Brevi note sul nuovo art. 2103 c.c.

di Stefano Brusati

La legge delega 10/12/2014 n. 183  ( deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonchè in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e della attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) ha, con specifico riferimento al tema delle mansioni, ha espressamente previsto ( v. art. 1, comma. 7, lett e) la “revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendali individuati sulla base di parametri oggettivi, contemperando l’interesse della impresa all’utile impiego del persona con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità, delle condizioni di vita ed economiche, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento” con la ulteriore “previsione che la contrattazione collettiva, anche  aziendale avvero di secondo livello,  stipulata con le organizzazioni sindacali dei lavoratori comparativamente piu’ rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria, possa individuare ulteriori ipotesi rispetto a quelle disposte ai sensi della presente lettera”.

Con il Decreto legislativo 15/6/2015 n. 81 si è data attuazione ( v. espressamente art. 3 di detto D.Lgs.) a detta delega, con una integrale riscrittura dell’art. 2103 c.c. che, secondo i primi commenti, integra  ( assieme ad altri interventi legislativi, ad incominciare con quello del  c.d. contratto di lavoro a tempo indeterminato  a tutele crescenti di cui al D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23) una nuovo paradigma normativo del diritto del lavoro, con il ritorno/ regresso ad una sorta di normazione pre  legge n. 300 del 1970..

Indipendentemente da tale pur molto importante questione, viste le finalità pratiche di queste note,  le importanti novità introdotte riguardano sia la c.d. mobilità  in senso orizzontale sia la c.d. mobilità verso il basso sia la c.d. mobilità verso l’alto.

1) Mobilità in senso orizzontale

Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”( v. art. 3,  comma 1).

Premesso che non appare avere sostanziale rilevanza la sostituzione del termine ” categoria” con il termine ” inquadramento” posto che entrambi rinviano al livello contrattuale o alla categoria legale acquisiti ( cfr. D’Ancona, Zoli; cfr.,però, De Angelis che critica la norma anche per avere ” riesumato” il concetto di categoria legale) e che è stato ribadito il principio della c.d. contrattualizzazione della mansioni, la innovazione fondamentale della norma consiste nel venire meno di quello che era l’ulteriore  concetto fondamentale del precedente testo dell’art. 2103 c.c. in tema di esercizio del c.d. ius variandi datoriale in senso orizzontale, vale a dire il concetto di equivalenza  delle mansioni, rapportato alle ultime effettivamente svolte  (cfr. Zoli, De Angelis, Liso, Bellavista).

Il baricentro della norma nel precedente testo era proprio la c.d. equivalenza professionale,costantemente intesa dalla giurisprudenza non solo in senso oggettivo – vale a dire in relazione alla inclusione nella stessa area professionale e salariale delle mansioni iniziali e di quelle di destinazione- ma anche in senso soggettivo – nel senso che le mansioni di destinazione devono armonizzarsi con le capacità professionali acquisite dall’interessato durante il rapporto lavorativo, consentendo ulteriori affinamenti e sviluppi-, con una valorizzazione, entro certi limiti, non solo della  c.d. professionalità statica-  che valorizza la professionalità pregressa e, quindi, il “sapere fare”- ma anche di quella dinamica/potenziale, intesa come professionalità in evoluzione e, quindi, “sapere come fare”, con la specificazione che la contrattazione collettiva, muovendosi nell’ambito e nel rispetto della prescrizione posta dal primo comma dell’art. 2103 c.c. ( che fa divieto di una indiscriminata fungibilità di mansioni che esprimano in concreto una diversa professionalità, pur confluendo nella medesima declaratoria contrattuale, è autorizzata a porre meccanismi convenzionali di mobilità orizzontale prevedendo la fungibilità funzione tra le mansioni per sopperire a contingenti esigenze aziendali o per consentire la valorizzazione della c.d. professionalità potenziale di tutti i lavoratori inquadrati in quella qualifica.

Con il nuovo testo dell’art. 2103 c.c. ( che pare presentare  una certa qual somiglianza con l’art. 52 del D.Lgs. n. 165/2001 in tema di lavoro pubblico c.d. privatizzato, cfr. De Angelis, Miscione) questo baricentro subisce un fondamentale spostamento. Viene, come detto, abbandonato il criterio della equivalenza in termini di professionalità del lavoratore, con la valorizzazione del solo criterio rappresentato dalla mera riconducibilità delle mansioni di nuova assegnazione allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte, con la conseguenza che  muta  anche il bene tutelato dalla norma che non è piu’ la professionalità  del lavoratore nell’ampia accezione sopra vista ma viene identificato nella semplice ” posizione” che il lavoratore occupa in  azienda in ragione del solo dato formale ed ” oggettivo” della  categoria di inquadramento cui appartiene ( cfr. Liso), con l’ulteriore importante conseguenza che così facendo si assiste ad un  sostanziale ampliamento del suo debito lavorativo ( specie con riferimento ai sistemi di classificazione c.d. a fasce larghe), tanto piu’ accentuato con riferimento a posizioni come quella dirigenziale posizione, posto che la relativa contrattazione collettiva si caratterizza per sostanziale assenza di livello di inquadramento in materia ( cfr. Zoli).

In sede di prima lettura appare, quindi, condivisibile affermare che il parametro di riferimento viene ad essere  ancora piu’  rappresentato dalla classificazione della contrattazione collettiva, con un ruolo centrale della stessa ben piu’ accentuato di quanto avveniva in passato,  potendosi così ipotizzare che, a seguito del venire meno del criterio della equivalenza professionale  alla nuova normativa alla contrattazione collettiva non dovrebbe essere preclusa la possibilità di prevedere soluzioni di classificazione all’insegna di una piu’ accentuata flessibilità ( in materia, ad esempio, di mansioni fungibili o promiscue o a rotazione) senza il sostanziale timore di un successivo intervento demolitore della giurisprudenza ( cfr. Zoli).

Il che pone l’ulteriore  problema sia con riferimento ai limiti di applicazione di detta contrattazione collettiva ( in ordine ai quali si è prospettata la loro non operatività alla luce della funzione integrativa e qualificatoria che detta contrattazione rivesta, per legge, in materia) sia con riferimento al caso di vera e propria mancanza di detta contrattazione collettiva, evidenziandosi al riguardo la impossibilità di ” riutilizzo” della nozione di equivalenza professionale, in favore del datore della affinità o corrispondenza oggettiva sempre come determinato dalle parti sociali, prescindendo così dal ” maturato” personale del singolo  lavoratore ( cfr. Zoli).

La norma non dice nulla in ordine alla c.d. garanzia retributiva ( vale a dire il diritto del lavoratore a non vedersi ridotta la retribuzione).

Pertanto, in mancanza ( non certo auspicabile) di ogni  previsione della contrattazione collettiva di segno contrario e tenuto conto che viene meno il criterio della c.d. equivalenza professionale, si è sostenuto ( cfr. Zoli) che  il principio della c.d. irriducibilità della prestazione opera solo con riferimento alla c.d. retribuzione tabellare ed alle voci direttamente collegate al livello di inquadramento, con esclusione degli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione di lavoro, a tale riguardo richiamando quanto espressamente previsto ( v. art. 3, comma 5) in tema di c.d. mobilità verso il basso.

Come visto sopra, la legge delega n. 183 del 2014 in materia di mansioni pone principi e criteri ben individuati: 1) casi di riorganizzazione, ristrutturazione e conversione aziendale;2) individuazione degli stessi sulla base di parametri oggettivi; 3) contemperamento tra l’interesse del datore di lavoro all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela non solo del posto di lavoro e delle condizioni di vita ed economiche ma anche della professionalità.

Proprio valorizzando  il tenore letterale di detta delega, si parla espressamente ( cfr. De Angelis) di “fuoriuscita dalla delega”, con conseguenza questione di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 76 Cost., perchè la normativa in esame appare prescindere dai tre criteri e principi sopra illustrati, con la conseguenza che detta norma non appare  essere nè coerente sviluppo nè completamento delle scelte operate dalla legge delega ( cfr. sul punto, da ultimo, Corte Cost.le 5/6/2015, n. 98) che ha prefigurato l’intervento sulle mansioni ( e, quindi, anche quello afferente la c.d. mobilità orizzontale) come circoscritto ad ipotesi particolari.

2) Mobilità verso il basso

Altrettanto rilevanti ed importanti risultano essere le innovazioni apportate in materia dell’art. 3.

La regola generale delineata dall’art. 2103 c.c. vecchio testo  era quella del divieto di adibizione del lavoratore a mansioni inferiori.

A tale regola generale facevano,poi, riscontro  le varie eccezioni introdotte sia dalla legge sia dalla giurisprudenza, accumunate, sostanzialmente, dalla  esigenza di tutelare beni ( salute, occupazione) ritenuti di pari o superiore rilevanza  a quello della professionalità.

Quanto alla legislazione, gli interventi legislativi succedutisi nel tempo risultavano volti a tutelare la salute ( cfr. art. 3 n. 30/12/1971 n. 1024, riprodotto dall’art. 7 D.Lgs. 26/3/2001 n. 151 per lavoratrice madre e nascituro;art. 4, c. 4 l. 12/3/1999 n. 68 per il lavoratore divenuto invalido per infortunio o malattiua; art.10, c. 3 l. n. 68/1999 per il lavoratore disabile con aggravamento al punto da non risultare piu’ compatibile con le mansioni  a lui affidate; art. 42 D.Lgs. 9/4/2008 n. 81 per il lavoratore dichiarato inidoneo alla mansione specifica; art. 2229, c. 5 del prec. D.Lgs. per il lavoratore che chiede di essere allontanato dalla esposizione ad agenti chimici, fisici o biologici) oppure la occupazione ( v. art. 4, c. 11 l. 23/7/1991 n. 223).

Quanto alla giurisprudenza la teorica del c.d. male minore  aveva consentito, ad esempio, la adibizione a mansioni inferiori per evitare il licenziamento (v. tra le ultime Cass. 1/7/2014, n. 14944); per apprendere nuove tecniche ( v. Cass. 1/3/2001, n. 2948); per limitare le ricadute di uno sciopero ( v. Cass. 26/9/2007, n. 20164); in presenza di scelte datoriali legittime con interventi di ristrutturazione aziendale ed assegnazione a mansioni inferiori senza modifica del livello retributivo ( v. Cass. 22/5/2014,  n. 11395) o in presenza di una richiesta del lavoratore per tutelare un suo, per altro, non meglio specificato interesse ( v. Cass. 8/8/2011, n. 17095; per altro, contra sul punto, Cass. 14/4/2011, n. 8527).

La nuova normativa prevista dai commi 2, 4 e 5 dell’  art. 3 ( che non pare avere un effetto abrogante delle sopra ricordate singole previsioni di legge; cfr. art. 55 del D.lgs. n. 81 del 2015 che non nè prevede la abrogazione espressa nè  sembrano sussistere elementi per  ipotizzare una abrogazione per incompatibilità) prevede che la mobilità verso il basso ( id est: demansionamento) del lavoratore possa legittimamente avvenire  sia sulla base di una determinazione unilaterale del datore di lavoro ( nelle due ipotesi di cui oltre) sia sulla base di un vero e proprio accordo individuale datore di lavoro/ lavoratore.

Quanto alla prima fattispecie, la stessa si articola in due diverse ipotesi.

La prima è contemplata dal  comma 2 dell’art. 3: “In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purchè rientranti nella medesima categoria legale”.

La seconda è contemplata dal  comma 4 dell’art. 3: “Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti all’inquadramento inferiore, purchè rientranti nella medesima categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi”.

Quanto alla prima ipotesi si deve convenire con chi parla di formulagenerica ed ampia ( cfr. Zoli, Voza,Liso;v. anche Bellavista che parla di una sostanziale piena discrezionalità del datore di lavoro), con una non ben definita linea di demarcazione rispetto alla ipotesi di cui al  comma 6 ( v. oltre) posto che l’interesse del lavoratore alla occupazione di cui al comma 6 ben può ” interferire” con la fattispecie in esame ( cfr. Zoli).

Proprio alla luce della ampiezza della formula, pare potersi affermare, in sede di prima lettura, che la fattispecie in esame può essere ravvisata non solo nel caso di vera e propria soppressione del posto di lavoro con necessità di evitare un licenziamento per g.m.o.  o di comprovata crisi aziendale ma anche nella piu’ ampia ipotesi di semplice sottrazione di compiti in precedenza svolti, indipendentemente dalla sussistenza di detti presupposti.

Anche con riferimento a questa normativa  si è  ipotizzata una questione di legittimità costituzionale per eccesso di delega, atteso che nel testo di legge non vi è  alcun riferimento  ne’ ai processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale nè ai parametri oggettivi di cui parla l’art. 1, comma 7, lett. e della legge delega ( cfr. De Angelis, Zoli).

Quanto, poi, alla seconda ipotesi, la norma  pare conferire alla contrattazione collettiva una discrezionalità massima nella individuazione delle singole ipotesi, ben oltre  ( come risulta dal testo legislativo) i casi di modificazione degli assetti aziendali di cui al sopra visto art. 3, comma 2, senza che ,però, si possa ipotizzare una q.l.c. alla luce di quanto espressamente previsto, su tale specifico punto, dalla legge delega.

L’ampliamento del  potere unilaterale del datore di lavoro di adibire il lavoratore a mansioni inferiori deve  essere esercitato nel rispetto di alcuni limiti specificatamente previsti dalla norma.

Prima di tutto, a seguito del mutamento deciso dal datore di lavoro, le mansioni di destinazione del lavoratore  possono essere inferiori per un solo livello di inquadramento ( v. comma 2; v. comma 4), fermo restando il limite del loro rientro nella medesima categoria legale.

E’ richiesto, poi, che  la comunicazione della decisione  datoriale  avvenga per iscritto, a pena di nullità ( v. comma 5)

La mancanza della forma scritta – essendo prevista a pena di nullità- dovrebbe consentire una richiesta del lavoratore di ripristino dello status quo ante nonchè una richiesta di risarcimento danni ( ove  allegati e provati).

Nulla dice la legge in ordine al contenuto di tale necessaria comunicazione scritta datoriale. Per cui è legittimo ipotizzare il formarsi di due distinti orientamenti, l’uno  volto a negare l’obbligo datoriale di motivazione ( con richiamato al principio della libertà delle forme ed alla mancanza di una espressa indicazione legislativa) e l’altro volto ad affermare detto obbligo ( con una fondamentale valorizzazione delle esigenze di conoscenza del lavoratore, anche ai fini di un eventuale successivo controllo giudiziale).

E’ previsto, ulteriormente ( v. sempre comma 5), l’obbligo di rispettare i diritti del lavoratore sia alla conservazione del livello di inquadramento,  sia   del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati  a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa; eccezioni che sembrano afferire non alle voci retributive principali connesse al livello di inquadramento ma alle indennità e maggiorazioni connesse a condizioni di tempo e luogo di svolgimento delle mansioni di provenienza ( cfr. Zoli).

La norma nulla dice al riguardo ma che la unilaterale  decisione datoriale in questione, nelle due ipotesi sopra considerate, possa poi  formare oggetto di controllo giudiziale non certamente afferente il merito di detta decisione  ma la effettiva sussistenza dei presupposti di legge è affermazione che non sembra trovare smentita nel  pur innovativo testo di legge.

Tale testo   appare silente anche in ordine al diritto del lavoratore ad essere riadibito alle mansioni originarie, venuti meno i presupposti di cui sopra. ( ad es. dimissioni, pensionamenti, nuova modifica degli assetti organizzativi aziendali). E tale diritto viene sostanzialmente riconosciuto da chi valorizza la circostanza che, comunque,  è espressamente previsto il diritto del lavoratore demansionato al livello di inquadramento ( cfr. Zoli) oppure il carattere tendenzialmente reversibile della fattispecie in esame ( cfr. Liso, Voza, Bellavista).

La seconda importantissima fattispecie che consente il demansionamento del lavoratore è quella ( v. art. 3, comma 6)  fondata sulla conclusione di uno specifico patto datore di lavoro/ lavoratore.

Anche in questo caso il contenuto di detto patto  risulta essere, per espressa disposizione di legge, ampio,  potendo riguardare non solo le mansioni ma anche il trattamento economico, il livello di inquadramento e la stessa categoria legale.

La esistenza di un vero e proprio accordo porta a fare ritenere  il carattere definitivo dello stesso, di tipo derogatorio ( cfr.Zoli, Bellavista; v. D’Ancona che parla di carattere novativo).

Per evitare gli intuibili abusi che un siffatto accordo può consentire, alla luce della posizione di inferiorità del lavoratore ulteriormente accentuata dalla riduzione delle tutele in caso di licenziamento per il c.d. contratto a tutele crescenti, la norma prevede il rispetto di due specifici limiti:

1) uno, di carattere formale, rappresentato dalla necessità che detto accordo deve avvenire nelle sedi di cui all’art. 2113, comma 4° o davanti alle commissioni di certificazione, con  il potere del lavoratore di farsi assistere da un rappresentante della associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro.

2) l’altro di carattere sostanziale atteso che detto accordo deve perseguire una specifica finalità dovendo  essere stipulato nell’interesse del lavoratore alla conservazione della occupazione, alla acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita.

Quanto al primo requisito, appare condivisibile la tesi di chi ( cfr. Voza) afferma che le c.d. sedi protette devono dare al lavoratore una assistenza effettiva sia con riferimento alla  genuinità della volontà di detto lavoratore sia con riferimento alla effettiva esistenza dei suoi interessi come individuati dalla norma.

A proposito dei quali interessi, si può osservare che  quello del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro consente di richiamare il pregresso giurisprudenziale   volto ad autorizzare il c.d. demansionamento come c.d. male minore a fronte del c.d. male maggiore rappresentato dalla  effettiva possibilità di perdita del posto di lavoro.

Sempre in tale ottica di conservazione del posto di lavoro non si può  escludere un accordo lavoratore/ datore di lavoro anche in presenza di quella modifica degli assetti organizzativi incidente sulla posizione del lavoratore che legittima ( v. sopra) la modifica unilaterale peggiorativa delle mansioni. ( cfr. Voza).

Ugualmente l’ interesse al miglioramento delle condizioni di vita pare richiamare tale logica nel senso che il demansionamento concordato del lavoratore   può ipotizzarsi a fronte dell’accoglimento datoriale della richiesta del lavoratore ( funzionale ad un effettivo perseguimento di migliori condizioni di vita personali e famigliari) di mutamento di orario o turno o di vero e proprio trasferimento ( cfr. Voza).

Quanto all’ulteriore interesse preso in considerazione ( acquisizione di una diversa professionalità) che può essere perseguito e dai confini  piu’ evanescenti, si può ipotizzare la sussistenza dello stesso in caso di intervenuta obsolescanza professionale  riguardo alle mansioni fino al momento svolte. Ugualmente lo si può ipotizzare per la adibizione del lavoratore a mansioni inferiori in un percorso di riqualificazione on the jobs anche attraverso la rotazione su mansioni inferiori ( il c.d. demansionamento espansivo), anche se vengono formulate riserva sulla ammissibilità in considerazione del fatto che l’accordo può non prevedere un termine e che sicuramente può prevedere un peggioramento dell’inquadramento formale e del trattamento retributivo ( cfr. Voza).

L’importanza e la novità di detto accordo pongono il problema della sua successiva sindacabilità giudiziale e dei limiti della stessa.

Per alcuni ( cfr. Voza) l’interesse del lavoratore ( come sopra declinato) non è altro che la finalità che l’accordo deve perseguire, con la conseguenza che integra un vero e proprio presupposto di validità dell’accordo la cui accertata mancanza determina la applicazione del tradizionale regime della nullità di diritto comune.

Per altri ( cfr. Zoli) il controllo giudiziale può certamente essere invocato in presenza di vizi della volontà o per la palese pretestuosità dell’interesse addotto tale da integrare un motivo illecito o una causa illecita o un accordo in frode alla legge.

Sarebbe,invece, discutibile affermare  un controllo giudiziale in ordine alla veridicità in sè delle ragioni addotte nel senso che la previsione della c.d. sede protetta pare muoversi nell’ottica di rendere stabile e non attaccabile detto accordo, analogamente a quanto accade per rinunzie e transazioni, a ciò aggiungendosi la difficile sindacabilità in sè di detti interessi, anche tenendo conto delle  radicali eccezioni apportate alla regola ( pure riconfermata in via generale, v.  comma 9 dell’art. 3) della nullità di patti contrari) .

3) Mobilità verso l’alto

Nel caso di assegnazione a mansioni superiori al lavoratore sono riconosciuti allo stesso ( art. 3, comma 7) i due   diritti già previsti dal vecchio testo dell’art. 2103 c.c.:

1) il diritto al trattamento corrispondente alla attività svolta,rispetto al quale l’art. 3, comma 7 non pare introdurre alcuna modifica

2) il diritto alla c.d. promozione automatica ( vale a dire definitività della assegnazione) trascorso un determinato periodo.

Riguardo a tale secondo diritto, si può  osservare che,con riferimento alla durata di detto periodo, è previsto che lo stesso sia fissato ( con la piu’ ampia discrezionalità, e, quindi, sia in melius sia in peius rispetto al criterio legale) dalla contrattazione collettiva,   mancando la quale  si applica il criterio legale che è quello dei sei mesi continuativi.

Il criterio legale prevede, quindi, un raddoppio dell’arco temporale precedente ( tre mesi) e, nel contempo conferma il carattere della c.d. continuità ( già previsto dalla precedente normativa) il che consente di affermare che anche alla sulla base del nuovo testo dell’art. 2103 c.c.( come già affermato dalla giurisprudenza con il precedente testo)  nel computo temporale vanno esclusi i periodi di ferie e malattie, mentre devono essere inclusi i riposi settimanali e compensativi.

Mentre il diritto sub 1) sorge in forza del semplice fatto della assegnazione a mansioni superiori, perchè  sorga il diritto sub 2), con conseguente definitività della assegnazione,  è previsto che la stessa non deve avere luogo per ragioni sostitutive di alto lavoratore in servizio, ed è fatta salva la diversa volontà del lavoratore.

Quanto alle ragioni sostitutive, va osservato che anche in questo caso la nuova formula di legge risulta essere ben piu’ ampia di quella del vecchio testo (“l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia luogo per sostituzione di lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro..”). Il che porta ad affermare ( cfr. Zoli, De Angelis) che nella nuova formulazione dell’art. 2103 c.c.  la eccezione alla c.d. promozione automatica diventa piu’ ampia di quella del precedente testo dell’art. 2103 c.c. ( cfr. Zoli, De Angelis).

Sulla base del pregresso testo di legge, la c.d. promozione automatica andava esclusa se le mansioni superiori erano state conferite per sostituire un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro ( infortunio, gravidanza, puerperio, malattia; copertura cariche sindacali; adempimento funzioni pubbliche).

Viceversa, il nuovo testo prevede che la c.d. promozione automatica sia esclusa se le mansioni superiori sono attribuite per  ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, con la conseguenza che detta eccezione opera anche, ulteriormente, in tutti i casi in cui il lavoratore è assente senza che il rapporto di lavoro sia sospeso ( ferie, permessi, partecipazione a corsi, missioni).

Quanto,poi, alla elusione di detta normativa (v., ad esempio, con ricorso  al c.d. frazionamento frequente e sistematico del periodo), il nuovo testo di legge non sembra  fare venire meno la possibilità di applicazione dell’orientamento giurisprudenziale formatosi in precedenza ( cfr. Cass. 14/6/1991, n. 6742)  circa la inidoneità di detto  frazionamento ad escludere l’insorgenza del diritto alla assegnazione definitiva alle mansioni superiori, salvo che detto intento elusivo si possa escludere in presenza di specifiche circostanze come quella dei c.d. sostituti programmati ( cfr. Cass. 11/2/2004, n. 2642) o quella in cui il datore di lavoro prova di avere fatto ricorso a dette di frazionamento per assicurare la vacanza del posto da coprire obbligatoriamente per il tramite di procedure concorsuale o selettiva, per il periodo necessario di definizione della stessa ( cfr. Cass. 23/4/2007, n. 9550).

Il comma 7 dell’art. 3, sempre in tema di assegnazione definitiva, fa,poi, salva la diversa volontà del lavoratore, che, quindi,può impedire, con la sua manifestazione di volontà, il perfezionarsi del c.d. diritto alla promozione.

Rispetto alla manifestazione di detta volontà, non  sono previste garanzie  per accertare l’autenticità del rifiuto così come non sono previste forme particolari per la  estrinsecazione di detto rifiuto, per cui non   appare richiesto, per la sua validità , che lo stesso sia espresso nelle c.d. sedi protette.

Quanto alla tempistica di detta manifestazione, si è sostenuto che detta volontà  può essere validamente manifestata solo una volta perfezionata la fattispecie ( id est: compimento del termine applicabile), trattandosi di una rinunzia ad un diritto solo in quel momento entrato nel patrimonio giuridico del lavoratore ( cfr. De Angelis, Voza). Pertanto ( v. sempre Voza) il  rifiuto alla c.d. promozione automatica in caso di esercizio di mansioni superiori per l’arco d tempo applicabile, manifestato dal lavoratore al momento della stipula del contratto o in corso di contratto prima del perfezionarsi della fattispecie deve ritenersi affetto da nullità integrando un vero e proprio patto in deroga, che ricade nel divieto dei patti contrari di cui al comma 9 dell’art. 3, non rientrando  nelle eccezioni a tale divieto pure previste da detto comma.

Si afferma, poi, che il lavoratore che manifesta debitamente la sua volontà contraria alla promozione può,poi, legittimamente rifiutarsi di svolgere le mansioni superiori che il datore di lavoro continua a richiedere dopo la scadenza del termine ( cfr. Zoli,Liso).

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L’art. 3 del D.lgs. introduce una ulteriore importante novità, prevedendo che ( v. comma 3) il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo.

Anche se  detta previsione è posta immediatamente dopo quella ( v. 2° comma) che consente la assegnazione a mansioni inferiori sulla base di decisione unilaterale datoriale fondata sulla modifica di assetti aziendali e prima ( v. comma 4) della  assegnazione a mansioni inferiori sempre per decisione unilaterale datoriale in presenza, però, dei casi individuati dalla contrattazione collettiva, non si ravvisano ragioni per  escludere detto obbligo formativo anche in presenza della fattispecie del  comma 4, caratterizzata anch’essa da un mutamento in peius delle mansioni, sempre sulla base di una decisione unilaterale del datore di lavoro.

Sulla base del testo di legge l’obbligo formativo (per la configurazione di detto obbligo in termini di onere, v. Zoli, Liso) non è correlato automaticamente al mutamento delle mansioni, sorgendo, “ove necessario”.

Si tratta della solita espressione di legge generale e non meglio specificata, con la necessità/ opportunità anche qui di un intervento della contrattazione collettiva per meglio  precisare gli estremi di detto obbligo, anche se  la espressione ” ove necessario” pare richiamare la necessità  l’idea di un lavoratore non professionalmente adeguato all’esercizio delle nuove mansioni, con conseguenti negative ripercussioni ( a cui la formazione dovrebbe ovviare) sia nel concreto esplicarsi nella prestazione di lavoro sia, piu’ in generale, nella organizzazione del lavoro aziendale.

Un mutamento di mansioni può,poi, avvenire anche con l’accordo assistito di cui al comma 6 dell’art. 3 o con assegnazione a mansioni superiori ai sensi del comma 7. Sul punto la norma nulla prevede, anche se non sembra irragionevole pensare che l’accordo assistito di cui al comma 6 possa riguardare detto obbligo formativo se necessario.

Il comma 3 prevede espressamente che il mancato adempimento di detto obbligo formativo non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione alle nuove mansioni, con conseguente obbligo del lavoratore di continuare a svolgere tali nuove mansioni.

La violazione di detto obbligo di  formazione non pare,però, precludere al lavoratore l’espletamento di tali rimedi quali la richiesta di risarcimento danno ( se  esistente e provato e causalmente determinato da detto inadempimento formativo) nonchè la c.d. eccezione di inadempimento o la azione di adempimento ex art. 1453 c.c. e, ultimo ma non ultimo, persino la decisione di dimettersi invocando la giusta causa o contestare il licenziamento eventualmente intimatogli per g.m.o. ( cfr. Zoli, de Angelis, Miscione).

Piccola considerazione conclusiva.

Esula dalle finalità eminentemente pratiche di queste note ogni ulteriore approfondimento sulla ratio ispiratrice della sostanziale modifica apportata all’art. 2103 c.c.. Una breve considerazione,però, si può fare ed è nel senso che si assiste ad un oggettivo mutamento del punto di equilibrio degli interessi in gioco posto che il contemperamento detti interessi a cui fa espresso riferimento l’art. 7, comma 7, lett. e) della legge delega n. 183 del 2014 appare decisamente spostato verso le esigenze della impresa,a scapito della professionalità del lavoratore, con una ulteriore accentuazione se si considera anche la disciplina introdotta dal c.d. contratto a tutele crescenti posto che la riduzione delle ipotesi di reintegra prevista da detta normativa pare indebolire la posizione del lavoratore anche durante le prestazione di lavoro con la conseguenza di renderlo piu’ disponibile alle richieste del datore di lavoro, ivi compresa quella afferente il mutamento delle mansioni.

Se così è, probabilmente anche in questa materia (  analogamente alla disciplina del c.d. contratto a tutele crescenti) si verrà  a porre sempre piu’ al centro della attenzione la questione della c.d. tutela discriminatoria, dei suoi limiti e dei relativi oneri probatori.

Il tutto ovviamente subordinato alla tenuta costituzionale del nuovo testo dell’art. 2103 c.c.

Bibliografia

C.Zoli, La disciplina delle mansioni, in corso di pubblicazione in Fiorillo, Perulli, Tipologie contrattuali e disciplina delle mansioni, Giappichelli.

M. Miscione, Jobs Act: le mansioni e la loro modificazione,i n Il Lav. nella Giur., 2015, 5, 437 e ss.

L.DeAngelis, Note sulla nuova disciplina delle mansioni e dei suoi ( difficilissimi) rapporti con la delega, in WP CSDLE ” Massino D’Antona”,IT, 263/2015

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