CEDU – Diffamazione a mezzo stampa e pena detentiva

CLASSIFICAZIONE

DIFFAMAZIONE – LIBERTÀ DI ESPRESSIONE – SANZIONE DETENTIVA – ORDINARIA SPROPORZIONE – LIMITI

RIFERIMENTI NORMATIVI

art. 10 CEDU – Cod. pen., art. 595

PRONUNCIA SEGNALATA – Cass. pen., sez. V, 19 settembre 2019, n. 38721, pres. Bruno, rel. Romano

Abstract

L’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per un reato connesso ai mezzi di comunicazione, è compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti garantita dall’articolo 10 della Convenzione soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza.

1. Il caso

La V sezione della Corte di Cassazione era chiamata ad occuparsi del ricorso proposto dall’imputato, condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi tre di reclusione, oltre che al risarcimento del danno in favore della parte civile, per il reato di cui all’art. 595 cod. pen., in relazione all’art. 13 della legge n. 47 del 1948.

Nel caso di specie, come si desume dall’esame del motivo di ricorso avente ad oggetto la identificabilità della persona offesa, un magistrato di una Procura della Repubblica, il periodico, attraverso il quale erano state diffuse le affermazioni lesive della reputazione, si occupava essenzialmente del territorio coincidente con il circondario del Tribunale.

La V sezione, dopo avere ritenuto inammissibili i motivi che, direttamente o attraverso censure concernenti la mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, aspiravano a rimettere in discussione l’affermazione di responsabilità, ha accolto il terzo motivo che investiva direttamente la congruità del ricordato trattamento sanzionatorio.

2. L’analisi

La Corte, in particolare, ha ricordato che, alla stregua della giurisprudenza della Corte di Strasburgo (da ultimo con la sentenza pronunciata nella causa Sallusti c. Italia del 7 marzo 2019; v. anche la sentenza resa nella causa  Belpietro c. Italia del 24 settembre 2013) la pena detentiva inflitta ad un giornalista responsabile di diffamazione è sproporzionata in relazione allo scopo perseguito di proteggere la altrui reputazione e comporta una violazione della libertà di espressione garantita dall’art. 10 CEDU.

Nel quadro del necessario bilanciamento tra siffatti valori, l’irrogazione della pena detentiva può ritenersi giustificata solo in circostanze eccezionali, segnatamente qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza.

Non ricorrendo questi ultimi presupposti la sentenza è stata annullata senza rinvio agli effetti penali, per essere il reato nel frattempo estintosi per prescrizione; il ricorso è stato invece rigettato agli effetti civili.

3. La giurisprudenza CEDU richiamata

Come detto, la Corte di Cassazione – con soluzione che registra già un precedente in Cass. 13 marzo 2014, n. 12203 – ha affrontato le doglianza del ricorrente, per quanto qui rileva, avendo riguardo alla consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo (può aggiungersi, alle decisioni ricordate dalla sentenza che si riporta, anche Corte Edu nella causa Ricci c. Italia dell’8 ottobre 2013), secondo cui, benché l’irrogazione delle pene sia, in linea di principio, una materia di competenza dei tribunali nazionali, il giudizio di bilanciamento tra opposti interessi giustifica l’irrogazione di una sanzione detentiva solo, come detto, in circostanze eccezionali e, segnatamente, qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza.

Tale rilievo sottolinea l’importanza assegnata dalla Corte di Strasburgo alla particolare intensità della lesione e agli effetti diffusivi della stessa, anche in relazione ad un più ampio contesto.

Sul punto, va segnalata la completa rassegna contenuta nella sentenza resa dalla Grande Camera nella causa Perinçek c. Svizzera del 15 ottobre 2015, che, a proposito degli hate speech, sottolinea (v., in particolare, par. 206 e seg.) la rilevanza delle affermazioni che, inquadrate nel loro immediato o più ampio contesto, possono essere ritenute come una diretta o indiretta incitazione alla violenza o come una giustificazione della stessa o dell’odio o dell’intolleranza.

Una valutazione funzionale, quindi, avente ad oggetto l’idoneità, diretta o indiretta, delle affermazioni a condurre a conseguenze dannose (capacity – direct or indirect – to lead to harmful consequences).

Va aggiunto, sul versante interno, che il Tribunale di Salerno, con ordinanza del 9 aprile 2019, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 38 del 18 settembre 2019, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 595, comma 3, cod. pen., e dell’art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, per violazione degli artt. 3, 21, 25, 27 Cost. e 117, comma 1 Cost. in relazione all’art. 10 CEDU. Analogamente, il Tribunale di Bari, sede di Modugno, con ordinanza del 30 aprile 2019, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 40 del 2 ottobre 2019, ha rimesso alla Consulta questione di legittimità costituzionale delle medesime norme nazionali, per contrasto con l’art. 117 Cost., in relazione al parametro interposto dell’art. 10 CEDU.