Coronavirus: statistiche sul contagio e “contagio” nel dato giudiziario

di Marilena Filomeno

La narrazione dell’emergenza sanitaria di questi giorni è scandita dai quotidiani bollettini ufficiali della Protezione civile a cui si accompagna un proliferare di cifre sull’andamento del fenomeno – contagiati dall’inizio dell’epidemia, contagiati giornalieri, guariti, morti, numero di tamponi, tasso di crescita dell’infezione – e di modelli statistici volti a stimare gli asintomatici e l’evoluzione dell’epidemia tramite curve esponenziali o logistiche.

Statistiche sul contagio che occorre imparare a leggere, osservando innanzitutto che il numero di nuovi casi fornito quotidianamente non è dato dalla differenza tra i casi totali (dall’inizio dell’epidemia) rispetto ai casi totali del giorno precedente, ma viene presentato al netto dei guariti e dei morti giornalieri, sommando i quali l’evoluzione dell’impatto dell’epidemia apparirebbe subito all’opinione pubblica molto più preoccupante.

L’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha sinora ritenuto di non pubblicare studi previsionali sull’andamento della diffusione considerando che le assunzioni necessarie, poste a base di ogni modello statistico, non sempre si verificano. Nel caso di un’epidemia, poi, difficilmente tali ipotesi di partenza possono essere controllate, dipendendo da diverse variabili come le misure restrittive adottate, il numero di asintomatici e, soprattutto, i comportamenti individuali che, come abbiamo visto nelle cronache, non sempre rispondono a quanto atteso e non sempre hanno come effetto la riduzione capillare del numero di contatti.

Eppure l’ISS accede alle cartelle cliniche dei pazienti e quindi dispone di dati molto più puntuali di quelli utilizzati nella maggior parte degli studi statistici previsionali che vengono pubblicati in questi giorni sui principali organi di informazione. Naturalmente le simulazioni sugli scenari possibili sono indispensabili e doverose. E, seppur non pubblicate, vengono approntate anche dall’ISS soprattutto per monitorare l’efficacia del sistema sanitario e la disponibilità di posti letto negli ospedali e di posti letto in terapia intensiva.

Anche la comparabilità dei dati statistici nazionali con altre realtà, non solo europee, non è sempre significativa e dipende da molteplici aspetti: numero di tamponi effettuati, criteri utilizzati nel sottoporre il cittadino al tampone e quindi numero di asintomatici, classificazione del numero dei morti, misure restrittive adottate e adottabili anche in funzione del diverso impianto normativo vigente nelle nazioni. Tante variabili che ci potrebbero portare, almeno al momento, a concentrare l’attenzione sull’evoluzione della sola realtà italiana, riservando ai mesi futuri l’analisi di confronto con quanto accaduto all’estero. Le necessità di indagine e di conoscenza ci inducono però ad esplorare la realtà ricercando il modo migliore per leggerla.

Questi due temi – modelli previsionali e comparazioni – offrono lo spunto per due riflessioni  anche sulle modalità di analisi dei dati nella statistica giudiziaria.

Infatti nel settore della giustizia i problemi della qualità dei dati e della diversa classificazione degli stessi sono per alcuni versi simili a quanto accade in ambito epidemiologico.

Ad esempio, le sentenze di conferma o di riforma parziale sono spesso classificate diversamente negli uffici giudiziari e possono portare a letture diverse dei fenomeni, con rischio di errore nella comparazione tra realtà differenti.

Identica osservazione si può estendere alla diversa classificazione di un procedimento tramite il codice oggetto o la fattispecie di reato o alla diversa modalità di definizione di un procedimento utilizzata nella fase di registrazione.

Sono problematiche analoghe a quelle incontrate in questi giorni relativamente alla, ben più triste,  classificazione epidemiologica del numero di morti: si muore per il coronavirus o con il coronavirus che interviene in un quadro clinico di comorbilità? In Italia i dati sono forniti complessivamente. E gli altri Paesi? Stanno utilizzando lo stesso criterio nella classificazione e nella diffusione dei dati? Possiamo compararli? Domande che possiamo porci anche confrontando i tassi di criminalità tra diverse nazioni.

La seconda osservazione riguarda il fatto che spesso chi detiene il dato puntuale e ne conosce la modalità di raccolta è a volte eccessivamente prudente nella produzione di analisi statistiche volte alla previsione o alla investigazione dei fenomeni di interesse, giacché consapevole che la qualità dei risultati non può superare la qualità dei dati di partenza e che quindi la qualità del dato possa negativamente contagiare o infettare la qualità dei risultati.

Diversamente gli istituti di ricerca, che spesso utilizzano dati aggregati e che più facilmente potrebbero incorrere in errori, conoscendo meno le peculiarità e le insidie presenti nei dati di partenza, si cimentano in analisi volte a indagare l’andamento della giustizia, l’efficienza degli uffici giudiziari o le ragioni e le determinanti della lunghezza dei processi, spinti dalla stessa necessità di indagine e di conoscenza dell’epidemia in corso.  

Tuttavia i presupposti alla base delle rilevazioni e i limiti alla corretta raccolta e classificazione dei dati devono essere conosciuti e valutati ai fini di una lettura critica e intelligente delle informazioni disponibili. Lasciandosi perciò contagiare da quanto avviene in ambito epidemiologico, potremmo ricavarne la lezione che nonostante le difficoltà di garantire una adeguata e uniforme qualità del dato, la produzione di analisi e studi statistici non deve e non può arrestarsi in quanto essenziale a fornire il necessario supporto per governare i processi gestionali e decisionali anche nelle realtà locali. E, forse, andrebbe maggiormente promossa tra i detentori dei dati puntuali