C’è un punto di equilibrio fra Stato e Regioni per garantire i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie?

di Andrea Penta

Sommario: 1.– Premessa. 2.– Il quadro costituzionale. 3.– Gli orientamenti della Corte costituzionale. 4.– Il punto di rottura. 5.– Come superare l’impasse. 6.– Conclusioni.

1.      Premessa.

I recentissimi eventi che hanno coinvolto, a livello planetario, la salute pubblica dei cittadini di praticamente tutti gli Stati del mondo (a tal punto che si parla ormai diffusamente di ‘pandemia’) riporta all’attualità la questione del riparto di compiti e competenze fra lo Stato e le Regioni in vista dell’ottimizzazione delle prestazioni che debbono essere erogate agli utenti del servizio pubblico.

Già in passato il d.lgs. 6.5.2011, n. 68, in tema di federalismo fiscale nel campo sanitario, unitamente alle manovre correttive di finanza pubblica avviate nei successivi anni, hanno dimostrato la massima centralità e rilevanza della questione, anche alla luce delle non inequivoche formule contenute negli artt. 117 e 118 Cost., e nonostante l’incessante e positivo lavoro di sistematizzazione fin qui svolto dalla Corte costituzionale.

La sanità si configura da sempre come un settore disciplinare caratterizzato da particolare rilievo e complessità, in quanto fortemente implicato con le dinamiche dei contemporanei modelli di Stato sociale. In questo senso, la rilevanza e, soprattutto, la complessità appena accennate sembrano ancor più manifeste e foriere di conseguenze nel contesto di un sistema giuridico multilivello e, segnatamente, nel quadro del nostro ordinamento positivo contrassegnato da un forte processo di devoluzione di compiti e di funzioni pubbliche dallo Stato alle Regioni, con la contestuale allocazione di ampie attribuzioni di amministrazione puntuale in capo agli enti territoriali minori.

Tutto ciò sembra essere particolarmente evidente e significativo proprio nel campo della sanità, il quale è interessato, al momento attuale, da due importanti fenomeni che si incrociano e quasi si integrano: la crisi della finanza pubblica e l’evoluzione verso modelli di federalismo fiscale, secondo quanto disvelano i recenti interventi legislativi(d.lgs. 6.5.2011, n. 68;d.l. 6.7.2011, n. 98, come convertito dalla l. 15.7.2011, n.111; d.l. 13.5.2011, n. 70, convertito nella l. 13.7.2011, n.106).

Il succedersi di continui interventi di finanza pubblica, allo scopo di mettere in ordine i conti, non può celare un dato: è soprattutto la sanità, nelle ragioni del dare e dell’avere fra lo Stato e le Regioni, a rappresentare la più rilevante occasione di conflitto, mentre, per altro verso, è pacificamente noto che larghissima parte del bilancio delle singole Regioni (anche di quelle maggiormente virtuose) finisce con l’essere destinato a finanziare la crescente aspettativa di prestazioni dei cittadini, utilizzatori del servizio sanitario nazionale (rectius, dei singoli servizi sanitari apprestati e gestiti dalle singole regioni).

Questo delicato rapporto si aggrava quando si intromettono altresì le strutture private, le quali, assicurando in termini concorrenziali (sul piano qualitativo), ma con tempistiche molto più rapide, prestazioni delicate (si pensi ad un intervento “a cuore aperto”), da un lato, si sostituiscono alle strutture pubbliche e, dall’altro, sottraggono entrate a queste ultime che verrebbero destinate a servizi essenziali quali le terapie intensive.

Tutto ciò spinge ad una prima riflessione: il quadro generale dei rapporti fra lo Stato e le Regioni nel settore del governo della sanità è in perenne fibrillazione, soprattutto allo scopo di mettere sotto controllo la spesa pubblica sanitaria, la quale assorbe larga parte delle risorse globali delle nostre Regioni.

L’intervento di regolazione dello Stato negli ultimi anni si è sempre più concentrato sul versante della spesa piuttosto che su quello dell’organizzazione, pur riservandosi una particolare attenzione a garantire il raggiungimento dei livelli essenziali delle prestazioni su tutto il territorio nazionale.

2.      Il quadro costituzionale

Se questo è vero, non ci si può, tuttavia, sottrarre ad un interrogativo: in che modo le operazioni appena ricordate volte a saldare insieme risparmio di spesa, fabbisogno sanitario, autonomia di spesa e responsabilità delle singole amministrazioni regionali (quasi la classica quadratura del cerchio![1]) si accordano con il modello costituzionale di riparto delle competenze, fra Stato e Regioni, introdotto dal nuovo titolo V della parte seconda della Costituzione?

Occorre prendere le mosse dall’art. 1 del cit. d.lgs. n. 229/1999 – e quindi da una norma antecedente la riforma costituzionale del 2001 – il quale dispone, al primo comma, quanto segue: «La tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo ed interesse della collettività è garantita, nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana, attraverso il Servizio sanitario nazionale, quale complesso delle funzioni e delle attività assistenziali dei Servizi sanitari regionali e delle altre funzioni e attività svolte dagli enti e istituzioni di rilievo nazionale …».

E’ la pluralità corale dei servizi sanitari delle singole Regioni a determinare la costruzione, nel concreto, di quel soggetto unico denominato «Servizio sanitario nazionale». E ciò – si noti bene – anche prima della riforma costituzionale del 2001, a suggello del completamento di quella stagione di consolidamento dell’ordinamento regionale che ebbe il proprio centro strategico nella l. 15.3.1997, n. 59 (cd. legge Bassanini) e nel d.lgs. 31.3.1998, n. 112.

Come è noto, già il «vecchio» art. 117 Cost. attribuiva, fra l’altro, la materia «assistenza sanitaria ed ospedaliera» alla competenza legislativa concorrente delle Regioni a statuto ordinario, essendo peraltro quella cd. concorrente l’unica forma di potestà legislativa allora riservata alle Regioni di diritto comune. 

È, pertanto, già sotto l’imperio del «vecchio» titolo V della parte seconda della Costituzione che si avvia e si consolida il processo che porta alla istituzione ed al concreto funzionamento del servizio sanitario nazionale; ciò a far tempo dalla l. 23.12.1978, n. 833, istitutiva del servizio sanitario nazionale fino al cd. decreto Bindi (d.lgs. n. 229/1999, così come modificato ed integrato).

Passando in rassegna le norme costituzionali maggiormente rilevanti, si può constatare che l’art. 32 Cost., sicuramente quella di maggior peso e valore ideale e programmatico, manifesta una piena indifferenza in merito al tema dell’articolazione delle competenze: è la Repubblica – ossia la pluralità dei soggetti pubblici governanti – a dover garantire effettività al diritto alla salute, nella sua duplice e contestuale accezione di situazione di vantaggio individuale e collettiva.

È negli articoli 117 e 118 Cost. che si annida, invece, una vera e propria massa problematica. L’art. 117, co. 2, lett. m), riserva, infatti, alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che debbono essere garantiti su tutto il territorio nazionale»; a ciò si aggiunga che il secondo comma dell’art. 120 Cost. attribuisce al governo un fondamentale potere sostitutivo nei riguardi degli organi degli enti territoriali anche (e anzi in particolare) allorché lo richieda la tutela «[…]dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali». Per altro verso, il terzo comma dell’art. 117 Cost. elenca la «tutela della salute» fra le materie di competenza concorrente, fra Stato e Regioni, materie relativamente alle quali la legge dello Stato può semplicemente determinare i «principi fondamentali».

A ciò si aggiunga, per completare il quadro di riferimento costituzionale, che ogni materia non ricompresa né nell’elenco di cui al secondo comma dell’art. 117 Cost. né nel successivo terzo comma rientra nella potestà legislativa esclusiva e/o residuale delle Regioni, ai sensi del quarto comma della stessa norma costituzionale.

E’ ovvio, poi, che una dislocazione delle competenze con riferimento ai poteri di amministrazione attiva tra i vari soggetti del sistema multilivello (Comuni, Regioni, Province, Città metropolitane, Stato) comporta una diversa, ma conseguente, distribuzione delle potestà normative e/o legislative[2].

3.      Gli orientamenti della corte costituzionale

Premesso che nel quadro costituzionale la formula «tutela della salute» ha sostituito, a tutti gli effetti, la pregressa espressione «assistenza sanitaria ed ospedaliera», anche la nuova espressione, più moderna e, soprattutto più ampia ed esaustiva (e pertanto capace di abbracciare anche i profili organizzativi della sanità pubblica) è comunque foriera di dubbi irrisolti e di vere e proprie antinomie concettuali.

In particolare, occorre domandarsi in che modo si tengono insieme la già ricordata potestà legislativa esclusiva dello Stato circa le determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (in proposito, occorre ricordare che il diritto alla salute è il più significativo fra i cc.dd. diritti sociali) e la suddetta competenza legislativa concorrente nel settore della «tutela della salute».

In quest’ottica, il cit. d.lgs. n. 502/1992, così come modificato ed integrato soprattutto ad opera del cit. d.lgs. n. 229/1999, aveva formalmente codificato l’istituto dei LEA (livelli essenziali di assistenza), la cui individuazione e definizione sono rimesse al piano sanitario nazionale (art.1 del cit. d.lgs. n. 502/1992). E, sotto questo riguardo, debbono essere evidenziati quantomeno due concorrenti profili: alla luce del citato art. 1 del d.lgs. n. 502/1992, le Regioni sono chiamate a partecipare al procedimento di formazione del suddetto piano sanitario nazionale; le Regioni, per altro verso, sempre alla luce del citato art. 1, co. 13 ss., debbono adottare i piani sanitari regionali nei quali debbono essere intercettate le esigenze specifiche delle popolazioni regionali. Se questo è vero, appare allora in piena sintonia quanto la Corte costituzionale afferma in relazione alla formula di cui all’art. 117, co. 2, lett. m), Cost., e cioè che la competenza legislativa in ordine alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni si spalmerebbe trasversalmente su tutti i soggetti del sistema multilivello[3]. In questo modo si coinvolgono, anche sotto questo riguardo, le Regioni nel governo della sanità pubblica. E, d’altro canto, la materia «tutela della salute» rientra sicuramente nell’ambito delle competenze legislative a carattere concorrente delle Regioni, essendo ben evidente che a tale espressione di sintesi («tutela della salute») debba essere attribuito un significato piuttosto vasto: dall’organizzazione fino all’igiene pubblica.

Sicché, il quadro complessivo delle competenze legislative (ed amministrative) nel settore della sanità sembra essere non solo complicato e complesso, ma delicato, in quanto variegati e mutevoli sono gli scenari nei quali lo Stato e le Regioni si incontrano e si fronteggiano, soprattutto sul terreno della spesa pubblica e del suo contenimento.

4.      Il punto di rottura

Il vero punctumdolensmesso a nudo dalla riforma in materia di federalismo fiscale, in uno con altre norme di finanza pubblica introdotte dalle manovre correttive che si sono succedute nel tempo, è che il servizio sanitario necessita di copertura finanziaria, in mancanza della quale o si rinvengono altre forme di copertura del servizio oppure una o più prestazioni potranno essere poste, eventualmente, a totale carico dell’assistito.

Il centro del sistema è sicuramente costituito dalla regola dell’autonomia di entrata delle Regioni, autonomia che si dispiega in molteplici forme: dalla compartecipazione regionale all’imposta sul valore aggiunto fino alla diversa rimodulazione dell’addizionale regionale sull’IRPEF (artt. 4, 6 ss. del cit. d.lgs. n. 68/2011). Obiettivo, comunque inderogabile, è infatti quello di non sforare il «fabbisogno sanitario nazionale standard» (art. 3 del cit. d.lgs. n. 68/2011). Al fine di rendere realizzabile il suddetto obiettivo (artt. 13 e 15 e spec. 25 ss. del cit. d.lgs. n. 68/2011), è prevista – a decorrere dal 2013 –una più definitiva rimodulazione delle fonti di finanziamento delle spese delle Regioni nel settore sanitario (cfr. ancora l’art.15 del cit. d.lgs. n. 69/2011).

Tuttavia, in un contesto complessivo della finanza pubblica regionale che vede larga parte delle risorse disponibili da parte delle Regioni medesime destinate a coprire i costi di funzionamento del servizio sanitario regionale, in ogni caso, occorrerà garantire il raggiungimento dei livelli essenziali delle prestazioni, in sintonia con gli artt. 117, co. 2, lett. m) e 120, co. 2, Cost. A questo riguardo, il primo comma dell’art. 13 del più volte cit. d.lgs. n.68/2011[4] sembra essere piuttosto preciso e impegnativo nel ribadire, da un lato, l’ineluttabilità dei vincoli di finanza pubblica, e nel confermare, dall’altro lato, gli inderogabili doveri di solidarietà sociale che si materializzano (anche) con la messa in campo dei LEA (livelli essenziali di assistenza), che debbono essere garantiti su tutto il territorio nazionale secondo criteri e valori di uniformità.

La realtà di questi giorni manifesta che i vincoli della finanza pubblica sono andati a detrimento dei LEA, le modalità di determinazione dei quali, peraltro, devono essere stabiliti con legge dello Stato, alla luce del primo comma del cit. art. 13 del d.lgs. n. 68/2011.

Dovrebbe, in questo contesto, favorirsi un percorso virtuoso che porti le singole Regioni (e, più in generale, le pubbliche amministrazioni) a mettere in campo gli opportuni e necessari interventi volti alla razionalizzazione della spesa sanitaria in vista dell’effettivo rispetto dei «piani di rientro» dai disavanzi sanitari che caratterizzano i bilanci di esercizio di tutte (o quasi) le amministrazioni regionali. Rappresentano fatto notorio gli “sprechi” che hanno caratterizzato negli anni passati la gestione economica dei servizi sanitari a livello locale.

Le misure messe in campo dal legislatore spaziano: dal risparmio della spesa farmaceutica alla reintroduzione, di fatto, del ticket sanitario quale partecipazione dell’assistito al costo delle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale.

5.      Come superare l’impasse

Il comma 80 dell’art. 2 della l. 23.12.2009, n. 191, prevede che: «[...]qualora in corso di attuazione del piano o dei programmi operativi …gli ordinari organi di attuazione del piano o il commissario ad acta rinvengano ostacoli derivanti da provvedimenti legislativi regionali, li trasmettono al Consiglio regionale, indicandone puntualmente i motivi di contrasto con il Piano di rientro o con i programmi operativi. Il Consiglio regionale, entro i successivi sessanta giorni, apporta le necessarie modifiche alle leggi regionali in contrasto, o le sospende, o le abroga. Qualora il consiglio regionale non provveda ad apportare le necessarie modifiche legislative entro i termini indicati, ovvero vi provveda in modo parziale o comunque tale da non rimuovere gli ostacoli all’attuazione del piano o dei programmi operativi, il Consiglio dei ministri adotta, ai sensi dell’art. 120 Cost., le necessarie misure, anche normative, per il superamento dei predetti ostacoli».

E, con ciò, l’art. 120, co. 2, Cost., conferma, anche in riferimento al settore sensibile della sanità, la sua natura di norma di chiusura e di messa in sicurezza del sistema delle relazioni, giuridiche e fattuali, che tiene insieme i soggetti istituzionali del nostro modello multilivello.

Nel momento in cui la messa in sicurezza dei conti pubblici (e, segnatamente, il superamento della situazione di cronico squilibrio dei bilanci regionali, sul versante della spesa destinata a coprire i costi del servizio sanitario) diviene un obiettivo necessario e inderogabile, in quanto necessario (esso stesso) a meglio fronteggiare la crisi della finanza globale e, nello specifico, delle economie reali dei paesi della cd. Eurozona, appare allora assolutamente indispensabile la messa in campo (anche) di strumenti e modelli di decisione a carattere unilaterale e, se si vuole, autoritativo, eventualmente in alternativa a quelli di tipo pattizio e consensuale.

Si ricorda che l’art. 13 del d.lgs. n. 68/2011, in materia di livelli essenziali delle prestazioni e di obiettivi di servizio, manifesta un deciso e marcato favor nei confronti della legge (ovviamente dello Stato), la quale deve stabilire le modalità di determinazione dei suddetti livelli essenziali e, in particolare, dei LEA sanitari, laddove è con una fonte secondaria (un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri) che dovrà essere effettuata la ricognizione dei livelli essenziali delle prestazioni. E, tuttavia, il quinto comma dello stesso art. 13 del d.lgs. n. 68/2011, contempla egualmente lo strumento dell’intesa, da concludersi in sede di conferenza unificata, nella quale, fino a che i livelli essenziali delle prestazioni non siano determinati con legge, debbono essere stabiliti «[] i servizi da erogare, aventi caratteristiche di generalità e permanenza, e il relativo fabbisogno, nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica». Il che sembra poter significare che, almeno negli intenti del legislatore, la disciplina racchiusa nella suddetta intesa è, per così dire, a termine, vale fino a che (e soltanto fino a che) la legge formale, oppure altra fonte equipollente, non provveda a disciplinare la materia.

Quando si tratti di assumere decisioni certamente complesse e difficili, tali essendo quelle che si concretano nella contrazione dei flussi di finanza pubblica in uscita o nella scelta di misure eccezionali per far fronte ad una situazione emergenziale (quale è quella attualmente in atto, per via della diffusione dell’influenza epidemica), con il conseguente sacrificio delle aspettative e delle situazioni giuridiche soggettive della persona, una decisione consensualmente assunta, in quanto frutto della sagace negoziazione delle parti che stringono il «negozio», può sicuramente rivelarsi come un ottimo modus operandi.

Tuttavia, ai sensi del primo comma dell’art. 17 del d.l. n. 98/2011, se non si riesce a stipulare fra lo Stato e le Regioni un’intesa capace di indicare le forme e le modalità grazie alle quali realizzare il programmato contenimento del contributo economico a carico dello Stato per il finanziamento del servizio sanitario nazionale o l’auspicato contenimento della diffusione del virus, si deve inevitabilmente provvedere in altro modo. In particolare, qualora non sia stato possibile concludere l’intesa in questione, si provvederà al conseguimento degli obiettivi declinati dalla norma in via «autoritativa».

6.      Conclusioni

Il Dictionary of Epidemiology della Oxford University Press definisce la sanità pubblica come «la scienza e l’arte di prevenire le malattie, prolungare la vita e promuovere la salute per mezzo di sforzi organizzati da parte della società»: in questo contesto è allora centrale la missione di migliorare la salute di tutti. Qual è dunque la giustificazione di strutture amministrative costose nella sanità pubblica, se non il miglioramento del livello della salute e allo stesso tempo lo sforzo di minimizzare le disuguaglianze sanitarie?

I cambiamenti sanitari in atto si inseriscono nel contesto di un sistema capitalistico che si sta estendendo in tutto il mondo: il capitalismo globale. La globalizzazione intesa come scambi fra le diverse popolazioni di tutto il mondo è sempre esistita, e anche la sua accelerazione non è un fenomeno nuovo.

Nelle economie avanzate gli scambi finanziari virtuali crescono a un ritmo molto più alto rispetto agli scambi commerciali di beni e servizi. Gli scambi finanziari offrono numerose nuove opportunità di alti profitti, spesso di natura puramente speculativa, mentre le attività produttive, meno redditizie, si trovano in una posizione di inferiorità: si ampliano così le disuguaglianze socioeconomiche che penalizzano le persone e i Paesi esclusi dai circuiti finanziari o in posizione periferica.

In questo contesto globale si registrano cambiamenti nelle disuguaglianze fra i diversi Paesi e all’interno dei singoli Paesi, anche dal punto di vista della tutela della salute. Il divario in termini di reddito pro capite fra la regione più ricca (l’Europa nel 1820 e poi l’Occidente industrializzato) e la più povera (l’Africa) è cresciuto da 3 nel 1820 a 15 nel 1950; è sceso a 13 nel 1973, ma si è impennato durante lo sviluppo dell’economia neoliberista globale, arrivando a 19 nel 1998.

Ma le diseguaglianze sono aumentate anche all’interno dei singoli Paesi.

Negli Stati Uniti, ad esempio, la differenza nell’aspettativa di vita fra le classi più privilegiate e le più svantaggiate è passata da 2,8 anni nel 1980-82 (75,8 contro 73,0) a 4,5 anni nel 1998-2000 (79,2 contro 74,7). L’aumento di queste differenze è stato accompagnato nei Paesi occidentali da un aumento parallelo delle disuguaglianze economiche. Il fenomeno è particolarmente marcato negli Stati Uniti, dove il rapporto fra il reddito del 10% dei nuclei familiari più ricchi e il 10% più povero è aumentato da 8,85 nel 1969 a 10,63 nel 2001.

La maggior parte di queste disuguaglianze non sono naturali e radicate nella biologia, ma artificiali e determinate storicamente.

Il nostro Stato ha un vantaggio: quello di assicurare l’assistenza sanitaria a prescindere dal reddito.

E’ un vantaggio che, però, non dobbiamo disperdere ed, anzi, dovremmo valorizzare, investendo nei settori nevralgici (sanità e cultura).

In quest’ottica, in presenza di un contrasto tra valori costituzionalmente protetti (quali l’iniziativa economica privata – art. 41 – e la salute – art. 32 -), non dovrebbero nutrirsi dubbi sulla necessità di assicurare prevalenza a quelli più sensibili e diffusi.

Il tutto non venendo mai meno all’imperativo categorico dell’etica kantiana, che impone di considerare l’umanità sempre come un fine e mai come un mezzo: usando le popolazioni solo a fini scientifici, senza nessun coinvolgimento attivo diretto o indiretto nei processi di sanità pubblica da cui possono avere benefici, invece, si considerano le persone come mezzo e non come fine.


[1] L’espressione è attribuibile a Ferrara, L’ordinamento della sanità, Torino, 2007, 119 ss.

[2]Cfr. Corte cost. 11.2.2010, n. 40, in Ragiusan, 2010, 315-316, 94; Corte cost. 13.06.2008, n. 203, in Foroamm. – Cons. St., 2008, 6, 1691; Corte cost. 1.10.2003, n. 303, in Giur. cost., 2003, 5.

[3] Corte cost. 26.06.2002, n. 282. In dottrina, per tutti, Molaschi, I rapporti di prestazione nei servizi sociali, Torino, 2008.

[4]E, infatti, la norma in questione dispone quanto segue: «Nel rispetto dei vincoli di finanza pubblica e degli obblighi assunti dall’Italia in sede comunitaria, nonché della specifica cornice finanziaria dei settori interessati relativa al finanziamento dei rispettivi fabbisogni standard nazionali, la legge statale stabilisce le modalità di determinazione dei livelli essenziali di assistenza e dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale…».