Alienazioni in garanzia e pattuizioni marciane tipiche. Verso un possibile ripensamento del divieto del patto commissorio.

di Wilma Pagano

La legislazione speciale degli ultimi anni ha consegnato agli interpreti diverse ipotesi di pattuizioni marciane tipiche, connotate tutte, malgrado alcune differenze emergenti dalla disciplina dei contratti di garanzia finanziaria,dagli elementi caratteristici della stima imparziale del valore della garanzia, operata da un terzo al momento del realizzo, e della restituzione dell’eventuale supero che sia residuato dalla soddisfazione del creditore.

Il riferimento è all’art. 6 d.lgs. n. 170/2004 con riguardo ai titletrasferfinancialcollaterals (contratti di garanzia finanziaria che comportano il trasferimento della proprietà con funzione di garanzia), ai quali espressamente non si applica il divieto ex art. 2744 c.c.; alla disciplina del prestito vitalizio ipotecario introdotta dal d.l. n 205/2005, convertito in legge n. 248/2005, e successive modificazioni; al succitato art. 120 quinquiesdecies T.U.B. in materia di mutui ai consumatori; per finire con il d.l. n. 59/2016, convertito in legge n. 119/2016, con riguardo sia alla disciplina del pegno non possessorio che, specialmente, alla nuova figura di <<finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile sospensivamente condizionato>>, che ha determinato l’introduzione del nuovo art. 48 bis nel corpo del T.U.B.

Quanto più dettagliatamente alla fattispecie di cui all’art. 48 biscitato la dottrina ne ha evidenziato alcune peculiarità che oltrepassano l’introduzione di un’ulteriore pattuizione marciana tipica. Si tratta, infatti, di una norma che riaccende il dibattito sulla praticabilità dei trasferimenti con funzione di adempimento, nonostante l’iniziale funzione di garanzia; che desta nuovi interrogativi sulla funzione del patto commissorio; che costituisce un ulteriore strumento di autotutela esecutiva del creditore, con le conseguenti problematiche (per vero non affrontate) in materia di tutela dei terzi; probabilmente imprecisa nella parte in cui si riferisce all’inadempimento come ad una condizione sospensiva del trasferimento e riconduce la stima del terzo nell’alveo dell’art. 1349 co. 1 c.c.; oltre che di una funzionalità tutta ancora da vagliarsi nella misura in cui rende la banca potenziale proprietaria di un patrimonio immobiliare che stride con la gestione dinamica e le caratteristiche di liquidità dell’attività bancaria.

Orbene, ammesso che vi sia spazio per la predisposizione in autonomia di strumenti alternativi di realizzazione stragiudiziale del credito, ammesso anche che sia possibile, ad ordinamento vigente e de jure condendo, concepire un’adeguata tutela degli interessi dei terzi, concorrenti e configgenti, resta la questione, inter partes, della determinazione (certa) dei limiti del divieto del patto commissorio (e della correlativa ampiezza del patto marciano), giacché le alienazioni con (iniziale) funzione di garanzia, al di fuori di un orientamento giurisprudenziale per adesso permissivo ed in ogni caso non incontrastato, rimangono, ad oggi, sotto la spada di Damocle della nullità. E tanto – a volerla dire tutta – in disparte la circostanza che “non sta bene” che il legislatore resti così sensibilmente indietro rispetto alla dottrina e alla giurisprudenza in un ordinamento di civil law.

Come è noto molteplici sono solo le principali possibili rationesche la dottrina ha ritenuto applicabili al divieto del patto commissorio, dalla tradizionale tutela del debitore dalle condotte giugulatorie del suo creditore, al presidio della par condicio creditorum, al divieto dell’autotutela privata esecutiva, al rispetto del principio di tipicità dei diritti reali, al divieto di alterazione della struttura minima dell’obbligazione che contiene sempre il rischio dell’inadempimento, all’esigenza di prevenzione di comportamenti di free – riding da parte del debitore che valuti la convenienza dell’adempimento, alla tutela di un interesse pubblico alla neutralizzazione del pericolo di uno svuotamento delle garanzie reali tipiche.

Quanto al variegato panorama giurisprudenziale si registrano negli ultimi anni almeno due principali orientamenti.

Secondo un primo filone con il divieto di cui all’art. 2744 c.c. il legislatore ha inteso principalmente stigmatizzare i comportamenti coercitivi tenuti dal creditore nei confronti del debitore al momento della concessione del credito e tanto, vista l’effettiva assenza di qualsivoglia riferimento normativo all’esistenza di una sproporzione fra le prestazioni, in relazione al mero risultato conseguito con la pattuizione commissoria, consistente nel trasferimento di un proprio bene in conseguenza dell’inadempimento, irreversibile per il debitore in quanto da questi evitabile solamente con l’adempimento. Evidentemente in una simile prospettiva, sviluppatasi a partire dagli assunti delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 1989 sino ad oggi, anche il patto marciano è destinato ad assumere una luce sinistra[1].

Accanto a questo, tuttavia, ed in certi casi contemporaneamente ad esso, si è fatto spazio, riscuotendo inoltre i maggiori successi in dottrina, un diverso filone argomentativo.

Ripreso con convinzione, più che inaugurato, da una Sezione semplice della Suprema Corte di legittimità nel 2013, vi si sostiene che, prendendo le mosse dalla liceità di talune fattispecie tipiche e codicistiche di alienazioni in garanzia, fra cui in prima posizione il pegno irregolare, può argomentarsi <<a contrario che il disvalore del patto commissorio dipende dalla sua attitudine a produrre effetti che l’ordinamento ripugna e che si risolvono non già in una garanzia, ma in un eccesso di garanzia per il creditore e di responsabilità patrimoniale per il debitore[2]>>.

In altri termini il divieto in parola è posto principalmente a presidiare il debitore dagli approfittamenti e dagli abusi del creditore, i quali si materializzano, tuttavia,non tanto nella predisposizione di un trasferimento solutorio alternativo all’adempimento, quanto nella sproporzione che dovesse esistere, al momento dell’inadempimento, fra valore della garanzia e misura della pretesa creditoria.

Ed ecco, il patto marciano torna a risplendere e a potersi vantare del suo restar fuori dal divieto (e specialmente dalla sanzione) approntato dall’art. 2744 c.c.

Orbene, astraendosi dall’elegante argomentare di tutte le pronunce di legittimità alle quali si è fatto cenno, si rende evidente soprattutto un dato, e cioè che esse divergono radicalmente se riguardate dall’angolo visuale del patto marciano, così come straordinariamente convergono se osservate sul punto dell’individuazione della ratio (principale) del divieto del patto commissorio.

Si intende dire, insomma, come si è acutamente osservato, che <<la giustificazione tradizionale dell’art. 2744 c.c., fondata sulla tutela del debitore e della proporzionalità dello scambio, si è rivelata particolarmente resistente[3]>>.

È opinione di chi scrive, allora, che tale aspetto possa essere valorizzato nel quadro di un’argomentazione dotata di una qualche sistematicità, che consenta di selezionare la funzione dell’art. 2744 c.c. e, conseguentemente, di determinarne i confini, con l’auspicio che il legislatore sia presto spinto a tenere una volta per tutte salve quelle fattispecie che, malgrado una certa somiglianza, cionondimeno ne restano fuori.

In tal senso si ritiene che il divieto del patto commissorio vada letto nel contesto normativo in cui esso è inserito e per i dati che l’art. 2744 c.c. oggettivamente fornisce.

Dunque trattasi: di una norma collocata nell’ambito della disciplina codicistica generale della responsabilità patrimoniale (Libro VI, Titolo III, Capo I); di divieto; che commina per i patti contrari la sanzione della nullità.

Da tale collocazione sistematica è possibile argomentare che, verosimilmente, il legislatore con l’art. 2744 c.c. ha inteso vietare quegli accordi che, consentendo al creditore, in conseguenza dell’inadempimento del debitore, di appropriarsi del bene oggetto della garanzia costituita in suo favore, alterano la regola generale in materia di responsabilità patrimoniale, che tutela così il debitore come i creditori concorrenti, in base alla quale il patrimonio del debitore è sottoposto alla pretesa creditoria solamente nei limiti del valore della pretesa medesima.

Ma allora – si potrebbe obiettare – per il debitore abusato il legislatore ha predisposto l’azione di rescissione e ai creditori pregiudicati dalle furberie del debitore l’ordinamento ha riservato l’azione revocatoria. Perché la nullità? Perché il problema – lo si comprende ben presto – (più e prima che la ragione del divieto) è la ragione della nullità.

Ebbene si badi che la pattuizione commissoria che si connoti per uno squilibrio infradimidiumnon sembra rivestire i panni rassicuranti della fattispecie irrilevante perl’ordinamento come un qualunque altro contratto dal contenuto più o meno sbilanciato, in quanto è la funzione di garanzia il tratto caratteristico dell’accordo che ne determina il regime giuridico.

Quanto all’azione revocatoria, anche in tal caso essa non pare calzare alla perfezione alla fattispecie commissoria. Invero nella struttura dell’art 2901 c.c. la posizione del creditore è limitata alla figura del terzo avente causa dal solerte debitore ed ha una rilevanza, sì fondamentale (in quanto la partecipazione psicologica del terzo è presupposto necessario dell’azione quando l’atto contro cui si agisce sia a titolo oneroso), ma non determinante, poiché la tutela è azionata da un atto pregiudizievole per il creditore volutamente compiuto dal debitore e non invece in qualche misura a questi imposto dal terzo creditore, il quale – si vuole dire – partecipa ma non determina la fattispecie suscettibile di revocatoria.

Insomma non si può forse arrivare a dire che, in assenza dell’art. 2744 c.c., il terzo creditore pregiudicato non avrebbe potuto agire in revocatoria avverso la pattuizione commissoria, e tuttavia la sensazione è che in questo patto vi sia qualcosa di più che un semplice atto in pregiudizio degli altri creditori.

Invero un accordo che consenta a qualunque creditore di convenire con il debitore di sottrarsi sin da subito al rischio dell’inadempimento e di ampliare quasi sempre la misura della suapretesa sul patrimonio del debitore, pur restando in astratto un chirografario, lede, in una, la libertà contrattuale del debitore, in considerazione dell’endemico stato di bisogno in cui versa chi cerca il credito e senza considerare che meno la sua condizione è di bisogno nel momento della domanda più questi, presumibilmente, nutrirà la convinzione di poter restituire il finanziamento; la tendenziale parità di trattamento fra tutti i creditori che non siano muniti di cause legittime di prelazione, essendosi al cospetto di una pretesa non solo esuberante rispetto al credito ma anche in una qualche misura incerta, in quanto elastica in relazione alle vicende dell’adempimento; la regola generale di equilibrio che regge la responsabilità patrimoniale ed è al fondamento dello spostamento stesso delle ricchezze.

Quale creditore che potesse confidare nell’ampliamento della propria garanzia patrimoniale, infatti, non se ne approfitterebbe? E se ognuno di essi si premunisse di una pattuizione commissoria, quale di questi avrebbe, infine, la certezza della misura della pretesa creditoria dei creditori concorrenti? E, infine, quale creditore che si imbattesse in una pretesa creditoria così slabrata rischierebbe di fare credito allo stesso debitore senza altrettante garanzie reali? E che ne è del debitore? Dovrà impegnare alla fine tutto il suo patrimonio anche per ricevere il più banale dei prestiti?

Proprio in questo sta l’equivoco, ad avviso di chi scrive, che ha indotto nel tempo a ripudiare la ratio di protezione invocando la disciplina della rescissione. Se anche nel contesto che ci occupa c’è un contratto, non è all’equilibrio del contratto che ha avuto riguardo ivi il legislatore, chè altrimenti sarebbe bastata la rescissione e la norma si sarebbe trovata nel Libro IV (e non nel Libro VI) del codice civile, quanto piuttosto alla regola di equilibrio, nel senso di principio di proporzionalità, che regge (più che regolare) il corretto dispiegarsi della responsabilità patrimoniale.

Gli è, allora, che in questo quadro assume significato la sanzione della nullità che si abbatte sulla pattuizione commissoria. Essa acquista, ci sembra, le fattezze di una nullità di protezione funzionale alla tutela di un interesse pubblico[4]. In altri termini la protezione del debitoredagli eventuali abusi del creditore in fase di concessione del credito risponde all’esigenza di apprestare tutela al più ampio interesse generale al rispetto della regola fondamentale (di proporzionalità) di funzionamento della responsabilità patrimoniale nella prospettiva del presidio della circolazione delle ricchezze (collegata all’erogazione del credito) dall’anchilosamento che potrebbe derivarle da un’incontrollata situazione predatoria mascherata di autonomia negoziale.

Ed invero l’idea del collegamento, nelle nullità di protezione, fra interesse individuale ed interesse pubblico è piuttosto diffusa anche nella dottrina che si è occupata delle prime dichiarate nullità di protezione apparse nella disciplina consumeristica sin dalla direttiva 93/13/CE. È noto, infatti, come la protezione del consumatore – come anche dell’impresa debole – sia stata pressoché unanimemente letta in chiave strumentale alla tutela della struttura concorrenziale del mercato interno[5].

Altre nullità di protezione permeate di interesse pubblico, più che pubblicistico, figurano, poi, nell’ordinamento anche in contesti di debolezza contrattuale in cui si prescinde, ciononostante, dalla partecipazione del consumatore.

È questo il caso tipico dell’art. 1815 c.c., come modificato dalla legge n. 108/1996, che in materia di mutuo, ed in concreto specialmente di mutuo bancario, ha sanzionato di nullità la clausola con la quale siano stati convenuti interessi usurari con la conseguenza, secondo la consueta parzialità delle nullità di protezione, che, in tal caso non è dovuto alcun interesse.

Parimenti è a dirsi della nullità del contratto di locazione che sia privo del requisito della forma scritta, a cagione di un’illecita imposizione che sia provenuta dal locatore al conduttore, ai sensi dell’art. 13, comma 5, legge n. 431/1998, così come recentemente restituito dall’interpretazione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione[6].

Così nemmeno pare abbia consistente fondamento l’eventuale obiezione che muova dall’assenza del regime giuridico tipico delle nullità di protezione, con particolare riguardo specialmente all’assenza di una legittimazione attiva relativa e della specificazione della rilevabilità d’ufficio nell’interesse della sola parte protetta.

In primo luogo l’art. 2744 c.c. è norma risalente alla codificazione del 1942 mentre questa speciale irreggimentazione delle nullità di protezione è frutto, sostanzialmente, della legislazione consumeristica di matrice europea, espressione di una scelta di politica legislativa per certi versi condivisibile ma non anche per ciò solo, oltre che in maniera tautologica, idonea ad escludere che di protezione potessero essere anche nullità concepite innanzi e diversamente regolate.

Tanto in disparte la circostanza che non sono mancate voci in dottrina che, in tempi non sospetti, diffidavano della costituzione di una categoria autonomia, con un proprio separato regime, di nullità relative, valorizzando la lettera, più che il non detto, dell’art. 36 co. 3 d.lgs. n. 206/2005, per argomentare che si tratterebbe sempre di una nullità assoluta rilevabile d’ufficio dal giudice oltre che da chiunque ne abbia interesse, consumatore, professionista o terzo che sia[7]. Un’impostazione simile, quindi, è tornata nella giurisprudenza della Suprema Corte, allorquando, nella sua massima composizione, ha sostenuto che il giudice abbia sempre il potere – dovere di rilevare in via ufficiosa il vizio di nullità, anche quando si tratti di nullità di protezione in quanto esse sono <<volte a tutelare interessi generali, quali il complessivo equilibrio contrattuale (in un’ottica di microanalisi economica) ovvero le stesse regole di mercato ritenute corrette (in un’ottica di macroanalisi), secondo quanto chiaramente mostrato dalla disciplina consumeristica, specie di derivazione comunitaria, per le quali si discorre sempre più spesso, e non a torto, di “ordine pubblico di protezione”>>, al punto tale che <<il potere del giudice di rilevare la nullità, anche in tali casi, è essenziale al perseguimento di interessi che possono addirittura coincidere con valori costituzionalmente rilevanti, quali ilcorretto funzionamento del mercato (art. 41 Cost.) e l’uguaglianza quanto meno formale tra contraenti forti e deboli (art. 3 Cost.)[8]>>.

A tal proposito occorre segnalare, tuttavia, come il dibattito interno alla giurisprudenza della stessa Corte di Cassazione non sia del tutto sopito, come emerge se si pone mente ad una nota pronuncia che a distanza di poco tempo ha, in pratica, disconosciuto la rilevabilità ufficiosa delle nullità di protezione[9].

In ogni caso non vi è dubbio che, imboccata questa strada interpretativa, il vizio di nullità perde alcuni dei tradizionali connotati di eccentricità nella sede dell’art. 2744 c.c. oltre a soddisfare quell’autorevole lettura di questo sottotipo estremo di invalidità, ed in modo particolare della nullità virtuale, in termini di vizio dell’atto che si abbatte sulle statuizioni che negano l’interesse protetto dalla norma, il quale risiede, nel caso del divieto del patto commissorio, nella limitazione della responsabilità patrimoniale alla misura della pretesa creditoria[10].

Ora, però, individuata la ragione della nullità nella sua funzione di protezione del debitore dai possibili soprusi del creditore a tutela del più diffuso interesse alla conservazione di una regola di proporzionalità nella disciplina della responsabilità patrimoniale, non si è ancora presa posizione rispetto ai due principali orientamenti della giurisprudenza di legittimità riferiti innanzi, ovvero sulla questione se sia nullo ogni trasferimento a scopo di garanzia, in quanto da sé solo espressione dell’approfittamento del creditore, ovvero se siano pattuizioni commissorie, e in quanto tali nulle, solamente quelle fattispecie traslative con funzione digaranzia nelle quali figuri una sproporzione, quale che ne sia la misura, tra la pretesa creditoria ed il valore della garanzia incamerata.

Ad onor del vero basterebbe a risolvere l’enigma il principio di conservazione del contratto, annoverato espressamente dall’art. 1367 c.c. e comunque ricavabile, tra le altre, dalle norme in materia di nullità parziale, di conversione del contratto nullo, di convalida del contratto annullabile, di reductio ad aequitatem del contratto rescindibile, sicché non dovrebbe essere possibile estendere il vizio, specialmente quando sia così tombale, oltre la misura in cui esso possa già adempiere alla funzione che gli è propria.

Epperò questa soluzione apparirebbe troppo sbrigativa e comunque, se non monca, quanto meno ermetica.

Due elementi, allora, pare possano fare da bussola dell’argomentare: la meritevolezza dell’autotutela esecutiva e (ancora) la funzione della nullità del patto commissorio.

Non sembra ricorrere una concreta motivazione giuridica per limitare l’autonomia negoziale delle parti che convengano di gestire per via negoziale l’eventuale realizzazione coattiva della pretesa creditoria. Ebbene la pattuizione di un trasferimento condizionato all’inadempimento esprime certamente uno strumento, del tutto legittimo, di autotutela esecutiva, sì che non vi sarebbe ragione di scagliarvi contro gli strali della nullità. D’altra parte, la dottrina più recente ha abbattuto la maggior parte delle riserve avanzate nel tempo rispetto alla praticabilità stessa, sotto il profilo casuale, di un trasferimento solutorio.

Per altro verso è la stessa funzione che si è ritenuto di poter individuare nella nullità ex art. 2744 c.c. che conduce con serenità ad asserire che pattuizione commissorie, in quanto tali nulle, siano solamente quelle fattispecie traslative con funzione di garanzia connotate dal requisito della sproporzione. Ed infatti, se il legislatore ha inteso preporre la nullità del patto a presidio (dell’interesse, che travalica la sfera giuridica del debitore direttamente coinvolto, al mantenimento) della regola di proporzione della responsabilità patrimoniale, è evidente che allorquando essa sia rispettata, attraverso la pattuizione della restituzione dell’eventualesupero, valutato da un terzo estimatore, al momento del realizzo, svanisca anche il vizio e con esso la ragione della nullità.

In questo senso si coglie – è intuitivo – anche il motivo per il quale nell’art. 2744 c.c. non sia fatto alcun cenno alla sproporzione che deve connotare il patto. Essa, infatti, è la ragione (che il legislatore ha probabilmente ritenuto) così evidente della nullità del patto commissorio, come disciplinato a suggello dell’enunciazione della regola della responsabilità patrimoniale, della tipicità delle cause legittime di prelazione e del principio della par condicio creditorum, da esser stata lasciata (con risoluzione rivelatasi poi infausta) allo spazio dell’implicito.

Si badi, poi, mentre la dichiarazione di nullità dell’alienazione in garanzia sproporzionata giova al debitore, agli altri creditori e al generale interesse, nei termini di cui si è detto, al mantenimento della proporzionalità della responsabilità patrimoniale, non è chiaro a chi giovi l’abbattimento indiscriminato dei trasferimenti con funzione di garanzia per così dire equilibrati. Non al creditore – acquirente, che all’evidenza è il primo interessato, ma nemmeno al debitore e ai creditori concorrenti, laddove il primo eviterà le spese e le lungaggini della procedura esecutiva giudiziale (non potendosi certo accordare protezione al debitore che speri in tali sbavature temporali della tutela processuale per non pagare, poi, né spese né creditore), mentre i secondi si gioveranno della speditezza della procedura stragiudiziale e della sua tradizionale maggiore proficuità nella misura in cui potranno confidare in una propria soddisfazione più prossima e più effettiva (se si considera che la realizzazione di un supero è una sorta di utopia nella processo esecutivo).

Da tutto questo argomentare, allora, ad uscire bello lustro è il patto marciano, non solo lecito, perché del tutto al di fuori del divieto del patto commissorio, ma anche meritevole di tutela, così come richiesto per ogni contratto atipico, quale anch’esso è, dall’art. 1322 co. 2 c.c.

Ma – è risaputo – il mercato ha bisogno certezze, preferendo altrimenti di percorrere le infinite strade alternative che i suoi operatori hanno dimostrato di sapersi aprire! Ed allora non solamente ragioni di carattere sistematico, ma anche motivi di politica economica, sulla falsariga della strada intrapresa negli altri Paesi europei, dovrebbero condurre il legislatore a “fare outing”, uscendo dall’ombra e valutando l’opportunità di conferire veste legale e generale al patto marciano con i suoi caratteri tipici, così come gli sono, del resto, già stati riconsegnati, da ogni parte, dalla prassi, dalla dottrina e dalla giurisprudenza.


[1]Il richiamo è a Cass. civ, Sez. Un., 3 aprile 1989, n. 161, nonché alla pronuncia gemella Cass., Sez. Un., 21 aprile 1989, n. 1907. Quanto alle più recenti decisioni di legittimità che si sono fatte interpreti di questo orientamento, cfr. Cass., Sez. I, 17 aprile 2014, n. 8957, in Dir.&Giust., 2014, p. 2530, con nota di F. VALERIO, Patto di riscatto o patto commissorio? Ciò che conta è lo scopo perseguito dalle parti; Cass., Sez. II, 10 marzo2011, n. 5740, in Giust. civ., 2011, 6, p. 1449, con nota di G. ADILARDI, Brevi osservazioni in tema di pattocommissorio, causa concreta e patto marciano; Cass., Sez. II, 5 marzo 2010, n. 5426, inGiust. civ. mass., 2010,3, p. 329; Cass., Sez. II, 12 gennaio 2009, n. 437, in Giust. civ. mass., 2009, 1, p. 39.

[2]Così Cass. 9 maggio 2013, n 10986, in Vita not., 2013, 2, p. 719; negli stessi termini si veda più di recente Cass., Sez. II, 21 gennaio 2016, n. 1075, in Dir.&Giust., 2016, 5, p. 32, con nota I. PETROLETTI, Laretrovendita è nulla se stipulata per causa di garanzia e non di scambio; Cass., Sez. I, 28 gennaio 2015, n. 1625,in Riv. not., 2015, 1, p. 182.

[3]La notazione è di C. DE MENECH, Il patto marciano e gli incerti confini del divieto di patto commissorio,in Contratti, 2015, 8 – 9,p. 833. A conclusioni sostanzialmente analoghe giunge anche, in un’annotazione di Cass., Sez. II, 21gennaio 2016, n. 1075, N. A. VECCHIO, Il divieto di patto commissorio e la causa delle alienazioni – ilcommento, in Contratti, 2016, 5, p. 426.

[4]Sul punto del collegamento fra norme di protezione ed interesse pubblico cfr. S. POLIDORI, Nullità diprotezione ed interesse pubblico, inRass. dir. civ., 2009, 4, p. 1019. Qui l’Autore evidenzia il passaggio,attraverso la rivoluzione copernicana inaugurata dalla Carta costituzionale del 1948, dalla nozione di interesse superindividuale, <<che trascende la sfera dei privati ponendosi, rispetto ad essa, in posizione poziore […]>>, a quella di interesse pubblico, <<che deve essere soddisfatto affinché altri interessi individuali siano a loro volta soddisfatti>>. Con l’avvento del diritto dell’Unione, poi, si è osservato, l’interesse pubblico, così come innanzi delineato, è <<soprattutto rivolto all’introduzione e alla garanzia del libero competere fra le imprese>>.

[5]Si veda ex multis E. GABRIELLI, Mercato, contratto e operazione economica, in Rass. dir. civ., 2004, IV, p. 1047; G. AGRIFOGLIO, L’abuso di dipendenza economica nelle prime applicazioni giurisprudenziali: tratutela della parte debole e regolazione del mercato, in Europa dir. priv., 2005, p. 253; R. MANCO, Spunti per una rilettura sistematica della tutela del consumatore nella disciplina antitrust, inRass. dir. civ., 2006, II, p.562; L. DELLI PRISCOLI, La tutela del consumatore fra accertamento della non professionalità del suo agire,tutela della concorrenza e affidamento della controparte, in Contratto e impresa, 2007, p. 1533; F.LONGOBUCCO, Obblighi di protezione e regole di concorrenza nella contrattazione di (e tra) impresa (e), in Contratto e impresa Europa, 2010, I, p. 41.

[6]Cass., Sez. Un., 17 settembre 2015, n. 18214, così massimata: <<Il contratto di locazione ad uso abitativo stipulato senza la forma scritta ex art. 1, comma 4, l. n. 431 del 1998 è affetto da nullità assoluta, rilevabile daentrambe le parti e d’ufficio, attesa la “ratio” pubblicistica del contrasto all’evasione fiscale; fa eccezione l’ipotesi prevista dal successivo art. 13, comma 5, in cui la forma verbale sia stata abusivamente imposta dal locatore, nel qual caso il contratto è affetto da nullità relativa di protezione, denunciabile dal solo conduttore. Invece, se l’assenza di forma è riconducibile a volontà esclusiva o concorrente del conduttore il locatore potrà agire per ottenere la restituzione dell’immobile occupato senza titolo>>.

[7]Il riferimento è a R. QUADRI, <<Nullità>> e tutela del <<contraente debole>>, in Contratto e impresa, 2001, p. 1146.

[8]Così Cass., Sez. Un., 12 dicembre 2014, n. 26243, su cui si veda C. SCOGNAMIGLIO, Il pragmatismo deiprincipi: le sezioni unite ed il rilievo officioso delle nullità, in Nuova Giur. Civ., 2015, 4, p. 197. Invero laSuprema Corte di legittimità opera una distinzione fra la rilevazione ufficiosa del vizio e la sua dichiarazione, operabile dal giudice esclusivamente sulla base di un’istanza avanzata dalla parte destinataria della norma di protezione. Questa distinzione ritorna, successivamente, in Cass., Sez. III, 20 gennaio 2016, n. 896.

[9]Il richiamo è alla già citata Cass., Sez. Un., 17 settembre 2015, n. 18214, ove si legge, con riferimento alla nullità del contratto di locazione mancante della forma scritta a cagione di un’imposizione cui il locatore abbia sottoposto il conduttore: <<E’ in tal caso che il conduttore sarà il (solo) soggetto legittimato a chiedere che la locazione di fatto, nulla per vizio di forma, venga ricondotta a condizioni conformi a quanto previsto in relazione al canone predeterminato in sede di accordi definiti ai sensi del comma 3 dell’art. 2 ovvero ai sensi dell’art. 5, commi 2 e 3>>.

[10]Sul punto cfr. G. GUIZZI, Il mercato concorrenziale: problemi e conflitti. Saggi di diritto antitrust, in Quaderni romani di diritto commerciale, 2010, p. 197 ss., spec. p. 234, ove si legge <<[…] anziché comminareindiscriminatamente la nullità solo in ragione dell’inosservanza di una norma protettiva di un interesse pubblico, si deve circoscriverne l’applicazione unicamente ai casi in cui il permanere del contratto sia incompatibile con il valore tutelato attraverso la norma proibitiva>>.