CEDU – Caso ILVA di Taranto: rischio ambientale

[CLASSIFICAZIONE]

DIRITTO AL RISPETTO DELLA VITA PRIVATA E FAMILIARE – DIRITTO ALLA SALUTE -PERSISTENTE SITUAZIONE DI INQUINAMENTO AMBIENTALE PROVOCATO DALLO STABILIMENTO ILVA DI TARANTO – ASSENZA DI MISURE STATALI VOLTE A GARANTIRE UN’EFFICACE PROTEZIONE DI TALI DIRITTI – ASSENZA DI RIMEDI INTERNI – VIOLAZIONE – SUSSISTENZA

[RIFERIMENTI NORMATIVI]

Costituzione, artt. 9 e 32;

Convenzione EDU, artt. 2, 8 e 13;

Normativa nazionale: D. Lgs. 3 aprile 2006, n. 152.

[SENTENZA SEGNALATA]

Corte e.d.u., Sez. I24 gennaio 2019 (nn. 54414/13 e 54264/15)

Diritto al rispetto della vita privata e familiare – Art. 8, Convenzione e.d.u. – Persistente situazione di inquinamento ambientale provocato dallo stabilimento ILVA di Taranto – Assenza di misure statali volte a garantire un’efficace protezione di tali diritti – Violazione – Diritto a un ricorso effettivo – Art. 13, Convenzione e.d.u. – Violazione.

Abstract. La Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza in esame, pronunciandosi sul caso “ILVA” in cui si discuteva dell’inerzia delle Autorità statali nell’adottare provvedimenti normativi ed amministrativi volti a proteggere gli abitanti della zona ad alto rischio ambientale in cui è sito l’insediamento dell’ILVA di Taranto, ha ritenuto all’unanimità violata da parte dell’Italia la norma convenzionale dell’art. 8, Convenzione EDU, unitamente all’art. 13, che prevede il diritto ad un ricorso effettivo.

Nel caso in esame, 180 ricorrenti si erano lamentati degli effetti sull’ambiente e sulla loro salute delle emissioni tossiche promananti dalle acciaierie dell’Ilva di Taranto, e sull’inefficacia dei rimedi interni. La Corte ha considerato che 19 ricorrenti non avevano lo “status” di vittima, dal momento che non vivevano in una delle città classificate ad alto rischio ambientale: Taranto, Crispiano, Massafra, Montemesola e Statte. La Corte di Strasburgo ha rilevato, in particolare, che la persistenza di una situazione di inquinamento ambientale ha messo in pericolo la salute dei ricorrenti e, più in generale, quella dell’intera popolazione che vive nelle aree a rischio. La Corte ha inoltre dichiarato che le autorità nazionali non avevano assunto tutte le misure necessarie volte a garantire un’efficace protezione del diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata. Infine, la Corte ha ritenuto che questi ricorrenti non avessero avuto a disposizione un rimedio effettivo, consentendo loro di presentare presso le autorità nazionali le loro denunce in merito al fatto che fosse impossibile ottenere misure per garantire la decontaminazione delle aree pertinenti.

Ai sensi dell’articolo 46 (forza vincolante ed esecuzione delle sentenze), la Corte ha ribadito che spetta al Comitato dei Ministri indicare al Governo italiano le misure che dovranno essere assunte per garantire l’esecuzione della sentenza della Corte EDU, pur specificando che gli interventi di bonifica della fabbrica e delle aree colpite dall’inquinamento ambientale si presentano essenziali e urgenti, e che il piano ambientale approvato dalle autorità nazionali, che ha stabilito le necessarie misure ed azioni per garantire la protezione dell’ambiente e della salute della popolazione, deve essere implementato il più rapidamente possibile.

1. Il caso

Il caso, deciso il 24 gennaio u.s., traeva origine da due ricorsi (n. 54414/13 e 54264/15) contro l’Italia, presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione e.d.u., da 180 ricorrenti (52 per il ricorso n. 54414/13; 128 per il ricorso n. 54264/15) che vivono attualmente o hanno vissuto in passato nel comune di Taranto o nelle zone limitrofe. L’impianto di Taranto dell’Ilva è il più grande complesso di acciaierie industriali in Europa. Copre un’area di 1.500 ettari e conta circa 11.000 dipendenti. Sull’impatto delle emissioni dell’impianto sull’ambiente e sulla salute della popolazione locale sono stati diffusi nel corso degli anni diversi rapporti scientifici allarmanti. Il 30 novembre 1990 il Consiglio dei ministri ha individuato i comuni “ad alto rischio ambientale” (tra cui Taranto) e ha chiesto al Ministero dell’Ambiente di elaborare un piano di decontaminazione per bonificare le aree interessate. Dalla fine del 2012 in poi, il Governo ha adottato una serie di interventi normativi, tra cui i cosiddetti Decreti “Salva-Ilva” relativi all’attività della società Ilva di Taranto. In conformità al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 settembre 2017, il termine per l’attuazione delle misure previste dal piano di risanamento ambientale è stato prorogato all’agosto 2023. In tale contesto, con un ricorso volto all’annullamento e alla sospensione dell’esecuzione di tale decreto, la regione Puglia e il comune di Taranto avevano adito il tribunale amministrativo regionale dolendosi delle conseguenze sull’ambiente e sulla salute pubblica dell’ulteriore proroga del termine per l’attuazione delle misure ambientali, prospettando altresì una questione di costituzionalità sul punto. I relativi processi amministrativi sono ancora pendenti. Una nutrita serie di procedimenti penali, nel frattempo, sono stati avviati contro il boarddella società Ilva a causa dei gravi problemi ecologici, dei danni, dell’avvelenamento delle sostanze alimentari, della mancata prevenzione degli incidenti sul posto di lavoro, del degrado della proprietà pubblica, delle emissioni inquinanti in particolare e dell’inquinamento atmosferico in generale. Alcuni di questi procedimenti davanti all’autorità giudiziaria sono culminati in condanne nel 2002, 2005 e 2007. Tra l’altro, la Corte di Cassazione ha affermato che il management dello stabilimento Ilva di Taranto era responsabile dell’inquinamento atmosferico, dello scarico di materiali pericolosi e dell’emissione di particolato (Sez. 3, n. 38936 del 28/09/2005 – dep. 24/10/2005, Riva ed altri, Rv. 232359 – Rv. 232360). I giudici di legittimità hanno altresì rilevato che la produzione di particolato inquinante persisteva nonostante numerosi accordi con le autorità locali nel 2003 e nel 2004.

Con una sentenza del 31 marzo 2011 (C-50/10), la Corte di giustizia dell’Unione europea ha dichiarato che l’Italia era venuta meno ai propri obblighi ai sensi della direttiva 2008/1 CE del Parlamento europeo e del Consiglio riguardante la prevenzione e la riduzione integrate dell’inquinamento. Nel contesto di una procedura di infrazione contro l’Italia, avviata il 16 ottobre 2014, la Commissione europea ha inoltre emesso un parere motivato chiedendo alle autorità italiane di rimediare ai gravi problemi di inquinamento accertati. Ha preso atto che l’Italia non aveva adempiuto ai propri obblighi di garantire che le acciaierie si conformassero alla Direttiva sulle emissioni industriali (direttiva n. 2010/75/UE, che sostituisce la precedente direttiva n. 2008/1/CE a far data dal 7 gennaio 2014).

2.Invocando in particolare gli articoli 2 (diritto alla vita) e 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), i ricorrenti si erano lamentati del fatto che lo Stato non aveva adottato misure legittime e regolamentari per proteggere la loro salute e l’ambiente, e di non essere riuscito a fornire loro informazioni sull’inquinamento e sui rischi connessi alla loro salute. La Corte EDU ha deciso di considerare questi ricorsi esclusivamente ai sensi dell’art. 8.

Basandosi poi sull’articolo 13 (diritto a un ricorso effettivo), i ricorrenti avevano sostenuto che vi era stata una violazione del loro diritto a un rimedio efficace.

Basandosi, infine, sull’articolo 46 (forza vincolante ed esecuzione delle sentenze), i ricorrenti di cui al ricorso n. 54264/15, avevano chiesto l’avvio della procedura per una sentenza “pilota”.

I ricorsi venivano presentati alla Corte europea dei diritti dell’uomo il 29 luglio 2013 e il 21 ottobre 2015.

3.La Corte di Strasburgo esaminando il primo profilo attinente alla ricevibilità, ha rilevato che 19 ricorrenti non rivestivano lo status di vittima, dal momento che non vivevano nei comuni colpiti dalle emissioni dell’impianto di Ilva a Taranto – le città classificate come tali ad alto rischio ambientale erano Taranto, Crispiano, Massafra, Montemesola e Statte – e gli stessi non avevano dimostrato di essere stati personalmente colpiti dalla situazione lamentata.

4.Quanto al merito della questione, con riferimento alla violazione dell’articolo 8 concernente i ricorrenti residenti nelle aree colpite, la Corte ha osservato che, a partire dagli anni ’70, gli studi scientifici avevano dimostrato gli effetti inquinanti delle emissioni dallo stabilimento Ilva di Taranto sull’ambiente e sulla salute pubblica. Infatti, i risultati di tali rapporti, molti dei quali emessi da organismi statali e regionali, erano incontestati dalle parti. Tra gli altri dati, il rapporto SENTIERI 2012 (Studio Epidemiologico Nazionale del Territorio e degli Insediamenti Esposti a Rischio Inquinamento) ha confermato l’esistenza di un legame causale tra l’esposizione ambientale alle sostanze cancerogene inalabili prodotte dalla società Ilva e lo sviluppo di tumori polmonari, pleurici e di patologie cardiovascolari nelle persone residenti nelle aree colpite. Inoltre, uno studio del 2016 aveva dimostrato l’esistenza di un legame causale tra l’esposizione a PM10 (ossia le “polveri sottili”) e al SO2 (Diossido di zolfo) da fonti industriali, derivanti dall’attività produttiva dell’Ilva, e l’aumento della mortalità per cause naturali, tumori e malattie ai reni e cardiovascolari nella popolazione di Taranto.

5.La Corte ha rilevato che, nonostante i tentativi delle autorità nazionali di ottenere la decontaminazione dell’area in questione, i progetti realizzati non avevano finora prodotto i risultati desiderati. Le misure raccomandate dal 2012 in poi nel contesto dell'”AIA” (la c.d. autorizzazione integrata ambientale), al fine di ridurre l’impatto ambientale della fabbrica non erano state mai realmente introdotte, tant’è che la mancata attuazione di tali misure era stata all’origine di una procedura di infrazione dinanzi alle autorità dell’Unione europea. Inoltre, il termine per l’attuazione del piano ambientale approvato nel 2014 è stato rinviato ad agosto 2023. La procedura messa in atto per raggiungere gli obiettivi identificati per bonificare l’area era quindi estremamente lenta. Nel frattempo, il Governo era intervenuto in numerose occasioni attraverso misure urgenti (i cosiddetti decreti “Salva-Ilva“) per garantire che le acciaierie continuassero la produzione, nonostante la constatazione da parte delle autorità giudiziarie competenti, sulla base di relazioni di esperti chimici ed epidemiologici, che esistevano gravi rischi per la salute e per l’ambiente. Inoltre, era stata concessa un’immunità amministrativa e penale alle persone responsabili di garantire il rispetto dei requisiti ambientali, in particolare all’amministratore giudiziario ed al futuro acquirente dell’azienda. Questa situazione è stata aggravata dall’incertezza derivante, da un lato, dallo stato di dissesto finanziario della società e, dall’altro, dall’opzione concessa al futuro acquirente di posticipare le operazioni di bonifica all’interno della fabbrica. La realtà, dunque, è che la gestione da parte delle autorità nazionali delle questioni ambientali riguardanti l’attività produttiva nelle aree limitrofe allo stabilimento Ilva di Taranto era, al momento, in una situazione di stallo.

6.Per questi motivi, la Corte ha ritenuto che la persistenza di una situazione d’inquinamento ambientale aveva messo in pericolo la salute dei ricorrenti e, più in generale, quella dell’intera popolazione residente nelle aree a rischio, rimaste, così come stanno le cose, senza informazioni su come procedere nelle operazioni di bonifica del territorio in questione, in particolare per quanto riguarda i termini di inizio dei relativi interventi. Pertanto, ha rilevato che le autorità nazionali non erano riuscite ad adottare tutte le misure necessarie per garantire una protezione efficace del diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata. Pertanto, non era stato assicurato il giusto equilibrio, da un lato, tra l’interesse dei ricorrenti a non essere soggetti al grave inquinamento ambientale che avrebbe potuto influire sul loro benessere e sulla loro vita privata e, dall’altro, gli interessi della società nel suo complesso.

Ne è conseguita, dunque, per la Corte EDU una violazione dell’articolo 8 della Convenzione.

7.La Corte ha poi dichiarato che i ricorrenti non avevano avuto a disposizione un rimedio efficace che consentisse loro di portare davanti alle autorità nazionali le loro doglianze relative al fatto che era impossibile ottenere misure per garantire la decontaminazione delle aree interessate dalle emissioni tossiche dell’impianto dell’Ilva.

Vi era stata quindi anche una violazione dell’articolo 13 della Convenzione.

8.Infine, la Corte ha ritenuto che non fosse necessario applicare la procedura della c.d. sentenza pilota. In tal senso, ha ribadito che spetta al Comitato dei Ministri, ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione (forza vincolante ed esecuzione delle sentenze) indicare al Governo italiano le misure che, in termini pratici, dovranno essere adottate per garantire l’esecuzione della sentenza della Corte. In questo contesto, tuttavia, ha sottolineato che gli interventi di bonifica dello stabilimento e delle aree colpite dall’inquinamento ambientale sono essenziali e urgenti. Pertanto, il piano ambientale approvato dalle autorità nazionali, che ha indicato le misure e le azioni necessarie per assicurare protezione ambientale e sanitaria alla popolazione, dovrebbe essere attuato il più rapidamente possibile.

9.Quanto, infine, alla richiesta di liquidazione di una somma di denaro ai sensi dell’art. 41 (equa soddisfazione), la Corte ha ritenuto che la constatazione di una violazione costituiva di per sé sufficiente soddisfazione a titolo di danno non patrimoniale, condannando quindi l’Italia a corrispondere la somma di 5.000 euro, a titolo di costi e spese sostenute per ciascun ricorso.

10.I precedenti della Corte di Strasburgo che si occupano del tema dell’inquinamento industriale, affrontano, in particolare, il tema con riferimento al pericolo per la salute delle persone e agli altri effetti negativi per l’ambiente.

11.Con riferimento al tema «pericolo per la salute delle persone», le decisioni richiamate dalla Corte interessano molti Paesi aderenti alla Convenzione.

12.Tra le più significative, il caso Oneryildiz c. Turchia [GC] del 30 novembre 2004 (n. 48939/1999), in cui la Grande Camera confermava la decisione già presa dalla Corte il 18 giugno 2002. Il ricorrente, che aveva perso 9 componenti della sua famiglia a causa di un’esplosione, verificatasi in una zona adibita a discarica, ma abitata da migliaia di persone che vivevano in situazioni precarie, lamentava la negligenza delle autorità pubbliche. La Corte rileva una violazione sostanziale dell’art. 2 perché lo Stato, pur conscio di un pericolo immediato e reale, non ha compiuto gli sforzi necessari per prevenire l’esplosione e la morte di vite umane. Questa decisione costituisce un importante esempio d’interpretazione estensiva della Convenzione e del concetto di obbligazioni positive. In sintesi, quindi, la Corte di Strasburgo, con la sentenza in esame, ribadisce il principio secondo cui le autorità nazionali sono tenute,exart. 2 della Convenzione, ad adottare misure finalizzate a tutelare il diritto alla vita. Tali misure devono concretizzarsi anche nell’emanazione di un quadro legislativo ed amministrativo volto a proteggere la vita degli individui da qualunque genere di minaccia (caso Ilhan c. Turchia, n. 22277/1993; caso Kilic c. Turchia, n. 22492/1993). Tale obbligo dello Stato si fa più forte nel contesto di attività pericolose e si concretizza anche nel dovere di fornire ai cittadini una corretta informazione. Ulteriore obbligo derivante dalla norma in questione consiste nel dovere di garantire, nel rispetto del quadro legislativo e amministrativo adottato, la repressione e la punizione delle violazioni delle leggi vigenti nell’ordinamento interno (caso Osman c. Regno Unito, n. 23452/1994). La Corte ribadisce, poi, in relazione all’art. 1 Protocollo n. 1, il principio generale secondo cui l’effettivo esercizio del diritto sancito dalla norma non dipende solo dal do- vere di uno Stato di non interferire nel godimento dello stesso, ma richiede anche l’adozione da parte delle autorità a ciò preposte di misure concrete finalizzate alla tutela della proprietà (caso Bielectric S.r.l. c. Italia, n. 36811/ 1997).

13.Limitando, poi, l’attenzione ai soli casi che hanno interessato l’Italia, si segnala anzitutto il caso Guerra e altri c. Italia del 17 dicembre 2002  (n. 14967/1989), che trae origine dal ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo promosso da 40 cittadine del comune di Manfredonia, comune situato ad un chilometro circa dalla fabbrica chi- mica della società anonima Enichem-Agricoltura, insediatasi nel territorio di Monte Sant’Angelo. Nel 1988 la fabbrica, che produceva fertilizzanti e caprolattame, fu classificata ad alto rischio in base ai criteri introdotti dal D.P.R. n. 175/1988, che ha recepito in Italia la famosa direttiva Seveso (Direttiva n. 82/501/Cee) riguardante i rischi da incidenti rilevanti determinati da certe attività industriali dannose per l’ambiente e il benessere delle popolazioni interessate. Secondo il parere dei ricorrenti, non contestato dal governo italiano, nel corso del suo ciclo di produzione lo stabilimento chimico avrebbe liberato nell’aria grandi quantità di gas infiammabile e, questo avrebbe potuto provocare reazioni chimiche esplosive che avrebbero liberato sostanze altamente tossiche. La Corte, nel riconoscere la violazione dell’art. 8 della Convenzione, afferma che viene meno all’obbligo di tutelare il diritto al rispetto della vita privata e familiare lo Stato che, in caso di grave pericolo per l’ambiente, non dà le informazioni che permettono di valutare i rischi potenziali legati al fatto di continuare a risiedere in un territorio esposto a pericolo di inquinamento.

14.Altra vicenda riguardante il nostro Paese, è quella relativa al caso Giacomelli c. Italia del 2 novembre 2006  (n. 59909/2000), riguardante invece il ricorso proposto per violazione dell’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) in relazione a provvedimenti regionali di autorizzazione dell’attività di trattamento di rifiuti da parte di un’azienda operante nel territorio di residenza della ricorrente. La questione era stata sottoposta alla Corte successivamente alla presentazione in sede nazionale di una pluralità di ricorsi con i quali la ricorrente aveva impugnato avanti il competente tribunale amministrativo regionale atti della regione di autorizzazione all’esercizio dell’attività da parte dell’azienda o che consentivano modifiche degli impianti e dei procedimenti di trattamento dei rifiuti, ivi compresa l’attività di inertizzazione di rifiuti tossici. Dei giudizi avviati dalla ricorrente solo uno si era concluso in senso favorevole: infatti il Consiglio di Stato, confermando la sentenza del tribunale amministrativo regionale, aveva ritenuto che dovesse essere annullato l’atto della regione che rinnovava l’autorizzazione all’esercizio dell’attività da parte dell’azienda, poiché emanato senza previa valutazione dell’impatto ambientale. I procedimenti avviati per l’annullamento degli altri atti autorizzatori si erano conclusi con il rigetto del ricorso, mentre il procedimento avviato avverso l’atto regionale del 23 aprile 2004, con cui si rinnovava per cinque anni l’autorizzazione all’esercizio dell’attività d’impresa, risultava ancora pendente all’atto di presentazione del ricorso avanti la Corte di Strasburgo. Il Ministero dell’Ambiente aveva adottato, il 24 maggio 2000, un decreto di valutazione d’impatto ambientale (VIA) che dichiarava l’attività dell’impresa incompatibile con le disposizioni di tutela dell’ambiente e riteneva possibile la prosecuzione dell’attività stessa fino al 29 aprile 2004 a condizione che l’impresa rispettasse specifiche prescrizioni. Il Ministero dell’Ambiente, a seguito d’impugnazione del decreto avanti al TAR da parte dell’azienda emanava un nuovo decreto di VIA, sostanzialmente confermativo del precedente, anch’esso impugnato dalla suddetta azienda avanti al giudice amministrativo. Il 28 aprile 2004 veniva emanato un ulteriore decreto di VIA con cui si consentiva il proseguimento dell’attività dell’azienda a condizione del rispetto di specifiche misure tecniche. Questo decreto veniva impugnato dalla ricorrente il cui ricorso era successiva- mente rigettato per motivi procedurali. Anche la locale ASL e l’ARPA competente avevano presentato rapporti, in cui si evidenziavano omissioni dell’azienda nel rispetto di misure e prescrizioni normativamente previste. La ricorrente, denunciando che il rumore persistente e le emissioni nocive dell’impianto, situato a poca distanza dalla sua abitazione, avevano comportato gravi disturbi all’ambiente ed un rischio permanente per la sua salute e la casa, si rivolgeva alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo al fine di sentire dichiarare la violazione dell’art. 8 CEDU. La Corte, in accoglimento del ricorso, afferma che l’art. 8 della Convenzione riconosce il diritto di ciascun individuo al rispetto della propria abitazione, inteso non solo nel senso di reale spazio fisico, ma anche come pacifico godimento della stessa. La violazione di tale diritto non è limitata solo alla concreta e fisica violazione, ma include anche elementi che non sono fisici o concreti, quali per esempio rumori, emissioni, odori o altre forme di interferenza, che impediscono ad un soggetto di poter godere pacificamente della propria abitazione. Le autorità nazionali, quando sono chiamate a prendere delle scelte in materia ambientale, devono compiere opportuni studi ed indagini in modo che gli effetti delle attività, che potrebbero danneggiare l’ambiente o violare i diritti delle persone, possano essere previsti e valutati in anticipo, così da garantire un giusto equilibrio tra l’interesse dell’individuo e quello della comunità in generale. Se ciò non avviene, sussiste la violazione della norma convenzionale in oggetto.

15.Deve, infine, evidenziarsi come, nel caso Cordella ed altri c. Italia, oggetto della presente informativa, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che si versasse in una situazione diversa da quella che, in altra vicenda, aveva determinato l’irricevibilità del ricorso. Si tratta, in particolare, del caso Smaltini c. Italia del 24 marzo 2015  (n. 43961/09), in cui la Corte EDU ha dichiarato irricevibile il ricorso presentato nel 2009 dall’italiana G. Smaltini, anch’esso relativo ad una vicenda che vedeva coinvolto lo stabilimento ILVA di Taranto, città di residenza della ricorrente nonché sede dell’acciaieria responsabile di emissioni altamente inquinanti per l’ambiente circostante e gravemente nocive per la salute degli abitanti del luogo. La ricorrente, a cui nel settembre 2006 era stata diagnosticata una leucemia mieloide acuta, aveva successivamente sporto querela alla Procura della Repubblica di Taranto per lesioni personali, affermando che l’inquinamento ambientale provocato dalle emissioni dello stabilimento ILVA era causa della patologia sofferta, come dimostrato dalle allegazioni documentali prodotte (cartella clinica, un articolo di giornale relativo alla condanna riportata da alcuni dirigenti della società, un rapporto non datato, reperito in rete, relativo alle emissioni di sostanze cancerogene prodotte dall’ILVA dove si riferivano dati elaborati dall’Istituto Superiore di Sanità). La Procura di Taranto rilevava che il rapporto di causalità tra la patologia diagnosticata alla ricorrente e le emissioni nocive dell’acciaieria non era stato sufficientemente provato e, di conseguenza, proponeva l’archiviazione del caso. Nella sua opposizione la ricorrente integrava la denuncia, semplicemente citando le ricerche condotte nella provincia di Taranto dalla sezione cittadina dell’Associazione Italiana contro la Leucemia (AIL) e depositando altri documenti pertinenti alla questione, ma generici. Il 19 gennaio 2009 il Giudice per le Indagini Preliminari (GIP) di Taranto, dopo un supplemento di indagini disposto d’ufficio, accoglieva la richiesta del Pubblico Ministero di archiviazione del caso, ritenendo non sufficientemente provata l’esistenza del nesso eziologico tra le emissioni prodotte dallo stabilimento ILVA e la patologia della ricorrente. Il 7 agosto 2009, la Smaltini proponeva ricorso a Strasburgo, invocando la violazione dell’art. 2 CEDU. In seguito al decesso della ricorrente, dovuto ad una meningite incurabile per effetto del suo precario stato clinico, la causa veniva proseguita dagli eredi. La Corte di Strasburgo, sulla base delle risultanze emerse dalle perizie di parte e d’ufficio già esaminate dal giudice nazionale, ha constatato, innanzitutto, che tra le coetanee della ricorrente, e nell’area geografica considerata, non si segnalava un’incidenza di casi di leucemia maggiore rispetto alla media italiana; ha constatato, poi, che nell’approfondimento del contraddittorio garantito alla ricorrente, la stessa non era riuscita a provare l’esistenza del nesso di causalità richiesto.

Pertanto, la Corte ha emesso una declaratoria di irricevibilità per manifesta infondatezza dei motivi di ricorso (art. 35, par. 3 e 4).

16.Diversamente, nell’attuale caso Cordella ed altri c. Italia, i ricorrenti hanno denunciato l’assenza di misure statali per proteggere la loro salute e l’ambiente. È solo su quest’ultima domanda, diversa da quella in discussione nel caso Smaltini che la Corte è stata chiamata a decidere. In altri termini, l’impostazione del ricorso Smaltini, fondato unicamente sulla violazione da parte delle autorità nazionali degli obblighi procedurali connessi alla tutela del diritto alla vita ex art. 2 della Convenzione, aveva inciso profondamente sugli esiti della causa, donde la Corte di Strasburgo aveva in quel caso limitato le proprie valutazioni al dato testuale del petitum, dove si lamentava solamente la mancata constatazione da parte delle autorità nazionali dell’esistenza di un rapporto di causalità tra le emissioni inquinanti prodotte dallo stabilimento ILVA e la patologia diagnosticata alla ricorrente, deceduta nelle more del giudizio. Da qui, dunque, la diversità dei casi che ha consentito, in quello deciso il 24 gennaio 2019, di esaminare funditus la questione, pervenendo ad un giudizio di condanna dell’Italia, non incidendo la circostanza del mancato esperimento delle vie di ricorso interno, perché, in relazione al petitum proposto nel caso Cordella ed altri, non vi era aluna necessità di sperimentarle.

Si ricorda, come è noto, che entro tre mesi l’Italia potrà decidere se proporre o meno istanza di rimessione alla Grande Camera della questione.