Cenni ad alcune possibili innovazioni in procedura penale e diritto penale (auspicate, ma non contenute nel d.d.l) di Alessandro De Santis

Attraverso un documento approvato dal Comitato Direttivo Centrale nella riunione del 10 novembre 2018, l’Associazione Nazionale Magistrati formulava una proposta di riforma in materia di diritto e processo penale funzionale ad incrementare l’efficacia e rapidità operativa del processo penale.

Duole constatare come le indicazioni ivi contenute, sostanzialmente frutto dell’esperienza maturata nella quotidiana applicazione del diritto e formulate beneficiando di una prospettiva di valutazione privilegiata, siano state in buona parte disattese nell’ambito di un dibattito politico alimentato dal confuso e spesso fazioso “tam tam mediatico”, costantemente impegnato nella ricerca di capri espiatori cui addebitare la colpa dei mali sociali, condotta per mano dai moderni mezzi di comunicazione attraverso meccanismi ampiamente semplificatori, che tendono alla ripartizione della generalità dei consociati dietro le barricate dei pro e dei contro, costruite ad arte sulla scena mediatica e nell’arena dello scontro politico. Contesto nel quale rimane nebulizzato o relegato in posizione secondaria l’interesse all’efficace funzionamento del sistema penale, surclassato dalla più stimolante propensione alla valorizzazione mediatica di iniziative punitive della Magistratura, oggi come oggi caprio espiatorio perfetto di ogni male sociale.

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Ciò posto, piuttosto che soffermarmi, come già altri meglio di me avranno fatto, sulle innovazioni contenute nel d.d.l., reputo più opportuno fare un cenno ad alcune auspicabili innovazioni, ben più importanti, che nello stesso non sono contenute, ad attestazione della chiara volontà di mantenere il processo penale in stato di inefficienza:

1) Il d.d.l. non contempla la modifica che più di tutte incrementerebbe l’efficacia del sistema penale, eliminando l’operatività di un meccanismo in alcun modo al passo con i tempi, né coordinato con la fisiologica magmaticità che per espressa previsione legislativa caratterizza la composizione degli uffici giudiziari. Nulla è previsto, infatti, circa l’ampliamento delle ipotesi comprese nell’ambito operativo dell’art. 190bis c.p.p. e sottratte alla scure della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in ipotesi di mutamento del giudicante o di un componente del collegio. Né tantomeno prevede la sospensione dei termini di prescrizione per il tempo necessario alla ripetizione dell’attività dibattimentale a seguito del cambio della persona del giudicante o della sostituzione di uno o più componenti del collegio giudicante.

Siamo entrati nella seconda metà del 2019. La società SpaceX, di Elon Musk, ha quasi completato i progetti di costruzione del Big Falcon Rocket, vettore spaziale che entro il 2024 dovrebbe condurre quaranta coloni terresti su Marte; due sistemi di intelligenza artificiale creati nei laboratori di Menlo Park (Facebook) hanno iniziato a dialogare autonomamente tra loro adoperando un linguaggio incomprensibile all’uomo, sicché i programmatori li hanno dovuti spegnere prima che potessero decidere di estromettere i loro creatori dal sistema e diventare pericolosi; il dispositivo AlterEgo, sviluppato da alcuni ricercatori del MIT, che si indossa come un paio di cuffie, legge i pensieri di chi lo indossa traducendoli in ricerche su google e successivamente sussurrando all’orecchio le risposte trovate.

In altre parole, l’avanzamento tecnologico fa passi da gigante e penetra ogni settore della società ma inspiegabilmente il processo penale rimane impermeabile ad ogni forma di ragionevole innovazione. Non solo. Il processo penale è fonoregistrato e ben potrebbe essere agevolmente audioripreso, con trasmissione dei relativi file al giudice subentrante ma, ciò nondimeno, siamo costretti quotidianamente ad assistere ad una inutile “sfilata” di testimoni che negli anni sono costretti anche 3 o 4 volte a tornare in aula per limitarsi a confermare quello che hanno già riferito anni prima dinanzi ad un Tribunale in diversa composizione. Nulla di nuovo viene aggiunto ad un dibattimento alla cui effettiva rinnovazione i difensori non sono mai realmente interessati (se non la perdita di credibilità del giudicante agli occhi del cittadino, costretto suo malgrado a partecipare a questa farsa), producendosi l’unica conseguenza di far decorrere inutilmente i termini di prescrizione, sottrarre utili energie e risorse alla definizione delle vicende processuali, con ulteriore appesantimento dei già consistenti carichi di lavoro.

Come se poi il Giudice (in procedimenti spesso caratterizzati dall’afflusso processuale di numeri elevatissimi di testi, ancora oggi prova principe nel sistema accusatorio) fosse realmente in grado di formare il proprio convincimento ricordando a memoria le dichiarazioni, le espressioni facciali, le esitazioni, le peculiarità di ogni singolo teste, dopo averne escussi 40 al giorno nella trattazione di centinaia di procedimenti.

Voci ben più autorevoli hanno manifestato insofferenza nei confronti di questo meccanismo. Basti pensare che con in una recente pronuncia la Corte Costituzionale, pur non negando che il principio di immediatezza rappresenti un cardine del processo accusatorio delineato dal codice di rito, mostrando la capacità di coniugare il suo ruolo istituzionale con una pragmatica analisi della ricaduta concreta dei principi costituzionali nella quotidianità delle aule di giustizia, ha affermato a chiare lettere che: “L’esperienza maturata in trent’anni di vita del vigente codice di procedura penale restituisce, peraltro, una realtà assai lontana dal modello ideale immaginato dal legislatore. I dibattimenti che si concludono nell’arco di un’unica udienza sono l’eccezione; mentre la regola è rappresentata da dibattimenti che si dipanano attraverso più udienze, spesso intervallate da rinvii di mesi o di anni, come emblematicamente illustra l’odierno giudizio a quo (Ritenuto in fatto, punto 2). In una simile situazione, il principio di immediatezza rischia di divenire un mero simulacro: anche se il giudice che decide resta il medesimo, il suo convincimento al momento della decisione finirà – in pratica – per fondarsi prevalentemente sulla lettura delle trascrizioni delle dichiarazioni rese in udienza, delle quali egli conserverà al più un pallido ricordo”. La Corte, peraltro, in un’ottica di leale cooperazione tra poteri dello Stato, si spinge a “suggerire” al legislatore dei rimedi strutturali “in grado di ovviare agli inconvenienti evidenziati, assicurando al contempo piena tutela al diritto di difesa dell’imputato”, proponendo proprio “la videoregistrazione generalizzata dei dibattimenti penali, al fine di consentire al giudice subentrante di poter apprezzare, con parificabile grado di immediatezza, l’assunzione delle prove in dibattimento”, con conseguente eliminazione del meccanismo della necessaria rinnovazione. In sostanza, il Giudice delle leggi invita apertamente il legislatore ad imporre ragionevoli deroghe alla regola dell’identità tra giudice avanti al quale si forma la prova e giudice che decide, in ragione del fatto che il diritto della parte alla nuova audizione dei testimoni di fronte al nuovo giudice o al mutato collegio “non è assoluto, ma “modulabile” (entro limiti di ragionevolezza) dal legislatore”, addirittura precisando che un’eventuale rimodulazione della regola della rinnovazione dibattimentale non troverebbe ostacoli nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte cost., sent. 29 maggio 2019, n. 132).

Tuttavia, piuttosto che cogliere l’illuminato invito dei giudici costituzionali ed adottare una elementare innovazione tecnologica che consenta al Giudice subentrante di visionare nuovamente le udienze ed ascoltare la voce del testimone, contestualmente riservando al difensore la possibilità di procedere a nuova escussione testimoniale su circostanze diverse da quelle oggetto delle precedenti dichiarazioni, si è preferito mantenere in piedi questo malfunzionamento dal sapore pirandelliano (mi riporta alla mente la teorica della maschera).

2) All’interno del d.d.l., nella parte dedicata alla modifica della disciplina dell’appello, non si rinviene alcun riferimento all’eliminazione o rimodulazione del “divieto di reformatio in peius” (modifica dell’art. 597 c.p.p.).

Al riguardo, si impongono riflessioni che travalicano il mero settore giuridico e che in parte mutuo da un collega ben più esperto ed autorevole di me.

In Italia ci sono circa 240.000 avvocati che, in qualche modo, devono sbarcare il lunario e tale dato determina una moltiplicazione esponenziale e patologica dei processi, soprattutto nel settore penale. Il numero dei processi è tanto elevato perché in Italia, per qualsiasi processo penale (anche a fronte di condanne fondate su prove assolutamente evidenti, e magari con l’irrogazione di pene minime), si percorrono in ogni caso tre gradi giudizio, facendo affidamento sull’inefficienza del sistema, destinato ad ingolfarsi, per arrivare ad una pronuncia di prescrizione, o comunque per posticipare nel tempo il passaggio in giudicato della sentenza, confidando sul dato per cui la proposizione dell’appello o del ricorso per Cassazione non comporta in concreto alcun rischio. Al più una condanna alle spese che non più del 5% dei condannati alla fine verserà all’Erario.

Ogni anno, in Cassazione, vengono definiti oltre 55.000 processi ed oltre il 70 % dei ricorsi proposti dalle parti private vengono dichiarati inammissibili. In Francia arrivano alla Corte Suprema ogni anno circa 8000 processi; in Spagna tra i 4000 e i 5000, in Germania tra i 2500 ed i 3000.

In Germania ci sono 39 avvocati cassazionisti e in Francia 100, che esercitano solo davanti alle corti supreme. In Italia sono 52.000 quelli abilitati a patrocinare indifferentemente in ogni grado di giudizio.

In un contesto siffatto, la possibilità illimitata di effettuare “impugnazioni a costo zero” produce una enorme proliferazione di appelli assolutamente immotivati ed infondati.

Assumendo il rischio di una rivisitazione del merito a 360 gradi il difensore stesso sarebbe portato una scelta più meditata sul ricorrere ai giudici di appello, impugnando solo quelle sentenze che paiano rivedibili e censurabili, con conseguente fisiologico innalzamento della qualità degli avvocati patrocinanti dinanzi alle giurisdizioni superiori.

Limito a queste le mie stringate osservazioni, pur rendendosene necessarie tante altre. Tuttavia, da ultimo non posso non rilevare che è da considerarsi disarmante l’assoluto disinteresse che fino a questo momento il legislatore ha dimostrato in riferimento alla progettazione di un processo penale telematico ed all’utilizzo ragionevole delle intelligenze artificiali, essendo io convinto che l’innovazione tecnologica costituisca l’unico strumento realmente in grado di restituire efficienza ed efficacia operativa al processo penale e credibilità alla Magistratura (credibilità che forse non tutti sono interessati a restituirci).

La persistente ritrosia dimostrata sul punto è assolutamente ingiustificata, tanto da far pensare ad un legislatore patologicamente suggestionato dalla ribellione del computer Hal 9000, vero dominus del capolavoro 2001 – A Space Odissey, o dalle affascinanti prospettazioni formulate dall’ingegnere informatico Charles Simon nella sua opera Will computer revolt? Preparing for the future of Artificial Intelligence.

Molti studiosi collocano già nel 2045 il momento in cui un sistema informatico, dotato di autonomia nell’imparare e progettare se stesso, supererà le capacità di comprendere degli esseri umani. Chissà se per allora avremo o meno almeno un fascicolo telematico.