“Corte cost. 229/2015 sulla Selezione degli embrioni”

di Andrea Penta

Nota a

Corte cost. sentenza  229/2015
Presidente CRISCUOLO – Redattore MORELLI
Udienza Pubblica del 06/10/2015    Decisione  del 21/10/2015
Deposito del 11/11/2015 

1.     Premessa
Di fronte all’inerzia del legislatore che, malgrado i richiami di Strasburgo, continua a latitare, è toccato nuovamente alla Consulta cercare di rendere non contraddittorio il quadro normativo esistente.Invero, la sentenza in commento, con la quale (dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, commi 3, lettera b), e 4, della legge 40/2004), nella sostanza, si è escluso che possa configurare un’ipotesi di reato la selezione di embrioni nella procreazione assistita, laddove sia finalizzata soltanto a evitare di impiantare nell’utero della donna embrioni affetti da malattie genetiche ritenute gravi (ai sensi dell’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 194/78), si inserisce nel solco di altra, di poco risalente, pronuncia del medesimo autorevole consesso, con la quale la Consulta aveva dichiarato[1] l’illegittimità costituzionale della stessa legge n. 40/2004 nella parte in cui non consentiva il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili gravi (in particolare, rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge 22 maggio 1978, n. 194), accertate da apposite strutture pubbliche[2].La meno recente declaratoria di illegittimità aveva il dichiarato scopo di consentire la “previa individuazione”, in funzione del successivo impianto nell’utero della donna, “di embrioni cui non risulti trasmessa la malattia del genitore comportante il pericolo di rilevanti anomalie o malformazioni (se non la morte precoce) del nascituro”, alla stregua del suddetto “criterio normativo di gravità”[3].E’ evidente il fil rouge che lega allora le due pronunce, alla luce della elementare considerazione per cui ciò che era divenuto lecito per effetto della prima sentenza non poteva più essere considerato illegale per il principio di non contraddizione.

In realtà, a ben vedere, la strada era stata già spianata da un altro intervento della Corte costituzionale[4], con il quale, partendo dalle premesse per cui la scelta di una coppia di diventare genitori e di formare una famiglia che abbia anche figli costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, libertà riconducibile agli artt. 2, 3, e 31 Cost. (poiché concerne la sfera privata e familiare) e la determinazione di avere, o meno, un figlio, concernendo anche la coppia assolutamente sterile e infertile, attiene alla sfera più intima ed intangibile della persona umana e non può che essere intangibile (ovviamente, qualora non vulneri altri valori costituzionali), anche quando la determinazione sia esercitata mediante la scelta di ricorrere, a tale scopo, alla tecnica di procreazione medicalmente assistita (da ora in poi, p.m.a.) di tipo eterologo[5], è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 4, comma 3, l. n. 40 del 2004, nella parte in cui stabilisce il divieto del ricorso a tecniche di p.m.a. di tipo eterologo, qualora sia stata diagnostica alla coppia una patologia che sia causa di sterilità od infertilità assolute ed irreversibili[6].

In quest’ottica, sono state considerate non dirimenti le differenze tra p.m.a. di tipo omologo ed eterologo, benché soltanto la prima renda possibile la nascita di un figlio geneticamente riconducibile ad entrambi i componenti della coppia. Pertanto, in virtù dell’art. 8 (“Stato giuridico del nato”) della l. n. 40/2004, anche i nati dalla tecnica di p.m.a. di tipo eterologo hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere a quelle tecniche.

La ratio sottesa alla decisione era anche stata di tipo sociale, se si considera che il divieto in oggetto, impedendo alla coppia destinataria della legge, ma assolutamente sterile e infertile, di utilizzare la tecnica di p.m.a. eterologa, realizzava un ingiustificato, diverso trattamento delle coppie affette dalla più grave patologia, in base alla capacità economica delle stesse, che assurgeva intollerabilmente a requisito dell’esercizio di un diritto fondamentale, quale quello di formare una famiglia con dei figli, negato solo a quelle prive delle risorse finanziarie necessarie per potere fare ricorso a tale tecnica recandosi in altri Paesi. Del resto, la negazione assoluta del diritto a realizzare la genitorialità, alla formazione della famiglia con figli (che costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminarsi, riconducibile agli art. 2, 3 e 31 Cost.), con incidenza sul diritto alla salute, era stabilita in danno delle coppie affette dalle patologie più gravi, in contrasto con la ratio legis, nonché con il dichiarato scopo della l. n. 40 del 2004 di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana” (art. 1, co. 1). Pertanto, la norma censurata incideva anche sul diritto alla salute, che va inteso nel significato, proprio dell’art. 32 Cost., comprensivo anche della salute psichica, oltre che fisica, e la cui tutela deve essere di pari grado a quello della salute fisica, atteso che l’impossibilità di formare una famiglia con figli insieme al proprio partner, mediante il ricorso alla p.m.a. di tipo eterologo, può incidere negativamente, in misura anche rilevante, sulla salute della coppia. Infine, il divieto assoluto di fecondazione eterologa non era neppure giustificabile dalla necessità di tutelare, nell’ambito del bilanciamento degli interessi costituzionalmente coinvolti, il diritto del nato da p.m.a. di tipo eterologo all’identità genetica, poiché l’ordinamento ammette a determinate condizioni la possibilità per il figlio di accedere alle informazioni relative all’identità dei genitori biologici.

Da ultimo, la pronuncia si segnalava altresì per considerazioni di natura etica, nel momento in cui osservava che la Costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli (come è deducibile dalle sentenze n. 189 del 1991 e n. 123 del 1990). Nondimeno, il progetto di formazione di una famiglia caratterizzata dalla presenza di figli, anche indipendentemente dal dato genetico, è favorevolmente considerata dall’ordinamento giuridico, in applicazione di principi costituzionali, come dimostra la regolamentazione dell’istituto dell’adozione. La considerazione che quest’ultimo mira prevalentemente a garantire una famiglia ai minori (come già affermato in precedenza dalla stessa Corte sin dalla sentenza n. 11 del 1981) rende, comunque, evidente che il dato della provenienza genetica non costituisce un imprescindibile requisito della famiglia stessa[7]. La libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori e di formare una famiglia, nel senso sopra precisato, di sicuro non implica che la libertà in esame possa esplicarsi senza limiti. Tuttavia, questi limiti, anche se ispirati da considerazioni e convincimenti di ordine etico, pur meritevoli di attenzione in un ambito così delicato, non possono consistere in un divieto assoluto, come già sottolineato, a meno che lo stesso non sia l’unico mezzo per tutelare altri interessi di rango costituzionale.

L’apertura non è stata, peraltro, incondizionata, atteso che alla p.m.a. di tipo eterologo possono fare ricorso esclusivamente le “coppie maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi” (art. 5, comma 1, l. n. 40 del 2004), “qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità” (art. 1, comma 2, l. n. 40 del 2004) e sia stato accertato il carattere assoluto delle stesse, dovendo siffatte circostanze essere “documentate da atto medico” e da questo certificate, ai sensi dell’art. 4, comma 1, l. n. 40 del 2004. Senza dimenticare, peraltro, che tale forma di procreazione viene rigorosamente circoscritta alla donazione di gameti e tenuta distinta da diverse metodiche, quali la cosiddetta “surrogazione di maternità”.

2.     Le rationes decidendi sottese alla pronuncia della Consulta

Nella fattispecie sottoposta all’esame della Consulta, il giudizio di legittimità costituzionale era stato promosso dal Tribunale ordinario di Napoli nell’ambito di un procedimento penale a carico di un gruppo di professionisti rinviati a giudizio per aver realizzato la produzione di embrioni umani con fini diversi da quelli previsti dalla legge 40, effettuando una selezione eugenetica e la soppressione di embrioni affetti da patologie. Il tribunale partenopeo aveva, quindi, sollevato una duplice questione di legittimità costituzionale nella parte in cui si contemplano quali ipotesi di reato, rispettivamente, la selezione eugenetica e la soppressione degli embrioni soprannumerari “senza alcuna eccezione”.

La Corte, in estrema sintesi, ha stabilito che non commettono più reato i medici che selezionano gli embrioni anche per evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili, laddove continua ad essere vietata e, dunque, penalmente sanzionabile la soppressione degli embrioni (vedasi postea), anche quando sono embrioni soprannumerari, affetti da malattie genetiche, a seguito di una selezione finalizzata ad evitarne appunto l’impianto nell’utero della donna.

In particolare, i giudici hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 3, lettera b (che vieta ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti ovvero interventi che, attraverso tecniche di selezione, di manipolazione o comunque tramite procedimenti artificiali, siano diretti ad alterare il patrimonio genetico dell’embrione o del gamete ovvero a predeterminarne caratteristiche genetiche, ad eccezione degli interventi aventi finalità diagnostiche e terapeutiche), e comma 4 (che prevede reclusione fino a sei mesi e multe fino a 150 mila euro per chi viola la norma).

La Consulta ha cercato di raggiungere, allo stato non è possibile scrutinare se con successo, il difficile obiettivo di conciliare due diverse esigenze: da un lato, la possibilità per i medici di effettuare una selezione degli embrioni, tutelando le esigenze della coppia, dall’altro, il diritto alla vita dell’embrione, considerando legittimo il divieto di soppressione.

La prima parte (quella di fondatezza) della pronuncia della Corte costituzionale, sulla quale si soffermeranno nel presente paragrafo le attenzioni, era stata in qualche modo anticipata da una decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo[8], con la quale si era preconizzato che anche l’allora normativa italiana sulle diagnosi genetiche preimpianto potesse ledere il diritto dei privati al rispetto della loro vita privata e familiare[9]. E’ lo stesso rimettente ad operarne un sia pur fugace cenno, allorquando, tra i motivi di asserita illegittimità costituzionale, evidenzia che l’art. 13, commi 3, lett. b), e 4, l. n. 40/2004 contrasterebbe, altresì, con l’art. 117, primo comma, Cost., «in relazione all’art. 8 della CEDU, come interpretato nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, laddove ha affermato che il diritto al rispetto della vita privata e familiare include il desiderio della coppia di generare un figlio non affetto da malattia genetica (in tal senso, Corte EDU, Costa e Pavan contro Italia, sentenza del 28 agosto 2012, § 57)».

Ciò nonostante, l’intervento si rivela quanto mai opportuno, al fine di dissipare i dubbi che, comunque, si erano insinuati in seno alla giurisprudenza di merito[10]. D’altra parte, analoga questione, sollevata questa volta dal tribunale capitolino[11], era stata dichiarata inammissibile dalla Consulta. In mancanza di una pronuncia favorevole, i giudici aditi si erano in passato prevalentemente orientati nel senso di accogliere con provvedimento di urgenza la richiesta di coppie fertili, ma portatrici di malattie genetiche trasmissibili in via ereditaria, di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, comprensive della diagnosi e della selezione preimpianto degli embrioni[12]. Sempre in questa direzione, veniva disposta[13] con provvedimento d’urgenza la diagnosi preimpianto sullo stato di salute degli embrioni, per fornire ai futuri genitori le informazioni necessarie per esprimere il consenso all’impianto, prevedendo che poi quest’ultimo potesse aver luogo – consentendolo la donna – con riferimento ai soli embrioni accertati come sani o, comunque, portatori sani di patologie genetiche.

In questo panorama, non va dimenticato che l’art. 14, comma 2, l. 19 febbraio 2004 n. 40, nella parte in cui limitava la produzione di embrioni ad un numero non superiore a tre ed imponeva un unico e contemporaneo impianto degli embrioni prodotti, era stato dichiarato costituzionalmente illegittimo[14] limitatamente, appunto, alle parole “ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre” (restando comunque salvo il principio secondo cui le tecniche di produzione non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario, secondo accertamenti demandati, nella fattispecie concreta, al medico)[15], ponendosi in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il duplice profilo del principio di ragionevolezza e di quello di uguaglianza, in quanto il legislatore riservava il medesimo trattamento a situazioni dissimili (in conseguenza delle caratteristiche degli embrioni, delle condizioni soggettive e dell’età delle donne che si sottopongono alla procedura di procreazione assistita), nonché in contrasto con l’art. 32 Cost. per il pregiudizio alla salute della donna (sia rendendo necessario il ricorso alla reiterazione di cicli di stimolazione ovarica ove il primo impianto non dia alcun esito sia per il rischio connesso a gravidanze plurime[16]) ed eventualmente del feto[17]. In sintesi, la Corte muove dal rilievo che la stessa l. n. 40 del 2004 non riconosce una tutela assoluta all’embrione, in quanto cerca di individuare «un giusto bilanciamento» con la tutela delle esigenze della procreazione (e, quindi, in primis con il diritto della donna ad una gravidanza libera e consapevole).

Estremamente vicina alle conclusioni cui poi è pervenuta la Corte costituzionale era una parte della giurisprudenza[18], che riconosceva il diritto della coppia, in condizioni di infertilità e portatrice di una patologia irreversibile, ad ottenere, nell’ambito dell’intervento di procreazione medicalmente assistita, l’esame clinico e diagnostico sugli embrioni ed il trasferimento in utero solo degli embrioni sani o portatori sani delle patologie da cui gli stessi ricorrenti risultavano affetti, mediante le metodologie previste in base alla scienza medica e con crioconservazione degli ulteriori embrioni. Corollario di tale impostazione era la previsione, per l’eventualità in cui la struttura sanitaria pubblica si fosse trovata nell’impossibilità erogare la prestazione sanitaria tempestivamente in forma diretta, che la stessa prestazione potesse essere erogata in forma indiretta, mediante il ricorso ad altre strutture sanitarie.

Il leitmotiv che rappresenta il minimo comune denominatore della maggior parte delle sentenza che si sono approcciate al problema in termini favorevoli è senz’altro rappresentato dalla esaltazione del diritto all’autodeterminazione ed al consenso informato (inteso come compimento di scelte esistenziali libere e consapevoli, il quale, a sua volta, presuppone, nel contesto di una procreazione cosciente e responsabile, anche una specifica informazione circa lo stato di salute degli embrioni), nonché dall’affermazione della prevalenza del diritto alla salute psicofisica della donna sugli interessi dell’embrione (sul punto si tornerà funditus nel prosieguo)[19].

Per la Corte, prevedere come reato la selezione degli embrioni, anche laddove questi siano affetti da malattie genetiche “gravi” e “trasmissibili”, è in contrasto con i principi costituzionali (artt. 3 e 32 Cost.), creando un vulnus al diritto alla salute, tutelato dalla stessa legge 40, nonché al diritto al rispetto della vita privata e familiare, che comprende il desiderio della coppia di generare un figlio non affetto da malattie genetiche, previsto dalla Cedu.

Il punto centrale dell’iterargomentativo sviluppato dalla Corte si sostanzia nell’affermazione secondo cui, a seguito della sentenza additiva n. 96 del 2015, quanto è divenuto così lecito non può – per il principio di non contraddizione − essere più attratto nella sfera del penalmente rilevante. Ed è in questi esatti termini e limiti che l’art. 13, commi 3, lettera b), e 4, va incontro a declaratoria di illegittimità costituzionale, nella parte, appunto, in cui vieta, sanzionandola penalmente, la condotta selettiva del sanitario volta esclusivamente ad evitare il trasferimento nell’utero della donna di embrioni che, dalla diagnosi preimpianto, siano risultati affetti da malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità di cui all’art. 6, comma 1, lettera b), della legge n. 194 del 1978, accertate da apposite strutture pubbliche.

3.     I rapporti con l’interruzione volontaria della gravidanza

Per quanto alcuni primi commentatori[20] abbiano sostenuto il contrario, la pronunzia non si fonda anche sul contrasto della norma censurata con l’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza, dal punto di vista del vizio di coerenza della norma.

Tuttavia, nel rilievo, per quanto fallace, c’è del vero.

Nella sua formulazione originaria, la legge disponeva che l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita era consentito solo quando fosse stata accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed era, comunque, circoscritto ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate o dipendenti da cause accertate (art. 4, comma 1)[21]. Il ricorso alle tecniche presupponeva, perciò, una vera e propria impossibilità della procreazione naturale, il che implicava, tra l’altro, che coppie fertili, ma portatrici di malattie genetiche, non avrebbero potuto far ricorso alla fecondazione in vitro.

Nel momento in cui si è esteso l’ambito di applicazione della procreazione artificiale, sono aumentati i problemi connessi alla possibile presenza di embrioni malformati.

Sull’impianto originario della legge si è poi innestato l’intervento del Ministro della Salute, che, con decreto 11 aprile 2008, ha consentito l’accesso alle tecniche anche nei casi in cui vi siano uomini portatori di malattie virali sessualmente trasmissibili per infezioni da Hiv, Hbv (epatite B) e Hcv (epatite C)[22]. Ciò sul presupposto che le predette malattie, in ragione del rischio elevato di infezione per la madre e per il feto, avrebbero costituito, di fatto, una causa ostativa della procreazione, che si sarebbe tradotta, inevitabilmente, in una condizione di infecondità, in tal guisa consentendo l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.

Il problema era acuito dalla previsione, contenuta nella legge, del divieto di diagnosi, vieppiù se si considera che tale divieto si poneva in contrasto con la prassi invalsa da decenni di effettuare indagini prenatali sui feti, al fine di consentire alla madre, se del caso, l’interruzione della gravidanza ex art. 6, lett. b), l. n. 194/1978. Peraltro, ancorché fosse vero che quest’ultima legge ammetteva l’interruzione della gravidanza non per il fatto che il feto si presentasse malformato, ma per i riflessi che la nascita di quel soggetto avrebbe potuto avere sulla salute fisica o psichica della madre, mentre l’indagine preimpianto sull’embrione non si collegava se non indirettamente con la tutela della salute della donna, sembrava, tuttavia, indubbio che si era venuta, in tal modo, a creare una rilevante antinomia nel sistema[23].

Per assurdo, si è assistito ad un controsenso. Da un lato, tra le finalità della legge non era stata contemplata quella di consentire l’accesso alle tecniche di p.m.a. a coppie non sterili che volessero evitare la trasmissione di malattie genetiche ai propri figli[24]. Dall’altro lato, però, non si era presa in considerazione l’evenienza che potessero essere trasferiti nell’utero della donna embrioni risultati ex post affetti da malattie genetiche trasmissibili.

L’impossibilità di effettuare diagnosi preimpianto, con conseguente obbligo di impianto di tutti gli embrioni, e, comunque, l’irrevocabilità del consenso all’impianto degli embrioni formati (in particolare, l’irrevocabilità del consenso alla fecondazione all’indomani del termine dei sette giorni accordato alla coppia per l’esercizio dello ius poenitendi, come previsto dall’art. 6, punto 3 l. n. 40 del 2004), non impedisce, infatti, la possibilità di ricorrere, iniziata la gravidanza (ed all’esito di esami ecografici, come l’amniocentesi), all’aborto cd. terapeutico. In definitiva, la donna vedrebbe riconosciuto il suo diritto ad una completa informazione sul trattamento sanitario (ivi compresa l’indagine sullo stato di salute del feto) solo nell’ipotesi in cui la gravidanza sia già in atto (cd. diagnosi prenatale), e non anche nella situazione del tutto analoga ed antecedente in cui l’embrione non sia stato ancora impiantato.

Peraltro, l’art. 14 comma 4 l. n. 40 del 2004, nel vietare la riduzione embrionaria di gravidanze plurime, fa salvi proprio i casi previsti dalla l. n. 194 del 1978.

La conclusione è che – con la l. n. 40 del 2004 – vi sarebbe, quindi, una sorta di «doppio regime»: da un lato, l’obbligo di impiantare gli embrioni pur malati; dall’altro, la possibilità di aborto, sussistendo le condizioni di legge. Tuttavia, sarebbe del tutto irragionevole riconoscere rilevanza allo stato di salute psichica della madre dopo l’impianto dell’embrione nell’utero, al punto di consentirle l’aborto, e negarlo invece prima (atteso che la prospettiva dell’impianto di un embrione che può essere portatore di patologie è circostanza che certo altera la salute, in primo luogo psichica, della donna). Viceversa, l’espressa salvezza della l. n. 194 del 1978, sull’interruzione volontaria della gravidanza, fa ritenere che la tutela del concepito si arresti comunque davanti al prevalente interesse della donna alla sua salute fisio-psichica. In quest’ottica, come la gestante può interrompere la gravidanza quando vi sia un pericolo per la sua salute fisica o psichica (anche in relazione ad anomalie o malformazioni del concepito), così deve garantirsi il suo diritto a rifiutare l’impianto dell’embrione, nel caso in cui ciò possa causare, in relazione alla conoscenza della presenza di una malattia genetica o cromosomica dell’embrione stesso, del pari un pregiudizio alla sua salute fisica o psichica[25].

3.1.La diagnosi preimpianto

L’individuazione degli embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili passa, ovviamente, per la diagnosi cd. preimpianto, la quale, disciplinata dagli artt. 13, comma 2, e 14 della l. 40/2004, dispone che la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita, a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso, e qualora non siano disponibili metodologie alternative[26]. Nel mentre, il successivo art. 14 comma 5 prevede che i soggetti di cui all’art. 5 della stessa legge sono informati sul numero e, su loro richiesta, sullo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell’utero, cosicché la ricerca clinica sull’embrione è ammessa solo con limiti ben determinati ed all’interno di un procedimento di procreazione medicalmente assistita[27].

La diagnosi è una tecnica medica che consiste nell’analizzare gli embrioni creati per il tramite della fecondazione assistita in vitro, prima che gli stessi vengano impiantati nell’utero della donna. L’analisi mira a diagnosticare l’eventuale presenza di malattie genetiche o alterazioni cromosomiche negli embrioni prima del loro impianto. La finalità principale della diagnosi preimpianto è, infatti, quella di individuare e selezionare, tra gli embrioni ottenuti dall’unione di gameti di coppie portatrici di malattie genetiche trasmissibili, quelli sani da trasferire poi nell’utero. Si vuole così risolvere il problema dell’eventuale trasmissione della malattia, di cui sono portatori i futuri genitori, al nascituro e, conseguentemente, aumentare la nascita di bambini sani non affetti da patologie ereditarie[28].

Al pari del ricorso alla fecondazione eterologa, la diagnosi preimpianto ha posto delicate questioni di carattere etico e morale, dovendosi contemperare opposti interessi: da un lato, quello dell’embrione; dall’altro, quelli della coppia all’autodeterminazione ed alla procreazione libera e consapevole e della donna a tutelare la propria salute.

Anticipando la decisione della Consulta, a partire dalla seconda metà degli anni duemila, una parte della giurisprudenza di merito si era già mossa nella direzione di consentirla[29].

Precursore dell’orientamento favorevole è stato il Tribunale di Cagliari nel 2007[30], per il quale è lecita, e deve essere pertanto eseguita, la diagnosi preimpianto dell’embrione, allorché concorrano le seguenti condizioni: a) sia stata richiesta dai soggetti aventi diritto ad essere informati sul numero e «sullo stato di salute degli embrioni prodotti»; b) abbia ad oggetto gli embrioni destinati all’impianto nella donna; c) sia strumentale all’accertamento di eventuali malattie dell’embrione e finalizzata a garantire a coloro che abbiano avuto legittimo accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita un’adeguata informazione (sullo stato degli embrioni da impiantare). Il tribunale cagliaritano ha individuato le due possibili interpretazioni della legge n. 40 del 2004 in materia di diagnosi genetica preimpianto. Tale diagnosi dovrebbe ritenersi vietata sulla base dell’interpretazione letterale degli artt. 13 e 14 della legge, delle Linee Guida Ministeriali in materia di fecondazione assistita (del 22 luglio 2004), che espressamente vietano accertamenti diagnostici sugli embrioni di tipo invasivo, consentendo solo una diagnosi di tipo osservazionale, e dell’interpretazione della legge alla luce dei suoi criteri ispiratori; la diagnosi genetica deve essere, invece, considerata ammissibile sulla base dell’interpretazione conforme a Costituzione, cui il giudice ha l’obbligo di fare riferimento. In forza dell’interpretazione adeguatrice, ha ritenuto che, nel caso di diagnosi genetica richiesta dai genitori, la norma da applicare fosse l’art. 14, comma 5, che non reca alcun divieto (e si riferisce al rapporto tra embrione e donna che accede alla procreazione artificiale, il cui interesse è quello all’informazione ed alla cura), e non l’art. 13, comma 2 (che si riferisce al rapporto tra embrione e collettività, il cui interesse è quello alla libertà di ricerca e sperimentazione scientifica). Di conseguenza, ha disapplicato le Linee Guida considerate in contrasto con la legge, come interpretata in modo conforme a Costituzione.

Il fondamento della tesi è da individuarsi nel rilievo accordato al diritto, costituzionalmente garantito dagli artt. 2 e 32 Cost., al consenso informato (id est, alla piena consapevolezza in ordine al trattamento sanitario), il quale rinviene un substrato normativo negli artt. 6 (che contempla il dovere del medico di informare in modo dettagliato la coppia sui possibile effetti collaterali sanitari e psicologici conseguenti all’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, sulle probabilità di successo e sui rischi dalle stesse derivanti) e 14, co. 4 (che prevede il diritto della coppia ad essere informata sul numero e, su loro richiesta, sullo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell’utero), della stessa legge n. 40/2004.

A breve distanza di tempo il Tribunale di Firenze ha ordinato (previa disapplicazione, ai sensi della legge n. 2248/1865, All. E, delle linee guida all’epoca vigenti), ex art. 700 c.p.c., l’esecuzione della diagnosi degli embrioni creati, tramite fecondazione in vitro, dai gameti dei componenti la coppia ed il trasferimento in grembo dei soli embrioni sani o portatori sani (con la crioconservazione di quelli malati) secondo le tecniche della migliore scienza medica, in relazione alla salute della donna[31]. Il giudice gigliato ha ritenuto che la legge 40 del 2004, come interpretata col canone dell’interpretazione conforme a Costituzione, non contenesse un divieto di diagnosi genetica preimpianto. Nel sostenere la percorribilità dell’interpretazione conforme, il giudice ha richiamato la di poco precedente sentenza del Tribunale di Cagliari, cui ha rinviato per relationem. Inoltre, ha considerato l’esclusione della diagnosi genetica preimpianto irragionevole in riferimento alla l. n. 194 del 1978: infatti la previsione di un obbligo di impianto degli embrioni malformati si palesava del tutto irrazionale, nel momento in cui (come si è visto) la legge 194 del 1978 consentiva l’interruzione volontaria di gravidanza per problemi di salute della donna derivanti anche da previsioni di anomalie o malformazioni del feto.

Decisivo è, poi, stato l’intervento del Tar Lazio[32], che, con riferimento alle linee guida in materia di procreazione assistita del 2004, ha affermato l’illegittimità del divieto di diagnosi preimpianto circa le condizioni di salute degli embrioni, annullando in parte qua le linee guida stesse con la completa obliterazione del divieto dal testo nuovo del 2008. In estrema sintesi, il Tar ha assunto che la l. n. 40 del 2004, art. 13, non ponesse affatto il divieto di diagnosi preimpianto, in quanto anzi consentiva «la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano, sia pure per finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche volte alla tutela della salute ed allo sviluppo dell’embrione stesso e … interventi aventi finalità diagnostiche e terapeutiche allo stesso scopo». Dal confronto tra la norma di legge e quella contenuta nelle linee guida emergeva, quindi, che queste ultime riducessero le possibilità di intervento alla sola osservazione dell’embrione. In tal modo, secondo il Tar, l’autorità amministrativa, che avrebbe solo potuto adottare regole «di alto contenuto tecnico e di natura eminentemente procedurale», era intervenuta positivamente «sull’oggetto della procreazione medicalmente assistita, che rimane consegnata alla legge». In altri termini solo la legge poteva delimitare l’ambito oggettivo della disciplina della procreazione assistita[33].

Merita di essere menzionato altresì il Tribunale di Bologna[34], che nel 2009, ritenuta la netta distinzione fra la ricerca clinica e sperimentale senza finalità diagnostiche e terapeutiche, che rimane vietata, sugli embrioni e la mera diagnosi preimpianto relativa ai medesimi, e considerato quanto acclarato da Corte cost. n. 151/2009, ha riconosciuto alla donna coniugata il diritto a che, in un centro sanitario specialistico ed autorizzato, fosse compiuta la diagnosi genetica preimpianto relativa ad un numero di embrioni superiore a tre, potendo essa rifiutare gli embrioni portatori della stessa, grave, malattia genetica ereditaria (la distrofia muscolare) di cui soffriva, e disposto altresì la crioconservazione, per un futuro impianto, degli embrioni idonei ma non utilizzati, nonché degli embrioni affetti dalla stessa patologia. E così, posto che, a seguito dell’intervento sia del giudice amministrativo (TAR Lazio 2008 cit.) che della Corte costituzionale, era venuto meno il divieto di diagnosi preimpianto, nonché l’obbligo di produrre non più di tre embrioni, da installarsi tutti contemporaneamente, ha ordinato con provvedimento di urgenza l’installazione, con il consenso della paziente, dei soli embrioni che non presentassero quella patologia, tanto con la crioconservazione anche degli embrioni idonei di cui non fosse possibile l’immediato trasferimento.

Si è poi diffusa l’interpretazione delle norme in materia di procreazione medicalmente assistita, derivante dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, del Tar Lazio-Roma e da altre pronunzie, nonché dalle nuove “Linee guida” emanate dal Ministero della salute nel 2008, nel senso che permettessero l’accesso a tale procreazione anche alle coppie non sterili né infertili, qualora, per le loro patologie genetiche trasmissibili, andassero soggette a generazione di figli malati (nel senso che rischiassero concretamente di mettere al mondo figli affetti da gravi malattie a causa di patologie genetiche trasmissibili). Partendo dal presupposto secondo cui queste coppie solo attraverso la diagnosi preimpianto sugli embrioni creati “in vitro” potessero evitare detto rischio, è stata considerata legittima la diagnosi preimpianto degli embrioni di una coppia con patologie, che avesse divisato di sottoporsi alla procreazione medicalmente assistita, potendo l’impianto dei soli embrioni sani inibire il rischio di procreare figli affetti da gravi malattie[35]. In qwuesto senso i diritti costituzionalmente garantiti all’autodeterminazione (nelle scelte procreative) della coppia ed alla salute della donna diventano il grimaldello per aprire l’ostacolo rappresentato dall’art. 4, co. 1, della legge n. 40/2004.

Peraltro, le nuove linee guida, approvate dal Ministero della Salute con d.m. 11 aprile 2008, avevano, tra l’altro, eliminato le disposizioni delle precedenti linee che limitavano la possibilità di indagine a quella di tipo osservazionale.

4.     La condotta di soppressione di embrioni affetti da grave malattia genetica

I giudici della Consulta hanno, invece, dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, che contempla i limiti all’applicazione delle tecniche sugli embrioni, nella parte in cui vieta la crioconservazione e la soppressione di embrioni e prevede la reclusione fino a sei mesi e multe fino a 150 mila euro per chi commette reato (commi 1 e 6).

Per i giudici la malformazione degli embrioni non ne giustifica, e solo per questo, un trattamento deteriore rispetto a quello degli embrioni sani creati in numero superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto e  si prospetta, quindi,  “l’esigenza di tutelare la dignità dell’embrione, alla quale non può parimenti darsi, allo stato, altra risposta che quella della procedura di crioconservazione”. “L’embrione, infatti – scrivono i giudici della Corte Costituzionale – quale che ne sia il più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riducibile a mero materiale biologico”.

E’ interessante ripercorrere sinteticamente l’iterargomentativo seguito dalla Consulta:

1) la discrezionalità legislativa circa l’individuazione delle condotte penalmente punibili può essere censurata in sede di giudizio di costituzionalità soltanto ove il suo esercizio ne rappresenti un uso distorto od arbitrario, così da confliggere in modo manifesto con il canone della ragionevolezza[36];

2) nel caso in esame, deve escludersi che risulti, per tali profili, censurabile la scelta del legislatore del 2004 di vietare e sanzionare penalmente la condotta di «soppressione di embrioni», ove pur riferita agli embrioni che, in esito a diagnosi preimpianto, risultino affetti da grave malattia genetica;

3) anche con riguardo a detti embrioni, si prospetta, infatti, l’esigenza di tutelare la dignità dell’embrione, alla quale non può parimenti darsi, allo stato, altra risposta che quella della procedura di crioconservazione;

4) l’embrione, invero, quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riducibile a mero materiale biologico;

5) la tutela dell’embrione, riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost., è suscettibile di «affievolimento» (al pari della tutela del concepito), ma solo in caso di conflitto con altri interessi di pari rilievo costituzionale (come il diritto alla salute della donna) che, in temine di bilanciamento, risultino, in date situazioni, prevalenti;

6) nella fattispecie in esame, il vulnus alla tutela della dignità dell’embrione (ancorché) malato, quale deriverebbe dalla sua soppressione tamquam res, non trova, però, giustificazione, in termini di contrappeso, nella tutela di altro interesse antagonista;

7) d’altra parte, il divieto di soppressione dell’embrione malformato non ne comporta l’impianto coattivo nell’utero della gestante, come il rimettente, invece, presupponeva.

L’impianto originario della legge n. 40/2004 lasciava trasparire l’atteggiamento di cautela adottato dal legislatore, che trovava la sua ratio nell’intento di assicurare i diritti di tutti i soggetti coinvolti nel procedimento procreativo, compreso il concepito, il quale veniva espressamente, e per la prima volta, elevato al rango di “soggetto” (art. 1), a tal punto che in suo favore erano state espressamente dettate specifiche misure di tutela agli artt. 13 e 14.

La richiamata disposizione dettata dall’art. 1 costituiva il fondamento dell’intera legge e, per certi versi, aveva incisivamente innovato il precedente quadro normativo, in cui l’acquisto di diritti era subordinato all’evento della nascita (per come sancito dall’art. 1, comma 2, c.c.[37]). Al di là della coerenza formale della definizione enucleata nell’art. 1, appariva indiscutibile che il legislatore avesse inteso statuire che l’embrione, in quanto “vita umana”, meritava la tutela della propria dignità, pur se la stessa, in linea di principio, non avrebbe potuto assumere il grado di protezione propriamente riservato alla persona vivente[38].

Nel solco di tale impostazione, la legge era disseminata di disposizioni dirette a definire una sfera di intangibilità dell’embrione[39], in applicazione della sua riconosciuta soggettività. In tal senso è sufficiente operare il richiamo ai limitati casi di ricorso alle tecniche (art. 4), ai rigidi requisiti soggettivi (art. 5), al divieto di fecondazione eterologa (artt. 4, comma 3, e 9), al necessario circostanziato consenso informato (art. 6), alla indispensabile autorizzazione regionale della struttura in cui gli interventi avrebbero potuto essere esclusivamente realizzati (art. 10), al relativo registro nazionale in cui le medesime avrebbero dovuto obbligatoriamente essere iscritte (art. 11).

Sul piano della tutela, l’embrione viene, dunque, equiparato al concepito il quale, pur non avendo una piena capacità giuridica, è comunque un soggetto di diritto, perché titolare di molteplici interessi personali riconosciuti dall’ordinamento sia nazionale che sovranazionale, quali il diritto alla vita, alla salute, all’onore, all’identità personale, a nascere sano, diritti, questi, rispetto ai quali l’avverarsi della condicio iuris della nascita è condizione imprescindibile per la loro azionabilità in giudizio ai fini risarcitori[40].

Il punto davvero critico sta però nella assoluta preminenza che la l. n. 40 del 2004 attribuisce alla posizione dell’embrione, in misura ben maggiore a quella che compete allo stesso feto, una volta che la gravidanza ha avuto inizio, e anche alla stessa gestante, pur se la Corte costituzionale ha affermato – ormai da decenni – che il diritto alla salute della madre, che è già persona, prevale su quella del concepito, che persona deve ancora diventare[41].

Una chiave di lettura è desumibile nel contesto della questione della legittimità o meno della permanenza del divieto di utilizzo degli embrioni per la ricerca scientifica e, quindi, possibilità di donazione degli embrioni da parte di una coppia, previsto dall’art. 13, commi 1 e 2, sollevata con ordinanza del Trib. di Firenze del 7 dicembre 2012. Invero, la stessa si trova ancora all’esame della Corte costituzionale (risultando calendarizzata per l’udienza pubblica del 22 marzo 2016) a seguito di rinvio a nuovo ruolo in attesa della pronuncia della C.E.D.U. sul c.d. caso Parrillo c. Italia (ric. n. 46470/2011).Medio temporela decisione attesa è intervenuta in data 27 agosto 2015. Orbene, con questa sentenza, la Grande Camera della C.E.D.U. – nel rigettare il ricorso sancendo che il diritto di donazione di embrioni per la ricerca scientifica, stabilito dal citato art. 13 della legge n. 40/2004 non è contrario all’art. 8 della Convenzione EDU – ha fissato due rilevanti principi: 1) che gli embrioni ottenuti con la fecondazione in vitro contengono il materiale genetico delle persone che lo hanno concepito e, di conseguenza, rappresentano un parte costitutiva della loro identità (e non possono, perciò, essere considerati possibile oggetto del diritto di proprietà nel senso propriamente inteso dalla Convenzione europea); 2) che, in ogni caso, alla stregua dell’impianto e della complessiva disciplina normativa di cui all’anzidetta legge n. 40 del 2004 dello Stato italiano l’embrione umano deve essere considerato nel nostro sistema giuridico come “soggetto giuridico avente diritto al rispetto dovuto alla dignità umana”.

Sulla base di queste premesse, la Consulta sembra aver trovato il punto di equilibrio tra gli opposti interessi nella seguente alternativa: a) nel caso di condotta selettiva del sanitario volta esclusivamente ad evitare il trasferimento nell’utero della donna di embrioni che, dalla diagnosi preimpianto, siano risultati affetti da malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità, l’interesse a tutelare la salute psico-fisica della donna prevale su quello dell’embrione ad essere impiantato nell’utero; b) viceversa, una volta eliminato quest’ultimo rischio, la tutela dell’embrione torna a prevalere, non potendosi disporre la soppressione di quelli malati ma accantonati, i quali dovranno, di contro, essere sottoposti alla procedura di crioconservazione.

Andrea Penta

(magistrato addetto all’Ufficio del Massimario)


[1] Corte cost., 05/06/2015, n. 96, in Diritto & Giustizia 2015.

[2] Traendo spunto da tale presa di posizione, Trib. Milano, sez. V, 12/06/2015, n. 3301, in Redazione Giuffrè 2015, ha, in tema di reato ex art. 567 c.p., ritenuto che la trascrizione di certificati di nascita dei bambini nati con la fecondazione eterologa non sia in contrasto con l’ordine pubblico, poiché, anche nell’ordinamento italiano, il principio cardine è quello della responsabilità procreativa finalizzato a proteggere il valore della tutela della prole. Cosicché, detto principio è assicurato sia dalla procreazione naturale che da quella medicalmente assistita ove sorretta dal consenso del padre sociale. Conseguentemente, l’ingresso della norma straniera e dei suoi effetti, non mette in crisi detto principio cardine dell’ordinamento e, ciò, in quanto, ben può armonizzarsi il divieto di ricorrere alla fecondazione eterologa con il riconoscimento del rapporto di filiazione e, solo del rapporto di filiazione, tra il padre sociale ed il nato a seguito di fecondazione eterologa. Da ciò ne deriva la legittima trascrizione dell’atto di nascita (nel caso di specie, si trattava di due bambine gemelle) legalmente formato all’estero dall’Ufficiale dello Stato Civile del Paese ove le nascite si sono verificate con il ricorso alla tecnica in questione (tecnica li riconosciuta ed in Italia vietata).

[3] Si è, in proposito, rilevato che l’irragionevolezza dell’indiscriminato divieto di accesso alla p.m.a., con diagnosi preimpianto, da parte delle coppie fertili affette (anche come portatrici sane) da gravi patologie genetiche ereditarie, suscettibili (secondo le evidenze scientifiche) di trasmettere al nascituro rilevanti anomalie o malformazioni, è resa evidente dalla circostanza che l’ordinamento italiano consente, comunque, a tali coppie di perseguire l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria, attraverso l’innegabilmente più traumatica modalità dell’interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali. Tale sistema normativo, dunque, non permette, pur essendo scientificamente possibile, di far acquisire “prima” alla donna un’informazione che le potrebbe evitare di assumere “dopo” una decisione ben più pregiudizievole per la sua salute, senza che quest’ultima possa trovare un positivo contrappeso, in termini di bilanciamento, in un’esigenza di tutela del nascituro, in ogni caso esposto all’aborto.

[4] Il riferimento è a Corte cost., 10/06/2014, n. 162, in Diritto di Famiglia e delle Persone (Il) 2014, 4, 1289, con nota di Cicero; inGuida al diritto 2014, 27, 16, con nota di Porracciolo; in Diritto di Famiglia e delle Persone (Il) 2014, 3, 973, con nota di D’Avack; in Foro it. 2014, 9, 2324, con nota di Casaburi; in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale 2014, 3, 1473, con nota di Risicato; inGiurisprudenza Costituzionale 2014, 3, 2563, con nota di Tripodina. Identica questione era già arrivata al vaglio della Consulta, la quale, però, in data 07/06/2012, con ordinanza n. 150 (in Giustizia Civile 2013, 11-12, 2317, con nota di Luberti, aveva restituito ai giudici a quibus, affinché valutassero l’influenza delle sopravvenienze di diritto, gli atti concernenti le questioni di legittimità costituzionale proposte in relazione all’art. 4, comma 3, l. 19 febbraio 2004 n. 40, nella parte in cui non consente il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo.

[5] In proposito, T.A.R. Veneto Venezia, sez. III, 08/05/2015, n. 501, in Redazione Foro amministrativo 2015, 5, ha reputato illegittima la delibera della Giunta Regionale del Veneto, nella parte in cui stabilisce l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (p.m.a.) eterologa a carico del Servizio Sanitario Nazionale fino al compimento del 43° anno di età della donna. La distinzione conseguente al mantenimento, per la sola omologa, dei criteri e dei requisiti soggettivi più favorevoli (50 anni) rispetto alla eterologa (43 anni) è stata, infatti, considerata in evidente contrasto sia con la normativa statale (che non pone alcuna distinzione), sia con i principi generali di eguaglianza, così come ricordati dalla Corte Costituzionale proprio in occasione dell’affermata analogia delle due tecniche procreative assistite. Ciò in quanto, avuto riguardo all’età della donna, la norma nazionale non dà indicazione precisa, ma fa riferimento all’età potenzialmente fertile, che quindi deve valere per entrambe le ipotesi.

[6] Sia pure in un differente ambito, era pervenuto ad analoghe conclusione Consiglio di Stato, sez. III, 09/04/2015, n. 1486, in Foro it. 2015, 5, 292, a mente del quale, posto che le differenze tra procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo e quella di tipo omologo non sono dirimenti, costituendo l’una solo una species dell’altra, sicché non si giustificano al riguardo disparità di trattamento di tipo economico, va sospesa la delibera della regione Lombardia alla stregua della quale per la prima è previsto, a carico degli utenti, il pagamento dell’intero trattamento, e non del solo ticket, come invece per la seconda. La pronuncia è stata preceduta da Corte europea diritti dell’uomo, sez. I, 01/04/2010, n. 57813, in Europa e dir. priv. 2010, 4, 1219, con nota di Cerri, ed in Guida al diritto 2011, 46, 17, secondo cui il divieto di utilizzare le tecniche di procreazione assistita di carattere eterologa non è compatibile con la Convenzione europea. Gli Stati sono liberi di prevedere il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, ma nel momento in cui ammettono la possibilità di utilizzare tale tecnica non devono discriminare tra le coppie a seconda del tipo di infertilità.

[7] Sembra, peraltro, essere di diverso avviso Trib. Roma, sez. I, 22/04/2015, in Redazione Giuffrè2015, il quale, pur partendo da un condivisibile presupposto (quello secondo cui, in materia di procreazione medicalmente assistita, nell’ipotesi di ricorso cautelare – fondato sull’asserito presupposto che i nascituri nati dalla coppia evocata in giudizio, siano stati concepiti attraverso una tecnica di procreazione medicalmente assistita tramite la fecondazione di gameti prelevati dalla persona del ricorrente e da quella di sua moglie, e non della donna che li ha partoriti e del marito di lei – volto ad ottenere che i minori vengano mantenuti in una struttura che impedisca la creazione di un legame affettivo con i genitori che attualmente risultano tali all’anagrafe, in attesa della definizione del giudizio sull’identità dei genitori legittimi e che venga, altresì, garantito un diritto di visita dei genitori genetici che possa aiutare nella costruzione di un legame affettivo tale da non pregiudicare un futuro giudizio che accerti la maternità e paternità dei ricorrenti, l’interesse primario che va tutelato è quello dei minori), ha respinto il ricorso cautelare così proposto, ritenendo che le dette richieste non fossero rispondenti all’interesse dei minori, sulla base della considerazione per cui l’oggetto specifico della cautela richiesta si tradurrebbe nella imposizione di un contatto tra i bambini ed una coppia che negli intenti si propone di sostituirsi a quella degli attuali genitori, in un contesto di fondo conflittuale, non definito e non definibile in tempi brevi, che introdurrebbe nella loro crescita elementi di confusione e li esporrebbe a tensioni, non essendo ragionevolmente prevedibile né umanamente esigibile, a dire del giudicante, che le due coppie coinvolte, già presumibilmente provate dall’evento drammatico che le ha colpite, mantengano nel tempo un atteggiamento di neutralità e serena collaborazione di fronte allo svolgersi degli eventi.

[8] Corte europea diritti dell’uomo, sez. II, 28/08/2011, n. 54270, in Dir. famiglia 2013, 1, 19. In data 11.2.2013 è stata, poi, respinta la richiesta presentata dal Governo italiano, contro tale sentenza, di rinvio alla Grande Camera della Corte CEDU, con la conseguenza che la decisione resa in primo grado è divenuta definitiva.

[9] In particolare, era stato ritenuto contrario alla Convenzione il divieto di ricorso alla fecondazione omologa in vitro a coppie fertili portatrici sane di fibrosi cistica. La censura si è, soprattutto, incentrata sulla irragionevolezza del sistema legislativo italiano il quale, da un lato vieterebbe l’impianto limitato ai soli embrioni non affetti dalla malattia di cui i ricorrenti erano portatori sani, ma dall’altro autorizzerebbe poi la donna ad abortire un feto (il cui sviluppo è evidentemente assai più avanzato di quello di un embrione) affetto da quella stessa patologia.

[10] Basti pensare a Trib. Bologna, sez. I, 14/08/2014, in Redazione Giuffrè 2014, che in materia di trattamento di procreazione medicalmente assistita (p.m.a.) in vitro di tipo eterologo (ossia con donazione di gameti da parte di un soggetto estraneo alla coppia richiedente) ai sensi della l. n. 40/2004, aveva indicato, tra le speciali misure di cui all’art. 9, comma 1 e comma 2 previste a garanzia del nascituro, oltre che il divieto del disconoscimento della paternità e dell’anonimato della madre – nel segno della autoresponsabilità di chi accede alla p.m.a. -, il divieto di commercializzazione di gameti o embrioni e il divieto di surrogazione di maternità (art. 12, comma 6., l. n. 40/2004), nonché proprio il divieto di selezione a scopo eugenetico degli embrioni (art. 13, comma 3, lett. b)). Parimenti, Trib. Catania 3 maggio 2004, inGiust. civ., 2004, I, 2447, aveva espressamente escluso la configurabilità di un diritto della coppia di selezionare i nascituri in sani e malati, eliminando questi ultimi. In particolare, il giudice etneo aveva negato ai coniugi richiedenti, portatori sani di grave malattia genetica, la possibilità di accedere alla diagnosi preimpianto, per la ermetica ragione che la l. n. 40 del 2004 consente le pratiche di fecondazione assistita per rimuovere le cause di sterilità, mettendo però la coppia che vi accede nella stessa condizione di partenza delle coppie fertili «senza la possibilità di selezionare i nascituri in sani e malati». Conforme Trib. Roma 23 febbraio 2005, inForo it., 2005, I, 881, con osservazioni di Casaburi. Secondo Tar Lazio 9 maggio 2005, n. 3452, inForo it., 2005, III, 518, inoltre – a fondamento della diagnosi preimpianto -, non è invocabile la pretesa di avere «un figlio sano», atteso che il principio di responsabilità della procreazione non è compatibile con i diritti del concepito. Il medesimo giudice amministrativo, pressoché contestualmente, era giunto alle stesse conclusioni in un procedimento analogo (Tar Lazio 23 maggio 2005, n. 4047, in Rep. Foro it., 2005, Sanità pubblica, n. 382), pur manifestando aperture verso una diversa lettura delle linee guida. 

[11] Trib. Roma, 15/01/2014, in Foro it. 2014, 2, 574, con nota di Casaburi, ed in Ragiusan 2014, 361-362, 192, secondo cui non era manifestamente infondata la q.l.c. degli artt. 1, commi 1 e 4, e 4, comma 1, l. 19 febbraio 2004 n. 40, nella parte in cui non consentivano il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di patologie geneticamente trasmissibili, in riferimento agli art. 2, 3, 32 e 117 comma 1 Cost., quest’ultimo in relazione agli art. 8 e 14 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

[12] Trib. Roma, 26/09/2013, in Foro it. 2013, 11, 3112, con nota di Casaburi, ed in Ragiusan 2014, 361-362, 188, aveva a tal fine espressamente disapplicato l’art. 4 l. n. 40 del 2004, in ottemperanza a quanto prescritto, con riferimento alle medesime parti, dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 28 agosto 2012.

[13] Si pensi a Trib. Cagliari, 12/11/2012, in Foro it. 2012, 12, 3349, in una fattispecie in cui entrambi i coniugi richiedenti erano portatori di una gravissima malattia genetica, trasmissibile all’embrione con elevato grado di probabilità.

[14] Corte cost., 08/05/2009, n. 151, in Giur. cost. 2009, 3, 1656, con nota di Manetti.

[15] In altri termini, con tale decisione sono stati eliminati il divieto di produzione di più di tre embrioni e  l’obbligo di contemporaneo impianto di tutti gli embrioni prodotti (ivi compresi quelli eventualmente affetti da patologie ereditarie) previsti dal richiamato art. 14, comma 2.

[16] La norma censurata, invero, comportava l’inutile moltiplicazione dei cicli di stimolazione ovarica, ove il primo impianto non avesse avuto esito, con l’aumento del rischio di patologie e di pregiudizio per la salute della donna e del feto medesimo.

[17] In dottrina, sullo specifico tema, cfr. D’Avack, La legge sulla procreazione medicalmente assistita: un’occasione mancata per bilanciare valori e interessi contrapposti in uno stato laico, in Dir. fam., 2004, 793

[18] Trib. Cagliari, 09/11/2012, in Ragiusan 2013, 348-350, 258, ed in Guida al diritto 2013, 8, 35, con nota di Porracciolo, in un caso di talassemia mediterranea.

[19] In questa direzione si muove l’art. 12 della Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 (ratificata con la legge n. 145/2001), il quale non prevede limitazioni a test diagnostici predittivi volti a stabilire se l’embrione è portatore di patologie ereditarie.

[20] A.M. Felicetti, su CamminoDiritto.it, http://www.camminodiritto.it/articolosingolo.asp?indexpage=869, 17 novembre 2015. Tra i primi commentatori si segnala altresì S. Corbetta, Non è più reato trasferire nell’utero della donna i soli embrioni sani, su Ilquotidianogiuridico.it, 12 novembre 2015.

[21] Per un’accurata disamina dell’evoluzione normativa, si segnala A. Carrato, Che c’è di nuovo in materia di famiglia e di stato delle persone?, Laboratorio tematico su  “Procreazione medicalmente assistita, status del generato e profili connessi”, Linee guida per il dibattito, Scuola Superiore della Magistratura, 27 ottobre 2015.

[22] L’opportuno richiamo si deve ad A. Carrato, Che c’è di nuovo in materia di famiglia e di stato delle persone?  ,cit..

[23] In questi termini si è espresso A. Carrato, Che c’è di nuovo in materia di famiglia e di stato delle persone?  ,cit..

[24] A tal proposito, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, firmata a Nizza nel 2000 (poi allegata al Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, entrato in vigore il 1° dicembre 2009), disponeva (art. 3.2) che, nell’ambito della medicina e della biologia, avrebbe dovuto essere, in particolare, rispettato il divieto delle pratiche eugenetiche, segnatamente di quelle aventi come scopo la selezione delle persone. Parte della dottrina aveva, peraltro, osservato che questa previsione fosse da interpretare in senso restrittivo, nel senso cioè di vietare le forme classiche di eugenetica e non screening genetici diretti a prevenire la nascita di individui affetti da gravi malattie.

[25] In questi sostanziali termini si è espresso F. Mastro, La procreazione medicalmente assistita: fecondazione eterologa e diagnosi reimpianto tra autorità e autodeterminazione, in Coordinate ermeneutiche di diritto civile, a cura di M. Santise, Torino, 2014, 305 ss. La diagnosi preimpianto, infatti, può considerarsi il mezzo attraverso il quale avere cognizione prima di eventuali malformazioni dell’embrione, al fine di scongiurare futuri rischi per la salute fisica e psicologica della donna.

[26] Un prima questione di legittimità costituzionale, sollevata da Trib. Cagliari 16 luglio 2005, in Foro it., 2005, I, 2876, sulla base del rilievo per cui la tutela della salute della donna sarebbe prevalente rispetto a quella dell’embrione, laddove verrebbe pregiudicata dal vero e proprio obbligo (pur non coercibile) di subire l’impianto dell’embrione, senza la possibilità di accedere alla diagnosi preimpianto, anche in situazioni a rischio, era stata dichiarata inammissibile da Corte cost., ord. 9 novembre 2006, n. 369, in Foro it., 2007, I, 698, sulla base della considerazione estremamente formalistica, oltre che in contrasto con la giurisprudenza precedente della stessa Consulta, che il giudice remittente sarebbe caduto in palese contraddizione, perché avrebbe desunto il divieto di diagnosi preimpianto non solo dall’art. 13 cit., ma anche da altre disposizioni, non impugnate, nonché dagli stessi principi ispiratori della l. n. 40 del 2004.

[27] In proposito si segnala Trib. Milano, sez. I, 04/03/2015, in Redazione Giuffrè 2015. Per Tribunale Cagliari, 09/11/2012, in Giur. merito 2013, 5, 1020, con nota di Scalera, le coppie infertili, portatrici di malattie genetiche trasmissibili al nascituro, hanno diritto ad ottenere, nell’ambito dell’intervento di procreazione medicalmente assistita, l’esame clinico e diagnostico sugli embrioni ed il trasferimento in utero solo degli embrioni sani o portatori sani delle patologie di cui le stesse risultano affette.

[28] F. Mastro, La procreazione medicalmente assistita, cit., 305.

[29] L’indirizzo fino ad allora prevalente sembrava, invece, essere approdato ad una soluzione differente, sulla base della valutazione, a suo dire dirimente, secondo cui la finalità della legge sarebbe stata solo quella di risolvere i problemi riproduttivi, non anche quella di selezionare gli embrioni in sani e malati, con conseguente soppressione di questi ultimi. In particolare, mentre il secondo comma dell’art. 13 ammetterebbe la ricerca clinica sull’embrione esclusivamente per finalità legate alla tutela ed allo sviluppo dell’embrione stesso, il quinto comma dell’art. 14 consentirebbe un’indagine sullo stato di salute degli embrioni solo di tipo osservazionale. Per una panoramica sulle principali pronunce edite, si rimanda alla nota 10.

[30] Trib. Cagliari 24 settembre 2007, in Giust. civ., 2008, I, 217, ed in Giur. cost. 2008, 1, 537, con nota di Pellizzone.

[31] Trib. Firenze 18 dicembre 2007, in Dir. fam., 2008, 720, ed in Giur. cost. 2008, 1, 537, con nota di Pellizzone. Nella specie la patologia che aveva indotto la coppia, coniugata, ad accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita era una seria oligospermia del ricorrente, derivata da una rara malattia genetica tumorale «con possibilità di essere trasmessa ai figli con una probabilità del 50% e probabilità di trasmissione a un proprio figlio del proprio tumore».

[32] TAR Lazio, Roma, sez. III-quater 21 gennaio 2008 n. 398, in Foro it., 2008, III, 207 e 312, con osservazioni di Casaburi.

[33] In dottrina, anche sul punto, si segnala Corti,La procreazione assistita, in Il nuovo diritto di famiglia, diretto da G. Ferrando, III, Bologna, 2007, 499.

[34] Trib. Bologna, sez. I, 29/06/2009, in Dir. famiglia 2009, 4, 1854, ed in Giur. merito 2009, 12, 3000, con nota di Casaburi, Il restyling giurisprudenziale della l. n. 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita, in relazione ad una coppia infertile, di cui la donna era affetta da una grave malattia geneticamente trasmissibile.

[35] Così Trib. Salerno, 09/01/2010, n. 191, in Giurisprudenza di Merito 2010, 5, 1289, con nota di Santarsiere, per il quale i diritti alla salute e di autodeterminazione delle scelte procreative afferiscono a quelli fondamentali dei soggetti coinvolti nella procreazione medicalmente assistita riconosciuti e garantiti dall’art. 2 Cost..

[36] Già in passato la Corte costituzionale aveva statuito che l’equilibrio delle contrapposte esigenze appartiene “primariamente alla valutazione del legislatore” (sentenza Corte cost. n. 347 del 1998).

[37] Tale disposizione costituì un’assoluta novità per il nostro ordinamento, che fino ad ora aveva riconosciuto diritti al nascituro solo in ipotesi eccezionali, subordinate all’evento della nascita.

[38] Per una più diffusa disamina della questione, si rimanda a A. Carrato, Che c’è di nuovo in materia di famiglia e di stato delle persone?,cit,per il quale “In sostanza, risultava con evidenza che il legislatore avesse inteso considerare l’embrione come un’entità titolare di diritti, in favore del quale onde l’ordinamento era chiamato a proteggerne, innanzitutto, quello alla vita e quello involgente l’aspettativa di nascere, e, più in generale, la dignità umana, così dovendone impedire una utilizzazione in qualsiasi modo strumentale, che potesse, invero, comportare il sacrificio dell’embrione in favore di persone viventi o per finalità di ricerca”.

[39] Un definizione esaustiva del termine “embrione” è rinvenibile in Corte giustizia UE, grande sezione, 18/10/2011, n. 34, in Ragiusan 2012, 333-334, 227, secondo cui costituisce un embrione umano qualsiasi ovulo fin dalla fecondazione, qualunque ovulo umano non fecondato in cui sia stato impiantato il nucleo di una cellula umana matura e qualunque ovulo umano non fecondato che, attraverso partenogenesi, sia stato indotto a dividersi e a svilupparsi; spetta al giudice nazionale stabilire, in considerazione degli sviluppi della scienza, se una cellula staminale ricavata da un embrione umano nello stadio di blastocisti costituisca un embrione umano ai sensi dell’art. 6 della direttiva n. 44 del 1998.

[40] In quest’ottica, Cassazione civile, sez. III, 11/05/2009, n. 10741, in Giust. civ. Mass. 2009, 5, 748, ha riconosciuto ad una persona nata con malformazioni congenite, dovute alla colposa somministrazione di farmaci dannosi (nella specie teratogeni) alla propria madre durante la gestazione, la legittimazione a domandare il risarcimento del danno alla salute nei confronti del medico che quei farmaci prescrisse o non sconsigliò.

[41] Corte cost. 18 febbraio 1975, n. 27, in Foro it., 1975, I, 515.

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