CEDU – Divieto prova testimoniale nel processo tributario

CLASSIFICAZIONE

TRIBUTI – CONTENZIOSO TRIBUTARIO – PROVA TESTIMONIALE – NON AMMISSIBILITA’ – VALENZA DI DICHIARAZIONI DI TERZI IN SEDE EXTRAPROCESSUALE – ART. 6 CEDU

RIFERIMENTI NORMATIVI

art. 6 CEDU – ART. 7 DPR 546 DEL 1992 – ART. 2729 COD. CIV.

PRONUNCIA SEGNALATA – Cass. civ, sez. V, n. 24531 del 2019, pres. Virgilio, rel. Triscari

Abstract

         Il divieto di prova testimoniale nel processo tributario, di cui all’art. 7, comma 4, d.P.R. n. 546 del 1992 non impedisce che le dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale e recepite in forma di atto notorio o in verbali dell’Amministrazione costituiscano elementi indiziari, se non addirittura presuntivi, dei fatti cui si riferiscono, in linea con il principio del giusto processo (art. 6 Convenzione EDU).

1. Il caso

Il contribuente in questione era destinatario di un avviso di accertamento con il quale venivano recuperati a tassazione alcuni costi che aveva provveduto a dedurre dalla base imponibile su cui calcolare l’imposta, nonché l’iva che aveva provveduto a detrarre.

Tali costi si riferivano al pagamento di fatture di una ditta terza, che l’Amministrazione riteneva emesse per operazioni inesistenti, procedendo, pertanto, al recupero a tassazione del costo dedotto.

Mentre la Commissione Tributaria Provinciale (CTP) accoglieva il ricorso del contribuente, il giudice di appello, la Commissione Tributaria Regionale (CTR) accoglieva l’appello dell’ufficio, confermando l’accertamento.

Il contribuente ricorreva, allora, alla Corte di Cassazione. Uno dei motivi di ricorso consisteva nel denunciare il vizio della sentenza della CTR che non aveva ritenuto utilizzabili dichiarazioni di terzi rese in forma di atto notorio, allegate dal contribuente, nelle quali questi fornivano elementi per ritenere che le fatture in questione corrispondevano ad operazioni realmente avvenute, cosicché il costo doveva considerarsi effettivo, e quindi correttamente dedotto.

2. L’analisi

La sez. V della Corte, nella sentenza in questione, accoglie tale motivo di ricorso del contribuente, annullando la sentenza impugnata e rinviando alla CTR per nuovo esame della causa.

Il motivo di accoglimento consiste proprio nella questione sul valore di tali dichiarazioni, che la CTR aveva escluso.

Nel processo tributario vige, infatti, il principio di inammissibilità della prova testimoniale, ai sensi dell’art. 7 d.P.R. 546 del 1992 che, nel disciplinare i poteri delle commissioni tributarie, al comma 4 afferma:

Non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale.

Nella specie si controverte di dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, recepite in atto notorio, ed allegate dal contribuente.

La Corte precisa che, per principio da essa già affermato in precedenza, tale divieto non impedisce di utilizzare dichiarazioni di terzi, rese in sede extraprocessuale, recepite dagli organi dell’Amministrazione finanziaria nella fase amministrativa. Accade, infatti, sovente che, durante le fasi di accertamento vero e proprio, per esempio in occasione di accessi presso i locali del contribuente o in sede di contraddittorio con esso prima dell’emissione dell’atto formale impositivo (l’avviso di accertamento, appunto), il contribuente rilasci dichiarazioni che vengono verbalizzate dall’amministrazione.

La Corte ha affermato, in precedenti occasioni, che tali dichiarazioni hanno il valore probatorio di elementi indiziari. Ancora di più, se esse rivestono i requisiti di gravità, precisione e concordanza, possono integrare presunzioni semplici ai sensi dell’art. 2729 cod. civ.

Ora, questa norma prevede anche, al comma 2, il principio secondo cui le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni. La sentenza in questione ritiene, però, inapplicabile tale previsione al processo tributario, in virtù della specificità dello stesso. Il nostro sistema tributario si basa, infatti, in gran parte su presunzioni in favore dell’Amministrazione, che il contribuente può superare con prova contraria, per cui applicare alla lettera tale previsioni vorrebbe dire quasi vanificare l’intero impianto del sistema tributario nazionale.

Tuttavia, se tale norma è inapplicabile e, quindi, l’Amministrazione può avvalersi di presunzioni, la sentenza ritiene che tale principio debba valere, corrispondentemente, anche a favore del contribuente, e che quindi anch’egli possa introdurre nel processo dichiarazioni rese in sede extraprocessuale.

Questo in virtù del principio di parità di armi tra fisco e contribuente, che porta la sentenza a ritenere la possibilità di introdurre nel processo tributario dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, anche se non assunte o verbalizzate in contraddittorio tra le parti, ma rese unilateralmente.

Anch’esse avranno, quindi, valore indiziario, e presuntivo qualora abbiano i requisiti di gravità, precisione e concordanza, secondo l’apprezzamento del giudice.

La decisione analizza, infine, tale conclusione alla luce dei principi sovranazionali, ed in particolare della Convenzione, e la ritiene del tutto compatibile con l’art. 6 della stessa, come interpretato dalla Corte EDU, ricordando che in due sentenze quest’ultima ha affermato che il divieto di prova testimoniale nel processo tributario è compatibile con il principio del giusto processo solo se da tale divieto non deriva un grave pregiudizio della posizione processuale del ricorrente (da intendersi come contribuente) sul piano probatorio non altrimenti rimediabile.

3. Il divieto di testimonianza nel processo tributario nella giurisprudenza nazionale

Il divieto di testimonianza nel processo tributario è, in realtà, stato al centro dell’attenzione della dottrina e della giurisprudenza già da molti anni, per la sua particolarità rispetto alla nostra cultura e tradizione giuridica.

Esso era anche stato oggetto di una questione di legittimità costituzionale, per asserito contrasto con gli artt. 3, 24 e 53 Cost., che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 18 del 2000, ha dichiarato non fondata.

Sotto il profilo dell’art. 3 Cost., la Corte ha ritenuto che la “spiccata specificità” del processo tributario rispetto a quello civile ed amministrativo giustifichi la diversità di disciplina.

Il contrasto con l’art. 24 Cost. è stato escluso per il fatto che il diritto di difesa può essere regolato dal legislatore a sua discrezione a seconda delle caratteristiche del procedimento.

Il contrasto con l’art. 53 è stato escluso in quanto il principio di capacità contributiva riguarda la disciplina sostanziale dei tributi e non quella del processo.

Peraltro, proprio la Corte, in questa sentenza, aveva già affermato alcuni principi applicati nella decisione in commento, in particolare quello secondo cui, comunque, il divieto dell’art. 7 comma 4 d.P.R. 546 del 1992 non comporta l’inutilizzabilità delle dichiarazioni di terzi rese in sede extraprocessuale, raccolte dall’Amministrazione nella fase procedimentale.

La sentenza in questione completa, se così si può dire, questo principio, ritenendolo applicabile anche ad una situazione più ampia rispetto a quella menzionata nella sentenza della Corte Costituzionale. Mentre quest’ultima, infatti, riconosceva un certo valore probatorio alle dichiarazioni extraprocessuali di terzi recepite dall’Amministrazione, e quindi – si può ritenere – prevalentemente, anche se non necessariamente, favorevoli a quest’ultima, la sentenza attribuisce lo stesso valore ad altre dichiarazioni, non recepite dall’Amministrazione, che il contribuente intende introdurre nel processo, e quindi – secondo logica – di quelle a lui favorevoli.

In questo senso, la presente sentenza non afferma un principio del tutto nuovo. Già in precedenza, infatti, la Corte di Cassazione si era posta sulla medesima linea; nella sentenza sez. V, n. 11211 del 2007, per esempio, la Corte aveva concluso che

come è ammessa la possibilità che le dichiarazioni rese da terzi agli organi dell’Amministrazione finanziaria trovino ingresso, a carico del contribuente, – fermo il divieto di ammissione della “prova testimoniale” posto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art.7 – con il valore probatorio “proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione” (Corte costituzionale, sent. n. 18 del 2000), va del pari necessariamente riconosciuto anche al contribuente lo stesso potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale – beninteso, con il medesimo valore probatorio -, dando così concreta attuazione ai principi del giusto processo come riformulati nel nuovo testo dell’art. 111 Cost., per garantire il principio della parità delle armi processuali nonché l’effettività del diritto di difesa.

4. Il riferimento alla Convenzione

La sentenza in commento si segnala, comunque, per l’analisi del principio anche in chiave sovranazionale, ed in particolare per il riferimento alla Convenzione EDU.

Il richiamo è, specificamente, al principio del giusto processo, enunciato nell’art. 6 della Convenzione sotto il profilo del diritto ad un ”equo esame” della causa.

Il riferimento a tale norma è certamente interessante perché, in realtà, l’applicabilità della Convenzione, ed in particolare dell’art. 6, ai processi tributari è materia controversa nella stessa giurisprudenza della Corte EDU.

La stessa norma, infatti, delimita il suo raggio d’azione alle controversie sui “diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di un’accusa penale”, e tale dizione è stata interpretata nel senso di escludere l’applicabilità di tale norma alle liti tributarie, vertendo esse su obbligazioni che, seppur di contenuto patrimoniale, riguardano doveri civici imposti in una società democratica.

Anzi, proprio la sentenza della Corte EDU citata nella decisione (Ferrazzini contro Italia del 12 luglio 2001) è espressione di tale orientamento, avendo in essa la Corte EDU ritenuto che

In the tax field, developments which might have occurred in democratic societies do not, however, affect the fundamental nature of the obligation on individuals or companies to pay tax. … The Court considers that tax matters still form part of the hard core of public-authority prerogatives, with the public nature of the relationship between the taxpayer and the community remaining predominant, e, quindi, che nell’area fiscale, gli sviluppi che possono essere avvenuti nelle società democratiche non colpiscono la natura fondamentale dell’obbligo dei singoli o delle società di pagare le imposte, per cui il settore fiscale è ancora tipica espressione dell’autorità pubblica statale, ed il rapporto tra contribuente e la società si pone in termini di rapporto pubblico.

Sulla base di ciò, la Corte aveva ritenuto che l’art. 6 fosse inapplicabile alla controversia tributaria in questione (che, peraltro, riguardava l’art. 6 sotto il profilo della eccessiva durata del processo, e non sotto il profilo della inammissibilità della testimonianza).

In realtà, poi, l’applicabilità della Convenzione anche al settore tributario si è fatta progressivamente strada sotto il profilo della “fondatezza dell’accusa penale”, in quei casi in cui la sanzione tributaria potesse ritenersi, in base ai ben noti c.d. “criteri Engel” di natura sostanzialmente penale (con tutto ciò che ne consegue in termini di “ne bis ni idem”, su cui non ci soffermerà in questa sede).

In altri termini, ha iniziato ad affermarsi solo nei casi in cui si discutesse delle sanzioni tributarie.

Tuttavia, dall’applicazione di tale principio nelle controversie sulle sanzioni tributarie a quelle sulla debenza o meno del tributo il passo è stato breve.

Nella sentenza Jussila contro Finlandia del 23.11.2006, citata anch’essa nella decisione in commento, la stessa Corte EDU riconobbe che

Se è vero che la Corte ha ritenuto che le prescrizioni dell’articolo 6 § 1 della Convenzione si estendono al contenzioso relativo alle sanzioni fiscali, la stessa ha, però, escluso dall’ambito di applicazione della presente disposizione le controversie in materia fiscale propriamente dette. Tuttavia, non è raro che questi elementi siano combinati in uno stesso caso e talvolta sia impossibile distinguere le fasi di una procedura che si riferiscono ad un “accusa penale” da quelle che hanno un altro oggetto,

escludendo, così, la violazione dell’art. 6 Convenzione non perché la controversia non rientrasse nell’ambito della norma, ma per il merito stesso del caso concreto.

A dire il vero, però, anche dopo questa sentenza, va riconosciuto che l’applicazione della Convenzione alle controversie tributarie – che coinvolge anche l’art. 1 del Primo Protocollo della Convenzione sulla proprietà privata, secondo cui il riconoscimento della tutela della proprietà privata non pregiudica il «diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende» – è rimasta incerta, nel senso che, almeno sotto il profilo che interessa la questione oggetto di questa causa, essa non è poi stata affermata in maniera così pacifica e piana.

Tuttavia, nella giurisprudenza tributaria della Corte di Cassazione, l’applicazione del’art. 6 CEDU anche in questo tipo di giudizi sta diffondendosi progressivamente.

Si vedano, tra le altre, sez. V n. 961 del 2015, la quale, a fronte del motivo relativo al denunciato vizio della sentenza della CTR che aveva giudicato in base alle presunzioni, in asserita violazione dell’art. 2729 comma 2 cod. civ., ha affermato che

il processo tributario è, “sia sotto il profilo probatorio che difensivo”, un “processo documentale”, che “si svolge attraverso scritti mediante i quali le parti provano le rispettive pretese o spiegano le loro difese” (Corte cost. 141/1998). Il che non contrasta neppure con l’art. 6 CEDU, atteso che Corte europea dei diritti dell’uomo ha chiarito che il divieto di testimonianza è compatibile col principio del giusto processo, se non ne deriva un grave pregiudizio per la parte sul piano probatorio non altrimenti rimediabile dec. 23 novembre 2006, ric. 73053/2001. Invece, nel pieno rispetto della “parità di armi” tra fisco e contribuente, il diritto vivente ammette l’introduzione indiziaria nel processo tributario di dichiarazioni rese da terzi in sede extra processuale Corte cost. 18/2000; conf. Cass. 20028/2011, sebbene esse non siano assunte o verbalizzate in contraddittorio da nessuna norma richiesto Cass. 21812/2012

Le stesse Sezioni Unite della Cassazione, in una celebre sentenza in tema di contraddittorio tributario (Sez. un., n. 24823 del 2015), hanno valutato il tema alla luce della disciplina sovranazionale, affermando

… secondo la giurisprudenza del Giudice delle leggi (v. C.cost. 18/00) e reiterate pronunzie di questa Corte il giudizio tributario, seppur nella sua particolarità, non viola, per la caratteristica qui in esame, il principio c.d. della “parità delle armi”, cui da copertura costituzionale l’art. 111 Cost., giacchè, fermo restando il divieto di ammissione della prova testimoniale sancito dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, il potere di introdurre in giudizio dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, con il valore probatorio proprio degli elementi indiziarì, compete non solo all’Amministrazione finanziaria, che tali dichiarazioni abbia raccolto nel corso d’indagine amministrativa, ma, altresì, con il medesimo valore probatorio, al contribuente (cfr. in tal senso, tra le altre, Cass. 5018/15, 11785/10, 16032/05, 4269/02). Non va, infine, trascurato di considerare che la stessa disciplina comunitaria – certamente più avanzata in tema di contraddittorio endoprocedimentale – esclude esplicitamente che, in seno al procedimento tributario, l’acquisizione delle prove debba avvenire in contraddittorio: “l’amministrazione, quando procede alla raccolta d’informazioni, non è tenuta ad informarne il contribuente nè a conoscere il suo punto di vista” (cfr. sentenza 22.10.13, in causa C-276/12 Jiri Sabou: punto 41).’

Ora, è vero che il richiamo esplicito è stato formulato con riguardo al sistema dell’Unione e non all’art. 6 CEDU, ma è anche vero che, con la piena vincolatività della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione a seguito dell’inserimento nel Trattato di Lisbona, le due norme vengono in parte a sovrapporsi, per cui il richiamo è ad un principio del tutto analogo a quello espresso dalla Convenzione.

Per questo, la sentenza in questione acquista ancora maggiore interesse per lo scrutinio del principio di inammissibilità di prova testimoniale nel processo tributario direttamente alla luce dell’art. 6 della Convenzione, come interpretato dalla Corte.