CEDU: Il mandato di arresto europeo

CLASSIFICAZIONE

Rapporti giurisdizionali con autorità straniere – Mandato di arresto europeo – Consegna per l’estero – Divieto di trattamenti inumani o degradanti – Criteri di accertamento – Indicazioni – Sufficiente base fattuale per opporre il rifiuto di consegna allo Stato richiedente – Necessità – Mancanza – Violazione del diritto a indagini efficaci (art. 2 CEDU) – Integrazione.

RIFERIMENTI NORMATIVI

CEDU, artt. 2, 3.

Decisione quadro 2002/584/GAI del 13 giugno 2002, artt. 3, 4, 5, 15, par. 1.

Legge 22 aprile 2005, n. 69, artt. 1, 2, 16, 18, comma 1, lett. h). 

SENTENZA SEGNALATA

Corte EDU, Sez. II, 09.07.2019, Romeo Castaño c. Belgio (n. 8351/17)

ABSTRACT

Con la sentenza in esame la Corte EDU ha ritenuto che, nel contesto normativo specificamente regolato a livello internazionale dalla decisione quadro 2002/584/GAI del 13 giugno 2002 sul mandato di arresto europeo e sulle nuove procedure di consegna tra gli Stati membri UE, il rifiuto delle autorità belghe di consegnare una persona sospettata di aver commesso un omicidio in Spagna mancava di una base fattuale sufficiente ed ha conseguentemente dichiarato, all’unanimità, che tale evenienza ha integrato una violazione dell’art. 2 CEDU sotto il suo aspetto procedurale (indagini efficaci).

Nel caso di specie i ricorrenti (cinque cittadini spagnoli figli del tenente colonnello Ramón Romeo) lamentavano il fatto che il loro diritto ad un’efficace attività investigativa era stato violato a seguito del rifiuto delle autorità belghe di eseguire i mandati di arresto europei emessi dalla Spagna nei confronti di una persona sospettata di aver sparato al padre, assassinato nel 1981 da un’unità di commando che rivendicava la sua appartenenza all’organizzazione terroristica “ETA”.

Le autorità belghe avevano ritenuto che la consegna della persona richiesta sulla base del MAE emesso dalle autorità spagnole avrebbe violato i suoi diritti fondamentali ai sensi dell’art. 3 CEDU.

La Corte ha osservato che il rischio di sottoposizione a trattamenti disumani o degradanti può costituire un motivo legittimo per rifiutare di eseguire un mandato d’arresto europeo e quindi per rifiutare la cooperazione richiesta, ma la constatazione dell’esistenza di tale rischio deve riposare su una base fattuale sufficiente. Nel caso in esame, invece, il controllo svolto dalle autorità belghe, durante i procedimenti di consegna che nel corso del tempo si erano susseguiti, non era stato sufficientemente approfondito poiché esse non avevano cercato di accertare se ricorresse o meno un rischio reale e specifico di una violazione dei diritti convenzionali, né se fossero eventualmente ravvisabili delle carenze di ordine strutturale in relazione alle condizioni di detenzione cui la persona richiesta sarebbe stata sottoposta in Spagna.

La constatazione di una violazione convenzionale, tuttavia, non implica necessariamente che lo Stato richiesto della cooperazione sia tenuto ad eseguire l’estradizione o la consegna alle autorità richiedenti.

Tale evenienza, infatti, non esclude l’obbligo delle autorità dello Stato “richiesto” di garantire che, in caso di consegna alle autorità richiedenti, il soggetto non correrà il rischio di subire trattamenti in violazione dell’art. 3 CEDU.

Ne discende che l’accertamento della violazione dell’art. 2 della Convenzione non può essere interpretato nel senso di limitare l’obbligo degli Stati: a) di non consegnare una persona qualora sussistano validi motivi per ritenere che essa, se consegnata al Paese richiedente, correrà il rischio concreto e reale di essere sottoposta a trattamenti inumani e degradanti; b) di verificare, pertanto, che tale rischio non esista.

1. I ricorrenti lamentavano la violazione del loro diritto allo svolgimento di un’efficace attività d’indagine a seguito del rifiuto delle autorità belghe di eseguire i mandati di arresto europei emessi dalla Spagna nei confronti di una persona sospettata di aver sparato colpi di arma da fuoco al padre.

Nel 2004 e nel 2005 l’Audiencia Nacional aveva emesso due mandati di arresto europei nei confronti di un cittadino spagnolo di origine basca (N.J.E.), che, localizzato in Belgio nel 2013, era stato sottoposto ad una misura cautelare detentiva dal giudice istruttore del Tribunale di primo grado di Gand. Qualche giorno dopo i mandati europei di arresto vennero dichiarati esecutivi dalla stessa autorità giudiziaria.

In grado appello, tuttavia, l’esecuzione dei mandati fu rifiutata sul presupposto che vi fossero validi motivi per ritenere che l’esecuzione avrebbe violato i diritti fondamentali del cittadino spagnolo, il quale, pertanto, fu rimesso in libertà.

La Procura federale belga presentò ricorso per cassazione, che venne respinto dalla Corte di cassazione con sentenza del 19 novembre 2013.

Nel 2015 un giudice istruttore dell‘Audiencia Nacional ha emesso un nuovo mandato d’arresto europeo nei confronti della stessa persona originariamente richiesta in consegna, ma le autorità belghe hanno rifiutato di eseguirlo per gli stessi motivi già presi in considerazione in occasione della originaria procedura di consegna.

Muovendo, in particolare, dall’art. 2 CEDU (diritto alla vita), i ricorrenti hanno sostenuto che la decisione delle autorità belghe di non eseguire i mandati d’arresto europei impediva alle autorità spagnole di perseguire la persona sospettata di essere l’autore dell’omicidio del padre.

2. La Corte di Strasburgo ha preliminarmente richiamato la sua giurisprudenza (Güzelyurtlu e altri c. Cipro e Turchia [GC], n. 36925/07, § 178, del 29 gennaio 2019) sulla portata dell’obbligo procedurale di cooperazione dello Stato richiesto (nel caso in esame il Belgio), osservando che l’art. 2 della Convenzione può imporre ad entrambi gli Stati un obbligo bilaterale di cooperazione e determinare, al contempo, sia un obbligo di chiedere assistenza che di fornirla, fermo restando che la natura e l’estensione di tali obblighi dipenderanno inevitabilmente dalle circostanze di ciascun caso concreto (ad es., verificando se la prova principale si trovi nel territorio dello Stato contraente interessato o se gli indagati vi si siano rifugiati). Tale obbligo di cooperazione, come precisato dalla Corte, si muove nella direzione dell’effettiva tutela del diritto alla vita garantito dall’art. 2, ma può configurare soltanto un obbligo di mezzi e non di risultato, nel senso che gli Stati interessati devono prendere tutte le misure ragionevoli per cooperare tra loro ed utilizzare in buona fede le opportunità offerte dagli strumenti internazionali applicabili in materia di assistenza giudiziaria e cooperazione in materia penale (nel caso in esame, quelli previsti da una procedura formalizzata come quella prevista dallo specifico sistema istituito all’interno dell’UE dalla decisione quadro sul M.A.E.).

Ponendo il suo ragionamento nel contesto normativo delineato da tale decisione quadro la Corte EDU ha quindi ritenuto di esaminare, in primo luogo, se le autorità belghe avevano correttamente dato seguito alla richiesta di collaborazione giudiziaria e, in secondo luogo, se il rifiuto di cooperare fosse basato su motivi legittimi, tenuto conto del fatto che le attività d’indagine da espletare nel caso in questione rientravano esclusivamente nella giurisdizione delle autorità spagnole.

2.1. In ordine alla prima questione, la Corte ha osservato che le autorità belghe avevano fornito alle loro controparti spagnole una risposta adeguatamente motivata, atteso che, già nel 2013, la Corte di cassazione belga aveva affermato che il rifiuto di eseguire i mandati di arresto europei era giustificato a causa del rischio che i diritti fondamentali della persona richiesta sarebbero stati violati in caso di sua consegna in Spagna, e in particolare per il rischio di sottoposizione ad un regime detentivo in condizioni contrarie all’art. 3 della Convenzione. Nel 2016, inoltre, le nuove informazioni richieste alla Spagna sulla base del nuovo mandato europeo di arresto non avevano portato ad una valutazione diversa, sicchè la precedente decisione era stata confermata anche sulla scorta delle osservazioni formulate dal Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite nel 2015 (in particolare, con il sesto rapporto periodico sulla Spagna, che, tra l’altro, aveva esortato le competenti autorità spagnole a porre fine alla cd. detenzione in incommunicado)[1].

La Corte ha quindi ritenuto che la soluzione adottata dalle autorità giudiziarie belghe fosse, sotto tale profilo, compatibile con i principi enunciati nella sentenza Pirozzi c. Belgio del 17 aprile 2108 (n. 21055/11), secondo la quale, nel contesto dell’esecuzione di un mandato d’arresto europeo da parte di uno Stato membro dell’Unione europea, il meccanismo di riconoscimento reciproco non dovrebbe essere automaticamente e meccanicamente applicato a discapito dei diritti fondamentali.

2.2. In merito alla seconda questione, la Corte ha sottolineato che il rischio, per la persona richiesta in consegna, di essere sottoposta ad un trattamento inumano o degradante a causa delle condizioni di detenzione in Spagna potrebbe costituire in effetti un motivo legittimo per opporre il rifiuto di eseguire il m.a.e. e quindi per rifiutare la cooperazione con il predetto Stato di emissione.

Ciò nonostante, la constatazione dell’esistenza di tale rischio deve poggiare su una base fattuale sufficiente, tenuto conto anche della eventuale presenza dei diritti di terzi.

A tale proposito, la Corte ha rilevato che nel 2013 le autorità belghe avevano basato la loro decisione di rifiuto principalmente sull’esame dei rapporti internazionali e del più ampio contesto della “storia politica contemporanea della Spagna”, con particolare riferimento ad un rapporto elaborato nel 2011, a seguito della visita periodica del Comitato europeo di prevenzione della tortura.

Nel 2016, nonostante le informazioni trasmesse a sostegno del nuovo mandato d’arresto europeo emesso l’8 maggio 2015 – in particolare per quanto riguardava le caratteristiche della cd. detenzione in incommunicado – le autorità belghe avevano, sì, ritenuto che le informazioni ricevute non permettessero di discostarsi dalla valutazione precedentemente effettuata nel 2013, ma avevano omesso di svolgere un esame dettagliato ed aggiornato della situazione considerata in quel preciso lasso temporale. Al tempo stesso, non avevano cercato di verificare se vi fosse un rischio reale di violazione dei diritti convenzionali a carico della persona richiesta in consegna, ovvero se fossero eventualmente ravvisabili delle carenze strutturali in relazione alle condizioni di detenzione cui quella persona sarebbe stata sottoposta in Spagna.

Inoltre, le autorità belghe non si erano avvalse della possibilità – prevista dalla sezione 15 della legge belga sul mandato d’arresto europeo – di richiedere allo Stato di emissione ulteriori informazioni sulle modalità di applicazione del regime carcerario, con particolare riguardo al luogo e alle condizioni di detenzione, al fine di verificare se la consegna avrebbe potuto comportare o meno un rischio reale e concreto di violazione delle garanzie convenzionali.

2.3. Ne discende che il controllo svolto dalle autorità giudiziarie belghe lungo l’iter dei procedimenti di consegna non è stato sufficientemente approfondito in modo da consentire alla Corte di constatare che il motivo su cui esse avevano fondato la decisione di rifiutare la consegna fosse sorretto, a fronte delle esigenze di tutela dei diritti dei ricorrenti, da una sufficiente base fattuale.

Ciò posto, la Corte ha ritenuto che il Belgio non ha rispettato l’obbligo di cooperazione previsto sotto il versante procedurale dell’art. 2 CEDU, ponendo altresì in evidenza il fatto – non esaminato dalle autorità belghe – che, secondo le osservazioni presentate dal governo spagnolo sul quadro legislativo che disciplina il regime di detenzione in incommunicado, tale normativa non risulterebbe addirittura applicabile in una situazione come quella in esame.

Al riguardo, poi, la Corte ha richiamato anche un argomento, fatto valere dai richiedenti e dalle altre parti non contestato, secondo cui molti MAE sono stati emessi ed eseguiti nei confronti di presunti membri dell’ETA senza che gli Stati membri di esecuzione abbiano considerato la presenza di rischi di violazione dei diritti fondamentali delle persone richieste in consegna.

2.4. Nonostante la violazione della su indicata norma convenzionale, la Corte ha sottolineato che il relativo accertamento non implica necessariamente che il Belgio sia tenuto, quale Stato richiesto della esecuzione, a disporre la consegna della persona richiesta alle autorità spagnole. È la mancanza di una base fattuale sufficiente per opporre il rifiuto che ha indotto la Corte a constatare una violazione dell’art. 2. Ciò, tuttavia, non comporta in alcun modo la restrizione dell’obbligo per le autorità belghe di verificare se la persona richiesta rischi di subire un trattamento in contrasto con l’art. 3 CEDU qualora la sua consegna venisse disposta alle autorità spagnole.

Più in generale, la Corte ha osservato che la sua decisione non può essere interpretata come una restrizione dell’obbligo degli Stati di astenersi dal consegnare una persona ad un Paese richiedente in cui vi siano fondati motivi per ritenere che l’interessato, se materialmente consegnato a quel Paese, corra un rischio reale di essere sottoposto ad un trattamento in violazione dell’art. 3 e di verificare, quindi, che tale rischio non esista.

2.5. A titolo di equa soddisfazione (art. 41), la Corte ha infine condannato il Belgio a rifondere ai ricorrenti la somma di 5.000 euro (EUR) ciascuno per danni non patrimoniali e di 7.260 euro congiuntamente per costi e spese.

3. Il giudice Spano ed il giudice Pavli hanno separatamente espresso un’opinione adesiva, osservando, in particolare, che il divieto posto dall’art. 3 della Convenzione è assoluto, ma l’obbligo di proteggere efficacemente il diritto alla vita garantito dall’art. 2, e quindi di svolgere un’indagine efficace sui reati di omicidio, impone allo Stato parte – quando si pronuncia sull’esistenza o meno di un rischio concreto e individualizzato di trattamenti inumani o degradanti che gli impedirebbe di espellere o estradare una persona sospettata di omicidio nel Paese in cui si sono verificati i fatti ed è in corso un’indagine – di fare affidamento su una solida base fattuale, per poter concludere nel senso che quel rischio è connotato da tratti di significativa gravità.

Sulla base di tali elementi si ritiene, al riguardo, non direttamente applicabile, o comunque di difficile applicabilità, il disposto di cui all’art. 53 della Convenzione, che consente agli Stati parti di offrire un livello più elevato di protezione dei diritti umani rispetto a quello offerto dalle garanzie minime della Convenzione.

Si osserva, infine, che la “simmetria” tra il diritto della Convenzione e il diritto dell’Unione europea è un processo in corso che richiede soluzioni interpretative meticolosamente elaborate al fine di preservare, per quanto è possibile, la natura e l’integrità del primo, senza stravolgere il delicato equilibrio istituzionale e gli elementi fondamentali inerenti al secondo.

4. In relazione a tale ultimo profilo è opportuno ricordare che la Corte di giustizia dell’Unione europea [Prima Sezione, 25 luglio 2018, ML (C-220/18)] ha precisato la portata applicativa dei principii a suo tempo affermati nella precedente pronuncia relativa al caso Aranyosi e Căldăraru (Grande Sezione, 5 aprile 2016, Aranyosi e Caldararu, C-404/15 e C-659/15), rispondendo ad una domanda pregiudiziale formulata dal Tribunale superiore di Brema (Germania), che nutriva dubbi, alla luce delle condizioni di detenzione esistenti in Ungheria, in merito alla possibilità di consegnare alle autorità ungheresi un loro cittadino, ivi condannato in contumacia ad una pena privativa della libertà di un anno e otto mesi per reati di percosse e lesioni, danneggiamento, truffa semplice e furto con scasso.

Le autorità di esecuzione, infatti, ritenevano di disporre di elementi comprovanti l’esistenza di carenze sistemiche o generalizzate nell’ordinamento penitenziario ungherese, ravvisando un rischio reale, per la persona ricercata, di subire un trattamento inumano o degradante ai sensi dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Sulla scorta della richiamata sentenza della Corte di giustizia nelle cause Aranyosi e Căldăraru, l’autorità giudiziaria tedesca aveva ritenuto necessario acquisire informazioni supplementari in merito alle effettive condizioni nelle quali il consegnando avrebbe potuto essere detenuto in Ungheria e, in tale contesto, ha richiesto alla Corte di Lussemburgo ulteriori precisazioni in merito agli atti da compiere.

A tale riguardo la Corte di giustizia ha affermato che compete all’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione, qualora disponga di elementi comprovanti l’esistenza di carenze sistemiche o generalizzate nelle condizioni di detenzione all’interno degli istituti penitenziari dello Stato membro emittente, tenere conto di tutti i dati aggiornati disponibili ed espletare le pertinenti verifiche sulla base dei parametri di seguito precisati: 1) non può escludere l’esistenza di un rischio reale che la persona interessata da un mandato d’arresto europeo emesso ai fini dell’esecuzione di una pena privativa della libertà sia oggetto di un trattamento inumano o degradante, ai sensi dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, per il solo motivo che tale persona disponga, nello Stato membro emittente, di un mezzo di ricorso che le permette di contestare le sue condizioni di detenzione, sebbene l’esistenza di un simile mezzo di ricorso possa essere presa in considerazione da parte della medesima autorità al fine di adottare una decisione sulla consegna della persona interessata; 2) è tenuta unicamente ad esaminare le condizioni di detenzione negli istituti penitenziari nei quali è probabile, secondo le informazioni a sua disposizione, che la suddetta persona sarà detenuta, anche in via temporanea o transitoria; 3) deve verificare, a tal fine, solo le condizioni di detenzione concrete e precise della persona interessata che siano rilevanti al fine di stabilire se essa correrà un rischio reale di trattamento inumano o degradante ai sensi dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; 4) può prendere in considerazione talune informazioni fornite da autorità dello Stato membro emittente diverse dall’autorità giudiziaria emittente, quali, in particolare, la garanzia che la persona interessata non sarà sottoposta a un trattamento inumano o degradante ai sensi dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Nel caso ora menzionato, conclusivamente, la Corte ha ritenuto che la consegna della persona ricercata alle autorità ungheresi sembrava consentita nel rispetto del suo diritto fondamentale di non essere sottoposta ad un trattamento inumano o degradante, ma ha rimesso la concreta verifica di tale circostanza di fatto alla competenza dell’autorità di esecuzione. 

5. Nel nostro ordinamento, in piena adesione al quadro di principii delineato dalla Corte di Lussemburgo, questa Corte (Sez. 6, n. 23277 del 01/06/2016, Barbu, Rv. 267296) ha affermato che, in tema di mandato di arresto europeo c.d. esecutivo, il motivo di rifiuto della consegna di cui all’art. 18, comma 1, lett. h), della legge n. 69 del 2005 – che ricorre in caso di “serio pericolo” che la persona ricercata venga sottoposta alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti – impone all’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione di verificare, dopo aver accertato l’esistenza di un generale rischio di trattamento inumano da parte dello Stato membro, se, in concreto, la persona oggetto del m.a.e. potrà essere sottoposta ad un trattamento inumano, sicchè a tal fine può essere richiesta allo Stato emittente qualsiasi informazione complementare necessaria. In motivazione la Corte ha chiarito, in relazione alla situazione delle carceri della Romania, che, in conformità dei principi di mutuo riconoscimento, se dalle informazioni acquisite non venga escluso il rischio concreto di trattamento degradante, l’autorità giudiziaria deve rinviare la propria decisione sulla consegna fino a quando, entro un termine ragionevole, non ottenga notizie che le consentano di escludere la sussistenza del rischio

Si è inoltre precisato (Sez. 6, n. 47891 del 11/10/2017, Enache, Rv. 271513; Sez. 6, n. 26383 del 05/06/2018, Chira, Rv. 273803), all’interno della medesima prospettiva ermeneutica, che occorrono informazioni “individualizzate” sul regime di detenzione e che l’accertamento – anche sulla scorta delle indicazioni provenienti dalla ivi menzionata giurisprudenza della Corte EDU – deve essere compiuto attraverso la richiesta allo Stato emittente di tutte le informazioni relative alle specifiche condizioni di detenzione in concreto previste per l’interessato: va pertanto individuato con certezza l’istituto di detenzione ed il relativo regime, prospettando l’alternativa tra quello aperto e quello semi-aperto; con riferimento a quest’ultimo regime detentivo, poi, devono indicarsi con precisione gli orari per lo svolgimento delle attività all’esterno delle celle e, in entrambi i casi, quale sia lo spazio minimo individuale riservato al detenuto, specificando il periodo di detenzione da trascorrere nel regime semi-aperto, che, se di breve durata, secondo quanto affermato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo nella causa Mursic c. Croazia, potrebbe ritenersi idoneo a compensare il deficit di spazio minimo individuale.


[1] Durante tale periodo di detenzione i detenuti non possono avere contatti con medici ed avvocati di propria scelta e i familiari non possono ricevere notizie.