Andrà tutto bene…

di Arturo Picciotto

Quello che è successo, e che sta ancora succedendo, ha trovato impreparato tutto il mondo.

Paesi immensi, o Stati piccolissimi e remoti. Civiltà che nel nostro immaginario erano le più avanzate; grandi produttori come grandi consumatori.

E noi ci siamo trovati nel mezzo, anzi in prima fila.

Abbiamo appena attraversato la fase più acuta, durante la quale ci siamo visti discriminare dai nostri vicini di casa, come peraltro noi avevamo fatto per primi con gli stranieri contagiati.

Ma anche nel nostro condominio, in Europa, molti ci hanno voltato le spalle.

Abbiamo reagito con coraggio e con mezzi scarsi, mettendo sotto massima pressione un sistema sanitario sul quale ormai da decenni avevamo smesso di investire. Spending review, così suona meglio. Un po’ come quelle astronavi dei film di fantascienza, abbandonate a pezzi, ma che i superstiti riescono per miracolo a far volare di nuovo, sebbene incerottate. Così anche la nostra sanità ci ha traghettato dalla disperazione e dall’abbandono verso lidi più tranquilli, consentendoci di rimanere a galla senza naufragare.

È convincimento generale che, malgrado la mancanza di risorse, il nostro sistema sanitario rimanga uno di più validi, se non il migliore. Non ho intenzione di provarlo in modo documentale: sono tanti i criteri di classificazione che si trovano in rete, e che generalmente ci vedono ai primissimi posti, malgrado i diversi indicatori utilizzati.

Ce lo ha dimostrato più semplicemente la gente, che come canta De Gregori “sa benissimo dove andare”, con quanto è accaduto in migliaia di famiglie.

Quei nostri figli che abbiamo mandato a studiare o sono andati a lavorare all’estero, vuoi in Inghilterra – dove si predica l’immunità di gregge mentre il pastore rischia la pelle – , vuoi negli U.S.A. – dove si scende in strada armati di mitragliatori automatici contro le decisioni governative, mentre i morti vengono seppelliti nelle fosse comuni-: quei nostri figli, dicevo, dove sono andati quando è scoppiata la paura?

Sono tornati a casa.

Lo hanno fatto solo perché sono dei mammoni? Oppure perché qui si sentono “più sicuri”? Nella mia esperienza personale è accaduto per questa ragione.

Questa cartina di tornasole non sarà forse spendibile per farci scalare classifiche presso l’OMS – che ha peraltro i suoi guai e che sforna pareri diversi come noi modifichiamo le autocertificazioni –: ma rappresenta un indicatore socialmente apprezzabile, positivo, che ci riempie di orgoglio, di speranza, ma anche di responsabilità.

Orgoglio. Da oggi l’“Italian style”, che ci rende fieri, assume un più profondo significato. Magari la nostra economia non tira, sicuramente spendiamo male i soldi pubblici: ma abbiamo – ancora, e nonostante tutto – una “sicurezza sociale” altamente invidiabile. E questo è motivo di compiacimento.

Speranza. È quella di riuscire tutti insieme, con i nostri cari e i nostri amici e i nostri colleghi, a superare quanto prima questa esperienza drammatica senza che il “Sistema Italia” collassi.

Responsabilità. Questo concetto, questo sentimento lo vorrei coniugare in tre tempi.

Una responsabilità che guarda al passato. Noi Paese, noi istituzioni, noi cittadini, tutti ed inscindibilmente noi non abbiamo fatto quanto potevamo per garantire i soggetti più deboli. Quegli anziani che abbiamo perso e che con il loro lavoro ci hanno consentito di godere del benessere più duraturo che mai sia stato vissuto dagli italiani. Non lo abbiamo fatto, a causa di scelte politiche, economiche e sociali sulle quali non posso intrattenermi, nello spirito solo propositivo che mi ha spinto a scrivere queste righe.

Una responsabilità attuale. Dobbiamo cambiare il nostro modo di lavorare, di fare scelte, di vivere. Dobbiamo da subito traguardare ogni nostra azione al valore primario della solidarietà, e comprendere perché avevamo omesso di farlo nel passato. Consideriamolo un tributo morale, un ex voto per avercela fatta a costi tutto sommato limitati.

Una responsabilità futura. L’imperativo – sul quale siamo chiamati a riflettere – è quello di impedire con ogni mezzo che questa tragedia ne apra altre. Evitare che quanto successo diventi occasione di scontro tra classi di cittadini e professionisti, di rivendicazioni egoistiche, di speculazioni socialmente ed economicamente insostenibili.

Mi riferisco a quelle iniziative pseudolegali che già stanno iniziando a diffondersi in modo ancora silenzioso, a quei messaggi che al momento rimangono ancora latenti, forse per la malcelata pudicizia di chi ieri plaudiva ai balconi e domani agiterà metaforiche forche, e che hanno ad “oggetto” gli anziani.

Quegli anziani che, non certo per loro volontà, stavano vivendo l’ultima parentesi della loro vita in “case di riposo”, o in strutture assistenziali, le RSA, consumandosi inesorabilmente senza magari il conforto di visite o aiuti.

Questi anziani, oggi, non diventino l’occasione per un arricchimento immorale.

Sia ben chiaro. Se ci sono state responsabilità, dovrà esservi una risposta giudiziaria rapida. Se reati sono stati commessi, dovranno essere accertati e puniti. Ma senza nessuna speculazione.

Ma siamo anche realisti, pur rischiando di essere impopolari verso taluni.

Quanti figli o nipoti inconsolabili, quanti fratelli affranti vediamo agire in giudizio in cause di incidentistica stradale, o di malpractice medica, per ottenere il risarcimento del danno dovuto alla perdita di rapporto parentale?

E quante cause del genere corriamo il rischio di vedere radicate dopo questi accadimenti?

E allora vengo al dunque.

Questo momento e questa occasione devono essere colti dalle forze politiche perché individuino solo nello Stato il soggetto che si assumerà in prima persona il peso dell’accaduto, decidendo normativamente di attribuire natura indennitaria e non risarcitoria al pregiudizio che sia stato concretamente subito da chi ha perso un proprio caro in occasione di questa imprevedibile tragedia.

Non rendite di posizione, peraltro ciecamente uguali per tutti, e che vedono economicamente parificata la morte del congiunto, causata dall’investitore ubriaco, a quella conseguita alle scelte del primario o del responsabile di un reparto ospedaliero o di una RSA senza risorse.

Piuttosto che risarcimenti milionari che non hanno pari in Europa e nel mondo, e che destano lo stupore degli osservatori qualificati, si disponga un aiuto concreto a chi ne abbia realmente bisogno.

Non lasciamo che siano i protagonisti dei processi civili ad amministrare clausole stantie, ad arrampicarsi sulle pareti infide della prognosi postuma, ad esigere domani nell’agone giudiziario – ed in nome della “miglior scienza ed esperienza” – quei comportamenti che soltanto ieri non era neanche lecito immaginare.

Invece che dare risonanza sui giornali a questa class action o a quella sentenza di risarcimento milionario, e spaccare così ancora una volta le classi ed il Paese, serve oggi una scelta normativa coraggiosa, frutto auspicabilmente di un dibattito serio.

Occorre aprire la strada, in questo spirito coraggioso ed emergenziale, verso una rilettura del sistema risarcitorio, distinguendo quelle conseguenze che sono frutto di comportamenti delittuosi o comunque riprovevoli, da quelle che invece non trovano la loro genesi in comuni azioni illecite. Le prime sono e rimangono da giustiziare anche nei processi civili; le seconde saranno solo da indennizzare, in quanto causate da distorsioni – comunque sanzionabili – di apparati pubblici, quello sanitario tra tutti, che sono istituzionalmente deputati a garantire la persone ed il loro benessere.

Oggi queste conseguenze, così differenti nella loro genesi, sono accomunate nelle nostre aule nell’applicazione degli stessi sistemi risarcitori tabellari, pur nelle diversità del caso concreto, e ferma la modesta discrezionalità nell’“appesantire” un punto o nell’“esistenzializzare” un danno.

È il momento di pensare a formule compensative diverse, a risparmi fiscali per i superstiti, ad assistenze sanitarie gratuite (dirette per le vittime o indirette per i soggetti colpiti di rimbalzo), ed in ultima analisi a supporti finanziari, frazionati sotto forma di rendite, piuttosto che a veri e propri tesoretti spesso frutto di speculazione.

È quindi nostra responsabilità, declinata al futuro, eludere speculazioni nelle aule di giustizia, evitare quella persecuzione giudiziaria delle strutture sanitarie e della classe medica che non ha eguali al mondo.

Occorre una riappacificazione che riposi in ultima analisi sul patto sociale, riconoscendo e mostrando così nei fatti concreti anche riconoscenza per quello sforzo, immane ed eroico, che ha causato centinaia di morti nelle fila di quel personale sanitario che domani, altrimenti, sarà inesorabilmente trascinato nelle aule di giustizia.

Chi è colpevole di reati paghi. Ma che sia lo Stato a ristorare in via indennitaria soltanto coloro hanno realmente ed effettivamente subito un pregiudizio.

In questo non saremo soli, ed anzi arriveremo in buon ritardo rispetto a Paesi che da molti anni hanno messo su piani alternativi la responsabilità civile rispetto a ristori di natura indennitaria.

In Svezia esistono fin dagli anni’70 del secolo scorso schemi compensativi che coprono i danni alla persona, i pregiudizi subiti – tra l’altro – per effetto di una negligenza medica e di un farmaco difettoso. Come riportato in un lavoro di imminente pubblicazione di uno dei massimi comparatisti mondiali (M. Bussani, L’illecito civile, ed. ESI) il raggio di applicazione riservato a queste forme di tutela viene riservato in diversi Paesi come Finlandia (1987), Norvegia (1988), Danimarca (1992), Francia (2002) e Belgio (2010) ai pregiudizi cagionati dall’attività medica.

Non sono un sociologo del diritto, né un comparatista, e non ho i mezzi e le capacità per andare oltre nell’affrontare questo argomento: ma mi sento socialmente responsabile, e penso che tacere oggi su questi argomenti significherebbe tradire il patto sociale che ci lega, che ci ha fatto affacciare a sventolare il tricolore, o disegnare arcobaleni, o sottoscrivere elargizioni, o esprimere riconoscenza sulle chat.

Questa epidemia, nelle parole di Arundhati Roy, “è un portale, un cancello tra un mondo e un altro. Possiamo scegliere di attraversarlo trascinandoci dietro le carcasse del nostro odio, la nostra avidità, le nostre banche dati, le nostre vecchie idee, i nostri fiumi morti e cieli fumosi. Oppure possiamo attraversarlo con un bagaglio più leggero, pronti a immaginare un mondo diverso. E a lottare per averlo”.

Andrà tutto bene…