CLASSIFICAZIONE
TRATTAMENTO INUMANO E DEGRADANTE – MALTRATTAMENTI – CURE INADEGUATE – DISABILITA’ PSICHICHE – MISURE DI CONTROLLO – INEFFICACIA DELLE INDAGINI
RIFERIMENTI NORMATIVI
CONVENZIONE EDU, artt. 3 e 13
RIFERIMENTI GIURISPRUDENZIALI
Corte E.D.U., V.C. v. Italy, no. 54227/14, §§ 89-95, 1 February 2018; Blokhin v. Russia [GC], no. 47152/06, §§ 135-40, 23 March 2016; Stanev v. Bulgaria [GC], no. 36760/06, §§ 201-04, ECHR 2012; Nencheva and Others v. Bulgaria, no. 48609/06, § 124, 18, June 2013; Bouyidc. Belgio [GC], n. 23380/09, § 109, CEDU 2015; Keenan c. Regno Unito, no. 27229/95, § 111, CEDU 2001-III; Nicolae Virgiliu Tănase c. Romania [GC], n. 41720/13, § 117, 25 giugno, 2019 e Bouyid, citata, § 86; Julin v. L’Estonia, nn. 16563/08 e 3 altri, § 120, 29 maggio 2012; M.S. c. Croazia (n. 2), n. 75450/12, §§ 74 e 75, 19 febbraio 2015; Đekić e altri c. Serbia, n. 32277/07, § 37, 29 aprile 2014; Nikolova e Velichkova c. Bulgaria, no. 7888/03, § 63, 20 dicembre 2007, e Bureš contro Repubblica Ceca, n. 37679/08, § 131, 18 ottobre 2012; Enukidze e Girgvliani c. Georgia, n. 25091/07, § 268, 26 aprile 2011; Andonovski contro l’ex Repubblica iugoslava di Macedonia, n. 24312/10, § 107, 23 luglio 2015; Centre for Legal Resources on behalf of Valentin Câmpeanu v. Romania ([GC], no. 47848/08, §§ 104-111, ECHR 2014; Vučković and Others v. Serbia (preliminary objection) [GC], nos. 17153/11 and 29 others, §§ 69-77, 25 March 2014.
PRONUNCIA SEGNALATA
Corte E.D.U., 23 gennaio 2020, Application no. 38067/15 LR v. North Macedonia
Abstract
– La Corte ha riconosciuto la rappresentanza della vittima in capo a un’associazione non governativa, ricorrendo le “eccezionali circostanze” di cui alla causa Centre for Legal Resources on behalf of Valentin Câmpeanu v. Romania del 2014.
– Ha ritenuto esperiti tutti i mezzi di impugnazione interni.
– Ha ravvisato la violazione dell’art. 3 della Convenzione, sotto il profilo sostanziale, riconoscendo l’inadeguatezza del collocamento di un bambino con grave ritardo psichico, del quale era stata smentita però la disabilità fisica, in un istituto idoneo a occuparsi di persone con disabilità fisiche e non psichiche, quale conseguenza di un errore diagnostico, ritenendo che la misura della contenzione meccanica (immobilizzazione a letto), già di per sé incompatibile con la dignità umana, era stata predisposta nei riguardi di un minore disabile, dunque particolarmente vulnerabile, avuto riguardo al maggiore impatto, soprattutto psicologico, rispetto al soggetto adulto e che l’assenza dell’intenzione di umiliare o svilire una persona non conduce a escludere, in termini assoluti, la violazione dell’art. 3 CEDU.
– Ha riconosciuto la violazione dell’articolo 3 anche sotto il profilo procedurale, in relazione all’inefficiente indagine svolta dal pubblico ministero in ordine ai reati denunciati dall’Ombudsman prima e dall’HCHR dopo, evidenziando che l’obbligo procedurale di cui all’articolo 3 non è un obbligo di risultato, ma di mezzi (un’indagine per essere efficace deve garantire l’effettiva attuazione delle leggi nazionali che tutelano il diritto a non essere maltrattati e, nei casi che coinvolgono agenti o organismi statali, essere indirizzata all’accertamento della loro responsabilità).
Il Caso
Il bambino nel cui interesse ha agito il Comitato di Helsinki per i diritti umani a Skopje (di seguito HCHR) era stato abbandonato sin dalla nascita, nel 21 novembre 2004, dai suoi genitori che soffrivano di una disabilità mentale. Su richiesta della nonna, era stato affidato, all’età di tre mesi, a un orfanotrofio. Un centro di assistenza sociale venne poi designato suo tutore. All’età di un anno mostrava sintomi da ritardo nella crescita e all’età di tre anni e mezzo, un team di medici del B. Hospital, aveva diagnosticato una moderata disabilità mentale, una grave forma di disabilità fisica (paralisi celebrale) e un disturbo del linguaggio.
Nel giugno 2012, su richiesta del tutore e con il consenso del Ministro competente, venne affidato alla B.B.S. Rehabilitation Institute (di seguito RIBBS), un istituto per persone con disabilità fisiche, ma mentalmente abili, gestito dallo Stato che, tuttavia, sia prima della sua ammissione, che durante la sua permanenza (corrispondente a un anno e nove mesi), aveva più volte comunicato alle autorità competenti di non potere ospitare un bambino con disabilità mentali, sordo e incapace di parlare. Numerosi problemi furono segnalati, anche a mezzo di relazioni di esperti: impossibilità di assicurare al minore l’educazione e la riabilitazione di cui avrebbe avuto bisogno, stante l’assenza di personale qualificato in grado di comunicare con lui e di capire i suoi bisogni; necessità di un suo trasferimento presso un centro più appropriato alle sue esigenze, in vista, tra l’altro, del peggioramento delle sue condizioni; comportamento autolesionistico del minore e tendenza a darsi alla fuga; impossibilità di fronteggiare tale ultima emergenza, per assenza di misure di sicurezza idonee a garantirne una costante supervisione, a fronte di un pericolo dovuto alla prossimità di una strada a scorrimento veloce.
La vicenda è divenuta nota allorché, il 06 novembre 2013 (ovvero trascorso quasi un anno e mezzo dall’affidamento del minore presso la struttura), l’Ombudsman, in visita presso l’istituto, aveva trovato il bambino con le gambe legate al suo letto. Durante una conferenza stampa, il 25 giugno 2014, l’Ombudsman, nel presentare il suo rapporto annuale, denunciò il trattamento inumano e degradante riservato ai residenti della struttura e, in particolare, al bambino, al quale non erano state assicurate garanzie e cure adeguate alla sua disabilità.
Il 15 aprile 2014, il minore fu trasferito presso l’S. Rehabilitation Institute,luogo in cui il egli si trova in atto al momento della decisione, ma – prima – il B. Hospital lo sottopose, su richiesta del tutore, a una nuova visita che confermò la prima diagnosi [una moderata disabilità mentale, una grave forma di disabilità fisica (paralisi celebrale) e un disturbo del linguaggio].
L’HCHR, a seguito della conferenza stampa dell’Ombudsman, decise di visitare il minore presso il RIBBS e di denunciare il caso alle autorità giudiziarie, accusando il direttore del RIBBS e alcuni, non meglio identificati, impiegati di “tortura e altri trattamenti e punizioni crudeli, inumani o degradanti” e di “maltrattamenti nell’esercizio delle loro funzioni”, condotte punibili ai sensi degli articoli 142 e 143 del Codice penale. L’HCHR sostenne che il ricorrente, non solo era stato legato al letto per la gamba con una corda sufficientemente lunga da consentirgli di “raggiungere il corridoio“, ma che non gli erano state neppure garantite cure e trattamenti adeguati, il che equivaleva a una totale incuria. Inoltre, il RIBBS non disponeva di personale qualificato, tale da far fronte alle sue esigenze, con conseguente deterioramento delle sue condizioni di salute.
Il pubblico ministero, nel novembre 2014, esaminati i documenti forniti dall’istituto e dall’Ombudsman e sentite le testimonianze del direttore dell’istituto e di quattro suoi dipendenti, archiviò la denuncia. Secondo l’autorità giudiziaria, il bambino era stato collocato impropriamente nell’istituto, che si occupava di persone con disabilità psichiche e non mentali. Egli non presentava alcuna disabilità fisica, essendo anzi iperattivo. Ciò nonostante, aveva sempre ricevuto cure quotidiane, la cui inefficacia era stata limitata a causa del disturbo nel linguaggio. Quanto alla misura di contenzione meccanica, occasionalmente praticata, questa non doveva essere considerata espressione di minaccia o uso illegale della forza e, dunque, di maltrattamento, essendo stata adottata per “ragioni di sicurezza”, ovvero per impedirgli di fuggire e mettersi in pericolo. In assenza, dunque, dell’elemento soggettivo, ovvero della volontà da parte degli indagati di sottoporre il bambino a trattamenti inumani o degradanti, non poteva ritenersi integrato alcun reato.
Avverso tale decisione alcun ricorso venne proposto da parte del tutore del bambino.
Il 30 dicembre 2014 l’HCHR chiese l’intervento del Procuratore generale, ribadendo che il trattamento disumano e denigrante riservato al minore nel RIBBS violava le norme di diritto nazionale ed internazionale. Aggiungeva, inoltre, che il tutore del bambino, pur essendo consapevole della sua situazione, non aveva adottato misure adeguate a tutelare i suoi diritti e che le conclusioni dell’ufficio del pubblico ministero di prima istanza, secondo cui il richiedente era stato legato a un letto per “motivi di sicurezza“, erano “inaccettabili e assurde“: secondo l’HCHR, ciò era dimostrativo di un esercizio non professionale dell’ufficio.
Il Procuratore generale, verificata l’attività investigativa svolta e le prove acquisite dal pubblico ministero, confermò la decisione di quest’ultimo.
L’HCHR, in rappresentanza del bambino, ha, dunque, adito la Corte EDU prospettando la violazione dell’art. 3 (divieto di trattamenti disumani e degradanti) e dell’art. 13 (diritto a un ricorso effettivo) della Convenzione.
Le questioni processuali
La rappresentanza dell’organismo HCHR.
I giudici di Strasburgo, a fronte della sollevata eccezione da parte del Governo, di difetto del locus standi in capo all’HCHR, hanno rilevato che effettivamente esso aveva presentato la domanda per conto della vittima delle asserite violazioni, senza produrre una procura o una autorizzazione scritta di questa, del suo tutore legale o di altro soggetto a ciò autorizzato.
Richiamato il catalogo delle “circostanze eccezionali” (contenuto in Centre for Legal Resources on behalf of Valentin Câmpeanu v. Romania ([GC], no. 47848/08, §§ 104-111, ECHR 2014), alla luce delle quali può essere riconosciuto un collegamento de facto idoneo a fondare la rappresentanza in giudizio della vittima delle asserite violazioni (i.e.: vulnerabilità della vittima; natura dei fatti portati alla conoscenza della Corte; mancanza di un parente della vittima o di un tutore legale di essa che possano agire davanti alla Corte; mancanza di contatti tra la vittima e il suo rappresentante; coinvolgimento del rappresentante legale nel procedimento nazionale), i giudici di Strasburgo hanno precisato essere incontroverso che il minore era la vittima diretta delle asserite violazioni ai sensi dell’art. 34 della Convenzione; che egli doveva considerarsi soggetto vulnerabile, avuto riguardo alle sue condizioni; che era stato abbandonato alla nascita e inserito in istituzioni gestite dallo Stato sin dall’età di tre mesi; che non vi erano prove di contatti tra la vittima e i suoi parenti prossimi, anche dopo l’esternazione dell’Ombudsman. Inoltre, la vittima aveva sì un tutore legale, nominato dallo Stato per curarne gli interessi che, tuttavia, era stato accusato, prima davanti all’autorità nazionale, quindi davanti alla Corte stessa, di avere violato i suoi obblighi di protezione degli interessi del rappresentato, non avendo neppure contestato, sebbene informato dei rimedi esperibili, la decisione del pubblico ministero in prima istanza. Né era emerso che il tutore fosse stato sostituito dallo Stato.
Sotto altro profilo, i giudici di Strasburgo hanno evidenziato che l’HCHR – subito dopo le dichiarazioni pubbliche dell’Ombudsman – aveva visitato il minore e si era messo in contatto con le diverse autorità, aveva presentato denuncia penale alla autorità giudiziaria e chiesto al Procuratore generale di rivedere la decisione del pubblico ministero e proseguire le indagini, unico mezzo esperibile dall’HCHR.
Pertanto, avuto riguardo alla serietà delle violazioni, la Corte ha riconosciuto il diritto dell’organismo ad agire nell’interesse della vittima.
I criteri di ammissibilità (art. 35 della Convenzione)
La Corte, richiamati i principi affermati in Vučković and Others (cfr. Vučković and Others v. Serbia (preliminary objection) [GC], nos. 17153/11 and 29 Others, §§ 69-77, 25 March 2014), ha rilevato che l’HCHR, una volta conosciuto il caso e visitato il minore, aveva sollecitato l’intervento delle autorità amministrative e determinato il controllo del competente ispettorato; aveva presentato una denuncia penale contro il direttore e alcuni dipendenti dell’istituto (RIBBS) per trattamento inumano e degradante ai danni della vittima, mettendo in moto le indagini del pubblico ministero, il cui risultato aveva consentito di identificare soggetti neppure menzionati nella denuncia. Tali indagini, peraltro, avevano coinvolto anche il personale medico del B. Hospital, in relazione alla diagnosi sbagliata effettuata sul minore, sebbene in denuncia non fosse stato operato alcun riferimento specifico ad esso.
In conclusione, la Corte ha ritenuto che l’HCHR avesse in maniera esaustiva portato all’attenzione delle competenti autorità il presunto illecito ai danni della vittima e così ragionevolmente percorso tutti i rimedi esperibili nell’interesse del minore, formulando il ricorso prima dello spirare dei sei mesi, decorrenti, in questo caso, dalla notificazione all’HCHR del provvedimento di rigetto da parte del Procuratore generale, da considerarsi decisione finale.
Il merito
La violazione dell’art. 3 [<<Nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti>>]
a) Il collocamento del richiedente e il trattamento ricevuto all’interno del RIBBS
Per il ricorrente, il minore, a causa di un errore diagnostico, era stato affidato a una struttura inadeguata a soddisfare i suoi bisogni e a predisporre cure idonee alla sua condizione e che, tra l’altro, adottava misure afflittive nei riguardi di un bambino particolarmente vulnerabile, in violazione dell’art. 3 della Convenzione.
I giudici di Strasburgo hanno riconosciuto la fondatezza delle censure mosse dal ricorrente condannando lo Stato per violazione dell’art. 3 CEDU.
Il caso ha costituito l’occasione per richiamare i principi già formulati in V.C. v. Italy, no. 54227/14, §§ 89-95, 1 February 2018, in cui si è riconosciuto l’obbligo degli Stati di adottare misure atte a garantire che gli individui sotto la loro giurisdizione non siano soggetti a maltrattamenti, così come in Blokhin v. Russia [GC], no. 47152/06, §§ 135-40, 23 March 2016) e in Stanev v. Bulgaria [GC], no. 36760/06, §§ 201-04, ECHR 2012).
La Corte EDU ha, anzitutto, osservato che fin da subito il bambino era stato affidato ad un centro di assistenza sociale gestito dallo Stato, a cui è stata demandata la sua tutela e cura ovvero il suo collocamento presso strutture di riabilitazione. Ripercorso temporalmente il susseguirsi dei fatti, ha poi ritenuto che il collocamento del bambino nell’istituto RIBBS era stato inadeguato (trattandosi di struttura idonea a occuparsi di persone con disabilità fisiche e non psichiche) e che tale decisione era stata probabilmente il risultato di un errore diagnostico, atteso che, al tempo, i medici del B. Hospital avevano diagnosticato al bambino una forma di disabilità fisica che fu poi smentita.
Che il RIBBS non fosse un centro adatto a persone con disabilità mentali era circostanza nota e ribadita più volte dallo stesso istituto, così come l’assenza di personale qualificato in grado di comunicare con un bambino sordo e incapace di parlare e l’impossibilità di assicurare la sua regolare supervisione. Tuttavia, nonostante il tutore e le autorità competenti, prima ancora dell’ammissione del minore all’istituto, fossero stati edotti dell’inadeguatezza dello stesso, in alcun modo essi avevano agito per risolvere tempestivamente la situazione. Neppure il Governo ha fornito spiegazioni in merito all’incapacità delle autorità competenti a intervenire in modo rapido, concreto e adeguato (in proposito, la Corte opera un rinvio a Nencheva and Others v. Bulgaria, no. 48609/06, § 124, 18 June 2013).
L’assenza di un intervento tempestivo e, dunque, il protrarsi dell’infruttuoso trattamento avevano provocato il peggioramento delle condizioni generali del bambino, tanto che dalla relazione medica, redatta solo dopo che egli fu dimesso dalla struttura, si evince come il livello particolarmente basso del suo sviluppo fosse da addebitarsi all’insufficiente stimolazione e all’inefficacia del trattamento ricevuto.
I giudici di Strasburgo hanno, poi, ritenuto davvero preoccupante il fatto che per circa un anno e nove mesi un bambino di otto anni, disabile, sordo e non in grado di parlare fosse stato sottoposto a contenzione al fine “garantire la sua sicurezza”, senza che venisse vagliata una opzione meno intrusiva per far fronte a tale esigenza. A ciò si aggiunga che tale misura, già di per sé incompatibile con la dignità umana, era stata predisposta nei riguardi di un minore disabile, dunque particolarmente vulnerabile, considerato il suo maggiore impatto (soprattutto in termini psicologici) nei confronti di un bambino – specie se con disabilità – rispetto a quello che avrebbe su un adulto (si cita in proposito Bouyidc. Belgio [GC], n. 23380/09, § 109, CEDU 2015); senza considerare l’impossibilità, per un minore disabile, di lamentarsi delle conseguenze derivanti dal trattamento ricevuto (cfr. Keenan c. Regno Unito, no. 27229/95, § 111, CEDU 2001-III)
Infine, rispetto alle conclusioni delle autorità nazionali, secondo cui la mancanza dell’elemento soggettivo, ovvero dell’intenzione di nuocere al bambino, impediva di ritenere integrata alcuna fattispecie criminosa, la Corte EDU – richiamando alcuni precedenti – ha sostenuto che l’assenza dell’intenzione di umiliare o svilire una persona non conduce a escludere, in termini assoluti, la violazione dell’art. 3 della Convenzione (Nicolae Virgiliu Tănase c. Romania [GC], n. 41720/13, § 117, 25 giugno, 2019 e Bouyid, citata, § 86).
Sebbene il rischio che una persona fugga o provochi lesioni o danni sia un fattore da prendere in considerazione (in proposito si cita Julin v. L’Estonia, nn. 16563/08 e 3 altri, § 120, 29 maggio 2012), per i giudici di Strasburgo si sarebbe dovuto optare per una misura alternativa, meno afflittiva, soprattutto considerato che la pratica di legare il bambino al letto era rispondente a ragioni estranee alle sue condizioni di salute.
La Corte EDU ha, dunque, ritenuto che le autorità, avendo l’obbligo di salvaguardare la dignità del paziente e il suo benessere, erano responsabili ai sensi dell’art. 3 della Convenzione per l’inappropriato affidamento del bambino presso il RIBBS, per la mancata predisposizione di cure necessarie e per il trattamento disumano e degradante subito.
b) La violazione dell’art. 3 dal punto di vista procedurale
Rispetto alle doglianze concernenti l’inefficiente indagine svolta dal pubblico ministero, la Corte EDU – richiamando i principi generali riassunti in M.S. c. Croazia (n. 2), n. 75450/12, §§ 74 e 75, 19 febbraio 2015 – ha ritenuto integrata la violazione dell’art. 3 della Convenzione, sotto l’aspetto procedurale.
Per i giudici di Strasburgo, l’indagine svolta a seguito della denuncia dell’HCHR deve ritenersi tempestiva, in quanto durata meno di un anno, nonché esauriente atteso che al fine di ricostruire i fatti vennero esaminati molti documenti e ascoltate le testimonianze di tutti coloro che risultavano direttamente coinvolti negli eventi in questione (il direttore del RIBBS e quattro impiegati) e l’indagine era stata estesa anche nei riguardi del tutore del bambino (il direttore del centro di assistenza sociale a cui era stato affidato). Inoltre, la ricostruzione degli eventi operata da parte del pubblico ministero sulla base delle prove assunte non si discostava in modo significativo dagli eventi così come descritti dall’HCHR: l’affidamento del minore presso l’istituto venne ritenuto inappropriato, le cure ricevute carenti e inadeguate, venne accertata la pratica – occasionale – di legarlo al letto, e fu, in effetti, rilevata una discrepanza tra l’originaria diagnosi medica eseguita dal B. Hospital e lo stato di salute reale del minore.
Tuttavia, la Corte ha osservato che la denuncia presentata dall’HCHR era stata respinta alla stregua del principio per cui l’assenza dell’intenzione da parte degli indagati di sottoporre il paziente ad un trattamento inumano o degradante non consentiva di ritenere integrato alcun reato. Ebbene, a tal proposito, i giudici di Strasburgo hanno ricordato, anzitutto, che non è loro compito sostituirsi alle giurisdizioni nazionali. Spetta, invero, primariamente agli Stati risolvere i problemi di interpretazione delle norme nazionali (cfr. Nencheva e altri, citata, § 134); in secondo luogo, che la mancata accusa e punizione degli indagati non è condizione di per sé sufficiente per ritenere violato l’art. 3 della Convenzione, poiché l’obbligo procedurale di cui all’articolo 3 non è un obbligo di risultato, ma di mezzi (cfr. Đekić e altri c. Serbia, n. 32277/07, § 37, 29 aprile 2014).
Ciò premesso, la Corte EDU ha evidenziato che l’oggetto di discussione del presente procedimento non è la responsabilità penale individuale degli indagati, bensì la responsabilità dello Stato rispetto alle norme di diritto internazionale. Un’indagine – per essere efficace –deve, secondo i giudici di Strasburgo, garantire l’effettiva attuazione delle leggi nazionali che tutelano il diritto a non essere maltrattati e, nei casi che coinvolgono agenti o organismi statali, essere indirizzata ad accertare che essi siano chiamati a renderne conto (vedi Nikolova e Velichkova c. Bulgaria, no. 7888/03, § 63, 20 dicembre 2007, e Bureš contro Repubblica Ceca, n. 37679/08, § 131, 18 ottobre 2012). In caso contrario, il dovere di uno Stato di svolgere un’indagine efficace perderebbe il suo significato e i diritti sanciti dall’articolo 3 della Convenzione resterebbero, in pratica, inattuati (cfr. Enukidze e Girgvliani c. Georgia, n. 25091/07, § 268, 26 aprile 2011).
Dunque, nonostante le autorità inquirenti avessero stabilito che il collocamento del richiedente nel RIBBS era stato inappropriato; che il RIBBS aveva comunicato alle autorità competenti di non essere in grado di assistere il richiedente; e che la diagnosi medica del richiedente da parte di B. Hospital era stata carente, per la Corte EDU non vi era stato un effettivo tentativo di verificare se le carenze del sistema fossero dovute ad atti dei rappresentanti delle autorità o di qualsiasi altro funzionario pubblico, per i quali costoro potevano essere chiamati a rispondere.
I giudici di Strasburgo hanno, pertanto, ritenuto inadeguata l’indagine svolta ai fini dell’accertamento delle accuse di gravi violazioni dei diritti umani, anche a fronte dell’assenza di una “reazione appropriata” e del mancato riconoscimento di un risarcimento in favore della vittima.
La violazione dell’art. 13 CEDU
Il ricorrente ha sostenuto la responsabilità del tutore del bambino, rimasto inerte dinnanzi all’affidamento e al conseguente trattamento dallo stesso subito nel RIBBS.
La Corte, tuttavia, in considerazione dei motivi in base ai quali ha riscontrato una violazione dell’aspetto procedurale dell’articolo 3, ha ritenuto insussistente una questione separata ai sensi dell’articolo 13 della Convenzione (cfr. Andonovski contro l’ex Repubblica iugoslava di Macedonia, n. 24312/10, § 107, 23 luglio 2015).
L’OPINIONE DISSENZIENTE DEL GIUDICE WOJTYCZEK
Pare utile precisare che il riconoscimento della violazione dell’art. 3, sotto il profilo procedurale, ha costituito oggetto di una specifica critica nella partly dissenting opinion redatta dal giudice Wojtyczek, ad avviso del quale il caso solleva gravi questioni di giustizia processuale.
Il primo profilo riguarda la portata degli obblighi procedurali derivanti dall’articolo 3 della Convenzione.
Quel giudice ha rilevato che, con la sentenza M.S. c. Croazia (n. 2), n. 75450/12, §§ 74 e 75, 19 febbraio 2015, richiamata dalla maggioranza, sarebbero stati enunciati i seguenti principi: l’articolo 3 della Convenzione richiede agli Stati di mettere in atto efficaci disposizioni di diritto penale atte a scoraggiare la commissione di reati contro l’integrità personale; l’ordinamento giuridico nazionale e, in particolare, il diritto penale di settore, deve garantire una tutela pratica ed efficace dei diritti garantiti dall’articolo 3; il maltrattamento intenzionale di persone che si trovano sotto il controllo di agenti dello Stato non può essere sanato esclusivamente con un risarcimento alla vittima (cfr. Bureš contro Repubblica Ceca, n. 37679/08, § 81, 18 ottobre 2012). Inoltre, quando un individuo denuncia un maltrattamento ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione, la nozione di “rimedio efficace” comporta la necessità di un’indagine approfondita ed effettiva da parte dello Stato, tramite la quale giungere all’identificazione e alla punizione dei responsabili (cfr. Selmouni c. Francia [GC], n. 25803/94, § 79, CEDU 1999-V).
Per soddisfare gli obblighi procedurali di cui all’articolo 3, dunque, le autorità inquirenti avrebbero dovuto verificare se le carenze del sistema fossero dovute ad atti dei rappresentanti delle autorità o di qualsiasi altro funzionario pubblico che potevano essere ritenuti responsabili. È ovvio, ha sostenuto il giudice, che in caso di risposta affermativa, queste persone avrebbero dovuto essere perseguite, atteso che gli Stati hanno l’obbligo di emanare e applicare una legislazione che criminalizzi gli atti e le omissioni dei pubblici ufficiali che determinino carenze del sistema. Tuttavia, l’approccio adottato dalla maggioranza si rivelerebbe – a suo avviso – problematico.
– In primo luogo, in un sistema penale basato sulla presunzione di innocenza, non è la decisione di non indagare o perseguire penalmente che richiede una giustificazione ma, piuttosto, il contrario. Per sostenere (come ha fatto la maggioranza) che le autorità inquirenti avrebbero dovuto verificare “se le carenze del sistema fossero dovute ad atti dei rappresentanti delle autorità o di qualsiasi altro funzionario pubblico, che potevano essere chiamati a risponderne“, andava prima chiarito, nel dettaglio, quali specifici elementi di fatto rendessero necessaria tale verifica e individuato, con maggior precisione, il gruppo dei soggetti coinvolti.
– In secondo luogo, il giudice dissenziente ricorda che la giurisprudenza della Corte ha individuato tre tipi di carenze che possono portare a una violazione dell’articolo 2 o 3: istituzionale, individuale o misto (cfr. Armani Da Silva c. Regno Unito [GC], no. 5878/08, § 284, 30 marzo 2016). Quelle di tipo istituzionale sono “carenze del sistema nel suo complesso piuttosto che errori individuali che comportano responsabilità penale o disciplinare“. Ebbene, nel caso in questione, si è parlato di “carenze sistemiche“, che corrispondono quindi a carenze istituzionali che finora, in base alla giurisprudenza precedente, non hanno dato luogo a responsabilità penali o disciplinari.
– In terzo luogo, con riferimento alle espressioni utilizzate dalla maggioranza, secondo cui l’obbligo di una indagine effettiva sarebbe soddisfatto in presenza di una “risposta adeguata” o di una “reazione adeguata“, il giudice ritiene che tali espressioni vadano oltre l’ambito del diritto penale: in assenza di un’azione penale, la risposta adeguata comprenderebbe, infatti, misure non penali, con la conseguenza che la maggioranza avrebbe così stabilito un nuovo obbligo, con il rischio di sostituire lo standard altamente preciso di “un’indagine approfondita ed efficace in grado di portare all’identificazione e alla punizione dei responsabili” con un vago test di “adeguatezza della reazione“.
In via conclusiva, il giudice dubita della efficacia di un tale approccio osservando che, normalmente, quando la Corte riconosce una violazione sistemica o strutturale da parte dello Stato indica anche le misure individuali (art. 41) o generali (art. 46) da adottare, laddove, nel caso in esame, nonostante la rilevata esistenza di carenze sistemiche, la maggioranza ha deciso di non indicare alcuna misura, individuale o generale.
Il secondo profilo analizzato dal giudice attiene all’equità del procedimento svoltosi davanti alla Corte.
Secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il principio del contraddittorio richiede che i giudici non basino le loro decisioni su elementi di fatto o di diritto che non siano stati discussi durante il procedimento e che diano alla controversia una svolta che nemmeno una parte diligente avrebbe potuto prevedere (in proposito si cita, Alexe c. Romania, n. 66522/09, § 37, 3 maggio 2016; Čepek v. Repubblica Ceca, n. 9815/10, § 48, 5 settembre 2013).
Ebbene, nel caso de quo, le parti sono state espressamente incaricate dalla Corte di perorare la causa sulla base dell’obbligo di svolgere un’effettiva indagine, nei termini indicati nella causa Labita c. Italia (“…quando un individuo afferma in modo credibile di aver subito un trattamento che viola l’articolo 3 per mano della polizia o di altri agenti simili dello Stato, tale disposizione, letta in combinato disposto con il dovere generale dello Stato ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione di “garantire a tutti coloro che si trovano sotto la loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti [nella Convenzione]…richiede implicitamente che ci sia un’effettiva indagine ufficiale. Come per un’indagine ai sensi dell’articolo 2, questa dovrebbe essere in grado di portare all’identificazione e alla punizione dei responsabili (cfr., in relazione all’articolo 2 della Convenzione, la sentenza McCann e altri c. Regno Unito del 27 settembre 1995, serie A n. 324, pag. 49, § 161; la sentenza Kaya c. Turchia del 19 febbraio 1998, Relazioni 1998-I, pag. 324, § 86; e la sentenza Yaşa c. Turchia del 2 settembre 1998, Relazioni 1998-VI, pag. 2438, § 98). In caso contrario, il generale divieto di tortura e di trattamenti e pene inumani e degradanti sarebbe, nonostante la sua importanza fondamentale……, inefficace nella pratica e sarebbe possibile in alcuni casi per gli agenti dello Stato abusare dei diritti di coloro che sono sotto il loro controllo godendo di una virtuale impunità (cfr. la sentenza Assenov e altri sopra citata, p. 3290, § 102) ” (principi affermati anche in M.S. v. Croatia (n. 2) (n. 75450/12, §§ 74 and 75, 19 febbraio 2015).
Esse potevano, quindi, legittimamente aspettarsi che la Corte decidesse il caso sulla base di questi principi. Tuttavia, nella parte successiva del suo ragionamento, la maggioranza ha deciso di applicare uno standard diverso, secondo cui la Corte poteva esaminare questioni diverse e le parti potevano fornire prove e avanzare argomentazioni che vanno ben oltre i principi enunciati nelle cause Labita c. Italia o M.S. c. Croazia (n. 2). Se le parti avessero saputo che sarebbe stato applicato questo diverso standard, probabilmente il Governo avrebbe potuto affrontare la questione relativa ala adeguatezza delle misure adottate dalle autorità nazionali per reagire ai fatti.
Il terzo profilo vagliato dal giudice ha ad oggetto la rappresentanza dei minori davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Il giudice Wojtyczek, rilevato che il ricorrente è soggetto minorenne, ha osservato che la sua domanda è stata presentata da un’organizzazione non governativa che lo ha rappresentato per tutta la durata del procedimento, persino dinanzi alla Corte.
In una situazione in cui i genitori non sono in grado di rappresentare il proprio figlio, ad avviso del giudice, è di fondamentale importanza garantire che il bambino sia adeguatamente rappresentato nel procedimento dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Molteplici sono, invero, i rischi derivanti dal conferire diritti parentali a un ente, anziché ad una persona fisica determinata. Le organizzazioni non governative hanno, infatti, propri punti di vista, obiettivi e interessi, che non necessariamente coincidono con quelli del minore che rappresentano.
Anche se, a quanto pare, tali problematiche non si sono verificate nel caso di specie, in una prospettiva più generale, il giudice ha segnalato il rischio che il caso di un minore venga strumentalizzato dall’organizzazione per il conseguimento dei suoi obiettivi, con la conseguenza che, in casi siffatti, sarebbe preferibile prevedere la nomina di un curatore ad litem.