connotazioni indubbiamente innovative delle norme introdotte nel 2006 e nel 2008 costituivano ulteriore sollecitazione al dibattito già da tempo radicato nei vari settori – scientifici, giudiziari, politici- afferente all’elaborazione di criteri orientativi omogenei nella tempistica di definizione dei procedimenti penali, essendo da più parti stigmatizzata, talora con finalità strumentali, la disomogeneità delle scelte nei diversi territori circondariali, e spesso anche nell’ambito dello stesso ufficio, sostanzialmente rimesse alla discrezionalità dei singoli magistrati inquirenti.

Il punctum dolens, di agevole individuazione, è costituito dal potenziale attrito tra le previsioni di priorità e il principio di obbligatorietà dell’azione penale, sancito dall’art. 112 Cost.; principio costituente l’architrave del sistema processuale in chiave costituzionale, unitamente al principio di eguaglianza al quale è strettamente correlato[1].

Proprio alla luce dei richiamati principi costituzionali, un primo orientamento esprime una ferma contrarietà all’elaborazione di criteri di priorità da parte dei dirigenti degli uffici inquirenti[2]. In particolare viene sottolineato come il deficit funzionale degli apparati giudiziari penali sia storicamente determinato dalle connotazioni ipertrofiche del diritto penale, da una cronica mancanza di risorse personali e materiali, da inadeguatezze strutturali del modello processuale penale introdotto nel 1988; sicchè, ove tali cause ostative fossero rimosse, verrebbero meno le ragioni a sostegno dell’elaborazione di criteri di priorità, da sempre giustificati in chiave di funzionalità del sistema.

Semmai, secondo l’orientamento citato, l’individuazione di sequenze prioritarie per le Procure della Repubblica dovrebbe essere conformata alle scelte degli uffici giudicanti, come può evincersi dall’art. 132 bis disp. att. c.p.p. e come sostenuto dal C.S.M. con delibera 9.7.2014, ovvero ancora desumersi dai limiti edittali delle fattispecie, così da rendere ultronee specifiche previsioni sul punto da parte dei dirigenti degli uffici inquirenti.

Secondo altro orientamento, l’elaborazione di criteri di priorità nella gestione degli affari penali risponde a criteri di razionalità ed economicità del sistema, “portate sul piano del rilievo costituzionale ex art. 97 comma 1 Cost.”[3] e non può considerarsi quale scelta elusiva del principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale. Al contrario, come è stato osservato[4], “i valori costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione (artt. 3 e 97 Cost.) sono incompatibili con una casualità nello smaltimento del lavoro o peggio ancora con una discrezionalità affidata esclusivamente al singolo magistrato dell’ufficio, anziché all’ufficio o servizio nel suo complesso”. Nella medesima prospettiva, è stata evidenziata la necessità di distinguere le scelte di opportunità nell’esercizio dell’azione penale, sicuramente estranee al dettato costituzionale, dalla discrezionalità operativa di ordine tecnico, incentrata sull’individuazione di moduli cronologici aventi quale riferimento beni giuridici e valori costituzionalmente orientati. In particolare si è precisato che la difesa del principio di obbligatorietà dell’azione penale non può essere assunta “in maniera puramente formalistica, come un feticcio, avulsa da ogni scontro e riscontro con la realtà materiale in cui deve operare, tacciando di inammissibile discrezionalità ogni tentativo di razionalizzazione e annichilendolo con lo stigma della rottura costituzionale”[5].L’elaborazione di criteri di priorità generali e predeterminati risponde dunque alla necessità di rendere l’attività del p.m. il più possibile razionale, trasparente e prevedibile, e di scongiurare il rischio di valutazioni individuali incentrate sull’opportunità di perseguire o meno determinati indagati o tipologie di reato.

Sotto il profilo operativo, tale nuova “filosofia dell’organizzazione del lavoro” ha trovato nel corso del tempo progressive conferme[6]. Nella evidente impossibilità di analizzare diffusamente il contenuto dei provvedimenti organizzativi in materia, vale la pena soffermare brevemente l’attenzione su taluni di essi, per il loro carattere innovativo, o comunque in relazione al vivace dibattito innescato.

Una prima testimonianza della necessità di operare scelte di razionalizzazione nella trattazione di procedimenti penali è ravvisabile nella cd. circolare Pieri-Conti 8.3.1989[7]. Con tale provvedimento, il presidente della Corte d’appello di Torino e il Procuratore generale della stessa sede invitavano tutti gli uffici giudicanti e requirenti del distretto ad effettuare “un filtro scrupoloso delle priorità da assegnare ai singoli processi, in modo da far procedere rapidamente e senza timore di prescrizione i processi importanti e da non ingolfare al tempo stesso uffici già strutturalmente troppo deboli con masse ingenti di lavoro inutile, perché destinato ineluttabilmente ad essere del tutto vanificato”. Tale sollecitazione veniva giustificata con la necessità di “evitare di sprecare tempo, fatica e denaro dello Stato in attività praticamente inutili, quali la minuziosa e scrupolosa celebrazione di processi destinati ineluttabilmente alla prescrizione”.

Del tutto coerente con l’analisi e gli obiettivi indicati dalla circolare Pieri-Conti è la circolare Zagrebelsky[8] del 16.11.1990. Con tale documento l’estensore, all’epoca a capo della Procura della Repubblica presso la Pretura di Torino, previa analisi delle pendenze e sopravvenienze dell’ufficio in rapporto alla capacità di smaltimento, perveniva alla conclusione secondo cui l’impossibilità di esaurire la trattazione di tutte le notizie di reato pervenute all’Autorità giudiziaria rendeva ineludibile l’elaborazione di criteri di priorità. Per quanto poi attiene all’impatto di tali soluzioni con l’assetto costituzionale, l’autore innanzitutto affermava che non vi era contrasto con il principio di obbligatorietà dell’azione penale “dal momento che il possibile mancato esercizio di una azione penale tempestiva e adeguatamente preparata per tutte le notizie di reato non infondate, non deriva da considerazioni di opportunità ..ma trova una ragione nel limite oggettivo alla capacità di smaltimento del lavoro dell’organismo giudiziario”. L’estensore della circolare precisava anzi che proprio i principi costituzionali, con particolare riferimento a quelli sanciti nell’art. 3 comma 1 e 97 comma 1 Cost, ovviamente riferibili anche all’attività giudiziaria, escludevano che la capacità di smaltimento del lavoro potesse essere impiegata in modo casuale o lasciata alla determinazione dei singoli magistrati dell’ufficio. Partendo da tali premesse, e dunque al fine di razionalizzare la definizione degli affari penali, il dirigente dell’Ufficio inquirente elencava una serie di parametri orientativi, tra cui ad esempio: la gravità dei reati (non necessariamente desumibile dai limiti edittali della fattispecie), la rilevanza degli interessi tutelati dalla fattispecie incriminatrice (con attribuzione di prevalenza a quelli connotati da significatività costituzionale o posti a presidio di interessi collettivi), la condizione di vulnerabilità delle vittime, l’applicazione attuale o pregressa di misure cautelari personali e/o reali.

In tempi più recenti, mutato in parte l’assetto processuale e quello ordinamentale giudiziario, una ulteriore conferma della crescente sensibilità della magistratura (inquirente) rispetto a criteri di organizzazione del lavoro fondati sull’applicazione di linee guida ispirate ad una concezione “realistica” dell’azione penale[9] piuttosto che sulla mera casualità o sulla discrezionalità dei singoli è stata fornita dalla cd. circolare Maddalena 10.1.2007, n. 50/07[10]. Con tale documento il dirigente dell’ufficio inquirente di Torino, preso atto dei contenuti amplissimi della legge n. 241/2006 in tema di indulto ed altresì considerati i fattori cronici maggiormente ostativi alla definizione delle pendenze (arretrati già formati e numero di sopravvenienze, scarsità del personale con conseguente impossibilità di far fronte a tutti gli adempimenti, ridotta capacità ricettiva degli uffici giudicanti etc.) perveniva alla conclusione secondo cui “insistere nel trattare tutti e comunque i procedimenti pendenti non solo è poco realistico ma soprattutto contrario ad ogni logica e ad ogni seria previsione e considerazione in ordine ai fatti di reato consumati prima del 2 maggio 2006”. In particolare il suddetto dirigente evidenziava che la rigida applicazione, senza correttivi, del principio cronologico nella trattazione dei fascicoli avrebbe comportato non solo la sicura prescrizione dei fatti consumati in epoca antecedente alla legge applicativa dell’indulto, ma altresì la prescrizione dei reati consumati in epoca successiva.

Pertanto, dopo avere auspicato un uso parsimonioso dell’azione penale, mediante valorizzazione degli strumenti deflattivi e un rigoroso controllo della sostenibilità dell’accusa in giudizio, con conseguente formalizzazione di richiesta di archiviazione in tutti i casi di incertezza/instabilità del quadro probatorio[11], l’autore della circolare elencava una serie di reati rientranti nella previsione di accantonamento (essenzialmente, reati per i quali in caso di condanna, sarebbe stata applicata una pena interamente condonata ovvero con indagati-imputati irreperibili) e contestualmente prevedeva una serie di eccezioni, per lo più incentrate: sull’attuale o pregressa applicazione di misure cautelari/coercitive personali, sulla contestazione della recidiva aggravata o di taluna delle tipologie di “delinquenza qualificata”, sulla sussistenza di un concreto interesse della persona offesa alla trattazione del procedimento, sulla richiesta avanzata dalle parti processuali. Analoghe indicazioni venivano fornite anche in relazione ai procedimenti per i quali era stata inoltrata al Tribunale richiesta di fissazione dell’udienza ai fini dell’emissione del decreto di citazione a giudizio.

Di particolare interesse, e con profili indubbiamente peculiari, sia per l’oggetto trattato sia per la ricerca di intese con l’ufficio giudicante, appare poi il provvedimento organizzativo 5.3.2014 della Procura della Repubblica di Roma, avente ad oggetto: “criteri di priorità per la richiesta di fissazione di udienza per i procedimenti di competenza del Tribunale in composizione monocratica”[12]. Con tale provvedimento, il dirigente dell’ufficio inquirente:

preliminarmente, analizzava le maggiori criticità che avevano contraddistinto sul piano organizzativo le funzioni giudicanti negli anni precedenti, tra cui essenzialmente la fissazione di un maggior numero di udienze monocratiche rispetto a quelle collegiali, spesso senza meccanismi regolatori (con conseguenti prevedibili incongruenze) e in ogni caso con effetti pregiudizievoli sulla trattazione dei processi connotati da maggior disvalore e/o complessità probatoria;

prendeva atto, esprimendo condivisione, della scelta del presidente del Tribunale di invertire le proporzioni, attribuendo maggiore spazio alle udienze collegiali;

affrontava quindi la questione inevitabilmente derivante dalla sensibile riduzione delle udienze monocratiche, e cioè il numero sempre crescente di richieste di fissazione di udienza rimaste inevase (sino a raggiungere il numero di 34.434 al 31.12.2013) regolamentando i flussi delle citate richieste. In particolare, preso atto che il Tribunale poteva fissare udienza per non più di 11.500 procedimenti annuali (a fronte di una media di 18.000 richieste della Procura), il dirigente dell’ufficio inquirente si impegnava a trasmettere un numero di richieste sostanzialmente corrispondente o di poco superiore, con valutazioni trimestrali. Contestualmente, a seguito di intese con l’ufficio giudicante, si disponeva di attribuire priorità alla celebrazione dei processi rientranti nell’elencazione di cui all’art. 132 bisdisp.att. c.p.p.; quanto alla quota residuale, si statuiva di procedere all’individuazione dei procedimenti sulla base delle connotazioni di offensività in concreto, relegando all’ultimo posto i fascicoli assegnati all’ufficio S.D.A.S.[13]. Da ultimo si stabiliva che i procedimenti in fase di stallo non sarebbero stati scansionati né si sarebbe proceduto alla notifica degli avvisiex art. 415bis c.p.p. sino al momento in cui la disponibilità di udienze secondo il meccanismo indicato non avesse consentito di ipotizzare l’accoglimento della richiesta di fissazione dell’udienza.

Orbene, già da questa prima sommaria disamina di taluni provvedimenti organizzativi elaborati nel corso del tempo dagli uffici inquirenti aventi ad oggetto l’individuazione di moduli cronologici nella definizione degli affari penali può evincersi l’assoluta eterogeneità delle soluzioni adottate. I criteri di priorità possono infatti avere base legale ovvero extralegale; possono avere connotazioni formali o sostanziali, oggettive o soggettive, rigide o elastiche, positive o negative[14]. In assenza di univoche indicazioni del legislatore, un importante contributo alla ricostruzione dei confini applicativi delle priorità è stato fornito dalla normazione secondaria elaborata dal C.S.M..

2. Le indicazioni del C.S.M. in tema di “priorità”.

         Nel corso del tempo, con evidente intensificazione della produzione soprattutto in epoca successiva alla riforma dell’ordinamento giudiziario, il C.S.M. ha ripetutamente focalizzato la propria attenzione sulle tematiche connesse all’organizzazione del lavoro e, in particolare, all’adozione di parametri orientativi nella tempistica di definizione dei procedimenti penali, arrivando a tratteggiarne una sostanziale doverosità in un’ottica di buona amministrazione e uniformità di esercizio dell’azione penale.

Tale orientamento trovava conferma, sia pure in forme embrionali, già in epoca risalente: in particolare, nel 1977, il C.S.M., pur in assenza di specifici dati normativi in materia, auspicava una programmazione nello “svolgimento del lavoro penale in modo da consentire in primo luogo la trattazione dei processi più gravi”[15].

Addirittura, secondo l’organo di autogoverno, dall’adozione o meno di tali criteri potevano derivare conseguenze assolutamente rilevanti nella valutazione di profili di responsabilità disciplinare. Precisamente, con la decisione 20.6.1997 della sezione disciplinare[16], il C.S.M. escludeva la sussistenza di illecito disciplinare a carico di un pubblico ministero, il quale aveva creato un vistoso arretrato per avere privilegiato, in assenza di indicazioni di priorità da parte del dirigente dell’ufficio, la trattazione dei procedimenti aventi ad oggetto fatti connotati da un maggior disvalore. Nella citata decisione si legge: “costituisce convincimento diffuso che, specie nelle Procure circondariali, la domanda di giustizia è notevolmente superiore alla capacità non solo delle Procure ma anche del complesso degli uffici giudiziari di esaminare i relativi procedimenti. In tale situazione, l’impossibilità di tempestivamente esaurire la trattazione di tutte le notizie di reato …implica che non ci si può sottrarre al compito di elaborare criteri di priorità: criteri che, una volta scontato come irragionevole il criterio che facesse mero riferimento al caso e alla successione cronologica della sopravvenienza, non possono non essere derivati, in ossequio alla soggezione anche dei pubblici ministeri alla legge, dalla gravità e/o offensività sociale delle singole specie di reati. In assenza di indicazioni di priorità provenienti dal Procuratore della Repubblica, è inevitabile che tali criteri di priorità siano individuati dai singoli sostituti. Ciò non suona offesa all’obbligatorietà dell’azione penale nei limiti in cui tale soluzione non deriva da considerazioni di opportunità ma trova causa nel limite oggettivo alla capacità di smaltimento del lavoro dell’organismo giudiziario nel suo complesso e della Procura della Repubblica in particolare”.

Come si diceva in apertura del paragrafo, l’entrata in vigore del nuovo ordinamento giudiziario (e con essa, la nuova regolamentazione degli uffici inquirenti) costituiva l’occasione per una rinnovata attenzione del C.S.M. verso aspetti di efficienza e razionalità nella gestione delle risorse e nella trattazione degli affari penali. In tale contesto, l’adozione di criteri di priorità veniva presentata quale soluzione virtuosa in chiave costituzionale, ancorchè con limiti funzionali insuperabili.

In particolare, con delibera 9.11.2006, il C.S.M. collocava i criteri di priorità “sul piano dell’organizzazione dell’attività giudiziaria” e non già sul diverso piano della “selezione finalistica” della notitia criminis o dei procedimenti. Sul punto, si legge: “i dirigenti degli uffici (inquirenti e giudicanti) possono e devono adottare iniziative e provvedimenti idonei a razionalizzare la trattazione degli affari e l’impiego delle risorse disponibili. Addivenire a scelte organizzative razionali, nel rispetto del principio di obbligatorietà dell’azione penale e di soggezione di ogni magistrato solo alla legge risponde ai principi consacrati dall’art. 97 primo comma Cost, riferibile anche all’amministrazione della giustizia, che richiama i valori del buon andamento e della imparzialità dell’amministrazione con riferimento alle scelte che gli uffici adottano nelle loro unità. Tali scelte ..dimostrano la capacità e volontà dei dirigenti degli uffici di non rassegnarsi ad una giurisdizione che produce disservizio assumendosi la responsabilità di formulare progetti di organizzazione che sulla base dell’elevato numero degli affari da trattare e preso atto delle risorse umane e materiali disponibili, esplicitino le scelte di intervento adottate per pervenire a risultati possibili e apprezzabili”.

La posizione espressa, per quanto in particolare attiene all’inquadramento della questione sul piano dell’organizzazione e non invece della selezione finalistica dei reati, veniva ribadita nella successiva delibera 15.5.2007, avente ad oggetto la valutazione di circolari in tema di priorità formalizzate dalle Procure della Repubblica di Torino[17], Palermo e Busto Arsizio.

Con specifico riferimento alla circolare “Maddalena”, accolta con diffuse riserve da una parte dell’avvocatura[18] il C.S.M. introduceva talune puntualizzazioni che precisavano i confini entro i quali alcune soluzioni lessicali contenute nel citato provvedimento organizzativo potevano ritenersi conformi al dettato costituzionale e adeguate in punto di moduli organizzativi. In particolare il C.S.M. evidenziava:

che il termine “accantonamento” era equivoco, potendo essere interpretato come correttivo del principio di obbligatorietà azione penale; esso pertanto doveva essere inteso quale differimento della trattazione “in attesa di tempi migliori”, e dunque in chiave di transitorietà;

che il riferimento alle “archiviazioni generose” non poteva tradursi nella rinuncia all’azione penale per ragioni di opportunità, ma poteva essere condiviso solo quale richiamo all’obbligo di procedere ad una rigorosa valutazione della sostenibilità dell’accusa in giudizio.

Con la successiva delibera 13.11.2008, il C.S.M. nuovamente ritornava sulla questione delle priorità. Traendo spunto dalle innovazioni introdotte dal d.l. 92/2008 modificativo dell’art. 132bisdisp.att. c.p.p., il C.S.M.:

-innanzitutto evidenziava che la nuova norma evocava lo schema già adottato dal legislatore con l’approvazione dell’art. 227 d.lvo 51/1998, ancorchè quest’ultima disposizione avesse “effetti ad esaurimento” laddove la nuova previsione operava “a regime”;

-individuava la ratio sottesa ad entrambe le norme citate nella necessità di “mitigare gli effetti deleteri di quell’eccesso di spontaneismo che conduceva in epoche passate giudici e pubblici ministeri ad una valutazione pressochè arbitraria dei tempi di fissazione e trattazione dei processi”; ratio enfatizzata, secondo l’organo di autogoverno, dalla copertura costituzionale dell’art. 111 Cost., come integrato con legge costituzionale n. 2/1999 mediante affermazione del principio di ragionevole durata del processo;

– precisava che l’elencazione normativa di cui all’art. 132 bis disp.att. c.p.p. non esauriva le aree di priorità, suscettibili di ampliamento alla luce del prudente apprezzamento del giudicante;

-pur confinando l’operatività dell’art. 132 bis disp.att. c.p.p. all’esercizio della funzione giudicante, auspicava “un opportuno concerto” con la Procura della Repubblica ai sensi degli artt. 132 comma 2 e 160 disp. att. c.p.p. in ragione delle implicazioni che la selezione di priorità comporta sul principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale e sul suo corretto, puntuale ed uniforme esercizio;

-precisava infine che i provvedimenti organizzativi in punto di priorità non hanno natura tabellare e non sono dunque soggetti alla procedura prevista per le variazioni tabellari.

Le tematiche in esame venivano ulteriormente riprese dal C.S.M. con la risoluzione 21.7.2009, avente ad oggetto “l’organizzazione degli uffici del pubblico ministero”. Con tale documento, integrativo della precedente delibera 12.7.2007, l’organo di autogoverno individuava nella nuova architettura normativa, costituzionale e ordinaria, afferente agli uffici inquirenti, tre fondamentali obiettivi, destinati ad avere ricadute essenziali in punto di organizzazione, e rientranti nella responsabilità dei dirigenti degli uffici:

  1. Ragionevole durata del processo;
  2. Corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale nel rispetto delle norme del giusto processo;
  3. Efficienza nell’impego della polizia giudiziaria, nell’uso delle risorse tecnologiche e nella utilizzazione delle risorse finanziarie.

Con particolare riferimento al primo degli obiettivi elencati, il C.S.M. attribuiva ai Procuratori della Repubblica il dovere di procedere ad una “attenta costante e particolareggiata analisi dei flussi e delle pendenze dei procedimenti” e di elaborare “possibili criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti”.

Contenuti assolutamente innovativi rispetto al passato vanno poi riconosciuti alla delibera 9.7.2014, con la quale, superando un orientamento consolidato sino a quel momento, si stabiliva che il rischio di prescrizione del reato non costituiva automaticamente ragione di trattazione prioritaria rispetto ad altri procedimenti. Il C.S.M. così si esprimeva: “fermo restando il principio di non ingerenza rispetto alla celere trattazione delle priorità legali e ribadita l’impossibilità di autorizzare di diritto (o tollerare di fatto) qualsivoglia forma di definitivo accantonamento di procedimenti (così abbandonando intere categorie di reati ad un destino certo di estinzione per prescrizione, si impone un mutamento di prospettiva che collochi il rischio prescrizione su un piano paritario (e non più oggettivamente preminente come nell’ottica abbracciata dalla risoluzione 13.11.2008) rispetto agli altri criteri di individuazione di priorità ulteriori rispetto a quelli legali costituiti dalla gravità e concreta offensività del reato, dalla soggettività del reo, dal pregiudizio che può derivare dal ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti nonché dall’interesse anche civilistico della persona offesa”. Nella stessa delibera l’organo di autogoverno ribadiva la possibilità di individuare “procedimenti ulteriori, rispetto a quelli prioritari ex lege da inserire nel catalogo delle urgenze ai fini della formazione dei ruoli di udienza” ed auspicava che l’individuazione di tali ulteriori priorità venisse filtrata attraverso “atti di indirizzo” rimessi alla responsabilità del dirigente dell’ufficio. Tali moduli organizzativi potevano essere emanati nei progetti tabellari, ovvero in sede di redazione dei programmi di gestione dei procedimenti penali mediante procedure partecipate, per lo più consistenti nella convocazione di conferenze distrettuali allargate. Per quanto poi specificamente attiene agli uffici di Procura, il C.S.M. precisava che “in assenza di un sistema di tipizzazione delle priorità legislativamente predeterminato, l’individuazione di linee guida finalizzate a scongiurare l’insorgenza di ingiustificate disparità nel concreto esercizio dell’azione penale deve essere rimessa ai singoli dirigenti delle Procure della Repubblica, tenendo conto dei criteri adottati dai corrispondenti uffici giudicanti”.

In pari data (9.7.2014) ma con distinte delibere, il C.S.M. nuovamente interveniva in materia, in relazione a provvedimenti organizzativi aventi connotazioni peculiari, non risultando incentrati (solo) su previsioni positive di “priorità” (nel solco delle indicazioni tracciate dalla normazione primaria e secondaria) bensì, al contrario, su indicazioni di “non priorità”.

Ci si riferisce in particolare ai provvedimenti adottati da taluni uffici giudicanti (i Tribunali appartenenti al distretto di Corte d’appello di Bologna) con i quali, dopo una articolata ricognizione dei dati raccolti dalle cancellerie e dalla Commissione flussi, e della tempistica di fissazione e celebrazione delle udienze dibattimentali, si prevedeva -sia pure con talune eccezioni per lo più afferenti all’attuale o pregressa applicazione di misure cautelari, ovvero alle costituzioni di parte civile o comunque alla gravità dei reati contestati- la postergazione delle udienze afferenti a reati la cui estinzione era prossima.

Tali soluzioni costituivano attuazione del decreto n. 9128 del 29.10.2013 del Presidente di Corte d’appello di Bologna con il quale era stato disposto che non avessero carattere di priorità i procedimenti afferenti ad illeciti destinati a prescriversi nel termine di 15 mesi dalla pronuncia di primo grado.

Il C.S.M. deliberava di “prendere atto” di tali decreti, tenuto conto della loro natura (“meramente programmatica”) e temporaneità, e delle ragioni ad essi sottese, incentrate sulla necessità di adottare accorgimenti per superare gli inconvenienti derivanti dai notevoli carichi di lavoro, e soprattutto sulla necessità di garantire la trattazione dei processi con prescrizione evitabile, scongiurando la dispersione di energie su processi a prescrizione inesorabile. In particolare, dopo avere richiamato i precedenti consiliari in materia ed avere nuovamente ribadito l’inaccettabilità di soluzioni che producano “un automatismo degli effetti estintivi per prescrizione conseguenti ad un accantonamento ..di intere categorie di procedimenti” il C.S.M. rilevava la “oggettiva impossibilità di tempestiva trattazione di tutti i procedimenti penali pendenti” e la correlata necessità di adottare moduli organizzativi adeguati “al fine di evitare o la mera casualità nella trattazione degli affari (e quindi il rifiuto di ogni razionalizzazione del lavoro) oppure l’adozione di criteri di fatto disomogenei all’interno dello stesso ufficio, non verificabili e perciò più esposti ad abusi e strumentalizzazioni”. A tal fine rinviava a quanto statuito con separata delibera in pari data circa la necessità di collocare il “rischio prescrizione” su un piano paritario rispetto agli altri criteri di priorità. Concludeva rammentando ai dirigenti degli uffici giudicanti che per il futuro avrebbero dovuto attenersi alle direttive di cui alla citata risoluzione consiliare e che non potevano considerarsi accettabili “provvedimenti che comportino un accantonamento di procedimenti per farne conseguire effetti estintivi per prescrizione”.

I principi sinora espressi venivano riaffermati dal C.S.M. nell’ulteriore delibera 10.7.2014 avente ad oggetto il provvedimento organizzativo del Procuratore della Repubblica di Roma 24.1.2014, successivamente modificato con atto del 5.3.2014[19], afferente all’individuazione delle priorità in relazione alle richieste di fissazione di udienza per i reati a citazione diretta. Anche in questo caso il C.S.M. deliberava di prendere atto di tali soluzioni, senza formalizzare rilievi. In particolare, pur esprimendo riserve su taluni passaggi argomentativi[20], definiva “corretto e apprezzabile l’assunto del Procuratore della Repubblica di Roma secondo il quale, in presenza di risorse scarse, l’assenza di un preciso criterio legislativo che consideri l’effettivo grado di disvalore dei fatti oggetto dei procedimenti a citazione diretta non esime dall’obbligo di effettuare scelte di priorità, in nome del buon funzionamento dell’ufficio e dell’efficienza del servizio giustizia”.

Proseguendo nella disamina delle indicazioni provenienti dal C.S.M., contenuti assolutamente peculiari e innovativi vanno riconosciuti alla delibera 11.5.2016 avente ad oggetto: “Linee guida in materia di criteri di priorità e gestione dei flussi di affari – rapporti tra uffici requirenti e uffici giudicanti”.

La questione portata all’attenzione del C.S.M. riguardava l’ammissibilità della prassi dei Tribunali di lasciare inevase per un lungo arco temporale le richieste di fissazione di udienza inoltrate dagli uffici inquirenti ai fini dell’esercizio dell’azione penale nei reati a citazione diretta; prassi che ovviamente produceva ripercussioni non solo sulla tempistica di definizione dei procedimenti, con aggravamento del rischio di prescrizione, ma anche sulla valutazione delle pendenze dell’ufficio e della laboriosità dei magistrati, risultando formalmente pendenti procedimenti in realtà “definiti”.

Sul punto il C.S.M. affermava che la fissazione della data di udienza da parte dei Tribunali costituisce attività dovuta che non può essere differita oltre un ragionevole periodo. Parallelamente però precisava che “la indiscriminata e indistinta richiesta di fissazione di udienza per tutte le tipologie di reati ex art. 550 c.p.p. nella consapevolezza della difficoltà del Tribunale e di una sostanziale impossibilità di tempestiva definizione nel termine prescrizionale, pur non potendo ritenersi illegittima, manifesterebbe una significativa criticità organizzativa dell’ufficio requirente sia in termini diretti di mancata selezione della prioritaria azione di contrasto alla criminalità, sia di vanificazione dello stesso esercizio dell’azione penale, operato senza la doverosa valutazione delle concrete conseguenze processuali”. Ne derivava, secondo il C.S.M., che devono ritenersi incongrue sia le scelte attendiste dei Tribunali che omettono di fissare tempestivamente le date delle udienza richieste dall’ufficio inquirente sia la scelta delle Procure di riversare indistintamente sui Tribunali una massiccia quantità di procedimenti senza in alcun modo porsi il problema della capacità dell’ufficio giudicante di far fronte a tali carichi. In tale prospettiva, il C.S.M. auspicava intese tra i dirigenti degli uffici valutando positivamente le soluzioni tendenti a quantificare la sostenibilità del carico da parte dei Tribunali, con conseguente autolimitazione dell’ufficio inquirente nella trasmissione delle richieste di fissazione delle udienze monocratiche.

Ovviamente, secondo il C.S.M., da tale nuovo assetto scaturivano ripercussioni sul sistema delle avocazioni della Procure generali presso le Corti d’appello, con conseguente necessità di ricorrere alle avocazioni in modo selettivo.

Per quanto infine attiene al procedimento di formazione dei provvedimenti in tema di priorità, il C.S.M. ribadiva che essi potevano essere inseriti in provvedimenti tipici (tabelle, programmi di gestione), oppure nel progetto organizzativo del dirigente d’ufficio inquirente, oppure ancora in provvedimenti atipiciad hoc. Auspicava quindi la più ampia partecipazione all’elaborazione di tali criteri, mediante il coinvolgimento dei magistrati dell’ufficio, la richiesta di parere al consiglio giudiziario anche per i provvedimenti non aventi forma tabellare, la trasmissione finale al C.S.M..

Da ultimo giova evidenziare che la programmazione e selezione delle priorità da trattare, anche nell’ottica dell’abbattimento dell’arretrato, venivano inserite dal C.S.M. tra le buone prassi di organizzazione degli uffici giudiziari, sia con delibera 17.6.2015 sia nella recente delibera 7.7.2016.

3. I poteri di vigilanza e coordinamento del Procuratore generale presso la corte d’appello ai fini dell’uniformità di esercizio dell’azione penale

            La collocazione dei criteri di priorità nell’ambito delle “buone prassi” con valutazione di sostanziale doverosità in un’ottica di razionalizzazione delle risorse e uniformità di esercizio dell’azione penale consente di introdurre una ulteriore questione, e cioè quella afferente all’esercizio dei poteri di vigilanza e di coordinamento da parte dei Procuratori generali presso le Corti d’appello.

Come noto infatti, l’art. 6 d.l.vo n. 106/2006 attribuisce al Procuratore generale un potere di vigilanza e sorveglianza al fine di verificare il corretto ed uniforme esercizio dell’azione penale e il rispetto delle norme del giusto processo nonché il puntuale esercizio da parte dei Procuratori della Repubblica dei poteri di direzione, controllo e organizzazione. A tal fine il legislatore consente l’acquisizione di dati e notizie e prevede la trasmissione di una relazione almeno annuale al Procuratore generale presso la Corte di cassazione.

Ciò che tuttavia occorre verificare è se la vigilanza del Procuratore generale si esaurisca nell’esercizio di poteri “statici”, meramente ricognitivi degli assetti organizzativi degli uffici inquirenti del distretto, ovvero se possa tradursi nell’adozione di misure “dinamiche” finalizzate ad armonizzare i criteri di priorità e ad evitare disparità di trattamento nell’esercizio dell’azione penale nel distretto di competenza.

La questione non è di poco conto; l’art. 6 del decreto n. 106 è infatti costruito su elementi valutativi, la cui delimitazione in senso restrittivo o estensivo, può impattare significativamente sulla struttura dell’ufficio del pubblico ministero: precisamente, se per un verso una interpretazione riduttiva, confinata alla mera acquisizione di dati, rischia di sminuire e depotenziare le funzioni del Procuratore generale, per altro verso l’accentuazione dei poteri di intervento, se concepita unilateralmente, rischia di proiettare la magistratura inquirente verso assetti gerarchizzati, non previsti dalla legge e di dubbia compatibilità costituzionale[21].

Sul punto, è interessante rilevare che nel corso del tempo, il ruolo e i poteri del Procuratore generale sono profondamente mutati, sia in ragione di assetti normativi radicalmente innovati, sia quale effetto della giurisprudenza costituzionale[22]. Precisamente, non vi è dubbio che l’abrogato codice Rocco avesse attribuito alle Procure generali poteri di sovraordinazione gerarchica; ne costituiscono conferma l’art. 233 c.p.p. abrogato che imponeva ai Procuratori della Repubblica di informare il Procuratore generale di ogni notizia ricevuta; oppure l’art. 234 c.p.p. abrogato che attribuiva a quest’ultimo il potere di procedere direttamente ad istruzione sommaria, ovvero di richiamare gli atti con provvedimento insindacabile; ovvero ancora l’art. 392 c.p.p. abrogato che attribuiva il potere di avocare ad libitum l’istruzione sommaria; e da ultimo, per quanto attiene alle connotazioni diffusive e penetranti dei poteri dei Procuratori generali, non può non essere richiamato l’art. 298 c.p.p. abrogato che addirittura attribuiva un potere di vigilanza sul giudice istruttore. Tale assetto, prima ancora di essere travolto dal nuovo codice di procedura penale, fu profondamente trasformato per effetto delle indicazioni provenienti dalla Corte costituzionale, dalla Corte di cassazione e dal C.S.M..

Ad esempio, già in epoca risalente, con sentenza n. 148/1963, la Corte costituzionale escludeva la sussistenza di una sovraordinazione gerarchica dell’organo centralizzato di secondo grado sulle Procure circondariali ed affermava la “regola di indipendenza dell’attività degli uffici del pubblico ministero dei vari ordini”. Tali conclusioni venivano ulteriormente ribadite con sent. n. 462/1993 con la quale la Corte costituzionale testualmente affermava: “non può correttamente parlarsi di vincoli gerarchici tra i diversi uffici del pubblico ministero, che sarebbero evidenziati dai poteri di sorveglianza e di avocazione affidati al Procuratore generale presso la Corte d’appello. In via generale questa Corte ha già affermato che poteri del genere non possono essere ricondotti a forme di controllo gerarchico interno agli uffici del pubblico ministero affidato al Procuratore generale, prevedendo piuttosto il sistema una serie di limiti e di interventi di carattere esterno, volti a garantire l’effettività e la completezza degli adempimenti connessi all’esercizio delle funzioni devolute all’organo inquirente”.

Tali indicazioni venivano integralmente condivise dal C.S.M. che, in una pluralità di delibere[23], ribadiva l’insussistenza di poteri gerarchici dei Procuratori generali sui Procuratori della Repubblica sia nelle dinamiche processuali sia nei rapporti afferenti all’amministrazione della giurisdizione.

Non del tutto omogeneo risultava invece nel corso del tempo il percorso della Corte di cassazione, posto che, a fronte di sentenze che affermavano l’insussistenza di poteri gerarchici a vantaggio dei Procuratori generali[24], altre decisioni, anche in tempi recenti, proponevano affermazioni di segno esattamente opposto[25].

In tale contesto, la riforma dell’ordinamento giudiziario, introdotta con legge n. 150/2005 ed attuata con il d.lvo n. 106/2006 ha comunque indubbiamente determinato un importante mutamento del ruolo delle Procure generali accentuandone la funzione propulsiva, anche ad iniziativa[26]; in tema, il Presidente della Repubblica, in occasione del suo intervento dinanzi al C.S.M. in data 9.6.2009, invitava a “tener conto del fatto che, con l’art. 6 del decreto legislativo 106/2006 sono stati accresciuti i poteri di sorveglianza dei Procuratori generali presso le Corti di   appello e del procuratore Generale della cassazione. I primi debbono innanzitutto verificare il corretto esercizio dell’azione penale, il rispetto delle norme sul giusto processo, il puntuale espletamento, da parte dei Procuratori, dei poteri di direzione, controllo e organizzazione; e poi, a seguito dell’acquisizione di dati e notizie dalle Procure della Repubblica del distretto, riferirne al Procuratore generale presso la Corte di cassazione. Questi viene così investito della vigilanza sul complessivo andamento delle attività svolte da tutti gli uffici requirenti”[27]. Coerentemente con tali premesse, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario 2013, affermava che “va dato atto ai Procuratori generali presso le Corti d’appello di avere assunto iniziative volte a garantire omogeneità nella scelta dei reati cui attribuire priorità nel distretto. Ciò al fine di evitare disparità non giustificate da peculiarità ambientali nonché di favorire efficaci meccanismi di controllo circa il rispetto dei criteri di priorità delineati nel 132 bis“.

La questione pertanto non è quella di stabilire se le Procure generali possano interloquire con le Procure ordinarie del distretto in merito a questioni organizzative e, segnatamente, in merito all’elaborazione di criteri di priorità, ma semmai è quella di verificare in quali forme e con quali limiti possa esplicarsi il loro intervento.

Sul punto, è stato osservato che la funzione di vigilanza exart. 6 d.lvo 106/2006 non può in alcun modo tradursi in ingerenza nelle scelte dei singoli uffici e dunque non può concretarsi nella creazione ex ante o nel controllo ex post delle priorità da altri individuate; essa semmai può esplicarsi in “linee guida finalizzate a scongiurare l’insorgenza di ingiustificate disparità nel concreto esercizio dell’azione penale”, mediante valorizzazione e circolazione di modelli organizzativi positivi[28].

La questione afferente alla delimitazione dei poteri di vigilanza delle Procure generali è stata di recente affrontata dal C.S.M. con due distinte delibere che, pur essendo afferenti a questioni diverse rispetto ai criteri di priorità, hanno tuttavia fornito indicazioni di indubbio interesse.

In particolare, con delibera 16.3.2016, il C.S.M. si è pronunciato sulla sussistenza in capo ai Procuratori generali presso le Corti d’appello di poteri di coordinamento investigativo nell’ambito di indagini in materia di terrorismo, precisandone limiti e presupposti. Tale intervento era stato sollecitato al fine di fornire risposta in merito ad un contrasto insorto tra la Procura generale presso la Corte d’appello di Torino e il corrispondente ufficio inquirente di primo grado: mentre infatti il Procuratore generale riteneva che il coordinamento da parte del suo ufficio delle indagini distrettuali in tema di terrorismo fosse possibile e previsto non solo nei casi di omessa spontanea realizzazione ad opera delle Procure del distretto ma in via generale e preventiva, anche mediante la redazione di protocolli, al contrario il Procuratore della Repubblica di Torino contestava tale ricostruzione, subordinando l’intervento della Procura generale ai soli casi di inerzia degli uffici competenti. Con specifico riferimento ai poteri di impulso del Procuratore generale, il C.S.M. così si esprimeva:”..si tratta di poteri che vanno riconosciuti al Procuratore generale nell’ambito della migliore interpretazione dell’art. 6 d.lvo 106/2006 che ha visto nel tempo stratificarsi, per effetto dell’azione del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, e con l’osservazione attenta della settima commissione consiliare, più che una interpretazione del contenuto di una norma apparsa inizialmente come una sorta di cuneo nelle maglie dell’autonomia degli uffici di primo grado, un vero e proprio metodo di lavoro, fatto della paziente e diffusa attività di armonizzazione, prima a livello distrettuale e poi a livello nazionale, delle migliori prassi di organizzazione applicate al settore investigativo e requirente. Dunque, non un potere di coordinamento investigativo, che la norma non prevede e il complesso sistema ordinamentale non consente, ma un potere di ricognizione e di diffusione delle buone prassi nonché di costante impulso e sollecitazione alla condivisione di comuni moduli organizzativi e alla procedimentalizzazione della collaborazione tra uffici…..Senza escludere evidentemente che si possa pervenire a direttive di carattere generale distrettuale anche in materia di protocolli investigativi in senso stretto e di interpretazione condivisa di norme, laddove risultino però il frutto della unanime e condivisa valutazione di tutti i Procuratori del distretto”.

Considerazioni del tutto analoghe venivano ribadite dal C.S.M. nella successiva delibera 20.4.2016, anch’essa innescata da contrasti insorti nel distretto di Torino tra la Procura ordinaria e la Procura generale. In particolare si chiedeva al C.S.M. se fosse consentito al Procuratore generale, nell’ambito dei poteri di vigilanza di cui all’art. 6 d.lvo n. 106/2006, redigere linee guida nell’interpretazione della disciplina in materia ambientale, da trasmettere alle istituzioni del distretto, e tramite queste, agli organi di polizia giudiziaria ivi operanti, al fine di ovviare a contrapposte interpretazioni del dato normativo. Sul punto il C.S.M., nel richiamare la precedente delibera, nuovamente rimarcava che l’art. 6 del decreto n. 106/2006 consente iniziative di impulso e sollecitazione alla condivisione di moduli organizzativi e alla procedimentalizzazione della collaborazione tra uffici. Tali sollecitazioni ben potevano trovare attuazione in protocolli o intese a livello distrettuale ma solo ove costituenti il frutto della unanime e condivisa valutazione di tutti i procuratori del distretto; in tal caso, e dunque su base consensuale, potevano pervenire a direttive di carattere generale distrettuale anche in materia di protocolli investigativi o interpretazione condivisa di norme.

Pertanto e conclusivamente, il C.S.M. esclude che le Procure generali possano esercitare unilateralmente e coattivamente, poteri di direzione e coordinamento nei confronti delle Procure dei singoli territori circondariali; le citate delibere, pur essendo incentrate su questioni peculiari, esprimono principi suscettibili di applicazione generalizzata. I Procuratori generali presso le Corti d’appello hanno dunque il potere/dovere di chiedere informazioni, di riferire al Procuratore generale della Corte di cassazione e più in generale di favorire soluzioni condivise attivandosi attraverso atti di impulso e di coordinamento. Tali atti possono concretarsi nella redazione di protocolli e direttive ad efficacia generale solo ove sussista il consenso degli uffici giudiziari interessati[29].

4. Criteri di priorità e potere di avocazione del Procuratore generale presso la Corte d’appello.

            L’efficacia delle determinazioni aventi ad oggetto l’individuazione di criteri di priorità nella trattazione degli affari penali appare inscindibilmente connessa con la disciplina afferente all’esercizio del potere di avocazione da parte delle Procure generali presso le Corti d’appello.

Come noto, l’istituto dell’avocazione è previsto dal legislatore in relazione ad una pluralità di ipotesi, come di seguito precisato:

a)     laddove il Procuratore della Repubblica ometta di provvedere alla sostituzione del p.m. di udienza nelle fattispecie previste dall’art. 36 comma 1 lett. a), b), d), e) c.p.p. (art. 53 comma 3 c.p.p.);

b)     laddove, in conseguenza dell’astensione o della incompatibilità del p.m. designato, non sia possibile provvedere alla sua tempestiva sostituzione (art. 372 comma 1 lett. a) c.p.p.);

c)     laddove il Procuratore della Repubblica ometta di provvedere alla sostituzione del p.m. designato per le indagini nei casi previsti dall’art. 36 comma 1 lett. a), b), d), e) c.p.p. (art. 372 comma 1 lett. b) c.p.p.);

d)     nei casi di indagini preliminari afferenti ai delitti richiamati nell’art. 372 comma 1 bis c.p.p., laddove non risulti effettivo il coordinamento delle indagini e non abbiano dato esito le riunioni per il coordinamento disposte o promosse dal Procuratore generale presso la Corte d’appello anche di intesa con altri Procuratori generali (art. 372 comma 1 bis c.p.p.);

e)     nei casi di inerzia del p.m., laddove non provveda ad esercitare l’azione penale ovvero a chiedere l’archiviazione entro il termine stabilito dalla legge o prorogato dal giudice ovvero ancora nei casi in cui la richiesta di archiviazione formulata dal p.m. non sia stata accolta dal GIP (artt. 412 e 413 c.p.p.);

f)       nel caso di ordinanza del GUP che nel corso dell’udienza preliminare disponga ulteriori indagini (art. 421 bis c.p.p.).

La tipologia di avocazione che qui interessa è ovviamente quella avente quale presupposto l’inerzia del p.m. nella definizione (con esercizio dell’azione penale o con richiesta di archiviazione) del procedimento; inerzia che ben potrebbe dipendere dall’applicazione dei provvedimenti organizzativi contenenti criteri di priorità.

La prima questione meritevole di attenzione è quella afferente al carattere, obbligatorio o discrezionale, di tale istituto, essendo di agevole individuazione le potenziali ripercussioni di esso in ordine all’efficacia delle soluzioni organizzative concernenti l’ordine di trattazione degli affari penali.

La dottrina è per lo più orientata a riconoscere alla previsione di cui all’art. 412 comma 1 connotazioni di obbligatorietà[30], in ciò supportata anche dalle scelte lessicali del legislatore che ha differenziato la formulazione della citata disposizione normativa distinguendo l’ipotesi afferente all’inerzia del p.m. (“Il Procuratore generale dispone l’avocazione”) da quella afferente al mancato accoglimento della richiesta di archiviazione (“Il Procuratore generale può disporre l’avocazione”). Coerente con tale opzione, è la scelta del legislatore di imporre alla segreteria dei pubblici ministeri la trasmissione ogni settimana al Procuratore generale presso la Corte d’appello dell’elenco di notizie di reato contro persone note per le quali non è stata esercitata l’azione penale o richiesta l’archiviazione nel termine di legge (art. 127 disp. att. c.p.p.).

Al di là dell’apparente unanimismo interpretativo in punto di obbligatorietà dell’avocazione, costituisce dato di fatto inoppugnabile la sostanziale disapplicazione dell’art. 412 comma 1, se inteso in termini di automatismo, essendo del tutto impraticabile l’opzione di trasferire alle Procure generali del distretto l’ingente mole di procedimenti a termine scaduto pendenti nelle Procure circondariali. E’ infatti del tutto evidente che laddove in ipotesi si procedesse a massivi trasferimenti di tutto l’arretrato formatosi negli uffici inquirenti di primo grado sull’ufficio centralizzato di secondo grado, si arriverebbe paradossalmente a fenomeni di stallo di ben maggiori proporzioni, in contrasto con la finalità dell’istituto che è per l’appunto quella di garantire la funzionalità del sistema processuale e la ragionevole durata del processo[31]. Quasi a conferma della inapplicabilità di automatismi avocativi, l’art. 413 c.p.p. prevede che l’indagato o la persona offesa possano sollecitare l’avocazione con apposita richiesta. A ciò si aggiunga che in non pochi casi l’inerzia (tecnica) del pubblico ministero successivamente alla scadenza del termine di indagine può dipendere da una pluralità di fattori estranei al suo ufficio e/o non prevedibili: si pensi ad esempio all’ipotesi in cui siano state delegate alla polizia giudiziaria attività investigative il cui espletamento, nonostante i solleciti, tardi ad arrivare oppure ai casi in cui le indagini portino alla luce una pluralità di illeciti penali connessi  oppure ancora alle ipotesi in cui il medesimo illecito risulti ascritto ad una pluralità di soggetti la cui identificazione sia avvenuta in tempi diversi; circostanze che ovviamente determinano iscrizioni nell’apposito registro in date non coincidenti. In tali ipotesi appare del tutto evidente che una avocazione automatica da parte della Procura generale in relazione alle fattispecie a termine scaduto non solo non porterebbe alcun vantaggio in punto di funzionalità del sistema (pensiamo al caso del ritardo nell’espletamento di attività delegate) ma addirittura potrebbe compromettere l’efficace espletamento delle attività investigative (ad esempio in relazione alle fattispecie connesse o agli ulteriori indagati ancora in termine di indagine). In quest’ultima ipotesi, laddove poi si ritenesse di stralciare le sole fattispecie a termine scaduto, si arriverebbe alla paradossale soluzione di celebrare processi diversi, con dispendio di risorse personali ed erariali, in relazione a fatti caratterizzati da connessione, peraltro talora in violazione delle norme processuali in punto di competenza funzionale/territoriale per connessione.

Di tali problematiche ha mostrato di essere ben cosciente il C.S.M. il quale, in talune sue delibere, ha fornito indicazioni pratiche in punto di avocazione, allo scopo di circoscrivere e razionalizzare l’esercizio di tale potere.

In particolare, con le delibere 16.7.1997 e 12.9.2007, il C.S.M. ha statuito quanto segue:

–          preliminarmente, in adesione all’orientamento prevalente, ha ribadito che l’art. 412 comma 1 c.p.p. non configura in capo al Procuratore generale alcuna discrezionalità in ordine al ricorso all’avocazione;

–          parallelamente, ha evidenziato come risulti impossibile per le Procure generali avocare tutti i procedimenti a termine scaduto, e ciò a maggior ragione in considerazione della tempistica dettata dal legislatore che, in caso di positivo esercizio di tale potere, impone di definire i fascicoli nel termine di 30 giorni;

–          ha conseguentemente ritenuto di fornire, quale “soluzione pratica”, quella di “limitare l’obbligo di avocazione ai soli casi in cui, scaduto il termine originario o prorogato, il Procuratore della Repubblica non sia ancora in grado di concludere per la necessità di compiere atti di indagine da utilizzare nel dibattimento”. A tal fine ha invitato i Procuratori della Repubblica a precisare, nell’elenco di cui all’art. 127 disp. att. c.p.p., quali siano i procedimenti a termine scaduto che richiedono la prosecuzione dell’attività investigativa;

–          ha precisato infine che le indicazioni di cui al punto precedente hanno “natura pratica” ed intendono fornire “nel rispetto di consolidate prassi, una soluzione ragionevole ad una situazione altrimenti insostenibile”; esse tuttavia non possono interferire con la disciplina codicistica, rispetto alla quale le citate delibere, e le indicazioni in esse contenute, sarebbero evidentemente soccombenti in ragione della gerarchia delle fonti; ditalchè non potrebbero essere in alcun modo censurate le eventuali determinazioni dei Procuratori generali di esercitare il potere di avocazione con maggiore ampiezza, al di là delle ipotesi tracciate dall’organo di autogoverno.

Le linee tracciate dal C.S.M. nelle suddette delibere possono costituire un punto di riferimento nella valutazione negli adempimenti delle Procure generali rispetto alla gestione dei procedimenti il cui termine sia scaduto, e la cui definizione non risulti ancora effettuata in ragione dell’applicazione di provvedimenti organizzativi in tema di priorità.

Innanzitutto, al fine di escludere l’ipotesi di una sistematica avocazione di tali procedimenti, è utile richiamare la ratio sottesa a tale istituto. Il potere di avocazione infatti non è espressione di una strutturazione gerarchica della magistratura inquirente ma costituisce uno strumento di tutela di interessi pubblici e dunque è finalizzato a garantire l’efficienza e il corretto funzionamento del sistema processuale. L’avocazione è dunque una sorta di valvola di sicurezza preordinata a superare condizioni patologiche di stallo processuale.

Pur essendo indubbiamente coerente con il principio di obbligatorietà dell’azione penale, il potere di avocazione non ne costituisce esplicazione esclusiva; a ben vedere, un analogo potere di acquisizione dei procedimenti e/o l’esercizio di poteri dispositivi da parte di organi lato sensusovraordinati sono previsti anche in regimi processuali connotati dalla discrezionalità dell’azione penale[32].

Ciò posto, ad avviso di chi scrive, è possibile ipotizzare una interpretazione del dato normativo (412 comma 1 c.p.p.) che scongiuri il rischio di impraticabili e irragionevoli avocazioni di massa in relazione a procedimenti non ancora definiti in applicazione di disposizioni organizzative, non solo alla luce della ratio sottesa all’istituto, e cioè la funzionalità del sistema, ma anche mediante una interpretazione sistematica che tenga conto del complessivo assetto normativo, costituzionale e ordinario.

Innanzitutto, come si è visto, l’elaborazione di criteri di priorità nella trattazione degli affari penali ha un fondamento normativo, essendo consentita dall’art. 4 del d.lvo 106/2006, per quanto attiene agli uffici inquirenti, ed imposta dall’art. 132 bis c.p.p., per gli uffici giudicanti. La normazione secondaria – in particolare, le delibere del C.S.M. in materia- ne ha progressivamente enfatizzato le connotazioni “premianti” e doverose, soprattutto in ragione dei principi costituzionali di buona amministrazione, di eguaglianza, di ragionevole durata del processo.

Ove pertanto la (temporanea) condizione di stallo del procedimento costituisca l’esito di scelte organizzative del dirigente dell’ufficio inquirente, risulterebbe incongruo, anche a prescindere dalle questioni di praticabilità, imporne la sistematica avocazione da parte delle Procure generali. Una simile opzione:

– finirebbe col vanificare il progetto organizzativo della Procura (anche nella parte eventualmente afferente allo smaltimento dell’arretrato);

– costituirebbe elemento distonico rispetto ad eventuali intese tra uffici inquirenti e giudicanti, ad esempio nella gestione delle richieste di fissazione dell’udienza in rapporto alle capacità ricettive dei Tribunali;

– determinerebbe conclusivamente la compromissione della finalità unanimemente riconosciuta all’istituto dell’avocazione, e cioè quella di tutela dell’efficienza del sistema e, con esso, del principio costituzionale di ragionevole durata del processo.

Sotto il profilo sistematico va poi osservato che le connotazioni di officialità di taluni istituti processuali non necessariamente devono essere associate all’obbligatorietà della loro adozione.

Appare pertanto ragionevole ipotizzare che la concreta operatività delle avocazioni di cui all’art. 412 comma 1 c.p.p., per quanto specificamente attiene alle tematiche qui in trattazione, possa essere organizzata in modo selettivo, rinunciando a tale soluzione laddove la condizione di stallo del procedimento penale costituisca esplicazione dei criteri di priorità tracciati dal Procuratore nel progetto organizzativo dell’ufficio[33] ed eventualmente oggetto di coordinamento con l’ufficio giudicante ovvero ancora nei casi in cui il procedimento penale sia connotato da una pluralità di indagati e/o di fattispecie criminose connesse, oggetto di iscrizione in tempi diversi, e non integralmente pervenuti a scadenza del termine. Non sembrano invece sussistere dubbi in ordine alla praticabilità delle avocazioni in relazione ai procedimenti a termine scaduto per l’unico indagato o per tutti gli indagati,  non ancora definiti, aventi ad oggetto illeciti penali compresi nelle “priorità” normativamente o tabellarmente tracciate,  ovvero ancora, come da indicazioni del C.S.M.,  nei casi in cui la definizione del procedimento richieda il compimento di attività investigative, non più utilmente esperibili dalla Procura della Repubblica proprio per l’intervenuto decorso dei termini di indagine. Su quest’ultimo punto, giova infatti rilevare che l’elaborazione di criteri di priorità riguarda la sola definizione dei procedimenti penali, e non legittima alcuna rinuncia allo svolgimento, direttamente o tramite deleghe, dell’attività investigativa, che pertanto dovrà essere espletata al fine di pervenire alle determinazioni conclusive.

La necessità di limitare il ricorso alle avocazioni nei casi in trattazione è stata infine affermata anche dal C.S.M. che, con la delibera in risposta a quesito 11.5.2016, ha demandato alle Procure generali presso le Corti d’appello il compito di individuare criteri determinati per il corretto esercizio del potere di avocazione, auspicando soluzioni “selettive”.

Va peraltro conclusivamente osservato che, laddove si imponesse alle Procure generali un automatismo avocativo su tutti i procedimenti a termine scaduto del distretto, la questione afferente ai criteri di priorità nella definizione degli affari penali verrebbe a riproporsi nell’organizzazione dell’ufficio centralizzato di secondo grado, in relazione al quale non è nemmeno normativamente sancita l’adozione di progetti organizzativi dai contenuti analoghi a quelli previsti per le Procure ordinarie della Repubblica.

5. Brevi osservazioni conclusive.

            A conclusione di questa breve disamina della trama normativa primaria e secondaria è possibile formulare qualche ulteriore osservazione.

Innanzitutto, non è francamente dubitabile l’ammissibilità di soluzioni organizzative, anche da parte della magistratura inquirente, consistenti nell’elaborazione di moduli cronologici nella definizione degli affari penali, dai variegati contenuti, come sommariamente illustrato nei precedenti paragrafi. Tali opzioni rientrano a pieno titolo nella cultura dell’organizzazione, la cui ineludibilità è da tempo affermata non solo dall’organo di autogoverno ma anche in contesti sovranazionali[34].

Tali soluzioni, se da un lato possono evidenziare una possibile tensione con il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, dall’altro lato sembrano supportate da principi di pari grado nella gerarchia delle fonti, tra cui quello di ragionevole durata del processo e di buona amministrazione.

E’ vero invece, sotto diverso profilo, che gli sforzi profusi dalla magistratura nella ricerca di soluzioni virtuose che consentano di tamponare gli effetti di croniche e sempre più gravi carenze di risorse rischiano di produrre conseguenze paradossali, alimentando una sorta di permanente attendismo da parte di chi ha responsabilità gestionali politico-amministrative, e perpetuando all’infinito una sorta di “stress test” agli uffici giudiziari, saggiandone la capacità di tenuta anche a fronte di gravi criticità e rinunciando a rimuoverne le cause.

La consapevolezza di tale rischio non può tuttavia giustificare soluzioni immobiliste, di rinuncia all’adozione di misure di razionalizzazione nell’organizzazione del lavoro, nella fideistica quanto illusoria attesa di una radicale eliminazione dei fattori ostativi al puntuale esercizio della giurisdizione.


[1] La Corte costituzionale, con sentenza n. 88/1991, ha sottolineato come il principio di obbligatorietà dell’azione penale costituisca “punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale..il cui venir meno ne altererebbe l’assetto complessivo”. In altra pronuncia, la n. 84/1979, la stessa Corte precisava che “l’obbligatorietà dell’azione penale …concorre a garantire da un lato l’indipendenza del pubblico ministero nell’esercizio della propria funzione, dall’altro, l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale”.

[2] Solo a titolo esemplificativo, per quanto attiene al dibattito all’interno della magistratura, v. Spataro, Le priorità non sono più urgenti e comunque la scelta spetta ai giudici, in Cass. pen. 2015, p. 3401

[3] V. Zagrebelsky, Una filosofia dell’organizzazione del lavoro per la trattazione degli affari penali, in Cass. pen. 1989, p. 1615

[4] G. Ichino, Obbligatorietà e discrezionalità dell’azione penale, in Quest.giust. 1997, p. 287

[5] V. Pacileo, Pubblico ministero. Ruolo e funzioni nel processo penale e civile”,Milano 2011, p. 207

[6] Per quanto attiene alla concreta diffusione di tali modelli, secondo quanto riferito da A. Viola, I criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti in rapporto alle funzioni di vigilanza di cui all’art. 6 del decreto legislativo n.106/06, relazione tenuta in data 11 giugno 2013, reperibile sui siti della Scuola Superiore della Magistratura – di seguito S.S.M. – e della Procura generale presso la Corte di cassazione, l’elaborazione di criteri di priorità nella gestione degli affari penali da parte dei dirigenti delle Procure ordinarie avviene all’incirca nel 50% degli uffici

[7] In Cass. pen. 1989, p. 1616

[8] Dal nome dell’estensore, all’epoca Procuratore della Repubblica di Torino. Il documento è pubblicato in Cass. pen. 1991, p. 362.

[9] Così definita, ancorchè in termini critici, da A. Rossi, Per una concezione realistica della obbligatorietà dell’azione penale, in Quest. giust. 1997, p. 309. V. anche M. Chiavario, L’obbligatorietà dell’azione penale: il principio e la realtà”, in Cass. pen. 1993, p. 2658.

[10] Dal nome dell’estensore, all’epoca Procuratore della Repubblica in Torino. Il documento è pubblicato in Quest. giust. 2007, p.617.

[11] “E’ da privilegiare la strada della richiesta di archiviazione (anche generosa) ogniqualvolta essa appaia praticabile o anche solo possibile”: cfr.supra, p. 627.

[12] Pubblicato sul sito della S.S.M.

[13] Acronimo di “sezione definizione affari semplici”.

[14] Sul punto, v. S. De Luca,Criteri di priorità nella trattazione dei fascicoli e obbligatorietà dell’azione penale,relazione pubblicata sul sito della S.S.M.

[15] Notiziario C.S.M. 31.7.1977, n. 11, p.5

[16] In Cass. pen. 1998, p. 1489

[17] La cd. “circolare Maddalena”, v. par. precedente.

[18] In particolare, la Camera penale di Torino presentò numerose segnalazioni. Per un riepilogo del dibattito, v. in particolare L. Verzelloni, Il lungo dibattito sui criteri di priorità negli uffici giudicanti e requirenti,in Arch. pen. 2014, n. 3, p.1.

[19] V. par. precedente.

[20] In particolare, il C.S.M. riteneva discutibile l’assunto, riportato nei provvedimenti in esame, secondo cui nelle fonti primarie andava affermandosi il principio di attribuzione agli uffici giudiziari della competenza ad individuare misure organizzative che consentano la trattazione degli affari con tempi coerenti alla diversa gravità dei fatti oggetto dei diversi procedimenti. Tale assunto, secondo l’organo di autogoverno, era contraddetto dall’art. 132 bis disp.att. c.p.p.

[21] Il cd. “rischio di esondazione” delle Procure generali in un’ottica di gerarchizzazione delle Procure è paventato da A. Spataro, “Prospettive di riforma: nuovi rapporti tra procuratore della Repubblica e Procuratore generale? Corretto puntuale e uniforme esercizio dell’azione penale e rispetto delle norme sul giusto processo: nuove posizioni di garanzia”, intervento tenuto al corso “Criteri di priorità delle indagini: durata, proroghe, conclusione”, Scandicci 20-22 giugno 2016, reperibile sul sito della S.S.M..

[22] Per una disamina analitica delle questioni e della correlata giurisprudenza, v. V. Pacileo, “Pubblico ministero, cit, p. 106 ss.

[23] V. in particolare la delibera 23.10.1991 nella quale testualmente si legge: “il Procuratore generale non ha più potere gerarchico sui Procuratori della Repubblica. …La gerarchia è stata eliminata non soltanto dall’ambito dei rapporti di natura giudiziaria ma anche da quelli di amministrazione della giurisdizione o dell’attività giudiziaria in genere. Infatti attualmente il Procuratore generale ha soltanto il potere di sorveglianza ex art. 16 R.D.lvo 511/1946 finalizzato all’accertamento (e, direttamente o indirettamente, anche alla prevenzione) di eventuali illeciti disciplinari e forse un diritto di impartire le direttive necessarie all’esercizio di tale potere. Non sono invece previsti normativamente altri poteri caratteristici della gerarchia primo fra tutti il potere di dettare ordini vincolanti per i subordinati. Il che comunque non esclude che i Procuratori generali e i Procuratori della Repubblica siano inseriti nella stessa struttura burocratica dell’amministrazione della giurisdizione…e che tra essi corra un rapporto di sovraordinazione. Senza impegnarsi in positivo nella qualificazione giuridica di tale rapporto sembra sufficiente in questa sede escludere che si tratti di gerarchia e sottolineare che lo speciale rapporto di sovraordinazione è caratterizzato da un generale potere di controllo (non sugli atti ma) sulle attività delle Procure della Repubblica e da un limitato diritto di autosostituzione nei casi di inerzia e di omissione specificamente previsti”.Contenuti analoghi, in relazione alla questione in trattazione, contraddistinguono anche le successive delibere C.S.M. 14.4.1993, 19.2.2004. Sul punto, v. V. Pacileo, Pubblico ministero, cit., p. 109

[24] V. ad es. Cass. I 19.1.1983, n. 98, A.A. ced rv. 157444

[25] V. ad es. Cass. 10.1.2006, n. 3622, ced rv. 233369, ove testualmente si afferma l’esistenza di una sovraordinazione gerarchica del p.g.

[26] Si veda sul punto il comunicato 25.11.2011 dei Procuratori generali presso le Corti d’appello di Torino, Brescia, Trento, Trieste, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Ancona, secondo cui il potere di controllo e art. 6 d.lvo 106/2006 non è subordinato alla presenza di istanze o esposti, e dunque può essere esercitato d’ufficio.

[27] Intervento citato ed in parte riportato da A.Viola, I criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti in rapporto alle funzioni di vigilanza di cui all’art. 6 decreto l.vo 106/2006, cit..

[28] A. Viola, I criteri di priorità , cit.

[29] In tema, v. anche G. Salvi, L’effettività della giurisdizione attraverso le scelte e la responsabilità del Procuratore: il progetto organizzativo, in Quest. giust. 2014, n.4, p. 49 ss.

[30] Conso, Grevi, Bargis, Compendio di procedura penale, Padova 2014, p. 654; V. Pacileo, Pubblico ministero, cit.,p.113.

[31] Tali considerazioni vanno riaffermate anche in relazione alle proposte di modifica dell’assetto processuale penale contenute nel d.d.l. n. 2067, in discussione parlamentare, il quale, per quanto specificamente attiene all’istituto dell’avocazione ad opera del Procuratore generale presso la Corte d’appello, sembrerebbe, quanto meno in apparenza, ribadirne le connotazioni in punto di obbligatorietà. Precisamente, ove approvato nella formulazione che attualmente risulta, l’art. 412 comma 1 c.p.p. dovrebbe essere riformulato ribadendo il ricorso all’avocazione da parte del Procuratore generale in tutti i casi in cui l’esercizio dell’azione penale ovvero la richiesta di archiviazione non vengano formalizzati entro tre mesi (ovvero entro dodici mesi in relazione a reati di particolare gravità) dalla scadenza del termine di indagine.

[32] E’ quanto avviene ad esempio nel sistema processuale francese, strutturato sulla discrezionalità dell’azione penale. In particolare, l’art. 36 del c.p.p. francese prevede che il Procuratore generale possa ordinare al Procuratore della Repubblica, con istruzioni scritte e allegate alla procedure, di procedere o di adire la giurisdizione competente (“Le procureur général peut enjoindre aux procureurs de la République, par instructions écrites et versées au dossier de la procédure, d’engager ou de faire engager des poursuites ou de saisir la juridiction compétente de telles réquisitions écrites que le procureur général juge opportunes”), e il Procuratore è obbligato ad agire in conformità alle disposizioni ricevute. Parallelamente, laddove il Procuratore della Repubblica abbia optato per l’archiviazione, la persona interessata può presentare ricorso al Procuratore generale, che può procedere come descritto nell’articolo 36 (art. 40-3 CPP: “toute personne ayant dénoncé des faits au procureur de la République peut former un recours auprès du procureur général contre la décision de classement sans suite prise à la suite de cette dénonciation. Le procureur général peut, dans les conditions prévues à l’article 36, enjoindre au procureur de la République d’engager des poursuites. S’il estime le recours infondé, il en informe l’intéressé”).

Sul punto, è interessante rilevare che nel 1997, su iniziativa dell’allora presidente Chirac, era stato conferito ad una Commissione presidenziale il compito di verificare la possibilità di introdurre il principio di obbligatorietà dell’azione penale e di sottrarre il p.m. al controllo del potere esecutivo. La Commissione nello stesso anno presentò un rapporto conclusivo nel quale si precisava che, essendo impossibile perseguire tutti i reati, non era ammissibile che una scelta di politica criminale venisse demandata ad organi non responsabili politicamente. In tema v. A. Peri, Obbligatorietà dell’azione penale e criteri di priorità. La modellistica delle fonti tra esperienze recenti e prospettive de iure condendo: un quadro ricognitivo, in www.forumcostituzionale.it

[33] Progetto di cui è prevista la trasmissione al  C.S.M., ancorchè non sia più prevista l’approvazione da parte dell’organo di autogoverno.

[34] V. ad es. la cd. Dichiarazione di Bordeaux, Strasburgo 8.12.2009, con la quale in sede europea sono state raccomandate competenze organizzative di pubblici ministeri e giudici, e l’adozione di misure formative finalizzate al raggiungimento di tale obiettivo.

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