di David Mancini in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la Costituzione

1. La pandemia propulsore dei diritti di (alcuni) lavoratori invisibili

L’emergenza sanitaria mondiale del Covid 19 ha reso ancora più grave la situazione delle centinaia di migliaia di persone straniere che vivono in Italia da tempo, prive di permesso di soggiorno o richiedenti asilo ai quali è stata negata tutela. Essi occupano settori importanti del mercato del lavoro nazionale, ma a causa della loro condizione precaria o irregolare sono divenuti ancora più vulnerabili e serbatoio della criminalità organizzata che li recluta e impiega in condizioni di sfruttamento. Da più parti si sono levate voci, anche autorevoli[1], nell’auspicio di interventi di regolarizzazione tesi a garantire l’emersione dall’invisibilità di migliaia di persone che vivono e/o lavorano nel territorio italiano ed una conseguente migliore tutela della salute personale e pubblica. Alla luce della pandemia, la stessa Commissione europea – seppure incidentalmente, in tema di emergenza Covid 19, nelle “linee guida sull’attuazione delle disposizioni dell’UE nel settore delle procedure di asilo e di rimpatrio e sul reinsediamento (2020/C 126/02) pubblicate in data 17.4.2020[2] – afferma che, nell’ipotesi in cui i rimpatri dei migranti irregolarmente soggiornanti non possano essere effettuati, a maggior ragione in periodo di pandemia, gli Stati membri dispongono di un ampio potere discrezionale per concedere il permesso di soggiorno o altra autorizzazione così da riconoscere ai migranti irregolari il diritto di soggiornare per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura, a norma dell’articolo 6, paragrafo 4, della direttiva 2008/115/CE (“direttiva rimpatri”).

Il dibattito si è sviluppato con vigore su un tema che tradizionalmente è terreno di scontro ideologico ed elettorale, intriso di pregiudizi, ma in realtà espressione di diritti fondamentali, di affermazione del rispetto della dignità umana e di contrasto allo sfruttamento, spesso governato dalla criminalità organizzata, che nell’emarginazione e nelle vulnerabilità trova da sempre il miglior serbatoio per produrre profitti.

Al termine di un vigoroso confronto ha visto la luce l’articolo 103 nel d.l. “rilancio” che prevede una disciplina denominata “emersione dei rapporti di lavoro” che rappresenta una risposta significativa alle istanze provenienti dalle istituzioni e dalla società civile.

L’intervento presenta luci ed ombre, chiaramente rinvenibili nei commi che compongono l’articolo e che verranno sinteticamente descritti nel prosieguo. Tuttavia, in via di sintesi, si può dire che l’intervento legislativo presenta alcuni pregi. Intanto, un intervento di regolarizzazione vede la luce dopo anni e seppure improntato alla temporaneità, presenta i presupposti affinchè molti lavoratori si stabilizzino anche nel prosieguo. Ma il vero pregio della norma, simbolico prima ancora che nei fatti, è quello di accomunare sotto il concetto di emersione sia i lavoratori migranti irregolari che i lavoratori italiani (o europei).

Questa equiparazione accomuna l’impiego di migranti irregolari (ed il loro sfruttamento) al lavoro in nero a cui sono costretti i lavoratori italiani. Non esistono più vulnerabili di diversa categoria o cittadinanza; non esistono piani paralleli tra lo sfruttamento criminale da un lato ed il lavoro nero, tollerato con qualche mal di pancia, ma sostanzialmente consentito, dall’altro. Vi è semmai una progressione in cui il lavoro nero (che già ontologicamente sfruttamento) è l’anticamera di una violazione ancora più aggressiva dei diritti che, al suo vertice di disvalore, può culminare nella tratta a scopo di sfruttamento del lavoro.

Secondo un approccio autentico e complessivo, dunque, parlare di emersione di lavoratori invisibili (italiani o stranieri migranti) è un valore straordinario rispetto alla mera “sanatoria” di migranti irregolarmente soggiornanti. Un piccolo passo di un nuovo percorso con cui erodere l’area grigia del lavoro irregolare in favore della tutela dei diritti.

Accanto a questi lampi di speranza, varie ombre promanano dal testo dell’articolo 103. Intanto, la temporaneità della regolarizzazione – seppure elastica e convertibile – mal si concilia con l’affermazione di diritti fondamentali e con la loro generale valenza, anche in ragione della brevità del termine temporaneo (6 mesi) che è anche in contraddizione con la premessa delle ragioni pandemiche che, verosimilmente, si protrarranno oltre.

La condizione di partenza da cui sembra generare la norma (l’esigenza di garantire all’economia nazionale – o meglio ad alcuni settori di essa – un’ancora di salvezza; l’interesse specifico dei cittadini italiani ad avere garantiti certi bisogni primari a rischio in assenza di determinata manodopera) non pare esattamente ispirata alla tutela dei diritti dei lavoratori, ma tradisce uno spirito egoistico della comunità nazionale che vuole garantirsi – per suo diretto beneficio – la certezza di disporre dei prodotti agricoli o di ricevere i servizi di colf e badanti. Peraltro, ove la ratio del provvedimento fosse davvero quella della tutela sanitaria individuale e collettiva, le misure di emersione dal lavoro irregolare, per il loro carattere parziale e settoriale, non possono risolvere i problemi profondi che attanagliano la stragrande maggioranza dei lavoratori irregolari presenti sul territorio nazionale. Anche per risolvere il tema urgente sanitario occorrerebbe risolvere (si pensi ai lavoratori stagionali occupati in agricoltura) la mancanza di adeguate soluzioni abitative, le precarie condizioni igienico sanitarie sui luoghi di lavoro, le modalità di trasporto dei lavoratori). In questo modo la regolarizzazione si traduce in un intervento basato sulle esigenze economiche e produttive, senza attenzione al tema più ampio e complesso dei diritti.

Questo motivo ispiratore, neanche troppo velato, genera l’altro grave vulnus della norma di emersione, dato dalla indicazione esclusiva di alcuni settori di lavoro. Solo i lavoratori impiegati in certi settori e non in altri potranno accedere all’emersione. Questa limitazione appare irragionevole e iniqua e si traduce nell’abbandono nello stato sommerso dei lavoratori che – loro malgrado – abbiano operato in settori lavorativi non previsti dalla norma. C’è da augurarsi che durante i sessanta giorni necessari alla conversione del decreto legge si maturi una riflessione ampia e si introducano opportuni correttivi.

2. La vulnerabilità specifica dei lavoratori irregolari

Introdurre una normativa, seppur riduttiva rispetto a quanto invocato, di emersione di lavoratori in condizione di emarginazione e irregolarità deve essere spiegata con le necessarie premesse che descrivano in quale ampio contesto socio-economico i diritti negati dei lavoratori si collocano.

Allo sfruttamento del lavoro, nelle diverse gradazioni di disvalore, corrisponde sempre un approfittamento di uno stato di bisogno o – secondo l’accezione più evoluta – di una condizione di vulnerabilità del lavoratore, sia esso migrante extra UE, sia cittadino europeo o italiano. L’approfittamento dà luogo a soprusi e violazioni di natura talvolta negoziale, altre amministrativa o infine, penale.

Attraverso l’attuazione nazionale delle fonti internazionali, anche le norme interne si soffermano, pur se con tenori lessicali non sempre chiari e aderenti, sul concetto di vulnerabilità diversamente espresso (stato di bisogno, stato di soggezione continuativa, etc.).

Il percorso interpretativo è costantemente illuminato anche dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che valorizza lo squilibrio che caratterizza la relazione di lavoro patologica, in cui una parte non è nella facoltà di optare in autonomia per una scelta accettabile e tollerabile, diversa dalla condizione di sfruttamento a cui viene assoggettata.

Le comunità nazionali non possono restare passive e sono obbligate: – ad adottare un quadro normativo repressivo; – a porre in essere strumenti di assistenza e protezione dei diritti umani; – a prevedere strumenti per l’adozione di indagini effettive e azioni efficaci di tutela dei diritti.

Peraltro, le recenti evoluzioni normative in materia di contrasto allo sfruttamento del lavoro ed al caporalato hanno contribuito a fare chiarezza su alcuni pregiudizi diffusi: lo sfruttamento del lavoro, anche in forme gravi riconducibili alla tratta di persone, non riguarda solo i lavoratori migranti, ma anche quelli italiani. L’approfittamento illecito della vulnerabilità dei lavoratori, spesso operata dalla criminalità organizzata, germina nelle enormi sacche di lavoro nero e irregolare, che accentuano le diseguaglianze dei poteri negoziali tra parte datoriale, intermediari e lavoratori.

Con riferimento ai lavoratori migranti, è noto come la complessa disciplina che regola l’ingresso degli stranieri nel territorio italiano per motivi di lavoro prevede uno stretto collegamento tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro.

I presupposti dell’intera procedura di assunzione del lavoratore straniero consistono, da un lato, nella pubblicazione del “decreto flussi”, che annualmente determina (o dovrebbe farlo) le quote di lavoratori stranieri ammessi a svolgere un’attività lavorativa, anche stagionale, in Italia, sempre che dette quote non siano già esaurite; dall’altra, nel fatto che il primo incontro fra domanda ed offerta di lavoro debba avvenire quando l’aspirante lavoratore si trova nel suo Paese di origine. Il “progettista” di tale sistema, nella migliore delle ipotesi, non deve aver avuto una corretta idea dei meccanismi di incontro di volontà nel mercato del lavoro. Peraltro, oltre alla (in)capienza del decreto flussi, il datore di lavoro dovrebbe anche accertarsi che un medesimo lavoratore del tipo di quello richiesto non si trovi già in Italia.

Siccome il lavoratore straniero per il legislatore sembra essere ontologicamente un pericolo per l’ordine pubblico, occorre verificare l’esistenza di ragioni ostative al suo ingresso. In presenza di tutti i requisiti il lavoratore, ottenuto il nulla osta all’ingresso, procederebbe con le ulteriori fasi. In realtà, è di tutta evidenza che normalmente lo straniero fa ingresso in Italia irregolarmente (o comunque in virtù di un permesso che non consente l’esercizio di un’attività lavorativa o di un permesso stagionale) entra in contatto con un datore di lavoro (normale incontro di domanda ed offerta) e quindi, torna nel suo Paese di origine, per rientrare nuovamente in Italia, stavolta legalmente, secondo la procedura appena descritta dal testo unico sull’immigrazione e quindi, nell’ambito delle quote fissate dal decreto flussi.

Tuttavia, la migrazione economica ha carattere spesso temporaneo, soprattutto in agricoltura, per cui il ricorso al permesso di soggiorno per contratto di lavoro stagionale va per la maggiore e certamente non favorisce una presenza sul territorio nazionale del migrante nel senso di una accettabile forma di integrazione sociale.

Il complesso di regole in materia sembra essere orientato a produrre ostacoli normativi all’accesso legittimo dei migranti al mercato del lavoro, con la conseguenza della loro esposizione “ope legis” ad una condizione di vulnerabilità economica e sociale di secondo livello, che si somma a quella di partenza dovuta alla condizione di irregolarità. Questa elementare fotografia della condizione del migrante sfruttato sul lavoro – soprattutto nel settore agricolo – viene offuscata dalla propaganda della crimmigration, che tende ad avviluppare tutto in una massa indistinta in cui migranti irregolari, “caporalato”, datori di lavoro senza scrupoli sono accomunati come fenomeno quasi naturale. Il primo decreto “Salvini” (d.l. 4 ottobre 2018 n. 113) ha costituito un ulteriore esempio di approccio orientato a tutelare – apparentemente – la sicurezza pubblica a discapito dei diritti dei lavoratori migranti.

La sostanziale eliminazione di una seria politica di flussi, la residualità degli ingressi per motivi di studio o famiglia – a parte la stagionalità – ha determinato negli ultimi anni ingressi sul territorio nazionale per lo più attraverso il sistema della richiesta di protezione internazionale. Ed in questo ambito la protezione umanitaria ha giocato un ruolo prezioso. Peraltro, pur in presenza di autentiche vergogne nazionali (ad es. il ghetto di Rignano, Borgo Mezzanone, Rosarno, etc.) il sistema di accoglienza per i richiedenti asilo consentiva – in linea di massima – l’attivazione di una piattaforma di servizi di integrazione sociale e tutela dei diritti umani dei richiedenti.

La risposta normativa interna in termini repressivi dello sfruttamento del lavoro, dopo lunghi anni di lacune, ha subito una positiva innovazione nel 2016 con l’approvazione della legge 29 ottobre 2016 n. 199.

L’evoluzione interna del contrasto allo sfruttamento lavorativo ha segnato un cambio di passo con la nuova formulazione dell’articolo 603bis c.p.. I riflettori si sono accesi sullo sfruttamento del lavoro, che tanta responsabilità imputa alla parte datoriale, nonché sulla giusta considerazione del fenomeno dell’intermediazione illecita (caporalato) fino a pochi anni fa considerata la causa regina dello sfruttamento, quando invece è soltanto una concausa o spesso solo una conseguenza delle politiche miopi in tema di migrazioni, regolazione del mercato del lavoro, accesso ai diritti delle fasce deboli, contrasto alle organizzazioni criminali.

3. Il settore agricolo come traino della nuova regolarizzazione

Abbiamo anticipato circa l’iniquità della esclusione della procedura di emersione di lavoratori che abbiano operato in settori diversi da quelli espressamente previsti (si pensi tra tutti all’edilizia, al turismo, alla logistica, alla ristorazione, etc.).

Ciò si spiega anche con il fatto che il lavoro agricolo in Italia sempre più poggia sul contributo di manodopera dei lavoratori migranti. Secondo gli ultimi dati disponibili INPS riferiti al 2017 gli addetti dipendenti con regolare contratto e i lavoratori autonomi sono oltre un milione; ovviamente la rilevazione statistica INPS non conteggia i lavoratori irregolari, laddove il concetto di irregolare non si riferisce soltanto ai migranti irregolarmente soggiornanti (volgarmente detti “clandestini”) ma anche ai braccianti italiani impiegati al di fuori di una regolare contrattazione e a coloro che, pur provvisoriamente regolari (si pensi ai richiedenti protezione internazionale) non dispongono di contratto di lavoro e lavorano rigorosamente in nero.

Su circa un milione di lavoratori agricoli finora “emersi”, i migranti si confermano una risorsa fondamentale. Secondo i dati INPS, nel 2017 oltre un terzo dei lavoratori agricoli registrati con contratto regolare sono stranieri (343.977), circa il 32% del totale, di cui la metà provenienti da paesi non UE (costantemente cresciuti e poi raddoppiati nell’ultimo decennio) provenienti principalmente dall’India, Pakistan, Marocco, Tunisia e Albania.

In queste rilevazioni ufficiali non sono menzionati i lavoratori impiegati “in nero”, molti dei quali provenienti dall’Africa subsahariana, spesso in condizione di irregolarità di soggiorno e di lavoro (e dunque invisibili nelle rilevazioni INPS). La presenza di lavoratori stranieri nell’agricoltura italiana è un dato ormai strutturale e in crescita costante e a tal proposito è interessante evidenziare che se il numero degli occupati stranieri nel 2017 era pari a 2,4 milioni di persone ovvero il 10,5% dell’occupazione totale, in agricoltura rappresentano oltre il 30%degli occupati.

In base a quanto riportato dalle stime dell’ISTAT, il tasso di lavoro irregolare tra gli addetti all’agricoltura è il più alto di tutti i settori economici, attestandosi al 24,2% nel 2018 ,9%[3].

Secondo l’ultimo Rapporto Agromafie e caporalato – Osservatorio Placido Rizzotto, Flai-Cgil, sono oltre 400.000 i lavoratori agricoli (italiani e stranieri) esposti al rischio di un ingaggio irregolare e sotto caporale; di questi più di 130.000 sono in condizione di grave vulnerabilità sociale e forte sofferenza occupazionale. Inoltre, più di 300.000 lavoratori agricoli, ovvero circa il 30% del totale, lavorano meno di 50 giornate l’anno e il tasso di irregolarità dei rapporti di lavoro in agricoltura sarebbe pari al 39%.

I lavoratori sottoposti a grave sfruttamento in agricoltura non hanno tutele e diritti garantiti dai contratti e dalla legge; ricevono una paga media tra i 20 e i 30 euro al giorno; svolgono lavoro a cottimo per un compenso di 3/4 euro per un cassone da 375Kg; percepiscono un salario inferiore di circa il 50% di quanto previsto dalla contrattazione. Anche tra gli sfruttati le diseguaglianze di genere sono attuali, infatti le donne sfruttate (dai “caporali” o da datori di lavoro) percepiscono un salario inferiore del 20% rispetto ai loro colleghi. Nei gravi casi di sfruttamento analizzati in varie regioni italiane dall’Osservatorio Placido Rizzotto, alcuni lavoratori migranti percepiscono un salario di 1 euro l’ora. L’orario medio va da 8 a 12 ore di lavoro al giorno. I lavoratori che dipendono dalle vessazioni del caporale devono inoltre pagare a questi il trasporto a seconda della distanza e i beni di prima necessità. L’Osservatorio valuta in circa 30.000 il numero di aziende che ricorrono all’intermediazione tramite caporale, il che significa che tale metodo è perseguito da circa il 25% del totale delle aziende del territorio nazionale che impiegano manodopera dipendente.

Questi dati evidenziano la strutturalità del lavoro nero e dello sfruttamento nel mercato del lavoro agricolo italiano e i lavoratori stranieri stagionali in agricoltura sono le principali vittime o potenziali vittime di sfruttamento lavorativo a causa di più fattori e multiformi vulnerabilità, prima fra tutte la condizione giuridica nella quale versano. Questa consistenza endemica e strutturale testimonia la necessità di interventi altrettanto robusti basati sulla pianificazione e sulla rivoluzione del sistema di incontro di domande e offerta, che costituisce il fulcro attorno al quale si intrecciano le condizioni di vulnerabilità e gli interessi criminali.

In passato gli stranieri tendevano a lasciare il settore agricolo man mano che riuscivano a regolarizzare la loro posizione amministrativa, ma negli ultimi anni l’occupazione in agricoltura ha costituito un ricovero degradato ma rassicurante, in cui trovare una fonte di  minimo guadagno e sostentamento, seppure al di sotto della soglia di dignità.

Le politiche di chiusura delle frontiere, la restrizione dei canali di ingresso regolare, la difficoltà a mantenere una condizione continuativa di regolarità amministrativa hanno incentivato processi che a loro volta hanno spinto verso aree marginali un numero sempre più crescente di cittadini stranieri.

Il lavoro stagionale condotto in condizioni di illegalità ha riflessi sulla sicurezza e sulla sua percezione da parte dei cittadini. Esso favorisce la concentrazione di immigrati irregolari in zone spesso già degradate del Paese (il proliferare di ghetti o baraccopoli agricole) e favorisce condotte delittuose che si alimentano con le condizioni di vulnerabilità del lavoratore.

Dal 2011, le quote per lavoro dipendente non stagionale sono state ridotte drasticamente, mentre le quote per i lavoratori stagionali sono state praticamente dimezzate. Allo stesso tempo, non è stato adottato alcun provvedimento per regolarizzare i migranti senza permesso di soggiorno; l’ultima sanatoria risale infatti al 2012. In questo scenario, l’assenza di un sistema di ingresso efficace per i lavoratori stranieri, in grado di soddisfare la domanda di manodopera in settori quali l’agricoltura, è stata compensata principalmente dall’arrivo di un numero crescente di migranti dagli Stati membri dell’Est Europa, ma anche da richiedenti asilo e rifugiati extracomunitari.

Le stime dei migranti irregolari mostrano una crescita costante dal 2013 ad oggi e se al 2018 l’ISMU stimava 530mila irregolari sul nostro territorio, a seguito dell’entrata in vigore del d.l. 113/2018 entro la fine del 2020 gli irregolari in Italia potrebbero diventare quasi 700mila, anche in considerazione del fatto che i rimpatri complessivi assommano ad una percentuale irrisoria dell’’1%.

In questo contesto già drammatico (e sommerso agli occhi volutamente distratti del Paese) piomba l’emergenza Covid19 che spiega effetti devastanti su un doppio binario. Da un lato il lockdown della fase 1 e le perduranti restrizioni (soprattutto in termini di viaggi e spostamenti) delle fasi successive impediscono il reperimento della solita manodopera migrante impegnata nei lavori caratterizzati dalla stagionalità e intrinsecamente connotati dallo spostamento in relazione alle diverse coltivazioni. Dall’altro, la mancanza di lavoro, per quanto sfruttato in modi variabili, fino a pervenire a forme di asservimento ricadenti nel fenomeno della tratta a scopo di sfruttamento lavorativo, determinando un ulteriore aumento della vulnerabilità dei lavoratori, comporta ulteriori vantaggi per le organizzazioni criminali, che sono rapidissime nel fornire soluzioni alternative in momenti di difficoltà. Accanto a ciò, le gravissime condizioni dei migranti nei ghetti e nelle baraccopoli non garantiscono alcuna forma di distanziamento sociale e di cautele connesse all’emergenza pandemica.

E purtroppo anche questo intervento normativo non sembra poter essere risolutivo, anche se potrebbe almeno essere un primo passo. Non è detto neanche che l’emersione costituirà un successo. Le procedure ideate dal legislatore sono abbastanza farraginose, non di agile uso per chi si trova a vivere in condizioni di grande disagio. Per altro verso, non è chiaro se ai datori di lavoro convenga effettivamente procedere alla regolarizzazione o assunzione di lavoratori, soprattutto in un momento di grave crisi sanitaria, sociale ed economica (che richiede anche costi di adeguamento della propria attività alle linee guida dell’emergenza).
Inoltre, non sembra che l’urgenza di provvedere manifestata dai rappresentanti dei datori di lavoro, possa essere realizzata con i tempi amministrativi della procedura di regolarizzazione, pur se il comma 23 prevede la possibilità che il ministero dell’interno si avvalga dell’ausilio di agenzie di somministrazione di lavoro per un periodo massimo di sei mesi per un più rapida definizione delle procedure.

4. La disciplina dell’art. 103 del d.l. 34/2020

Con lo scopo dichiarato di garantire la salute pubblica e individuale l’art. 103 prevede che l’emersione avvenga attraverso due strade complementari.

La prima è nel comma 1, che stabilisce che i soggetti attivi corrispondenti ai datori di lavoro, italiani, cittadini UE oppure stranieri in regola con il permesso di soggiorno ex art. 9 d.lgs. 286/1998 possono presentare istanza per concludere un contratto di lavoro subordinato con cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale ovvero per dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare, tuttora in corso, con cittadini italiani o cittadini stranieri. Riguardo ai cittadini stranieri, la condizione è:

1) che siano stati sottoposti a rilievi fotodattiloscopici prima dell’8 marzo 2020;

2) che abbiano soggiornato in Italia precedentemente alla suddetta data, in forza della dichiarazione di presenza, resa ai sensi della legge 28 maggio 2007, n. 68 o di attestazioni con data certa provenienti da organismi pubblici (ad esempio un timbro di ingresso per lavoratori extra Schengen);

3) che non abbiano lasciato il territorio nazionale dall’8 marzo 2020.

Al comma 2 si descrive la seconda opzione in cui i soggetti promotori sono gli stessi cittadini stranieri, con permesso di soggiorno scaduto dal 31 ottobre 2019, non rinnovato o convertito in altro titolo di soggiorno, i quali possono richiedere un permesso di soggiorno temporaneo – il cui rilascio è previsto al comma 13 – valido solo nel territorio nazionale, della durata di 6 mesi dalla presentazione dell’istanza. Le condizioni sono che i predetti cittadini stranieri:

1) devono risultare presenti sul territorio nazionale alla data dell’8 marzo 2020, senza che se ne siano allontanati dalla medesima data;

2) devono aver svolto attività di lavoro, nei settori di cui al comma 3, antecedentemente al 31 ottobre 2019.

Se nel periodo temporaneo il cittadino straniero esibisce un contratto di lavoro subordinato ovvero la documentazione retributiva e previdenziale comprovante lo svolgimento dell’attività lavorativa nei settori di cui al comma 3, il permesso viene convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

Come detto in precedenza, i settori di attività per i quali la presente disciplina è valevole sono soltanto:

a) agricoltura, allevamento e zootecnia, pesca e acquacoltura e attività connesse;

b) assistenza alla persona per sé stessi o per componenti della propria famiglia, ancorchè non conviventi, affetti da patologie o handicap che ne limitino l’autosufficienza;

c) lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare.

E’ evidente l’iniquità della norma rispetto a coloro che hanno svolto lavoro irregolare o sono stati sfruttati in ambiti diversi come, ad esempio, l’edilizia, il turismo e la ristorazione, il settore tessile, la logistica, etc., questa limitazione non ha alcuna giustificazione rispetto alle esigenze primarie di tutela dei diritti, manifesta limiti di ragionevolezza che potrebbero anche essere oggetto di attenzione del giudice costituzionale.

Quanto ai requisiti dell’istanza, il comma 4 stabilisce che nell’istanza/dichiarazione di emersione devono essere indicati:

– la durata del contratto di lavoro;

– la retribuzione convenuta, conforme alla contrattazione

L’istanza/dichiarazione può essere presentata dal 1° giugno al 15 luglio 2020, con le modalità stabilite con separato decreto del ministro dell’interno concertato con i dicasteri di economia, lavoro, politiche agricole e secondo le tappe stabilite dal comma 12. Verosimilmente arriveranno anche delucidazioni rispetto ad espressioni generiche che potrebbero far sorgere dubbi applicativi e quesiti.

La domanda va inoltrata presso:

a) l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) se è relativa ai lavoratori italiani o per i cittadini di uno Stato membro dell’Unione europea;

b) lo sportello unico per l’immigrazione, di cui all’art. 22 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 e successive modificazioni, se riguarda i lavoratori stranieri;

c) la Questura per il rilascio dei permessi di soggiorno temporanei, di cui al comma 2.

Il separato decreto deve stabilire i limiti di reddito del datore di lavoro richiesti per la conclusione del rapporto di lavoro, la documentazione idonea, nonché le modalità di dettaglio di svolgimento del procedimento. Tuttavia, nelle more della definizione dei procedimenti, la presentazione delle istanze consente lo svolgimento dell’attività lavorativa.

Le istanze sono presentate previo pagamento di un contributo forfettario per ciascun lavoratore. E’ inoltre previsto il pagamento di un contributo forfettario per le somme dovute dal datore di lavoro (che fino al momento dell’istanza aveva beneficiato dell’impiego in nero del lavoratore emerso) a titolo retributivo, contributivo e fiscale, da determinarsi con altro separato decreto concertato.

Uno degli argomenti oggetto di avversione della normativa in questione veniva indicato nel timore di un suo uso strumentale a favore di soggetti resisi responsabili di gravi reati. E’ stata perciò prevista una causa di inammissibilità delle istanze di cui ai commi 1 e 2, limitatamente ai casi di conversione del permesso di soggiorno in motivi di lavoro, consistente nella condanna comminata al datore di lavoro negli ultimi cinque anni, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per:

a) favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’immigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite, nonché per il reato di cui all’art. 600 del codice penale;

b) intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro ai sensi dell’articolo 603-bis del codice penale;

c) reati previsti dall’articolo 22, comma 12, del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni ed integrazioni.

E’ davvero singolare che in questo elenco manchi il reato di sfruttamento lavorativo più grave, vale a dire quello di cui all’articolo 601 c.p., vera traduzione nazionale dell’obbligo di incriminare il trafficking in persons come scaturisce dal Protocollo addizionale alla Convenzione ONU di Palermo del 2000. Forse il legislatore ha ritenuto di assorbirne la portata nella disposizione di cui all’art. 600 c.p., ma così gravemente errando, salvo che nella decretazione attuativa non si voglia porre rimedio espressamente includendo l’articolo 601 c.p. al novero dei reati ostativi (seppure con modalità discutibile di interpretazione autentica a mezzo decreto di una norma di legge).

La mancata sottoscrizione, da parte del datore di lavoro, del contratto di soggiorno presso lo sportello unico per l’immigrazione ovvero la successiva mancata assunzione del lavoratore straniero costituisce causa di rigetto delle istanze, limitatamente ai casi di conversione del permesso di soggiorno in motivi di lavoro.

Sono previste cause di non ammissione alle procedure di emersione anche per i cittadini stranieri:

a) nei confronti dei quali sia stato emesso un provvedimento di espulsione ai sensi dell’articolo 13, commi 1 e 2, lettera c), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e dell’articolo 3 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, e successive modificazioni.

b) che risultino segnalati, anche in base ad accordi o convenzioni internazionali in vigore per l’Italia, ai fini della non ammissione nel territorio dello Stato;

c) che risultino condannati, anche con sentenza non definitiva, compresa quella pronunciata anche a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei reati previsti dall’articolo 380 del codice di procedura penale o per i delitti contro la libertà personale ovvero per i reati inerenti gli stupefacenti, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite;

d) che comunque siano considerati una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l’Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone. Nella valutazione della pericolosità dello straniero si tiene conto anche di eventuali condanne, anche con sentenza non definitiva, compresa quella pronunciata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei reati previsti dall’articolo 381 del codice di procedura penale.

Al comma 10 si precisa che dalla data di entrata in vigore del presente decreto fino alla conclusione dei procedimenti di cui ai commi 1 e 2, sono sospesi i procedimenti penali e amministrativi nei confronti del datore di lavoro e del lavoratore, rispettivamente:

a) per l’impiego di lavoratori per i quali è stata presentata la dichiarazione di emersione, anche se di carattere finanziario, fiscale, previdenziale o assistenziale;

b) per l’ingresso e il soggiorno illegale nel territorio nazionale, con esclusione degli illeciti di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni.

E’ stato opportuno specificare che non sono in ogni caso sospesi i procedimenti penali nei confronti dei datori di lavoro per le seguenti ipotesi di reato:

a) favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’immigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite, nonché per il reato di cui all’art.600 del codice penale (anche qui manca il riferimento all’art. 601 c.p.);

b) intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro ai sensi dell’articolo 603-bis del codice penale.

La sospensione di cui al comma 10 (che ricalca altre ipotesi di illeciti penali e amministrativi subordinati ad accertamenti e/o sanatorie) cessa nel caso in cui non venga presentata l’istanza di cui ai commi 1 e 2, ovvero si proceda al rigetto o all’archiviazione della medesima o non si proceda alla successiva stipula del contratto. Con singolare espressione si dice che si procede comunque all’archiviazione dei procedimenti penali e amministrativi a carico del datore di lavoro se l’esito negativo non sia ascrivibile al datore medesimo. In realtà la disposizione va collegata con il successivo comma 14, laddove si precisa che la stipula del contratto per i lavoratori stranieri ed il perfezionamento dell’emersione per i lavoratori italiani determina l’estinzione dei reati e degli illeciti di cui al comma 10.

Il comma 11bis prevede l’introduzione di una circostanza aggravante per l’impiego lavorativo irregolare degli istanti di cui al comma 2, poichè le sanzioni previste dall’art. 22, comma 1, del d.lgs. del 14 settembre 2015, n. 151 sono raddoppiate così come sono raddoppiate le sanzioni previste dall’art. 603 bis codice penale. La disposizione lascia abbastanza perplessi per la sua scarna formulazione che potrà eventualmente presentare non pochi problemi applicativi.

Il comma 13 prevede che il cittadino straniero che richiede il rilascio del permesso di soggiorno temporaneo di cui al comma 2 inoltri richiesta al Questore, dal 1° giugno al 15 luglio 2020, unitamente alla documentazione in possesso, individuata dal decreto di cui al comma 5, idonea a comprovare l’attività lavorativa svolta nei settori di cui al comma 3 e riscontrabile da parte dell’Ispettorato Nazionale del lavoro cui l’istanza è altresì diretta. Nelle more della definizione dei procedimenti, lo straniero non può essere espulso. All’atto della presentazione della richiesta, è consegnata un’attestazione che consente all’interessato di soggiornare legittimamente nel territorio dello Stato, di svolgere lavoro subordinato, esclusivamente nei settori di attività di cui al comma 3, nonché di presentare l’eventuale domanda di conversione del permesso di soggiorno temporaneo in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. E’ consentito all’istante altresì, di iscriversi al registro di cui all’art.19 del decreto legislativo 14 settembre 2015 n. 150 esibendo agli Uffici per l’impiego l’attestazione rilasciata dal Questore di cui al presente articolo.

La formulazione della norma lascia molti dubbi. Il cittadino straniero riceve l’attestazione che gli consente il soggiorno una volta presentata l’istanza di cui al comma 2 e gli consente anche di lavorare, ma solo nei settori lavorativi ammessi. Ne consegue, stando alla norma, che il cittadino straniero che dovesse trovare lavoro in un settore diverso (ad es. in edilizia invece che nella pesca) non potrebbe farlo regolarmente e dunque, sarebbe di nuovo vulnerabile (necessariamente invisibile) e soggetto a sfruttamento da parte di intermediari o datori di lavoro operanti nei settori non ammessi. Resta anche il dubbio se l’omogeneità del settore lavorativo condizioni (come sembrerebbe dal dato testuale) anche la successiva domanda di conversione del permesso di soggiorno temporaneo in permesso per motivi di lavoro. Una tale conclusione sarebbe, tuttavia, irragionevole poiché precluderebbe al lavoratore di progredire nel proprio percorso lavorativo in modo trasparente e regolare.

Un segnale positivo, anche se abbastanza generico, è dato dalle disposizione del comma 17, in base al quale, al fine di contrastare efficacemente i fenomeni di concentrazione dei cittadini stranieri di cui ai commi 1 e 2 in condizioni inadeguate a garantire il rispetto delle condizioni igienico-sanitarie necessarie al fine di prevenire la diffusione del contagio da Covid-19 (il riferimento velato alle indegne baraccopoli è chiaro) le Amministrazioni dello Stato competenti e le Regioni, anche mediante l’implementazione delle misure previste dal Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato 2020-2022[4], adottano soluzioni e misure urgenti idonee a garantire la salubrità e la sicurezza delle condizioni alloggiative, nonché ulteriori interventi di contrasto del lavoro irregolare e del fenomeno del caporalato. Al Tavolo operativo istituito dall’art. 25 quater del D.L. n.119/2018 convertito con modifiche dalla legge n.136/2018, vengono ammessi ad apportare un contributo anche il Dipartimento per la protezione civile e la Croce Rossa Italiana.

E’ evidente, tuttavia, che il lavoro per rendere efficace il Piano triennale e per garantire l’adozione di iniziative concrete (che procurino alloggi in condizioni igienico sanitarie di base e che stimolino a fornire servizi di trasporto ai lavoratori, sottraendoli dalla morsa di caporali e datori di lavoro compiacenti) è ancora molto lungo e faticoso.

Ogni sanatoria passata è stata anche fonte di molti illeciti penali (si pensi a quelli in tema di frode e falso, spesso commessi con l’apporto fondamentale di professionisti senza scrupoli). Non è un caso che l’articolo 103 chiuda con il comma 19 che introduce una specifica norma penale.

Salvo che il fatto costituisca reato più grave, si punisce chiunque presenta false dichiarazioni o attestazioni, ovvero concorre al fatto nell’ambito delle procedure previste dal presente articolo. La sanzione viene individuata nell’articolo 76 del testo unico di cui al d.p.r. 28 dicembre 2000, n. 445. Nel caso in cui il fatto è commesso attraverso la contraffazione o l’alterazione di documenti oppure con l’utilizzazione di uno di tali documenti, si applica la pena della reclusione da uno a sei anni. La pena è aumentata fino ad un terzo se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale.

Il diritto penale come norma di chiusura svolge un ruolo logico e funzionale alla sua natura. L’auspicio è che, ora più di prima, non debba operare in funzione sostitutiva e che la tutela dei diritti ed il contrasto allo sfruttamento del lavoro divengano snodo centrale dell’agenda politica nazionale.


[1] Il pensiero di Papa Francesco riportato dall’agenzia di stampa Agensir in: https://www.agensir.it/quotidiano/2020/4/28/migranti-la-risposta-di-papa-francesco-alla-fai-cisl-regolarizzazione-auspicabile/.

[2] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52020XC0417(07)&from=IT.

[3] ISTAT: Occupazione regolare, irregolare e popolazione (ISTAT, edizione settembre 2019).

[4] https://www.lavoro.gov.it/priorita/Documents/Piano-Triennale-contrasto-a-sfruttamento-lavorativo-in-agricoltura-e-al-caporalato-2020-2022.pdf

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