Contributi dei prof. Marco Olivieri e Giovanni Barbieri sui pro ed i contra del referendum consultivo sulla riforma costituzionale

Estratto da Il quotidianogiuridico.it

Dibattiti

Referendum costituzionale: Sì o No?

giovedì 27 ottobre 2016

Il 4 dicembre 2016 gli elettori italiani saranno chiamati ad esprimere il proprio voto (SI’ o NO) per confermare o respingere una legge di revisione costituzionale deliberata dal Parlamento. Dal voto degli italiani dipende, dunque, la conclusione di un processo riformatore che ha attraversato tutta l’attuale XVII legislatura, articolandosi in fasi diverse e che ha le sue radici in un lungo dibattito, di durata ormai più che trentennale. I principali contenuti della legge di revisione riguardano il superamento del bicameralismo paritario (o perfetto), la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la modifica del titolo V della parte II della Costituzione. Di seguito, pubblichiamo le autorevoli opinioni del Prof. Olivetti, a sostegno del Sì e del Prof. Tarli Barbieri, a supporto del No. E voi da che parte state? Sì o No?

Pro 60 %

Olivetti Marco Professore ordinario di diritto costituzionale nell’Università LUMSA di Roma

Contro 40 %

Tarli Barbieri Giovanni Professore ordinario di diritto costituzionale presso l’Università di Firenze

Pro

Olivetti Marco

Superamento del bicameralismo paritario

Il cuore della legge costituzionale approvata dalle due Camere è la riforma del bicameralismo.

Essa ha le radici nell’origine stessa del bicameralismo italiano del secondo dopoguerra, che fu deliberato in Costituente come conseguenza del mancato accordo fra le forze politiche. Il bicameralismo divenne uno dei temi più divisivi nei lavori della Costituente: dopo che l’impostazione democristiana era prevalsa nel Progetto di Costituzione elaborato dalla Commissione dei 75, l’Assemblea modificò incisivamente la struttura del Parlamento, che venne articolato in due Camere elette entrambe a suffragio universale, differenziate debolmente quanto ai requisiti di elettorato attivo e passivo, alla durata e al sistema di elezione, mentre la scelta sulla formula elettorale venne affidata a un ordine del giorno che prefigurava l’elezione della Camera con sistema proporzionale e quella del Senato con collegi uninominali. Alle due Camere vennero conferiti identici poteri: nella legislazione (ordinaria e costituzionale), nel rapporto di fiducia col governo, nel controllo parlamentare.

La prassi costituzionale si incaricò in seguito di neutralizzare i residui elementi di differenziazione, mentre la legislazione elettorale previde sistemi proporzionali per entrambe le Assemblee e la legge cost. n. 2/1963 eliminò la differenza nella durata. Il risultato fu uno strano bicameralismo-fotocopia, nel quale le due Camere operavano più come articolazioni di un organo orientato in maniera unitaria e coordinata (il Parlamento) che come componenti distinte e differenziate di questo.

Tuttavia, la crisi della Repubblica dei partiti e il passaggio nel 1993 ad un sistema elettorale prevalentemente maggioritario fece rapidamente riemergere i rischi che un sistema di bicameralismo paritario basato sulla doppia fiducia inevitabilmente porta con sé. Già nelle elezioni legislative del 27-28 marzo 1994 le maggioranze nelle due Camere non risultarono del tutto coincidenti e nelle successive consultazioni tale non coincidenza si riprodusse all’indomani delle elezioni del 2006 e, in forma più drammatica, nel 2013, mentre anche nel corso della legislatura eletta nel 1996 si verificarono disarmonie fra le due Assemblee. Al di là di quest’ultimo caso, si può dunque osservare che in tre elezioni politiche sulle sei dell’era del maggioritario le maggioranze delle due Camere non risultarono coincidenti.

Il culmine di questa vicenda venne raggiunto all’indomani delle elezioni del 24 e 25 febbraio 2013, quando, in presenza di due sistemi elettorali simili, ma parzialmente diversi per l’elezione delle due Camere (con un premio di maggioranza operante su scala nazionale alla Camera e su scala regionale al Senato, secondo quanto previsto dalla legge n. 270/2005), le Camere sono risultate composte con orientamenti politici diversi: mentre alla Camera dei deputati la coalizione di centro-sinistra ottenne il 29,6 per cento dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi, il Senato risultò composto da quattro gruppi principali (Partito democratico e altre forze di centro sinistra, centro-destra, Movimento cinque stelle, Scelta civica e altre forze di centro). La conseguenza fu la paralisi politica, che si manifestò dapprima nell’impossibilità per illeaderdel centro-sinistra Pierluigi Bersani di formare un nuovo governo e in seguito nell’impasse delle elezioni presidenziali, risolta solo con la rielezione dell’allora 88enne presidente Napolitano, cui fece seguito la formazione di un governo di grande coalizione, guidato da Enrico Letta, con un programma di riforma organica della Costituzione. Le contraddizioni del bicameralismo sono dunque al centro della riforma costituzionale e all’inizio del percorso per realizzarla.

La riforma costituzionale consacra il superamento del bicameralismo paritario, mentre una pluralità di disposizioni differenziano la posizione delle due Assemblee parlamentari nazionali sia quanto alle funzioni complessivamente loro spettanti (art. 55), sia quanto alla partecipazione al procedimento di formazione della legge statale (art. 70), sia, infine, per quanto concerne il rapporto fiduciario con il Governo (art. 94).

Su questa base (che si potrebbe definire la sua pars destruens), la riforma ha optato per una incisiva riforma del Senato. Fra le diverse possibili direzioni in cui la nuova configurazione della seconda assemblea parlamentare nazionale avrebbe potuto essere orientata, la riforma costituzionale del 2016 ha optato per la qualificazione del Senato come una Camera in cui sono rappresentate le istituzioni territoriali. Il “volto” del nuovo Senato ne risulta radicalmente modificato rispetto alla tradizione post-bellica: e ciò sia quanto alla composizione, alla modalità di elezione, alle funzioni e – per quanto in maniera sinora solo abbozzata – al funzionamento.

Riduzione del numero dei parlamentari

Il nuovo Senato sarà composto da 100 senatori, dei quali ben 95 dovranno essere al tempo stesso titolari di cariche politiche regionali (consiglieri regionali) o comunali (sindaci). I senatori sono infatti distribuiti fra le diverse Regioni e province autonome garantendo una soglia minima di due senatori a ciascuna Regione o provincia autonoma (un sindaco e un consigliere regionale). Le Regioni più popolose avranno poi un numero supplementare di senatori – eletti fra i consiglieri regionali – in proporzione alla popolazione regionale. In totale, il Senato sarà dunque composto da 74 senatori-consiglieri regionali e da 21 senatori-sindaci, cui andranno aggiunti 5 senatori nominati – come oggi, ma con un mandato non più vitalizio, bensì limitato a sette anni – dal Presidente della Repubblica fra i cittadini che abbiano illustrato la patria per altissimi meriti in campo sociale, scientifico, artistico e letterario.

Un Senato composto di eletti politici locali appare coerente con la configurazione dell’assemblea di Palazzo Madama come camera incaricata di rappresentare le istituzioni territoriali: questa funzione è infatti agevolata dalla circostanza che i futuri senatori saranno al tempo stesso membri dei consigli regionali o sindaci.

Competenze del Senato

La competenza all’elezione dei senatori, sinora spettante al corpo elettorale (rectius: alla parte di quest’ultima composta dai cittadini aventi un’età superiore a venticinque anni), viene ora attribuita – per 95 senatori su 100 – ai Consigli regionali e ai Consigli delle Province autonome. Va sottolineato che tali organi saranno competenti ad eleggere non solo i senatori-consiglieri regionali, ma anche i senatori-sindaci. Dagli organi rappresentativi regionali e delle province autonome deriveranno pertanto ben 95 senatori su 100 (come si è già detto gli altri cinque saranno nominati, come oggi, dal Presidente della Repubblica).

L’elezione dei senatori avverrà all’inizio del mandato di ciascun Consiglio regionale o provinciale, relativamente ai senatori (consiglieri regionali e sindaci) spettanti a ciascuna Regione. Di conseguenza non si verificheranno più elezioni generali per il Senato, salvo che per la prima elezione successiva all'(eventuale) entrata in vigore della riforma costituzionale. In seguito, il Senato sarà rinnovato in quota parte da ciascun consiglio regionale all’indomani della sua elezione. Inoltre, siccome ciascun senatore resterà in carica per un periodo corrispondente al mandato del Consiglio che l’ha eletto, ma alla condizione di conservare la propria condizione legittimante l’elezione (consigliere regionale o sindaco), occorrerà eleggere nuovamente il senatore-sindaco ogniqualvolta il senatore cesserà dalla carica di sindaco.

Riguardo al funzionamento del nuovo Senato, la riforma ha da un lato confermato i tratti tradizionali del volto “parlamentare” di tale Camera: l’esclusione del vincolo di mandato (art. 67), l’irresponsabilità per opinioni espresse e voti dati, la necessità dell’autorizzazione a procedere per la limitazione delle libertà personale, di domicilio e di corrispondenza. Un regime differenziato rispetto a quello previsto per i deputati è stato invece previsto per le indennità.

Al tempo stesso, la riforma si segnala per ciò che non prevede: essa non accoglie i tratti caratterizzanti del modello tedesco, quali le istruzioni vincolanti e il voto unitario per delegazione parlamentare regionale. Alcuni critici ne desumono senz’altro che, per queste ragioni, il Senato non potrebbe operare come Camera delle autonomie territoriali, ma questa conclusione appare eccessiva: del resto il Bundesrat germanico è un modello a suo modo unico, mai imitato integralmente da nessuna delle Costituzioni che pure si sono ispirate ad esso (si pensi alla Costituzione sudafricana del 1996). Sicché la possibilità che il nuovo Senato funzioni effettivamente come Camera delle autonomie territoriali, capace di portare nel procedimento legislativo statale il punto di vista delle Regioni e dei comuni, trova nella riforma costituzionale le condizioni strutturali di base che ne permetteranno l’effettiva concretizzazione, anzitutto in ragione del fatto che i membri del Senato saranno anche, allo stesso tempo, eletti locali. Proprio questa loro condizione – da molti superficialmente criticata con il risibile argomento che legge il Senato come un “dopolavoro” per consiglieri regionali e sindaci – è la chiave di volta di una riforma che scommette sulla possibilità che il Senato diventi l’anello di congiunzione fra il sistema delle autonomie e il procedimento di formazione della legge statale. Quanto alla critica, da taluni formulata, secondo cui sarà difficile per i consiglieri regionali ed i sindaci eletti senatori esercitare i due mandati, anch’essa appare superficiale, e trascura tutti i casi di doppio mandato noti al diritto comparato. Si tratterà, com’è ben evidente, di una questione di organizzazione. L’esercizio efficace del doppio mandato dipenderà dalla capacità del futuro Senato di organizzare se stesso in maniera completamente diversa dal Senato attuale, in modo da svolgere in tempi ristretti i compiti (tutt’altro che marginali) che la riforma costituzionale gli assegna, e di farlo in modo da non impedire ai suoi componenti di svolgere in maniera efficace il mandato “principale” (quello di consigliere regionale o di sindaco) dal quale dipende la condizione di senatore. Ma giudicare il Senato delineato dalla riforma avendo in mente il modo in cui funziona quello attuale è operazione intellettualmente poco ordinata: la discontinuità del nuovo Senato rispetto a quello previsto dal testo oggi vigente è assai netta, simile a quella che si produsse fra il Senato regio e quello repubblicano. I problemi di funzionamento della nuova “camera alta” vanno giudicati con un approccio culturale che colga tutte le novità apportate dalla riforma.

Le funzioni attribuite al Senato sono oggetto di una articolata elencazione nell’art. 55.5 Cost., e a quelle ivi indicate vanno aggiunte quelle risultanti da altre disposizioni costituzionali, ove i meccanismi ivi previsti non siano riconducibili alle funzioni enumerate nell’art. 55.

La partecipazione all’esercizio della funzione legislativa resterà, in tale contesto, una delle funzioni più importanti del nuovo Senato. Essa avverrà in modi diversi, a seconda dei quattro procedimenti legislativi delineati nell’art. 70.

In primo luogo, il Senato resterà competente ad approvare le leggi, su un piano di piena parità con la Camera, nelle materie elencate nel primo comma dell’art. 70. Si tratta di un elenco significativo, che include, oltre alle leggi costituzionali, anche una serie di leggi ordinamentali relative alle autonomie territoriali ed al Senato, in materia di processo di integrazione europee e di attuazione degli istituti di democrazia diretta. L’elenco è ovviamente discutibile da un punto di vista analitico, ma appare condivisibile nella misura in cui è ispirato all’idea di escludere dall’area delle leggi bicamerali le leggi che regolamentano le grandi politiche pubbliche (che ricadono invece nella sfera di operatività del procedimento generale, di cui si parlerà subito appresso) e di affidare alla competenza paritaria delle due Camere solo leggi ordina mentali, che delineano le regole del gioco dei rapporti fra i diversi livelli di governo (Stato, Unione europea, autonomie territoriali).

In tutti gli altri casi, la partecipazione del Senato al procedimento di formazione delle leggi non avverrà più su un piano di parità, ma la Camera alta sarà collocata in una condizione di subordinazione rispetto alla Camera dei deputati, eletta a suffragio universale. Questa, del resto, è la condizione in cui si trovano le seconde Camere dei parlamenti di tutti gli Stati europei (con la sola eccezione, fino ad oggi, del nostro Paese e della Svizzera): quella del bicameralismo non più paritario ma asimmetrico.

La regola generale del procedimento di formazione della legge, in base alla riforma, sarà dunque quella regolata dall’art. 70, 3° comma: una volta approvata dalla Camera, una delibera legislativa verrà trasmessa al Senato, il quale potrà decidere di esaminarla e a tal fine sarà sufficiente la richiesta di un terzo dei senatori, che dovrà essere presentata entro dieci giorni dalla trasmissione della delibera legislativa. Una volta formulata tale richiesta, il Senato avrà a disposizione un mese di tempo per esaminare la delibera legislativa approvata dalla Camera e per formulare, ove lo ritenga opportuno, delle proposte di modificazione. Queste dovranno essere trasmesse alla Camera, alla quale spetterà la decisione finale: essa potrà accettare le proposte di modificazione deliberate dal Senato o mantenere il testo originario. In entrambi i casi il Capo dello Stato potrà procedere alla promulgazione e alla pubblicazione della legge. Un allungamento dei tempi del procedimento pare ipotizzabile solo nel caso in cui la Camera approvi, in sede di seconda deliberazione, nuove modifiche alla delibera legislativa, che in tal caso dovrebbero essere trasmesse al Senato, il quale potrebbe esercitare su di esse il potere di richiamo. Oppure nel caso in cui il Presidente della Repubblica rinvii al Parlamento la legge approvata secondo il procedimento che si è visto.

Rispetto allo schema procedimentale ora brevemente esposto, i commi 4 e 5 dell’art. 70 prevedono poi due varianti ben identificate: quello della legge di bilancio e quello di una legge adottata nell’esercizio della clausola di supremazia, vale a dire del potere, ora riconosciuto alla legge statale, di intervenire, a tutela dell’interesse nazionale, anche al di fuori delle materie su cui è riconosciuta competenza allo Stato. La procedura del 4° comma, e quella del 5° comma, dell’art. 70 tentano di riconoscere al Senato una partecipazione più intensa al procedimento di formazione della legge statale rispetto a quella possibile in via generale ai sensi dell’art. 70, 3° co., ma senza arrivare ad attribuire alla Camera delle autonomie territoriali un vero e proprio potere di veto, come accade nel caso del procedimento legislativo bicamerale.

Contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni e soppressione del CNEL

Riguardo alla riduzione del numero dei parlamentari, al contenimento dei costi delle istituzioni e alla soppressione del CNEL è possibile limitarsi ad alcune sintetiche osservazioni. Il numero dei parlamentari elettivi viene incisivamente ridotto, da 945 (630 deputati più 315 senatori) a 725 (630 deputati più 95 senatori elettivi). Ma la riduzione è in realtà più ampia: i futuri 95 senatori elettivi, infatti, saranno titolari anche di un’altra carica (quella di consigliere regionale o di sindaco) e non riceveranno emolumenti ulteriori rispetto a quelli loro spettanti in virtù di tale carica. Ne deriva che la riduzione del numero delle cariche politiche elettive è pari al numero degli attuali senatori elettivi.

Da questo dato risulta, evidentemente, una riduzione dei costi di funzionamento delle istituzioni, che dovrebbe essere incrementato anche da una riduzione dei costi del Senato, stante il nuovo ruolo costituzionalmente attribuito a questa assemblea. A ciò si aggiunge il risparmio derivante dalla soppressione del CNEL e quello che segue alla eliminazione dei rimborsi ai Consigli regionali. Il senso di queste misure va adeguatamente apprezzato, senza indulgere a facili populismi che individuino nella riduzione del numero dei parlamentari la panacea di tutti i mali, ma cogliendo il segnale di un’esigenza di maggiore sobrietà della politica che queste misure intendono lanciare e che è ovviamente auspicabile rimanga una scelta di sistema e non si esaurisca in una sorta di spot pubblicitario.

Quanto alla soppressione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, occorre ricordare come tale organo sia stato la traduzione organizzativa debole e infelice di un’idea dalle grandi potenzialità. Il CNEL era infatti nel disegno dei Costituenti la punta dell’iceberg dell’aspirazione a riconoscere uno status costituzionale alle principali manifestazioni del pluralismo nella vita economica (le categorie produttive). E’ ormai certo che esso non è riuscito a guadagnarsi un ruolo adeguato ad esprimere questa istanza, e dunque sarà molto difficile rimpiangerne la soppressione. Tuttavia l’esigenza per cui esso era stato previsto conserva valore, e dovrà trovare adeguato riconoscimento nella cultura politica e nelle prassi istituzionali.

Revisione del titolo V della parte II della Costituzione

Per quanto concerne la nuova riforma del titolo V, la parte della Costituzione relativa alle autonomie territoriali, già integralmente riscritta fra il 1999 ed il 2001, è fatta oggetto di un intervento di ristrutturazione complessiva, incentrato sulla ridefinizione del riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni, oltre che di una semplificazione del sistema delle autonomie nel suo complesso.

Quest’ultimo viene realizzato mediante la decostituzionalizzazione delle Province, lasciando così alle fonti (statali e regionali) di rango sub costituzionale la potestà di continuare a prevederle o di sopprimerle. La riforma costituzionale offre così copertura costituzionale ai processi avviati dalle riforme legislative del governo Monti e consolidati dalla legge Del Rio.

Riguardo al riparto di competenze legislative, le novità principali sono le seguenti:

a) La soppressione della competenza legislativa concorrente, che ha caratterizzato sin dall’origine il regionalismo italiano e che, con qualche eccesso di fretta, è stata ritenuta la responsabile della mancata chiarezza nella divisione dei ruoli previsti in Costituzione per Stato e Regioni.

b) Il trasferimento in capo alla legislazione esclusiva statale di ben 26 nuove materie rispetto al 2001, delineando un quadro di indubbia ri-centralizzazione legislativa.

c) Il mantenimento della potestà residuale delle Regioni, per tutte le materie non espressamente attribuite alla legge statale.

d) L’enumerazione indicativa di alcune competenze legislative regionali, nell’ambito di una competenza generale dello Stato a stabilire le disposizioni generali e comuni.

e) La facoltà del legislatore statale di intervenire anche “fuori materia”, vale a dire nelle materie residuanti in capo alla Regione, quando ciò sia richiesto da ragioni di interesse nazionale.

Da questo pur sommario elenco risulta chiara la direzione complessiva della riforma del titolo V: essa è quella di una chiara ri-centralizzazione legislativa. La “mano pesante” del legislatore di revisione, che non ha resistito alla tentazione di ridefinire nel complesso il riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni, invece di limitarsi ad una puntuale correzione – da più parti richiesta – di vari aspetti della riforma del 2001, genera non poche perplessità. Una soluzione più cauta e prudente sarebbe stata senz’altro preferibile. Ma anche chi si collochi – come a noi pare necessario – in questa prospettiva almeno parzialmente critica, non può non inserire questa critica in un contesto più ampio, che induce a relativizzarla.

Tre dati devono, a nostro avviso, essere considerati.

Il primo è che la ri-centralizzazione che senza dubbio caratterizza la riforma è limitata alla legislazione e non si estende all’amministrazione, la quale è retta dal principio di sussidiarietà, che non viene modificato dalla riforma: l’indicazione costituzionale resta pertanto quella attuale, secondo cui le funzioni amministrative devono essere collocate – fin quando possibile – al livello di governo più vicino al cittadino.

Il secondo dato è che la ri-centralizzazione legislativa è senza dubbio pronunciata se s confronta il testo della riforma con il testo formalmente vigente, vale a dire con la riforma del 2001. E’ tuttavia largamente noto che tale testo è stato largamente svuotato in sede di attuazione: disatteso ab initiodal legislatore statale, che non lo ha mai considerato come un autentico limite alle sue competenze e ha invece continuato a legiferare etsi titulus quintus non daretur. Inoltre la riforma del titolo V non è mai stata presa sul serio dalla giurisprudenza costituzionale, i cui orientamenti, dopo qualche timida apertura iniziale (ad es. la sent. 282/2002), si sono assestati sulla linea di un antiregionalismo ben consolidato, rinunciando a proteggere le attribuzioni legislative regionali e riconoscendo alla legge statale vari titoli di competenza ulteriori rispetto a quelli risultanti da una lettura rigorosa del testo costituzionale (si v. i meccanismi della “chiamata in sussidiarietà” e le numerose e variegate competenze trasversali del legislatore statale). Infine, la riforma del 2001 è stata definitivamente seppellita dopo il 2010, a causa della crisi economica e in nome delle esigenze di riduzione o di contenimento della spesa pubblica, che hanno trovato nella competenza statale in materia di coordinamento della finanza pubblica la via per riportare alla legge statale la competenza della competenza. In sintesi: il titolo V del 2001 è già oggi un cumulo di macerie. La mano pesante del legislatore di revisione interviene a battaglia già perduta per le Regioni, come ben dimostra la scarsa resistenza delle Regioni stesse di fronte ad un’operazione politica di forte riduzione della loro autonomia legislativa.

Il terzo dato è rappresentato dalla “compensazione” che per le Regioni può essere rappresentata – rispetto alla perdita di competenze legislative (peraltro, come si è accennato, previste ormai solo sulla carta) – dalla riforma del Senato e dalla trasformazione di questo in una Camera rappresentativa delle istituzioni territoriali, nella quale il peso delle Regioni è largamente maggioritario (74 senatori su 100 saranno consiglieri regionali). Iltrade offche la riforma delinea, insomma, è quello fra un indubbio (e in parte certo criticabile, quantomeno per la sua ampiezza) indebolimento dello spazio dell’autonomia legislativa regionale e il riconoscimento di uno spazio qualificato per le Regioni che permette ai “loro” senatori di partecipare alla formazione della legge statale, vale a dire di quello che torna ad essere l’atto normativo per eccellenza nella Repubblica delle autonomie e che in passato è stato, tradizionalmente, l’atto dalla cui configurazione quasi sempre “centralista” derivava una lesione delle autonomie regionali.

La riforma scommette insomma su una legislazione statale negoziata con le Regioni attraverso il Senato, puntando su questa valvola per il recupero della caratura autonomistica dell’ordinamento, che inevitabilmente va in parte perduta per la riduzione delle competenze legislative regionali. Dare una voce alle Regioni nella formazione della legge statale è, da questo punto di vista, dare attuazione a quella parte dell’art. 5 della Costituzione, in cui si richiede che la Repubblica adegui i criteri e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.

Contro

Tarli Barbieri Giovanni

Superamento del bicameralismo paritario

Il testo “Renzi-Boschi” presenta limiti tali da condurre ad un giudizio negativo, anche se le motivazioni che sono alla base di alcuni dei suoi contenuti appaiono, in linea di principio, anche condivisibili.

È il caso, ad esempio, della riforma del Senato.

Le soluzioni sul punto fatte proprie nel testo di riforma appaiono infatti discutibili, sia quanto alle modalità di elezione dei propri membri, sia quanto alla definizione delle funzioni.

Il “nuovo” art. 55, comma 4, Cost. radica nella sola Camera (la cui composizione rimane quella attuale) la titolarità del rapporto di fiducia con il Governo, l’esercizio della funzione di indirizzo politico, la titolarità della funzione legislativa (salvo le prerogative del Senato su cui cfr.infra) e quella di controllo dell’operato del Governo.

Da parte sua, ai sensi del successivo comma 5, «il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Concorre all’esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione, nonché all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea. Valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. Concorre ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge e a verificare l’attuazione delle leggi dello Stato».

Riduzione del numero dei parlamentari

Per quanto riguarda la composizione del Senato, il “nuovo” art. 57 Cost. prevede che «il Senato della Repubblica è composto da novantacinque senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali e da cinque senatori che possono essere nominati dal Presidente della Repubblica» (comma 1) e che «i Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori» (comma 2).

Sul punto, oltre alla stravagante previsione della presenza dei cinque senatori di nomina presidenziale che, così come gliexPresidenti della Repubblica, non hanno a che vedere con le autonomie territoriali, si deve osservare che il “metodo proporzionale” per l’elezione dei senatori sarà comunque unafictioper quegli enti (la maggioranza) che ne eleggeranno pochissimi (10 enti eleggeranno 2 senatori; 2 enti ne eleggeranno 3).

Ancora più gravi incertezze emergono però a proposito del sistema di elezione dei senatori: ai sensi dell’art. 57, comma 5, Cost., «la durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti, in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi, secondo le modalità stabilite dalla legge di cui al sesto comma». A sua volta, il successivo comma 6 specifica: «Con legge approvata da entrambe le Camere sono regolate le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato della Repubblica tra i consiglieri e i sindaci, nonché quelle per la loro sostituzione, in caso di cessazione dalla carica elettiva regionale o locale. I seggi sono attribuiti in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio».

Come si vede, si tratta di un tessuto normativo ambiguo e assai discutibile anche sul piano redazionale. In particolare, ci si chiede quale sia la portata prescrittiva della previsione della «conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi» rispetto ad una potestà, quella dell’elezione con metodo proporzionale, che è in capo al Consiglio regionale (art. 57, comma 2, Cost.) e se essa si applichi ai candidati consiglieri regionali ovvero anche ai candidati Sindaci (peraltro eletti da un corpo elettorale diverso da quello dei consiglieri regionali): non è quindi chiaro se il comma 5 finisca per imporre una sorta di elezione diretta “mascherata”, da valutare alla stregua dei nuovi art. 55, commi 4 e 5, Cost. (e per inciso, in questa direzione va chiaramente il disegno di legge “Chiti-Fornaro” che il Presidente del Consiglio ha recentemente proposto come testo base in vista dell’esame della futura legge elettorale per il Senato).

Il quadro è reso ancora più complicato alla luce del comma 6 dello stesso art. 57 Cost., ai sensi del quale i seggi senatoriali debbono essere attribuiti «in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio». Come è evidente si tratta di due parametri assai diversi, ancorché espressi in modo tutt’altro che preciso, anche perché non si capisce come si coordinino con il vincolo di “conformità” di cui al comma 5: sembra comunque di capire che, mentre il riferimento ai «voti espressi» appare riferito ai risultati delle ultime elezioni regionali (ma allora esso si applica anche per l’elezione dei Sindaci?), quello alla «composizione di ciascun Consiglio» allude alla consistenza dei gruppi consiliari che tiene conto, in prima battuta, dei contenuti delle leggi elettorali regionali, pressoché tutte connotate da forti premi di maggioranza e soglie di sbarramento assai variabili nella loro consistenza (per tutti, Zagrebelsky).

In definitiva, dovrà essere la futura legge elettorale per il Senato (per inciso: approvata con il procedimento bicamerale, e quindi con il coinvolgimento pieno della seconda Camera) a sciogliere questo “groviglio” costituzionale (Rossi).

La nuova configurazione del Senato appare quindi quantomai ambigua, trattandosi di un ramo del Parlamento ridimensionato nella composizione (100 membri, computandosi i 5 senatori di nomina presidenziale) ma che, per le non chiare modalità della sua elezione e per l’assenza di vincolo di mandato e riconoscimento pieno delle guarentigie di cui all’art. 68 Cost. in capo ai propri membri, potrebbe ben atteggiarsi come una sorta di Camera politica svincolata dal rapporto fiduciario.

Competenze del Senato

Anche le competenze del Senato appaiono delineate dal “nuovo” art. 55 Cost. in modo generico e quindi tale da richiedere un processo di larga attuazione-integrazione ad opera di fontisub-costituzionali.

Tale rilievo appare significativo non solo perché le competenze del Parlamento (anche quelle di ciascuno dei suoi rami) dovrebbero essere delineate in modo sufficientemente analitico già a livello costituzionale (a maggior ragione nel caso di competenze “in concorso” tra i due rami del Parlamento, nel quadro del superamento di un assetto bicamerale paritario) ma anche perché alcune di esse sono declinabili in modo tale da quantomeno “interferire”, o comunque da richiedere un coordinamento, con il rapporto di fiducia del quale dovrebbe essere titolare la sola Camera dei deputati ai sensi del novellato art. 55, comma 4, Cost. o comunque con le altre competenze ad essa spettanti in forza di tale disposizione.

Il quadro deve essere completato con un riferimento al procedimento legislativo: la dottrina maggioritaria ha evidenziato i rischi derivanti da una moltiplicazione dei procedimenti legislativi sulla base di materie (ne sono stati contati almeno cinque, anche se alcuni autori ne rinvengono ulteriori: Rossi); e ciò inficia la scelta di fondo del testo, ovvero quella di abbandonare un modello centrato sull’allocazione della potestà legislativa a entrambi i rami del Parlamento, in favore di un nuovo assetto basato sulla prevalenza della Camera dei deputati (art. 70, comma 3, Cost.).

Si è osservato che una tale scelta è una conseguenza inevitabile dell’abbandono del bicameralismo paritario (così, Manetti): tuttavia, l’inevitabile flessibilità interpretativa delle espressioni linguistiche utilizzate nell’art. 70 Cost., talvolta poco rigorose, unita alla moltiplicazione delle materie, rende fin troppo probabile la moltiplicazione dei conflitti e quindi la possibilità di un’esplosione del contenzioso costituzionale che rischia di aggiungersi a quello esistente tra lo Stato e le Regioni (che, peraltro, il testo di revisione costituzionale non contribuisce a risolvere: cfr.infra, par. 3).

A ciò si aggiungano le perplessità relative all’elenco delle leggi che dovrebbero seguire il procedimento bicamerale (art. 70, comma 1, Cost.): perplessità che riguardano la loro eterogeneità ma soprattutto le gravi lacune proprio per quanto riguarda le leggi relative a materie di interesse delle Regioni o degli enti locali (si pensi, per citare alcuni esempi, alle leggi statali che pongono “norme generali e comuni” di cui all’art. 117, comma 2, Cost., alla generalità delle leggi statali attuative dell’art. 118 e 119 Cost.): si tratta di uno degli aspetti più criticabili del testo di revisione costituzionale, perché, in definitiva, l’emarginazione del Senato nel procedimento di approvazione delle leggi in questione finisce per snaturare la configurazione della seconda Camera come assemblea che dovrebbe (ma il condizionale, per ciò che si è detto, è d’obbligo) rappresentare le istituzioni territoriali (per tutti, Ruggeri; Bifulco).

In ogni caso, dai “nuovi” artt. 55 e 70 Cost. si trae l’impressione che il Senato si veda attribuito un insieme di competenze potenzialmente significative e non certo tali da “declassare” la seconda Camera ad una sorta di “dopolavoro” per i suoi componenti che, ricordiamolo, debbono esercitare un doppio incarico (che potrebbe diventare triplo: si pensi ai Presidenti delle Regioni o ai Sindaci delle dieci città individuate dalla l. 56/2014 che sono di diritto Sindaci metropolitani), senza un’indennità specifica (ai sensi del “nuovo” art. 69 Cost.): da qui i dubbi sulla reale efficienza di questa nuova Camera (Rossi) e, comunque, la necessità di rinvenire un coordinamento, assai difficile da configurare, tra lavori del Senato e quelli dei Consigli regionali, anche perché, ai sensi del “nuovo” art. 64, ultimo comma, Cost., «i membri del Parlamento hanno il dovere di partecipare alle sedute dell’Assemblea e ai lavori delle Commissioni».

Contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni e soppressione del CNEL

La riduzione dei costi della politica è una ulteriore linea di fondo che ispira la proposta “Renzi-Boschi”. Eppure, come si evince da una nota del Ministero per le riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento (Camera dei deputati, Ia Commissione permanente, 19 novembre 2014, res. somm., allegato n. 2), le minori spese sarebbero o relative o non quantificabili (come la prevista riforma delle Province o l’abolizione dei rimborsi e dei trasferimenti finanziari in favore dei gruppi politici presenti nei Consigli regionali, che, per inciso, rischia di accentuare la preminenza dei Presidenti e delle Giunte sui Consigli).

A ciò si aggiunga che il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, auspicabilmente con un approccio non populista, può essere perseguito assai più efficacemente sul piano della legislazione ordinaria (si pensi all’indennità dei deputati, sulla quale il testo di riforma tace, a differenza di quanto previsto per i consiglieri regionali), così come su quello delle autonome determinazioni degli organi costituzionali (la Camera dei deputati ha già provveduto a risparmiare 47 milioni di euro nel solo 2016).

Ciò detto, la soppressione del CNEL non appare particolarmente problematica, visto lo scarso rilievo istituzionale che questo organo ha dimostrato nella prassi anche recente.

Revisione del titolo V della parte II della Costituzione

L’ultima parte del testo “Renzi-Boschi” è dedicata alla “riforma della riforma” del Titolo V.

Il testo asseconda un approccio riformatore che valorizza fin troppo le prerogative statali, ridimensionando l’autonomia legislativa regionale; anche perché è tutto da dimostrare che un robusto riaccentramento di funzioni possa produrre effetti positivi nell’attuazione di quelle politiche pubbliche oggi rimesse, in tutto o in parte, alle Regioni.

In questo senso, una scelta discutibilissima è quella che non rende inapplicabile tale “riforma della riforma” alle Regioni a statuto speciale ma rafforza la loro autonomia statutaria, che potrebbe essere rivista solo d’intesa con le Regioni stesse (art. 39, comma 11, del testo di riforma).

Tali disposizioni suscitano notevoli perplessità, in primo luogo perché finiscono con l’ampliare la distanza, in termini di spazi di autonomia, tra le Regioni a statuto ordinario e le Regioni ad autonomia particolare, in un momento nel quale l’attualità delle specialità è oggetto di discussione a livello dottrinale e non solo.

Venendo ora alle novità relative alle Regioni a statuto, ordinario, il “nuovo” art. 117 Cost. introduce quattro principali novità:1) una redistribuzione delle materie, con un robustissimo incremento di quelle ricondotte alla potestà legislativa esclusiva dello Stato;2) l’individuazione espressa di ambiti materiali rimessi alla potestà legislativa regionale residuale, accompagnata dalla conferma della previsione secondo la quale essa è destinata a trovare applicazione «in ogni materia non espressamente riservata alla competenza esclusiva dello Stato»;3) l’eliminazione, almeno apparente, della potestà legislativa concorrente;4) l’introduzione di una sorta di “clausola di supremazia” per cui «su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale» (comma 4).

1) Sul primo punto colpisce, come già accennato, il riaccentramento alla potestà legislativa esclusiva dello Stato di numerosi ambiti materiali (essi salirebbero a 49!), anche al di là di quanto necessario per correggere alcune storture dell’attuale formulazione dell’art. 117 Cost.

È poi decisivo lo spostamento alla potestà legislativa esclusiva dello Stato del «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» che nella prassi più recente ha costituito il titolo trasversale più penetrante e intrusivo dello Stato rispetto all’esercizio della potestà normativa regionale e che a seguito dell’entrata in vigore del testo di riforma consentirebbe allo Stato interventi anche di puro dettaglio (Brancasi).

2) Il testo di riforma non sembra superare (anzi, per certi profili, sembra esaltare) un limite di fondo anche dell’attuale art. 117 che ha finito per aumentare il contenzioso costituzionale, ovvero le frequenti sovrapposizioni tra titoli materiali allocati allo Stato o alle Regioni, tanto più in quanto, salvo la clausola di supremazia, il criterio fondamentale di ripartizione tra lo Stato e le Regioni sembra ancora connotato da rigidità e da frequenti imprecisioni nella definizione degli ambiti competenziali, ormai ridotti a un fascio di materie di competenza esclusiva dello Stato e a un fascio di materie di competenza residuale delle Regioni, accompagnate peraltro, come detto, alla riproposizione della clausola per cui quest’ultima si esplica, altresì, «in ogni materia non espressamente riservata alla competenza esclusiva dello Stato».

3) La proposta sopprime la potestà concorrente, sul presupposto, assai opinabile alla stregua della giurisprudenza costituzionale, che essa abbia determinato l’espansione del contenzioso costituzionale tra lo Stato e le Regioni.

La proposta “Renzi-Boschi” non sembra quindi tenere conto adeguatamente della necessità, in un ordinamento complesso, di una legislazione integrata tra Stato e Regioni, sulla base di una chiara individuazione delle rispettive responsabilità (De Siervo) e con l’istituzione, in funzione di raccordo, di una “vera” Camera delle autonomie.

A ciò si aggiunga che, a fronte della soppressione della potestà concorrente, la proposta in esame alloca allo Stato numerose competenze qualificate in termini di «disposizioni generali e comuni», «disposizioni di principio», «profili ordinamentali generali», «norme […] tese ad assicurare l’uniformità sul territorio nazionale», mentre altre materie sono declinate lungo il crinale degli interessi (nazionali o regionali), ed altre ancora alludono ad una competenza statale per profili “strategici” (Ruggeri). Non è chiaro se a tale riparto, invero pericolosamente ambiguo, possano applicarsi i punti di arrivo della legislazione e della giurisprudenza costituzionale formatasi nella vigenza dell’art. 117, comma 3, Cost. E soprattutto non è chiaro se tali variegate espressioni in questione siano equivalenti sistemici o alludano a spazi di normazione eterogenei, più o meno estesi nei singoli casi, dato che i confini del concorso tra la legislazione statale e la legislazione regionale, declinati in termini diversi, potrebbero essere sindacati in modo differenziato dalla Corte costituzionale (Rivosecchi).

I rischi di confusione e di moltiplicazione del contenzioso costituzionale appaiono quindi seri.

4) La proposta in oggetto costituzionalizza un istituto che certo supera la rigidità nella definizione dell’assetto delle competenze ma in una logica squisitamente centralistica: la c.d. clausola di supremazia, di cui all’art. 117, comma 4, Cost., è declinata infatti in termini assai generali, per non dire generici (la disposizione consente questa possibilità «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale»), e per di più attivabile solo su proposta del Governo, senza alcun riferimento né ai meccanismi di coinvolgimento delle autonomie regionali, oggi necessari a partire dalla “celebre” sent. 303/2003 della Corte costituzionale, né ad un ruolo forte del Senato, che pure avrebbe ben potuto essere configurato, ove si fosse scelta la via dell’approvazione con legge necessariamente bicamerale. A ciò si aggiunga che il novellato art. 117, comma 4, Cost. non allude nemmeno al rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità.

In definitiva, tale potere dello Stato appare di difficile giustiziabilità da parte della Corte costituzionale (Caretti).

Appare poi insieme discutibile e paradossale che questa previsione non si applichi alle Regioni a statuto speciale.

Gli altri contenuti della riforma: elezione del Capo dello Stato e modifiche agli istituti di democrazia diretta

Vi sono altri contenuti della riforma che meritano di essere menzionate, sia pure brevemente.

Sull’elezione del Presidente della Repubblica, l’art. 83, comma 3, Cost., è modificato prevedendo che dal quarto scrutinio sia sufficiente la maggioranza dei tre quinti dell’assemblea e dal settimo scrutinio la maggioranza dei tre quinti dei votanti.

Si tratta di una modifica assai criticabile, anche a prescindere dalle scelte legislative in materia elettorale, in quanto con tale previsione si rende possibile, a partire dal settimo scrutinio, sia pure teoricamente, l’elezione di un Capo dello Stato, per così dire, “di minoranza”, essendosi introdotto un quorum non riferito ai componenti.

D’altra parte, il fatto che nella prassi il numero dei votanti dovrebbe auspicabilmente coincidere con quello dei componenti del Parlamento in seduta comune, nulla toglie circa il discutibilissimo significato istituzionale di questa proposta che non sembra rispondere nemmeno all’esigenza di favorire una più celere elezione del Capo dello Stato.

Infine, un ultimo punto rilevante del testo di riforma è costituito da un insieme di previsioni che intervengono sugli istituti di democrazia diretta.

La previsione più rilevante è quella contenuta nell’art. 11 il quale prevede l’inserimento di un ulteriore comma all’art. 71 Cost., così formulato: «Al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali. Con legge approvata da entrambe le Camere sono disposte le modalità di attuazione».

Come è stato giustamente osservato, si tratta di una previsione assai generica, non priva di ambiguità, ed il cui valore pare essenzialmente “simbolico” (Lamarque).

Ciò detto, le stesse locuzioni “referendum propositivi” e “d’indirizzo” si prestano a numerosi interrogativi innanzitutto circa la loro natura, i loro limiti e i loro effetti.

È infatti da ricordare come l’allargamento delle tipologie referendarie dovrebbe tenere conto della scelta dei Costituenti per una democrazia fondamentalmente rappresentativa che, come tale, rende «impensabile un uso sistematico del referendum» (Paladin); né sono da sottovalutare i rischi di un uso plebiscitario degli strumenti di democrazia diretta.

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