CEDU: Divieti trattamenti disumani – Liberazione condizionale

CLASSIFICAZIONE

ERGASTOLO – DIVIETO TRATTAMENTI DISUMANI O DEGRADANTI – DIRITTO AL RISPETTO VITA PRIVATA E FAMILIARE – RIDUCIBILITÀ PENA PERPETUA DE IURE ET DE FACTO – PROSPETTIVA DI LIBERAZIONE – LIBERAZIONE CONDIZIONALE – REVISIONE

RIFERIMENTI NORMATIVI

CONVENZIONE EDU, artt. 3 e 8

RICONOSCIUTA VIOLAZIONE art. 3

PRONUNCIA SEGNALATA – Corte E.D.U., Prima sezione, 12 Giugno 2019, Application n. 77633/16 Marcello Viola c. Italia (n° 2)

Abstract

1. La prima sezione della Corte EDU torna nuovamente sul tema della riducibilità de jure et de facto del cd. ergastolo ostativo, alla luce dell’art. 3 della Convenzione.

Nella causa Marcello Viola c. Italia il ricorrente è un cittadino italiano, nato nel 1959, attualmente detenuto presso il carcere di Sulmona. I fatti riguardano la faida che contrappose due famiglie di ’ndrangheta (la cosca di Radicena e la cosa di Iatrinoli) a partire dagli anni 80 e sino all’ottobre del 1996 (periodo definito come la “seconda faida di Taurianova”).

Il 16 ottobre 1995 la Corte d’assise di Palmi condannò il Viola a 15 anni di reclusione, ridotti dalla Corte d’Assise d’Appello a 12 anni, quale capo e promotore di un’associazione criminale di tipo mafioso per fatti verificatisi tra il 1990 ed il 1992. Il ricorrente non presentava ricorso per cassazione.

A seguito di un secondo processo penale (denominato “Taurus”), nel settembre 1999, la Corte d’Assise di Palmi condannò il Viola all’ergastolo per ulteriori fatti relativi ad attività criminali di tipo mafioso (nel ruolo di capo e promotore dell’organizzazione criminale), nonché per omicidio, rapimento e sequestro di persona da cui è derivata la morte della vittima e possesso illegale di armi da fuoco. L’appello del ricorrente era respinto.

La Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria, nel marzo 2002, confermava la decisione dei primi giudici e, applicando il regime del reato continuato, condannava il ricorrente all’ergastolo con due anni di isolamento diurno. Il 12 dicembre 2008, la stessa Corte, richiesta del riconoscimento del vincolo della continuazione tra i fatti di cui ai due processi, ritenendo unico il programma criminoso, ricalcolava la pena globale, fissandola nell’ergastolo con isolamento diurno per anni due e mesi due.

2. Tra il giugno 2000 e il marzo 2006 il ricorrente era sottoposto al regime detentivo speciale previsto dall’art. 41 bis, comma 2, della legge n. 354 del 26 luglio 1975.

Nel dicembre 2005, il Ministero della Giustizia emanava un decreto con cui ordinava il prolungamento di questo regime per un periodo di un anno, tuttavia, con ordinanza del 14 marzo 2006, il Tribunale di sorveglianza de l’Aquila accoglieva l’appello del ricorrente, ponendo fine al regime speciale.

Successivamente, il Viola presentava per ben due volte domanda per il rilascio di un permesso di uscita.

La prima richiesta era respinta dal giudice di sorveglianza nel luglio 2011, ritenuto non concedibile il permesso a coloro che, come nel caso di specie, venivano condannati all’ergastolo per uno dei reati di cui all’art. 4 bis della legge 26 luglio 1975 n. 354, per difetto di collaborazione con l’autorità giudiziaria. Con ordinanza del 29 novembre 2011, il Tribunale di sorveglianza de l’Aquila respingeva l’appello del ricorrente, osservando come non fosse stata acquisita la prova della cessazione dei legami con l’organizzazione criminale e, altresì, che l’osservazione quotidiana dell’interessato non rivelava il suo impegno in una valutazione critica del suo passato criminale.

La seconda richiesta di permesso era respinta per gli stessi motivi.

Nel frattempo, nel marzo 2015, il signor Viola presentava al tribunale di sorveglianza istanza di liberazione condizionale, rigettata con decisione del 26 maggio 2015 dal Tribunale di sorveglianza de l’Aquila, atteso che il beneficio era subordinato alla collaborazione con la giustizia e, dunque, alla rottura definitiva del legame tra la persona condannata e l’ambiente della mafia, elementi assenti nel caso di specie.

Con sentenza del 22 marzo 2016, la Corte di cassazione respingeva il ricorso proposto contro tale decisione.

3. Il ricorrente ha adito la Corte EDU ai sensi dell’art. 34 della Convenzione, lamentando il trattamento disumano e degradante subito stante l’irriducibilità della sua condanna a vita, per non essergli stata offerta alcuna opportunità di beneficiare della libertà condizionale, nonchè l’incompatibilità del sistema penitenziario con l’obiettivo di emendare e di risocializzare i detenuti, con riferimento agli artt. 3 (Prohibition of torture) e 8 (Right to respect for private and family life) della ECHR. La Corte ha ritenuto esistente la violazione dell’art.3 CEDU.

VIOLAZIONE ART. 3 CEDU

4. I giudici di Strasburgo hanno riconosciuto la fondatezza delle censure mosse dal ricorrente, ritenendo non rispettati i requisiti di cui all’art. 3 della Convenzione.

4.1. Il ricorso ha costituito l’occasione per richiamare i principi già affermati a partire dal noto caso Vinter and Others v. the United Kingdom [GC, no. 66069/09+130/10+3896/10, ECHR, luglio 2013] e, a seguire, Murray v. the Netherlands [GC, no. 10511/10, aprile 2016] e Hutchinson v. the United Kingdom [GC, no. 57592/08, 17 gennaio 2017]. Tuttavia, nella specie, la Corte ha osservato che il ricorrente non aveva lamentato la sproporzione della condanna all’ergastolo, bensì l’irriducibilità de jure et de facto della stessa.

I giudici di Strasburgo hanno ritenuto che, nel caso de quo, il regime applicabile all’ergastolo derivasse dal combinato disposto dell’articolo 22 del codice penale con gli articoli 4 bis e 58 ter della legge sull’ordinamento penitenziario (ergastolo ostativo), disposizioni che prevedono un trattamento penitenziario differenziato che ha l’effetto di impedire la concessione di una liberazione condizionale e l’accesso ad altri benefici penitenziari e misure alternative alla detenzione, se non è soddisfatta la condizione necessaria della collaborazione con la giustizia.

Ebbene, il contenuto di questa collaborazione è regolato dall’articolo 58 ter dell’ordinamento penitenziario, ai sensi del quale la persona condannata deve fornire alle autorità elementi decisivi atti a prevenire le conseguenze del reato o a facilitare l’accertamento dei fatti e l’identificazione dei responsabili dei reati. La Corte ha, tuttavia, precisato che il condannato è esonerato da tale obbligo se la collaborazione risulta impossibile o inesigibile o se fornisce la prova della rottura di qualsiasi legame con il gruppo mafioso.

4.2. I giudici di Strasburgo hanno, dunque, osservato che la legislazione nazionale non vieta in termini assoluti e con effetto automatico l’accesso alla libertà condizionale e ad altri benefici propri del sistema penitenziario, ma lo subordina alla collaborazione con la giustizia, condotta che, ad avviso del Governo, dimostrerebbe in modo tangibile la dissociazione del condannato dall’ambiente criminale e, conseguentemente, il successo del processo di risocializzazione.

Per determinare se l’ergastolo sia de iure et de facto riducibile, cioè se offre una prospettiva di rilascio e la possibilità di un riesame, la Corte si è concentrata sull’unica opzione offerta al richiedente: la cooperazione nelle attività investigative e giudiziarie svolte dalle autorità giudiziarie al fine di avere l’opportunità di chiedere e ottenere la sua liberazione.

Il caso, secondo i giudici di Strasburgo, è diverso da quello all’origine della causa Öcalan c. Turchia (no 2, 18 marzo 2014), in cui il contrasto tra la legislazione turca in vigore e l’art. 3 della Convenzione dipendeva dalla mancata previsione, per un effetto automatico, della possibilità di ottenere un riesame della pena. 

Nel caso di specie, viceversa, il regime nazionale non preclude in maniera assoluta e con effetto automatico l’accesso alla libertà condizionata e agli altri benefici propri del sistema penitenziario, ma subordina tale possibilità alla scelta di collaborare con la giustizia.

La Corte ha preso atto delle affermazioni del Governo a proposito del contemperamento tra le finalità di prevenzione generale e di protezione della collettività, per il quale è richiesto ai condannati per i delitti di mafia di dare prova della loro collaborazione con le autorità a giustificazione del regime differenziato dell’ergastolo, ma anche delle conclusioni del giudice penale nella sentenza di condanna a proposito del patto mafioso che si connota per essere particolarmente solido e perdurante, come la natura permanente del reato dimostra secondo la stessa Corte di cassazione (il richiamo in sentenza è a Cass. n. 46103 del 2014), esso presupponendo l’esistenza di un programma criminoso indeterminato, proiettato al futuro e senza alcun limite di natura temporale. Di talché la permanenza del delitto sarebbe compatibile con l’inattività dell’associato, potendo il rapporto associativo venir meno solo in caso di scioglimento del vincolo o dissociazione del singolo.

Nel richiamare la giurisprudenza costituzionale interna (il riferimento è alla sentenza n. 313 del 1990) sulla funzione della pena e l’esigenza di risocializzazione del condannato che deve caratterizzare la pena sin dalla sua astratta formulazione normativa e fino alla sua concreta esecuzione, la Corte di Strasburgo si è dunque chiesta se l’equilibrio tra le finalità di politica criminale sopra esposte e la funzione di risocializzazione della pena si sia tradotta, nel caso all’esame, in un’eccessiva restrizione della prospettiva di liberazione dell’interessato e della possibilità per quest’ultimo di richiedere un riesame della pena.

La Corte, pur prendendo atto della posizione del Governo che ha precisato come, nel caso di specie, l’ostacolo rappresentato dall’assenza della collaborazione con le autorità da parte del Viola non sia frutto di un automatismo legislativo, ma la conseguenza di una scelta individuale, ha altresì considerato la tesi del richiedente, il quale ha affermato che la collaborazione con le autorità avrebbe esposto se stesso e i suoi congiunti a rischio di rappresaglia da parte del sodalizio mafioso

Orbene, la Corte EDU dubita della libertà di tale opzione così come dell’opportunità di stabilire un’equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale della persona condannata.

Preso atto del rifiuto espresso dal ricorrente di cooperare con il sistema giudiziario, la Corte ha sostenuto che la mancata collaborazione non può essere sempre collegata a una scelta libera e volontaria né giustificata dalla persistenza dell’adesione ai valori criminali e al mantenimento dei legami con l’organizzazione mafiosa, come del resto ha riconosciuto la stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 306 del 1993, allorché ha stabilito che la mancanza di collaborazione non si traduce necessariamente nel mantenimento del legame con l’organizzazione criminosa. Per i giudici di Strasburgo si potrebbe, invero, ragionevolmente prevedere la situazione in cui il condannato collabori con le autorità senza che il suo comportamento rifletta una emenda da parte sua o la sua effettiva dissociazione dall’ambiente criminale.

La Corte EDU ha, dunque, sostenuto che qualora si considerasse la cooperazione con le autorità come unica dimostrazione possibile della dissociazione e dell’emenda della persona condannata, si ometterebbe di tener conto di ulteriori indici che consentirebbero, invero, di valutare i progressi compiuti dal detenuto, atteso che non è escluso che la dissociazione dall’ambiente mafioso possa esprimersi in modo diverso rispetto alla collaborazione con la giustizia.

4.3. I giudici di Strasburgo hanno osservato che il sistema penitenziario italiano si basa sul principio della progressione del trattamento carcerario del detenuto (progressione trattamentale), secondo il quale la partecipazione attiva al programma di rieducazione individuale e il trascorrere del tempo possono avere effetti positivi sul condannato e favorirne, dunque, il pieno reinserimento sociale. Scopo del lavoro all’esterno, del permesso di uscita, della semi-libertà, del rilascio condizionale, è proprio quello di promuovere il processo di risocializzazione del detenuto.

Tuttavia, nel caso di specie, il richiedente non ha beneficiato di queste progressive opportunità di reinserimento sociale, nonostante i rapporti di osservazione della prigione, presentati a sostegno della sua richiesta di rilascio condizionale, abbiano indicato un cambiamento positivo nella sua personalità. La Corte ha tenuto conto, altresì, delle dichiarazioni rese del ricorrente, il quale ha sostenuto che alcuna sanzione disciplinare è stata mai irrogata nei suoi confronti e di aver accumulato dopo la condanna, a seguito della partecipazione al programma di reinserimento, circa cinque anni di liberazione anticipata di cui, però, non ha potuto beneficiare a causa della mancata collaborazione.

La Corte ha considerato, inoltre, che la personalità di una persona condannata non rimane fissa nel momento in cui il reato è stato commesso, potendo evolversi durante la fase di esecuzione della pena, come vuole la funzione di risocializzazione che consente all’individuo di rivedere criticamente il proprio percorso criminale e di ricostruire la sua personalità. Proprio per tale ragione il condannato deve sapere cosa deve fare affinché la sua liberazione sia considerata e a quali condizioni.

4.4. Per i giudici di Strasburgo, dunque, l’assenza di collaborazione con la giustizia determina una presunzione assoluta di pericolosità che priva il ricorrente di qualsiasi prospettiva realistica di liberazione, con la conseguenza che quest’ultimo potrebbe non essere mai in grado di redimersi, laddove indipendentemente dalla sua condotta, la punizione rimarrebbe immutabile.

Mantenendo l’equivalenza tra assenza di collaborazione e presunzione assoluta di pericolosità sociale, l’attuale regime viola l’art. 3 della Convenzione nel momento in cui mette in relazione la pericolosità della persona interessata al momento della commissione del reato invece di prendere in considerazione il percorso di reinserimento e gli eventuali progressi fatti dopo la condanna.

Inoltre, ha osservato la Corte, la presunzione di pericolosità impedisce al giudice competente di considerare la domanda di libertà condizionale e di valutare se il detenuto si sia evoluto e sia progredito sulla via dell’emenda e se, pertanto, il mantenimento dello stato detentivo non sia più giustificato.

4.5. La Corte ha aggiunto che, nonostante i reati per i quali il ricorrente è stato condannato riguardino un fenomeno particolarmente pericoloso per la società, il giudice nel respingere la richiesta di liberazione condizionale avrebbe dovuto valutare i progressi del ricorrente e non limitarsi a rilevare la mancata collaborazione dello stesso con la giustizia, laddove la natura del reato addebitato resta del tutto irrilevante, in quanto non può giustificare una deroga alle disposizioni dell’articolo 3 della Convenzione che vietano in termini assoluti le pene inumani o degradanti.

Infine, ha ricordato come la dignità umana, che si trova al centro del sistema messo in atto dalla Convenzione, impedisca la privazione della libertà di una persona senza operare, allo stesso tempo, il suo reinserimento e senza fornirgli la possibilità di recuperare un giorno questa libertà.

LA DECISIONE

5. Ebbene, alla luce di tali principi la Corte ha considerato come l’ergastolo ostativo imposto al ricorrente, ai sensi dell’art. 4 bis, abbia limitato indebitamente la sua prospettiva di rilascio, nonché la possibilità per il predetto di ottenere un riesame della sua condanna.

Atteso che l’inconfutabile presunzione di pericolosità prevista nel caso dell’ergastolo per i reati di cui all’articolo 4 bis della legge sull’amministrazione penitenziaria (c.d. ostativo), derivante dalla mancata collaborazione con la giustizia, può privare i condannati per tali reati di ogni prospettiva di liberazione e della possibilità di ottenere un riesame della pena, secondo la Corte, lo Stato italiano dovrebbe introdurre una riforma del regime dell’ergastolo, per garantire effettivamente la possibilità di una revisione che possa consentire alle autorità di determinare se, durante l’esecuzione della condanna, il detenuto abbia compiuto progressi e di verificare il permanere o meno di motivi penali legittimi per continuare la detenzione.

5.1. In conclusione, per i giudici di Strasburgo non sono stati rispettati i principi di cui all’articolo 3 e, conseguentemente, la condanna all’ergastolo disposta non può essere qualificata come riducibile ai fini della citata disposizione, precisando, tuttavia, che la constatazione di tale violazione non può essere intesa nel senso di dare al richiedente una prospettiva imminente di rilascio.

Gli Stati contraenti dispongono, invero, di un ampio margine di discrezionalità nel decidere la durata adeguata delle pene detentive per reati specifici e il semplice fatto che una pena detentiva a vita possa essere scontata nella sua integralità non la rende incomprimibile. Di conseguenza, la possibilità di riconsiderare l’ergastolo implica certamente la possibilità per la persona condannata di chiedere la liberazione, ma non necessariamente di ottenerla se questa costituisce ancora un pericolo per la società.

L’OPINIONE DISSENZIENTE DEL GIUDICE WOJTYCZEK

6. Le considerazioni espresse dalla maggioranza non sono state condivise dal giudice Wojtyczek, ad avviso del quale non sarebbe ravvisabile, nel caso di specie, alcuna violazione dell’articolo 3 della Convenzione.

 6.1. Nella partly dissenting opinion si è richiamato, in particolare, l’articolo 2 della Convenzione che impone alle parti contraenti l’obbligo di adottare misure adeguate a proteggere la vita umana. In proposito, il giudice, nel richiamare la giurisprudenza della Corte (caso Kayak c. Turchia, n. 60444/08, 10 luglio 2012), ha ricordato il dovere dello Stato di garantire il diritto alla vita e, dunque, di adottare le misure necessarie atte a proteggere la vita delle persone sotto la sua giurisdizione. Ebbene, tale obbligo di protezione emerge con peculiare rilievo nella lotta contro la criminalità organizzata, atteso che lo Stato, tenendo conto della situazione specifica presente nel proprio paese, deve adottare misure efficaci per smantellare le organizzazioni criminali che minacciano la vita delle persone. Per raggiungere tale obiettivo, il giudice ritiene essenziale distruggere la solidarietà tra i membri dell’organizzazione e infrangere la legge del silenzio ad essa collegata.

Nel caso di specie, il ricorrente era il capo di un’organizzazione criminale e, in quanto tale, ben potrebbe continuare a rappresentare una minaccia per la vita e la sicurezza delle persone in Italia, minaccia che, tuttavia, egli stesso potrebbe contribuire a ridurre significativamente fornendo ragionevolmente le informazioni di cui dispone alle autorità.

Il giudice Wojtyczek ha sostenuto come la legislazione italiana non renda irriducibile la pena per le persone condannate all’ergastolo per reati particolarmente pericolosi, poiché prevede la possibilità della libertà condizionale subordinata – nel solo caso di coloro che sono stati considerati parte del vertice dell’organizzazione criminale – alla collaborazione con la giustizia.

D’altronde, la minaccia che la criminalità organizzata rappresenta per coloro che infrangono la legge del silenzio non sembra costituire un ostacolo insormontabile all’attuazione delle varie misure volte a garantire la cooperazione dei criminali con le autorità giudiziarie.

6.2. In merito al parere espresso dalla maggioranza, secondo cui la mancanza di cooperazione non può sempre essere legata a una scelta libera e volontaria, né può essere giustificata unicamente dalla persistenza dell’adesione a “valori criminali” e dal mantenimento di legami con il gruppo di appartenenza, il giudice ha rilevato l’erroneità dell’astratta valutazione della legislazione nazionale operata, laddove non si dovrebbe verificare se la scelta sia sempre libera e volontaria ma, piuttosto, se la scelta effettiva del detenuto in questione sia concretamente libera e volontaria.

6.3. Inoltre, nella causa Hutchinson c. Regno Unito [(GC), n. 57592/08, § 42, 17 gennaio 2017] la Corte ha sostenuto che per essere compatibile con l’articolo 3, l’ergastolo deve essere riducibile de jure et de facto, ossia deve offrire una prospettiva di liberazione e una possibilità di revisione basata su una valutazione dell’esistenza di motivi penali legittimi per il trattenimento del detenuto, tra cui gli imperativi di punizione, deterrenza, protezione pubblica e riabilitazione. Questo approccio conferma che la pena è uno strumento legale multidimensionale e che la risocializzazione del criminale è sicuramente un obiettivo fondamentale della condanna, ma non l’unico, come invero risulterebbe dall’opinione della maggioranza, atteso che la pena ha anche una funzione retributiva: dà un senso di giustizia non solo alla società ma anche e soprattutto alla vittima. Essa ha anche una funzione deterrente nei confronti di altri potenziali criminali, come, del resto, asserito dalla stessa Corte EDU che, in numerose sentenze, ha ribadito la necessità che la sanzione irrogata sia adeguata a perseguire l’esigenza di dissuadere l’imputato dal commettere nuovamente il reato (cfr. Sidiropoulos e Papakostas c. Grecia, n. 33349/10, 25 gennaio 2018; Zeynep Özcan c. Turchia, n. 45906/99, 20 febbraio 2007). Spetta, pertanto, al legislatore nazionale attuare la politica penale, stabilendo le sanzioni ritenute appropriate per i vari reati e definendo gli obiettivi concreti della sanzione e la loro priorità.

6.4. Il giudice ha poi osservato come le conclusioni della maggioranza si fondino sull’idea della sussistenza nel sistema italiano di una presunzione assoluta di pericolosità sociale del detenuto che rifiuta di cooperare con le autorità, dimenticando però che non si tratta nella specie di un ragionamento presuntivo, ma semplicemente di una regola di diritto che fa derivare alcune conseguenze da alcune circostanze fattuali. Nel caso de quo, la pena inflitta al ricorrente non deriva da una presunzione di pericolosità sociale dello stesso, bensì dall’esigenza di dare un senso di giustizia alle famiglie delle vittime e alla società italiana in generale e di dissuadere altri potenziali criminali dal commettere reati simili e, dunque, dall’effettiva sussistenza di motivi giustificanti il mantenimento dello stato di detenzione (legitimate penological grounds).

6.5. Infine, il principio affermato dalla Corte nella causa Hutchinson c. Regno Unito (n. 57592/08, 17 gennaio 2017) secondo cui un detenuto condannato all’ergastolo ha il diritto di sapere, fin dall’inizio della sua condanna, che cosa deve fare affinché il suo rilascio possa essere considerato e quali siano le condizioni applicabili, è, a parere del giudice, del tutto rispettato dalla legge italiana, la quale risulta sufficientemente chiara e consente al detenuto di gestire la propria condotta, rispettando così il principio della certezza del diritto.

L’ordinamento interno.

7. La premessa costituzionale. L’ambito entro cui, ormai da tempo, si muove la giurisprudenza di legittimità in tema di ergastolo cd. ostativo è stato delineato da una importante pronuncia della Corte costituzionale.

Con la sentenza n. 135 del 2003 la Corte costituzionale dichiarò la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, l. n. 354 del 1975 per contrasto con il principio rieducativo della pena di cui all’art. 27 Cost., nella parte in cui pone la collaborazione con la giustizia come condizione di accesso ai benefici penitenziari e, in specie, alla liberazione condizionale, sull’osservazione che non si tratta di una preclusione automatica, assoluta e definitiva. È infatti rimessa al condannato la scelta se collaborare o meno, e questa decisione è assunta dal legislatore a “criterio legale di valutazione di un comportamento che deve necessariamente concorrere ai fini di accertare il sicuro ravvedimento del condannato”. Ciò, peraltro, in un contesto che tiene conto dell’eventualità che la scelta di collaborazione possa non essere possibile, soccorrendo in tal caso le previsioni che, accertata l’impossibilità o l’inesigibilità della collaborazione, consentono al condannato di fruire sia dei benefici penitenziari che della liberazione condizionale.

7.1. La risposta della giurisprudenza di legittimità. Entro questa direttrice la Corte di cassazione ha da allora reiteratamente affermato, per dirla con una delle recenti decisioni – Sez. 1, n. 7428 del 17/01/2017, Pesce, Rv. 271399 – che “il sistema delineato dall’ordinamento penitenziario vigente in materia di accesso ai benefici del detenuto in espiazione della pena dell’ergastolo per condanne relative a reati contemplati dall’art. 4-bis ord. pen. (cd. ergastolo ostativo) è compatibile con i principi costituzionali e con quelli della Conv. EDU, in quanto, in caso di provato ravvedimento, il condannato può essere ammesso alla liberazione condizionale ex art. 176, comma terzo, cod. pen. anche per i predetti reati, in relazione ai quali la richiesta collaborazione e la perdita di legami con il contesto della criminalità organizzata costituiscono indici legali di tale ravvedimento”. Ha quindi escluso che il condannato all’ergastolo per uno dei reati cd. ostativi sia privato in radice del diritto alla speranza che la sua detenzione possa non essere perpetua.

Qualche tempo prima la Corte di cassazione – Sez. 1, n. 27149 del 22/03/2016, Viola, Rv. 271232 – aveva dichiarato, forte degli insegnamenti della Corte costituzionale, la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale “degli artt. 4-bis e 58-ter ord. pen., in riferimento all’art. 27, comma 3, Cost., nella parte in cui prevedono che, nel caso di condanna all’ergastolo per delitto ostativo, il beneficio della liberazione condizionale sia ammissibile solo se il condannato collabora con la giustizia, in quanto la possibilità per il condannato di scegliere se collaborare o meno esclude che possa ritenersi vanificato, in concreto, il perseguimento della finalità rieducativa della pena”.

7.2. Un parziale mutamento di rotta. Le dichiarazioni di manifesta infondatezza della questione di compatibilità con i principi costituzionali della disciplina dell’ergastolo ostativo sono state più d’una. Anche Sez. 1, n. 15982 del 17/09/2013, dep. 2014, Greco, Rv. 261990, in precedenza, aveva asserito la manifesta infondatezza, “in riferimento agli artt. 3, 24, 27 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, all’art. 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e all’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, della questione di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis, comma 1, e 58-ter della legge 25 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui subordinano la concessione dei benefici penitenziari (nella specie, permessi premio) ai condannati alla pena dell’ergastolo per uno dei delitti previsti dall’art. 4-bis, comma 1, cit. alla collaborazione con la giustizia, poiché tale disposizione consente al detenuto di scegliere se collaborare o meno, nonché di modificare la propria scelta, in ogni caso fruendo delle garanzie previste dagli art. 210 e 197 bis cod. proc. pen., e trova, inoltre, un limite quando la collaborazione è impossibile perché inesigibile o irrilevante”.

L’atteggiamento della giurisprudenza è sia pure parzialmente cambiato con una ultima pronuncia – Sez. 1, n. 57913 del 20/11/2018, Cannizzaro, Rv. 274659 –  che, invece, ha ritenuto di dover interpellare la Corte costituzionale per una rinnovata verifica della conformità ai principi di cui agli artt. 3 e 27 Cost. dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 25 luglio 1975, n. 354, “nella parte in cui esclude che possa essere ammesso alla fruizione di permessi-premio il condannato all’ergastolo per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso indicate, che non abbia collaborato con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter, legge n. 354 del 1975”

Sia pure nel ristretto e specifico campo dei permessi premio e quindi senza alcun riferimento ai benefici che si sostanziano nelle misure alternative alla detenzione e che hanno la capacità di modificare le condizioni di restrizione carceraria, la Corte di cassazione ha dissentito dall’affermazione che “la cessazione dei legami consortili di un detenuto con il gruppo criminale di riferimento possa essere dimostrata, durante la fase di esecuzione della pena, solo attraverso le condotte collaborative di cui all’art. 58-ter ord. pen.”, e ha revocato in dubbio che la collaborazione si atteggi quale “canone valutabile in termini di presunzione assoluta, a prescindere dalle emergenze concrete”.

Ha motivato una posizione di tal fatta osservando che “le ragioni che possono indurre un condannato all’ergastolo ostativo a non effettuare una scelta collaborativa ex art. 58-ter ord. pen. non risultano univocamente dimostrative dell’attualità della pericolosità sociale e non necessariamente coincidono con la volontà di rimanere legato al sodalizio mafioso di provenienza. Tale scelta, infatti, può trovare spiegazione in valutazioni che prescindono dal percorso rieducativo, tra le quali, a titolo meramente esemplificativo, si possono citare il rischio per l’incolumità propria e dei propri familiari; il rifiuto morale di rendere dichiarazioni di accusa nei confronti di un congiunto o di persone legate da vincoli affettivi; il ripudio di una collaborazione di natura meramente utilitaristica”.

Uno spunto per questa rinnova riflessione sulla compatibilità costituzionale dell’ergastolo ostativo è provenuto dalla stessa più recente giurisprudenza costituzionale. La Corte di cassazione ha infatti richiamato, per meglio argomentare il giudizio di non manifesta infondatezza, la sentenza n. 149 del 2018 con cui è stata dichiarata l’illegittimità di quella particolare forma di ergastolo prevista dall’art. 58-quater ord. pen. per i casi in cui la condanna è pronunciata per i delitti di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione o per sequestro di persona a scopo di estorsione, seguiti dalla morte della vittima. Per tale categoria di condannati la soglia temporale di accesso ai benefici dell’ammissione al lavoro all’esterno, ai permessi premio e alla semilibertà, pur in presenza di una collaborazione con la giustizia o delle condizioni equiparate (collaborazione impossibile o irrilevante), era in ogni caso quella dei ventisei anni, non anticipabile con gli sconti semestrali di liberazione anticipata, invece applicabili per l’accesso alla liberazione condizionale, interessata comunque, ai sensi dell’art. 176, comma terzo, cod. pen., dalla medesima soglia di pena espiata.

Giova infine ricordare che la sentenza Viola c. Italia n. 2 diventerà definitiva  il 13 settembre 2019 soltanto se il Governo italiano non deciderà di chiedere il rinvio della decisione alla  Grande Camera, ai sensi dell’art. 43, § 1, Conv. e dell’art. 73, § 1, Reg. Corte edu.