Profili comparatistici della Magistratura

Testo rielaborato della lezione svolta presso l’Università degli studi di Torino in data 29/3/2019

Il magistrato italiano e le sue principali caratteristiche

L’ordinamento giuridico italiano è un sistema di civil law che si contrappone al common law inglese.

(Civil law: Sistema che si è sviluppato all’interno dell’aerea ove vi era il diritto romano-giustinianeo.

È caratterizzato dalla codificazione dei suoi principi fondamentali la quale funge da fonte primaria della legge (ad es Costituzione italiana). Lo scopo della codificazione è di fornire a tutti i cittadini le consuetudini e la raccolta scritta delle leggi che si applicano loro e che i giudici devono seguire. Il giudice si deve attenere il più possibile alla lettera della disposizione.

Common law: Sistema nativo della Gran Bretagna e in seguito si diffuse in tutte le colonie inglesi. Si tratta di un sistema giuridico di diritto non codificato che attribuisce valore vincolante alle pronunce passate dei giudici su fattispecie identiche o analoghe a quelle in esame -principio dello stare decisis).

Dall’unità d’Italia sino al 1946 la magistratura aveva una struttura gerarchica con al vertice il Ministro di Grazia e di Giustizia il quale si occupava della nomina dei giudici e del controllo del Pubblico Ministero che rappresentava il potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria.

Il Pm e il giudice seguivano carriere parallele, ma distinte e il passaggio da una carriera all’altra avveniva solo in casi eccezionali. Solo nel 1890 le due carriere furono unificate.

Prima dell’avvento del fascismo l’organizzazione giudiziaria subì delle modifiche che ne determinarono l’autonomia e l’indipendenza, ma nel 1923 fu accentuata la struttura gerarchica dell’organizzazione giudiziaria; ciò determinò un forte controllo sulla magistratura.

La legge 12/1941 confermò ancora la struttura gerarchica-burocratica della magistratura, il Pm era sotto la direzione del Ministero di Grazia e di Giustizia che gli dettava direttive sull’esercizio dell’azione penale.

(Il pubblico ministero è il magistrato requirente, ossia è colui che si occupa della pubblica accusa, dell’esercizio dell’azione penale. In questo periodo il Ministero di Grazia e di Giustizia aveva un forte controllo sul Pm tant’è che poteva ordinargli di archiviare un processo o poteva disporne il trasferimento).

Con la riforma attuata con il Dlgs 288/1944 non si toccò ancora il vincolo di subordinazione tra Pm e Ministero, ma fu consentito al magistrato, nel caso in cui ritenesse di non dover esercitare l’azione penale, di chiedere al giudice istruttore (del tutto indipendente dal potere esecutivo) l’archiviazione e questo poteva accogliere o meno la richiesta.

La Legge delle Guarentigie del 1946 n. 511 eliminò la dipendenza del Pm dall’esecutivo: si passò dalla direzione alla mera “vigilanza’’ del Ministro di Grazia e di Giustizia e i pubblici ministeri furono dichiarati inamovibili. Nell’art 2.2 del suddetto decreto era prevista un’eccezione a questa inamovibilità, ossia il Ministro poteva disporre il trasferimento del Pm se “per qualsivoglia causa anche indipendente da loro non potessero nella loro sede amministrare giustizia nelle condizioni richieste dal prestigio dell’ordine giudiziario’’.

Con l’avvento della Costituzione nel 1948 si rafforzarono i principi di autonomia e indipendenza della magistratura.

Nel 1958 la legge 195 istituì il Consiglio Superiore della Magistratura che comportò l’eliminazione di qualsiasi vincolo di dipendenza tra il Pm e il Ministero di Giustizia e furono equiparati sotto il profilo delle garanzie i magistrati requirenti e quelli giudicanti.

L’indipendenza e l’autonomia devono essere garantiti prima ancora che il processo inizi e fanno riferimento al modo in cui è regolato lo status dei magistrati, ossia dalla nomina sino alla cessazione del servizio.

L’indipendenza è volta a preservare l’imparzialità e la terzietà del giudice. Non si tratta di un ‘’privilegio’’ che spetta al magistrato in quanto tale, ma è più che altro un dovere per il magistrato.

L’art 104 della Cost stabilisce che “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” quindi non può essere soggetta a condizionamenti provenienti dal potere esecutivo o legislativo. Questo è l’articolo che prevede l’autonomia e l’indipendenza esterna dei giudici rispetto i poteri politici.

L’indipendenza interna invece la si trova nell’art 101.2 della Costituzione nell’inciso ‘‘i giudici sono soggetti soltanto alla legge” in virtù di questo principio i giudici, nello svolgere le proprie funzioni, non possono essere vincolati da ciò che non sia la legge.

Il principio di autonomia fa riferimento al principio di autogoverno della magistratura ed è sancito:

-dall’art. 102.1 Cost.: “La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario”;

– dall’art 105 della CostSpettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”; tutte le decisioni riguardanti i giudici devono essere quindi prese dal Consiglio Superiore della Magistratura;

-dall’art. 105 Cost.: “I magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del CSM, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall’ordinamento giudiziario o con il loro consenso”;

-dall’art. 108 Cost.: “Le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge”;

-dall’art. 54.2 Cost.: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”;

-dall’art. 97.2 Cost.: “I pubblici uffici sono organizzati  secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’ammionistrazione”;

-dall’art. 98 Cost: “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione….Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto di iscriversi ai partiti politici per i magistrati…”. 

E’ stata respinta la questione di legittimità costituzionale (sentenza Corte Cost. 224/2009) dell’art. 3, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 25 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f, della legge 25 luglio 2005, n. 150), nel testo sostituito dall’art. 1, comma 3, lettera d), numero 2), della legge 24 ottobre 2006, n. 269 (Sospensione dell’efficacia nonché modifiche di disposizioni in tema di ordinamento giudiziario), il quale configura quale illecito disciplinare sia il coinvolgimento nelle attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario che possono condizionare l’esercizio delle funzioni o comunque compromettere l’immagine del magistrato, sia l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa dello stesso a partiti politici.

In passato, del decreto-legge 3 maggio 1991 n. 141, recante «Divieto di iscrizione ai partiti politici per gli appartenenti alle categorie indicate nell’articolo 98, terzo comma, della Costituzione»,  si esaurirono presto gli effetti, non essendo avvenuta in tempo la conversione in legge e avendo il Governo rinunciato alla reiterazione.

L’autonomia e l’indipendenza del giudice sono garantiti anche dalla nomina che avviene mediante concorso pubblico indetto dal Ministero di Giustizia.

L’indipendenza, prima di tutto, è un dovere del giudice e nel momento in cui il magistrato tiene dei comportamenti che non lo fanno più apparire indipendente incorrerà in responsabilità. Responsabilità che presenta comunque dei limiti per poter preservare l’indipendenza dei giudici stessi.

L’indipendenza, quindi, rappresenta sia un limite alla responsabilità, ma è anche fonte di responsabilità, perché è impensabile che un qualsivoglia potere non abbia anche una responsabilità.

Codice deontologico italiano

L’attività dei magistrati negli ordinamenti contemporanei è soggetta, in un modo o nell’altro, a regole di comportamento di natura deontologica.

Deontologia significa regole di comportamento; è espressione della legge morale che ciascun uomo possiede in sé, ma è difficile tradurla in regole scritte.

Nella Legge delle XII tavole ci si rese conto che “non si potevano dare dei precetti a coloro che rivestivano le cariche di magistrature romane in merito ai loro doveri. Questi avrebbero dovuto trovare tutti il contenuto delle rispettive deontologie nel concetto di bene comune e nello spirito di dedizione alla patria”: due siano investiti del regio imperio, ed essi, dal presiedere, dal giudicare e dal provvedere si chiameranno pretori, giudice, consoli ed avranno il comando supremo dell’esercito; non saranno soggetti ad alcuno; il bene del popolo sarà per essi legge suprema. Questo è il principio fondamentale, ossia deontologia del magistrato significa agire, operare, svolgere la propria funzione per il bene comune, ciò perché è un funzionario dello Stato che deve agire a favore del popolo, seguire le loro cause e fare tutto ciò per il bene comune.

L’art. 18 della Legge sulle guarentigie, n. 511/1946, dispone: “è soggetto a sanzioni disciplinari il magistrato che manchi ai suoi doveri o tenga in ufficio, o fuori, una condotta tale da renderlo immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario”.

E’ dunque imposto al magistrato, a fini deontologici, un determinato comportamento.

Che cosa è il prestigio della magistratura e quali sono i valori propri della stessa?

Si tratta di significati difficilmente individuabili a priori con un grado di sufficiente certezza, dipendono dalle idee politiche, sociali e dalla sensibilità di ciascun individuo, mutevoli nel tempo.

Le pronunce della sezione disciplinare del CSM rilevano per evidenziare l’assunzione di soluzioni diverse nel tempo per casi simili, a seconda del mutare dei costumi.

Alcune importanti indicazioni deontologiche sono altresì contenute nelle norme dell’ordinamento giudiziario previste dal R.D. 30/01/1941 n. 12, più volte modificato ed integrato nel corso della sua vigenza

L’art. 9 disciplina il giuramento dei magistrati disponendo che chi esercita funzioni giudiziarie deve giurare di “osservare lealmente le leggi dello Stato e di adempiere con coscienza i doveri inerenti al (suo) ufficio”. I parametri comportamentali richiamati dalla proposizione in esame sono ancora una volta la legge e poi la “coscienza”.

Anche prescindendo dall’elaborazione filosofica del concetto di coscienza, la coscienza può essere definita come il sentimento che ciascun individuo ha dei valori morali o come il criterio di giudizio del bene e del male

Ancora devono essere segnalati gli artt. 16, 17 e 18 in tema di incompatibilità delle funzioni di magistrato con altre funzioni o con l’assunzione di incarichi differenti previsti, nella ricostruzione dello stesso CSM, allo scopo e nella misura in cui, l’esercizio di diverse funzioni possa ledere l’efficienza, la funzionalità e l’indipendenza del soggetto magistrato e dell’Ordine.

Ci si è domandato se fosse necessario predisporre delle regole deontologiche più specifiche per questi soggetti che hanno già dentro di sé le regole morali, comportamentali, che svolgono la propria funzione a favore del bene comune. L’esperienza ci ha dimostrato che purtroppo queste regole servono. Le esigenze degli ordinamenti e la sfiducia che le persone nutrono nei confronti della magistratura hanno portato il legislatore a positivizzare le regole deontologiche anche nell’esercizio della funzione giurisdizionale. Ecco che oggi queste regole deontologiche sono presenti nei precetti costituzionali, leggi, clausole generali, codici etici ecc.

Si tratta più che altro di principi che servono all’applicazione delle regole disciplinari. Hanno più che un valore giuridico, un valore morale; violare queste norme non significa che si violi immediatamente una norma disciplinare o penale; la connessione è stretta e sono utili al Consiglio Superiore della Magistratura per controllare il comportamento dei magistrati.

Lo scopo di queste norme è “quello adeguare il comportamento del magistrato alle attese dei cittadini in ordine al servizio e non ad un astratto prestigio della magistratura.”

Dignità, correttezza, sensibilità, indipendenza e imparzialità del magistrato sono le espressioni che ricorrono in tutti i codici etici delle magistrature italiane.

Oltre alla deontologia “officiosa’’ c’è chi ritiene che ci debba essere anche la c.d “deontologia spicciola’’ ossia regole di buon senso che costituiscono un “corpo intimo ed essenziale di precetti deontologici, magari non tipizzati, ma forse più forti e utili agli operatori giudiziari. Tali regole sono frutto dell’esperienza pratica degli stessi magistrati.

Rientrerebbero nei doveri pratici dei magistrati la cura della propria preparazione professionale, l’astensione da richieste di assegnazione di incarichi senza averne le attitudini e capacità, evitare di ingerirsi e di influire su decisioni in tema di promozioni e trasferimenti, non omettere adempimenti e rilevare irregolarità processuali, informare sulla situazione processuale e sulle facoltà gli imputati magari meno provveduti, osservare gli orari di fissazione delle udienze, il fornire spiegazioni ai non addetti ai lavori circa quel che accade nel processo.’’

I codici di autoregolamentazione ex legge n. 146/1990 e n. 83/2000.

Nel 1990 il legislatore interviene adottando una legge, la n. 146, che disciplina lo sciopero nei servizi pubblici essenziali e che è stata più tardi modificata dalla successiva legge n. 83/2000.

Tra i servizi pubblici essenziali è, e non poteva essere altrimenti, compresa l’amministrazione della giustizia e l’esercizio delle relative funzioni.

Sebbene vi sia stato chi, sulla base del rilievo costituzionale della funzione giurisdizionale, ha dubitato che i magistrati siano titolari del diritto di sciopero, tale riconoscimento avviene implicitamente attraverso lo stesso art. 1 comma 2 della l. 83/2000, che contempla l’amministrazione della giustizia nel novero dei servizi pubblici essenziali ai fini del bilanciamento dei diritti degli scioperanti e dei cittadini.

Tra le prescrizioni imposte dalla normativa in commento vi era anche quella che imponeva alle associazioni dei lavoratori dei pubblici servizi essenziali, di adottare misure idonee a garantire, durante il periodo di sciopero, l’erogazione delle prestazioni indispensabili. Misure che dovevano essere contenute nei contratti collettivi o in codici di autoregolamentazione per i lavoratori autonomi, da sottoporre al giudizio della Commissione di Garanzia.

L’autoregolamentazione è stata adottata da tutte le categorie di magistrati che si sono dotati di norme di comportamento, quindi deontologiche, contenute in codici così detti di autoregolamentazione

La dottrina ha evidenziato come la forma del codice di autoregolamentazione da parte delle associazioni di magistrati, fosse l’unica forma possibile per la fissazione delle regole di comportamento richiesta dalla legge in esame.

Non solo infatti non sarebbe individuabile una vera e propria controparte contrattuale nel rapporto di lavoro ma l’esclusione della magistratura dai rapporti di lavoro privatizzati e la prevalenza del rapporto di d’ufficio su quello di servizio, impediscono una regolamentazione di tipo contrattuale.

Il d. lgs. n. 29/1993 e i codici etici delle magistrature.

CONFRONTO “DEONTOLOGICO’’ tra le varie magistrature presenti nell’ordinamento italiano.

In concomitanza con identici fenomeni in molti settori del mondo degli affari, delle professioni intellettuali, dei servizi pubblici anche nell’ambito della magistratura sono stati adottati dei codici (così detti “etici”) comportamentali.

Nel nostro ordinamento i codici etici delle magistrature, caratteristica alquanto peculiare, trovano il loro fondamento direttamente in norme di legge che ne prevedono l’adozione obbligatoria. L’art. 58 bis del D. Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 come modificato dall’art. 26 del D. Lgs. 23 dicembre 1993 n. 546 dispone infatti che “per ciascuna magistratura e per l’avvocatura dello Stato, gli organi delle associazioni di categoria, adottano entro il termine di centoventi giorni dall’entrata in vigore del presente decreto, un codice etico che viene sottoposto all’adesione degli appartenenti alla magistratura interessata. Decorso inutilmente detto termine il codice è adottato dall’organo di autogoverno”.

Dalla lettera di questo articolo si evince che nel nostro sistema giudiziario sono presenti diverse magistrature. Difatti i magistrati italiani possono essere di diverse tipologie e ognuna di queste ha una deontologia differente.

  • ordinari: civili e penali
  • • amministrativi: Consiglio di Stato, TAR
  • • contabili: Corte dei conti
  • • tributari: Commissioni provinciali e, per l’appello, in Commissioni regionali
  • • militari.
  • Onorari: dal 2016 le cariche di giudice di pace, giudice onorario aggregato, giudice onorario i tribunale e il vice procuratore onorario sono stati unificati sotto la figura del giudice onorario di pace.

Le magistrature dell’ordinamento italiano hanno raccolto l’imposizione del legislatore e le associazioni rappresentative hanno adottato codici etici di comportamento.

Si sono dotate di un codice etico la magistratura ordinaria con il codice etico adottato dall’Associazione Nazionale Magistrati con delibera del 12/07/1994, la magistratura dei Magistrati del Consiglio di Stato con delibera del 28/04/1994, la magistratura dei Magistrati amministrativi dei Tribunali Amministrativi Regionali con delibera del 13/05/1994, i Giudici di Pace con il codice etico deliberato dall’Associazione Nazionale dei Giudici di Pace, i magistrati della Corte dei Conti con delibera del 28/04/1994, l’Avvocatura dello Stato con delibera del 05/05/1994. Il testo di tali codici può essere reperito oltre che sui siti internet delle diverse associazioni professionali dei magistrati anche ad esempio sulla rivista Documenti Giustizia, 1994, fac. N. 7 e 8.

Non lo hanno fatto la magistratura tributaria, i magistrati onorari e la magistratura militare.

Tra l’altro, la magistratura onoraria si differenzia dalla magistratura ordinaria per quanto riguarda la modalità d’accesso che avviene per titoli e non mediante concorso pubblico. Figura nata nel 1991 ma attuata solo a partire dal 1995. Nel corso degli anni la sua disciplina ha subito varie modifiche. Precedentemente il loro compenso dipendeva dal numero di provvedimenti che adottassero, ma a partire dal 2016 fu prevista una parte fissa di retribuzione e una variabile. Si tratta di una carica temporanea che dura 4 anni e sono possibili sino a 2 rinnovi, per un totale massimo di 12 anni di servizio.

Più specificamente:

La legge 28 aprile 2016, n. 57 recante “Delega al Governo per la riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace”, è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale 29 aprile 2016, n. 99.

La delega prevede il riassetto complessivo dell’ordinamento dei magistrati onorari ed un ampliamento significativo delle competenze civili e penali.

Queste le principali novità sul piano ordinamentale:

  • è prevista un’unica figura di giudice onorario, denominato “giudice onorario di pace“: cade così la distinzione tra giudici onorari di tribunale (i cd. GOT) e i giudici di pace;
  • i magistrati requirenti onorari (i cd. VPO) saranno inseriti all’interno delle procure in un’articolazione denominata “ufficio dei vice procuratori onorari“;
  • sono previsti inoltre specifici requisiti di accesso alla magistratura onoraria e cause di incompatibilità;
  • la durata dell’incarico di magistrato onorario è stabilita in quattro anni, rinnovabile per una sola volta; per chi invece sarà già in servizio all’entrata in vigore del decreto delegato il limite massimo è di quattro quadrienni;
  • al termine dei due mandati a regime, lo svolgimento delle funzioni di magistrato onorario costituirà titolo preferenziale per l’accesso tramite concorso nella pubblica amministrazione;
  • il Governo dovrà individuare le fattispecie di illecito disciplinare e regolare il procedimento di applicazione;
  • sarà riformata la disciplina delle indennità dei magistrati onorari, che sarà composta da una parte fissa e da una parte variabile il cui importo sarà liquidato dal presidente del tribunale e dal procuratore della repubblica in relazione al grado di raggiungimento degli obiettivi da essi fissati annualmente;
  • sul piano previdenziale dovrà essere individuato e regolato un regime previdenziale e assistenziale compatibile con la natura onoraria dell’incarico, senza oneri per la finanza pubblica, mediante l’acquisizione delle risorse necessarie mediante misure incidenti sull’indennità;
  • il limite di età per l’incarico di magistrato onorario è fissato in 65 anni.

Sul fronte delle competenze civili le principali novità riguardano:

  • l’attribuzione dei procedimenti di volontaria giurisdizione in materia di condominio;
  • l’attribuzione dei procedimenti di volontaria giurisdizione in materia successoria e di comunione di minore complessità quanto all’attività istruttoria e decisoria;
  • l’estensione della competenza per valore fino a 30 mila euro (dai 5 mila attuali) e per i sinistri stradali fino a 50 mila euro (oggi è 30 mila);
  • l’assegnazione dei procedimenti di espropriazione mobiliare presso il debitore e di espropriazione di cose del debitore in possesso di terzi; il giudice di pace dovrà comunque seguire le direttive di un giudice togato indicato dal presidente del tribunale;
  • la possibilità di decidere secondo equità tutte le cause di valore fino a 2.500 euro (oggi il limite è di 1.100 euro).

Sul piano della competenza penale, saranno attribuite al giudice di pace nuove fattispecie di reato: la minaccia (art. 612, commi 1 e 2 c.p., salvo che sussistano altre circostanze aggravanti), il furto perseguibile a querela (art. 626 c.p.), il rifiuto di prestare le proprie generalità (art. 651 c.p.), l’abbandono di animali (art. 727 c.p.), le contravvenzioni riguardante specie animali e vegetali selvatiche protette (art. 727-bis c.p.) ed i fitofarmaci e presidi delle derrate alimentari (art. 6 legge n. 283/1962).

Attuazione legge delega: DECRETO LEGISLATIVO 13 luglio 2017, n. 116

Riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace, nonche’ disciplina transitoria relativa ai magistrati onorari in servizio, a norma della legge 28 aprile 2016, n. 57. (17G00129) (GU Serie Generale n.177 del 31-07-2017)

note: Entrata in vigore del provvedimento: 15/08/2017, ad eccezione delle disposizioni dell’articolo 27, che entrano in vigore il 31 ottobre 2021, salvo quelle di cui al comma 1, lettera a), numero 1, lettera c), numero 2), e al comma 3, lettera d), capoverso «Art. 60-bis», e lettera e) del medesimo articolo, che entrano in vigore il 31 ottobre 2025 e ad eccezione delle disposizioni dell’articolo 28, che entrano in vigore il 31 ottobre 2021.

Il primo decreto attuativo

Con il decreto legislativo n. 92 del 2016 il Governo ha attuato la più urgente delle deleghe conferite dalla legge n. 57/2016, consentendo il mantenimento in servizio dei giudici di pace, dei giudici onorari di tribunale e dei vice procuratori onorari che esercitavano le funzioni alla data di entrata in vigore del decreto, a condizione che gli stessi fossero ritenuti idonei a svolgere le funzioni onorarie all’esito di una procedura di conferma straordinaria, disciplinata dallo stesso decreto.

Il provvedimento, in particolare, ha assegnato ai magistrati onorari in servizio, in attuazione delle direttive di delega, un primo mandato quadriennale, espressamente condizionato all’esito positivo della citata procedura di conferma straordinaria. La disciplina dei successivi tre mandati quadriennali, espressamente prevista dalla legge 57, viene riservata ad un successivo decreto legislativo, che dovrà attuare compiutamente la delega.

Il decreto legislativo n. 92 del 2016 prevede, inoltre, che i magistrati onorari sottoposti a conferma permangano in servizio, ex lege, sino alla definizione della procedura e che gli effetti della conferma nell’incarico operino a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto, così garantendo il loro mantenimento in servizio senza soluzione di continuità.

Il provvedimento, infine, disciplina la nuova composizione della sezione autonoma per i magistrati onorari del consiglio giudiziario (finora contraddistinta dalla presenza di soli giudici di pace), prevedendo la presenza di rappresentanti sia dei giudici onorari di pace che dei vice procuratori onorari. Sono indette elezioni straordinarie relative esclusivamente alla nuova componente onoraria delle sezioni autonome dei consigli giudiziari, con espressa rieleggibilità dei giudici di pace eletti nel corso dell’ultima procedura elettorale.

La riforma introdotta con il decreto legislativo n. 116 del 2017

Il decreto legislativo n. 116 del 2017, in attuazione della delega conferita dalla legge n. 57 del 2016, ha proceduto ad una complessiva riforma della magistratura onoraria.

In base alla riforma, l’incarico di magistrato onorario presenta le seguenti caratteristiche:

  • ha natura inderogabilmente temporanea;
  • si svolge in modo da assicurare la compatibilità con lo svolgimento di attività lavorative o professionali (per assicurare tale compatibilità, a ciascun magistrato onorario non può essere richiesto un impegno superiore a due giorni a settimana);
  • non determina in nessun caso un rapporto di pubblico impiego.

Il decreto legislativo supera, nel settore giudicante, la bipartizione tra giudice di pace e giudice onorario di tribunale (GOT) prevedendo un’unica figura di “giudice onorario di pace”,magistrato addetto all’ufficio del giudice di pace. All’esito della riforma, il complesso della magistratura onoraria risulta, quindi, costituita da:

  • giudici onorari di pace, magistrati onorari che sono obbligatoriamente assegnati per i primi due anni dal conferimento dell’incarico allufficio per il processo, la struttura organizzativa costituita presso il tribunale del circondario a supporto dell’attività del magistrato togato; successivamente, i giudici onorari di pace possono essere assegnati all’ufficio del giudice di pace per esercitare la giurisdizione in materia civile e penale e la funzione conciliativa.

Presso l’ufficio per il processo i giudici onorari di pace coadiuvano il giudice togato compiendo tutti gli atti preparatori utili per l’esercizio della funzione giurisdizionale; in particolare, il giudice professionale può delegare alcune funzioni al giudice onorario (es. assunzione dei testimoni, tentativi di conciliazione) nonché la pronuncia di provvedimenti definitori in specifiche materie (es. procedimenti di volontaria giurisdizione in materie diverse dalla famiglia, previdenza e assistenza obbligatoria, cause relative a beni mobili di valore non superiore a 50.000 euro, cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione dei veicoli e dei natanti, purché il valore della controversia non superi 100.000 euro); in riferimento a tutte le attività delegate, il giudice onorario di pace si attiene alle direttive concordate con il giudice professionale, titolare del procedimento.
Inoltre, la riforma consente – al ricorrere di situazioni di carenze di organico o di criticità nello smaltimento dell’arretrato tassativamente indicate – di assegnare procedimenti civili e penali ai giudici onorari di pace con più di due anni di esperienza nell’incarico, indicando specifiche esclusioni (ad esempio, nel settore civile i procedimenti di impugnazione avverso i provvedimenti del giudice di pace, i procedimenti in materia di rapporti di lavoro, in materia societaria e fallimentare, in materia di famiglia, ecc.; in campo penale sono esclusi i procedimenti diversi da quelli previsti dall’articolo 550 c.p.p., riguardanti i casi di citazione diretta a giudizio, le funzioni di GIP e GUP, i procedimenti di appello avverso i provvedimenti del giudice di pace, ecc.). Inoltre, i giudici onorari di pace che sono inseriti nell’ufficio per il processo, quando sussistono determinate condizioni e con specifiche modalità, possono essere destinati a comporre i collegi civili e penali del tribunale (del collegio non può comunque far parte più di un giudice onorario di pace): la riforma preclude la possibilità che il giudice onorario di pace possa essere destinato, per il settore civile, a comporre i collegi giudicanti dei procedimenti in materia fallimentare e i collegi delle sezioni specializzate, per il settore penale, a comporre i collegi del tribunale del riesame ovvero qualora si proceda per i reati di particolare gravità indicati nell’articolo 407, comma 2, lettera a) c.p.p. Infine, il giudice onorario di pace potrà svolgere funzioni di supplenza del giudice professionale all’interno del collegio, in caso di impedimento o assenza temporanei.
Presso l’ufficio del giudice di pace i giudici onorari di pace esercitano la giurisdizione in materia civile e penale, come previsto dai codici di rito (e dunque sostanzialmente come nella disciplina precedente alla riforma) e la funzione conciliativa in materia civile. L’ufficio del giudice di pace, prima della riforma sotto la direzione di un coordinatore-giudice di pace, è ora coordinato dal presidente del tribunale, che provvede alla distribuzione del lavoro, mediante il ricorso a procedure automatiche, tra i giudici onorari di pace e che vigila sul loro operato, esercitando ogni altra funzione di direzione che la legge attribuisce al dirigente dell’ufficio giudiziario: a seguito della riforma, dunque, l’ufficio del giudice di pace perde la propria autonomia funzionale;

  • vice procuratori onorari (cd. VPO), magistrati onorari inseriti nell’ufficio di collaborazione del procuratore della Repubblica, cioèin una struttura organizzativa analoga all’ufficio del processo, costituita presso ciascuna procura. Spetta al procuratore della Repubblica coordinare l’ufficio distribuendo il lavoro attraverso il ricorso a procedure automatiche e vigilare sulle attività svolte dai VPO, avvalendosi dell’ausilio di uno o più magistrati professionali.
    Ai vice procuratori onorari sono attribuiti compiti ausiliari (studio dei fascicoli, approfondimento giurisprudenziale e dottrinale e predisposizione delle minute dei provvedimenti) e – dopo un anno dal conferimento dell’incarico – compiti e attività delegate. Si tratta, con riguardo ai procedimenti penali di competenza del giudice di pace, delle funzioni del PM nell’udienza dibattimentale nonché dei provvedimenti di chiusura delle indagini preliminari, di archiviazione e la formulazione delle richieste del pubblico ministero, dei procedimenti in camera di consiglio; con riguardo ai procedimenti nei quali il tribunale giudica in composizione monocratica, ad esclusione di quelli relativi ai delitti di cui agli articoli 589 (omicidio colposo) e 590 (lesioni personali colpose) c.p. commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, il VPO può svolgere, per delega del procuratore della Repubblica e secondo le direttive stabilite in via generale dal magistrato professionale che ne coordina le attività, le funzioni di PM nell’udienza dibattimentale, nell’udienza di convalida dell’arresto, per la richiesta di emissione del decreto penale di condanna, nei procedimenti in camera di consiglio. Inoltre, il VPO delegato può assumere le determinazioni relative all’applicazione della pena su richiesta nei procedimenti relativi ai reati per i quali l’azione penale è esercitata con decreto di citazione diretta e, in relazione ai medesimi reati, può avanzare richiesta di archiviazione, nonché svolgere compiti e attività, anche di indagine.

La riforma disciplina i requisiti per il conferimento dell’incarico, i titoli di preferenza e le incompatibilità, prevedendo particolari preclusioni con riguardo a coloro che esercitano la professione forense.

Spetterà al CSM, ogni biennio, individuare i posti vacanti e bandire il relativo concorso; gli interessati potranno presentare, in relazione ai posti individuati, domanda di ammissione al tirocinio per non più di tre uffici dello stesso distretto. La graduatoria sarà predisposta dalla sezione autonoma per i magistrati onorari del consiglio giudiziario e deliberata, in relazione a ciascun ufficio, dal CSM che ammetterà al tirocinio un numero di interessati pari, ove possibile, al numero dei posti individuati, aumentato della metà.

Il tirocinio del magistrato onorario – organizzato dal CSM e dalla Scuola superiore della magistratura – ha una durata di 6 mesi, non dà diritto ad indennità, ed è svolto sotto la direzione di un magistrato collaboratore, tanto presso l’ufficio giudiziario (tribunale o procura) quanto attraverso la frequenza obbligatoria e con profitto di corsi teorico-pratici di durata non inferiore a 30 ore, organizzati dalla citata Scuola superiore. Al termine del tirocinio, la sezione autonoma del Consiglio giudiziario formula un parere sull’idoneità del magistrato onorario in tirocinio e, per ciascun ufficio, propone al CSM la graduatoria degli idonei. L’incarico è formalmente conferito con decreto del Ministro della giustizia.

Quanto alla durata dell’incarico, la riforma prevede che l’incarico di magistrato onorario:

  • dura 4 anni e alla scadenza può essere confermato – a domanda e all’esito di un procedimento di verifica delle capacità e dell’attività svolta – per ulteriori 4 anni;
  • non può, in ogni caso, essere esercitato per più di 8 anni (in precedenza 12), anche non consecutivi;
  • cessa comunque al compimento dei 65 anni di età (in precedenza 75 anni).

Il decreto legislativo n. 116 del 2017 disciplina inoltre i doveri del magistrato onorario, gli obblighi di astensione e le ipotesi di ricusazione, la decadenza, la dispensa e alla revoca dell’incarico; sono disciplinate, inoltre, le attività di formazione permanente dei magistrati onorari, tra le quali riunioni trimestrali organizzate dal presidente del tribunale (o dal procuratore della Repubblica) aventi ad oggetto, oltre che lo scambio di esperienze e prassi, anche l’esame delle più rilevanti questioni giuridiche affrontate dai magistrati onorari nonché le soluzioni adottate.

Quanto all’indennità, la riforma individua la misura dei compensi annuali lordi del magistrato onorario, specificando che per l’esercizio delle funzioni e dei compiti previsti dal decreto legislativo tali compensi sono onnicomprensivi. In particolare, la riforma:

  • conferma che l’indennità spettante ai magistrati onorari si compone di una parte fissa e di una parte variabile di risultato;
  • individua in 16.140 euro all’anno lordi (misura comprensiva di oneri previdenziali e assistenziali) dell’indennità fissa da corrispondere ai magistrati onorari che esercitano funzioni giudiziarie;
  • prevede che ai magistrati onorari che non esercitano funzioni giudiziarie sia corrisposta una indennità fissa pari all’80% dell’indennità prevista per i magistrati onorari che esercitano le funzioni giudiziarie, ovvero 12.912 euro;
  • esclude il possibile cumulo dell’indennità per l’esercizio delle funzioni giudiziarie con quella per l’esercizio delle funzioni non giurisdizionali, prevedendo che quando un magistrato onorario svolge entrambe le attività, la misura dell’indennità fissa è quella prevista per i compiti e le attività svolti in via prevalente;
  • demanda al presidente del tribunale la determinazione degli obiettivi che i giudici onorari di pace dovranno raggiungere nell’anno solare, sia che esercitino la giurisdizione presso l’ufficio del giudice di pace o presso il tribunale, sia che svolgano attività non giurisdizionali nell’ufficio del processo.
  • demanda al procuratore della Repubblica l’adozione di analogo provvedimento, nei medesimi termini, per la determinazione degli obiettivi che dovranno raggiungere i vice procuratori onorari;
  • assegna al CSM il compito di adottare una delibera per definire i criteri in base ai quali fissare gli obiettivi nonché le procedure per la valutazione della realizzazione degli stessi;
  • individua in una percentuale tra il 15% e il 30% dell’indennità fissa, la misura della parte variabile di risultato, connessa al raggiungimento degli obiettivi;
  • prevede che la malattia, l’infortunio e la gravidanza dei magistrati onorari non comportano dispensa dall’incarico, la cui esecuzione rimane sospesa senza diritto all’indennità.

In base alla riforma, questo è il quadro dei compensi annui lordi che possono essere corrisposti ai magistrati onorari.

Rispetto alla normativa previgente, soprattutto quella sui giudici di pace, è evidente come la riforma realizzi una drastica riduzione delle indennità. Peraltro, lo stesso decreto legislativo dispone che per la liquidazione delle indennità dovute ai magistrati onorari in servizio alla data di entrata in vigore della riforma continuino ad applicarsi, per 4 anni, le disposizioni previgenti.

Spetterà ad un D.M. Giustizia, da emanarsi entro il 15 febbraio 2018, acquisito il parere del CSM, determinare il ruolo organico dei giudici onorari di pace e dei viceprocuratori onorari e la pianta organica degli uffici del giudice di pace. Con il decreto il Ministro dovrà altresì stabilire quanti giudici onorari di pace eserciteranno la giurisdizione civile e penale presso l’ufficio del giudice di pace e quanti, invece, saranno inseriti nell’ufficio per il processo del tribunale.

In occasione della riforma il legislatore ha ampliato le competenze del giudice di pace in materia civile e tavolare.

In particolare, in relazione all’aumento delle competenze civili, le principali novità riguardano: l’attribuzione di alcuni procedimenti di volontaria giurisdizione connotati da minore complessità quanto all’attività istruttoria e decisoria; l’estensione della competenza per valore nelle cause relative a beni mobili (fino a 30.000 euro dai precedenti 5.000) e per i sinistri stradali (fino a 50.000 euro anzichè 20.000); – l’assegnazione dei procedimenti di espropriazione mobiliare; Ia possibilità di decidere secondo equità tutte le cause di valore fino a 2.500 euro (il limite era di 1.100 euro).

Sul piano delle competenze penali, il decreto non ha attuato la delega che attribuiva al giudice di pace nuove fattispecie di reato: la minaccia (art. 612, commi 1 e 2 c.p., escluse le ipotesi aggravate); il furto perseguibile a querela (art. 626 c.p.), il rifiuto di prestare le proprie generalità (art. 651 c.p.), l’abbandono di animali (art. 727 c.p.), le contravvenzioni riguardante specie animali e vegetali selvatiche protette (art. 727-bis c.p.) ed i fitofarmaci e presidi delle derrate alimentari (art. 6 legge n. 283/1962).

Infine, il decreto legislativo n. 116 del 2017 ha disposto circa la durata dell’incarico, le funzioni e i compiti e l’indennità spettante ai magistrati onorari in servizio alla data di entrata in vigore della riforma. Tali magistrati possono essere confermati, alla scadenza del primo quadriennio, per ciascuno dei tre successivi quadrienni (fermo restando il limite di età, fissato a 68 anni). La conferma ha luogo a domanda e secondo il procedimento delineato dalla riforma.

Il provvedimento non ha dato attuazione – come precisato dallo stesso Governo, sulla base del rispetto del carattere di onorarietà dell’incarico – alla materia dei trasferimenti (d’ufficio e a domanda) dei magistrati onorari nonché alla materia disciplinare. Analogamente, risulta inattuata la delega sull’ampliamento della competenza penale del magistrato onorario.

Circa i magistrati onorari, in passato:

Per i Giudici di Pace è l’art. 10 della legge n. 374/1991, così come modificato dalla legge n. 468/1999 che prevede: “Il Giudice di Pace è tenuto all’osservanza dei doveri previsti per i magistrati ordinari…”. Per i magistrati onorari del Tribunale, l’art. 42 della legge sull’ordinamento giudiziario stabilisce poi che “Il Giudice onorario di Tribunale è tenuto all’osservanza dei doveri previsti per i magistrati ordinari in quanto compatibili” mentre l’art. 71 della stessa legge, in relazione alla figura dei vice procuratori onorari, prevede che ad essi si applicano le disposizioni di cui agli artt. 42-ter, 42-quater, 42-quinquies, 42-sexies, prevedendo che tali soggetti possano essere revocati d’ufficio nei casi di inosservanza dei doveri inerenti al medesimo ufficio.

Sorgono dei dubbi deontologici per la magistratura amministrativa soprattutto per quanto riguarda il consiglio di stato e la corte dei conti, poiché parte dei loro membri sono di nomina governativa e questo fa suscitare dubbi in merito all’indipendenza dell’intero corpo.

L’argomento della prevenzione di conflitti di interessi e dell’incentivazione di comportamenti corretti in riferimento alla posizione delle magistrature speciali è tra i più delicati, in funzione delle alte funzioni affidate, in particolare, al Consiglio di Stato ed alla Corte dei conti.

La riforma di cui alla legge n. 205 del 2000 ha – al fine di accrescere l’indipendenza della giurisdizione del complesso Consiglio di Stato/TAR – inserito membri laici, eletti separatamente dalle due Camere, nel Consiglio di Presidenza istituito, quale organo di garanzia, dalla legge n. 186 del 1982 e successive modificazioni; tale Consiglio è sentito in tema di assegnazioni di nuovi consiglieri al Consiglio di Stato, anche sulla base di nomine governative, e sull’effettuazione dei concorsi anche relativi al reclutamento nei TAR.

Un analogo Consiglio di Presidenza è stato creato – seppur con competenze principalmente concentrate sui profili disciplinari – per la Corte dei Conti con legge n. 117 del 1988, anche in tale consesso essendo inseriti alcuni membri laici prescelti dai Presidenti delle Camere.

In riferimento alla Corte dei Conti e, soprattutto, al Consiglio di Stato, il dibattito critico si incentra, oltre ai predetti profili concernenti il reclutamento soprattutto dei consiglieri di Stato (dibattito sopito, ma non superato, a seguito dell’introduzione del parere del Consiglio di Presidenza) anzitutto, sul cumulo, negli stessi organi, di funzioni anche diverse da quelle giurisdizionali; problematica che permane anche se, ad es., le funzioni consultive del Consiglio di Stato, aventi ad oggetto spesso provvedimenti poi oggetto di sindacato giurisdizionale, sono affidate a sezioni diverse da quelle giudicanti.

Assai liberale, poi, è stato tradizionalmente l’indirizzo dell’organo autorizzante i magistrati speciali a svolgere, pendenti le funzioni, incarichi di componenti di organi amministrativi e di controllo di enti e società, di comitati e consigli inseriti nell’amministrazione, di componenti o, più spesso, presidenti di collegi arbitrali.

Ancora, può menzionarsi il forte interscambio tra posizioni negli organi giurisdizionali e posizioni nella pubblica amministrazione, spesso in posizioni apicali o di diretta collaborazione con i ministri; parimenti, si registra un rilevante accesso di alti dirigenti dell’amministrazione al Consiglio di Stato, sulla base delle cennate previsioni di legge che consentono l’accesso stesso su nomina governativa.

Quanto, infine, ai fenomeni di vera e propria devianza, taluni procedimenti penali relativi a fatti collegati all’obiettiva vicinanza tra mondo degli affari ed amministrazione hanno riguardato, purtroppo, anche esponenti delle giurisdizioni speciali.

In merito alla giurisdizione militare, l’art. 2, co. 603, della legge finanziaria n. 244 del 2007 aveva previsto una sostanziale riduzione di sedi e di organico, con assorbimento degli esuberi nella magistratura ordinaria.

In merito alle Commissioni tributarie, le quali come detto sono sopravvissute alla Costituzione in virtù di una tendenza interpretativa largheggiante e sono state dotate anch’esse dal legislatore di un organo esponenziale, il Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria, di cui agli artt. 17 ss. del decreto legislativo n. 545 del 1992.

Il profilo critico fondamentale riguarda la presenza nelle Commissioni di avvocati e dottori commercialisti (oltre che di soggetti, quali ex dipendenti dell’amministrazione delle finanze, che conservano stretti legami con essa, anche per l’assenza della previsione di un periodo di intervallo). Solo a far tempo dal 2001, in virtù di una modifica apportata all’art. 8 del decreto n. 545 dalla L. n. 342 del 2000, in astratto sarebbero incompatibili con le funzioni giudicanti tributarie le posizioni di coloro che, tra i dottori commercialisti e gli avvocati, esercitano la consulenza o la rappresentanza in giudizio nella stessa materia. Da detto momento, la polemica si è, però, come prevedibile, spostata sul sussistere di detta incompatibilità a mezzo di soggetti collegati

Oggetto e funzione della deontologia dei magistrati

Le regole deontologiche come lesione di diritti costituzionalmente garantiti

Quale la finalità delle norme deontologiche? Dalla tutela dell’ordine della magistratura a tutela della funzionalità.

La finalità immediata di tali norme è senza dubbio quella di indirizzare il comportamento dei soggetti cui si riferiscono, verso modelli di comportamento che rispondono a principi spesso tanto astratti quanto non condivisi o non comprensibili. Ma qual è la finalità mediata delle norme deontologiche nel contesto della magistratura? Ritengo che tale problematica sia strettamente connessa e legata con il mutare delle epoche storiche e che pertanto non sia individuabile un’unica finalità ultima ed immutabile, ma piuttosto tendenze ed esigenze mutevoli nel tempo.

In epoca più recente, persa quasi totalmente la connotazione divina della funzione giudiziale, divenuta sempre più un servizio pubblico in favore di utenti cittadini

Mentre in passato i precetti deontologici e di responsabilità disciplinare, si preoccupavano di una tutela ossessiva di certi valori tanto tradizionali quanto indefiniti, come il prestigio, il decoro e la dignità dell’Ordine, in epoca più recente l’attenzione si è spostata ai valori del buon funzionamento, imparzialità, credibilità della funzione e correttezza di un servizio che deve essere reso in favore della collettività dei cittadini. Si è verificato nella cultura giuridica italiana un passaggio da una concezione della funzione giurisdizionale come un potere a considerarla come un servizio.

         Lo stesso CSM in un parere reso nel 1985 su un disegno di legge sulla riforma della responsabilità disciplinare reso al Governo, affermava che era giusto porre l’accento sull’adeguatezza del comportamento del magistrato alle attese dei cittadini in ordine al servizio e non ad un astratto prestigio della magistratura.

La natura di precetti etici di guida, più che di norme vincolanti, lo si deve desumere dalla sinteticità delle disposizioni e dalla brevità dei documenti in esame. I codici più lunghi, o meglio meno brevi, sono costituiti da solamente 14 articoli. Le proposizioni sono piuttosto sintetiche e hanno la struttura di manifesto più che di regole giuridiche vincolanti.

La maggioranza degli autori riconosce alle norme del codice etico il valore di criteri ermeneutici utilizzabili nell’applicazione delle regole legislative disciplinari e penali.

La previsione dell’obbligo di redazione di un codice etico suscitò subito perplessità di ordine costituzionale: la legge di delegazione del 1992, infatti, non prevedeva l’adozione di codici etici per i magistrati, per i quali anzi la legge ribadiva l’assoggettamento alla normativa vigente, prevista dai rispettivi ordinamenti. Il governo aveva dunque ecceduto rispetto alla delega. Da altro punto di vista, poi, si poteva notare che, visto che la nostra Costituzione, all’art. 108, prevede una riserva di legge in tema di norme sull’ordinamento giudiziario, un codice etico simile a quello previsto per i dipendenti per la pubblica amministrazione non poteva assumere, per i magistrati, significato paragonabile a quello assunto dai codici per i pubblici impiegati.

È sicuramente rilevante notare che il codice etico consta di 14 articoli che, come è stato notato, “ricomprendono la totalità dei comportamenti dei giudici e dei P.M., inclusi i capi degli uffici.” E’ stato altresì notato che la denominazione di codice è essa stessa non appropriata, trattandosi per lo più dell’espressione di principi, talvolta generali.

Oltre all’enunciazione, nel preambolo, della separatezza di piani su cui operano le norme deontologiche, prive di efficacia giuridica e che esprimono solo le regole etiche cui, secondo il “comune sentire” dei magistrati, deve ispirarsi il loro comportamento, il testo contiene alcuni principi e, poi, regole relative ai rapporti del magistrato con i cittadini e con gli utenti della giustizia, con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione di massa, ai doveri di operosità e di aggiornamento professionale, di buon utilizzo delle risorse dell’amministrazione, di non utilizzazione delle informazioni d’ufficio a fini non istituzionali. Esso prosegue con la regolamentazione dell’adesione dei magistrati ad associazioni, dei doveri di indipendenza, imparzialità e correttezza; della condotta da tenersi nell’esercizio delle funzioni, sia quanto al giudice che quanto al pubblico ministero, che infine quanto ai capi degli uffici.

Per espressa previsione del codice, è possibile un suo adeguamento nel tempo.

A distanza di 16 anni, il 13 novembre 2010, l’ANM ha approvato un nuovo codice etico, che si risolve in una riscrittura del precedente con varie modifiche, le quali da un lato appaiono giustificate dalle esperienze maturate nell’applicazione di quello del 1994, dall’ altro lato recepiscono nuove istanze e nuove sensibilità sociali, ponendo ulteriori specifiche regole deontologiche dirette a favorire la crescita professionale dei magistrati.

In merito all’applicazione concreta (e quindi alla rilevanza) assunta dal codice etico predisposto dall’ANM è opportuno, sottolineare che il codice stesso dichiara espressamente di collocarsi «su un piano diverso rispetto alla regolamentazione giuridica degli illeciti disciplinari». In molti casi, l’inosservanza delle norme contenute nel codice non raggiungerà la soglia dell’illecito disciplinare; in altri casi, potrà costituire addirittura l’indice della violazione di norme penali.

Una diversa sovrapposizione di piani si verificava in quanto il codice assumeva una vitalità – per così dire – «indesiderata» dai suoi autori nella stagione della riforma dell’ordinamento giudiziario, cristallizzatasi, in materia di procedimento disciplinare relativo ai magistrati, con il d.lgs. n. 109 del 2006, coordinato con le leggi n. 269 del 2006 e 111 del 2007. In estrema sintesi, il codice etico è servito da base (talvolta, anche eccessivamente, testuale) per la redazione delle nuove norme disciplinari, ispirate, almeno teoricamente, dalla finalità di raggiungere una «tipicità» degli illeciti disciplinari dei magistrati. Così, molte delle disposizioni che dovevano stimolare verso comportamenti «eccellenti» venivano utilizzate impropriamente per porre degli obiettivi disciplinari, invece da regolarsi secondo un metro di «minimo» etico.

Ciò ha comportato che regole dettate dal codice etico divenissero parametri per incolpazioni disciplinari, ossia che gli illeciti disciplinari fossero configurati come fatti di diretta violazione delle norme deontologiche, con uno stravolgimento della loro natura e funzione.

 Le problematiche, non del tutto eliminate dal legislatore del 2007, poste da tale commistione tra deontologia e disciplina, sono affidate in vista di una soluzione alla giurisprudenza della Sezione disciplinare del CSM e delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, attraverso l’interpretazione sul punto, potrà sceverare fino a che punto l’originaria funzione «propulsiva» delle norme del codice possa formare la base di un addebito disciplinare.

Invero, il codice è essenzialmente uno strumento di autocontrollo, destinato ad operare in primo luogo all’interno della categoria, con esiti per loro natura non manifesti. Pur trattandosi di «norme effettive», esse esprimono nella sostanza come la categoria professionale intende gestire i comportamenti dei propri appartenenti e tendono a costruire una comune coscienza etica degli stessi.

Il codice si assegnava, altresì, e storicamente ha avuto, una funzione di benchmark, di strumento cioè di controllo da parte dei cittadini e degli altri operatori professionali, che – facendo riferimento al codice – hanno la possibilità di distinguere il giudice laborioso, corretto, preparato, imparziale e indipendente, vitalizzando la credibilità della magistratura, ovvero anche stimolando la presentazione di doglianze contro lo Stato o lo stesso giudice, anche solo ai fini della sua valutazione di professionalità, in caso di mancanze. E’ evidente, dunque, la funzione anche di early warning che la diffusione del documento può avere.

Alcune regole deontologiche

1)Il principio di indipendenza.

L’ art. 8 del codice etico impone ad ogni magistrato di garantire e difendere l’ indipendente esercizio delle proprie funzioni all’ esterno e all’ interno dell’ ordine giudiziario.

Si tratta di un principio già dettato dalla Costituzione all’ art. 101 comma 2, ai sensi del quale I giudici sono soggetti soltanto alla legge.

A livello sovranazionale, l’ art. 6 comma 1 della CEDU Ogni persona ha diritto ad un’ equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge.

E l’art. 47 comma 2 della Carta dei Diritti recita che Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata…… da un giudice indipendente e imparziale.

L’indipendenza sia del singolo magistrato che dell’ intero ordine giudiziario è quindi direttamente strumentale all’ imparziale applicazione della legge ed all’ uguale trattamento di tutti i cittadini.

A tutela dell’indipendenza l’art. 98 ultimo comma della Costituzione dispone che si possono con legge stabilire limitazioni al diritto di iscriversi ai partiti politici per i magistrati.

In adesione a tale indicazione l’art. 3 comma 1 lett. h) del  d.lgs. n. 109 del 2006 ha configurato come illecito disciplinare l’ iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici.

E il comma 3 del citato art. 8 del codice deontologico sancisce che il magistrato evita qualsiasi coinvolgimento in centri di potere politici o affaristici che possano condizionare l’ esercizio delle sue funzioni o comunque appannarne l’ immagine.

Il principio di indipendenza è così rilevante per il magistrato che il comma 4 dell’art. 8 dispone che ad esso egli deve ispirare la sua condotta anche nello svolgimento di funzioni amministrative, in particolare anche nel caso dei magistrati che non esercitano attualmente funzioni giudiziarie per essere stati temporaneamente collocati fuori ruolo.

E l’ art. 1 comma 2 richiama il valore dell’ indipendenza anche nell’ esercizio dell’ attività di autogoverno, così riaffermando che è compito del CSM effettuare scelte ispirate al rispetto della normativa primaria e secondaria e dirette unicamente al miglior funzionamento della giurisdizione, al di fuori di ogni logica correntizia.

Essere indipendente significa non porsi pregiudizialmente dalla parte del potere, ma neppure sentirsi in via preconcetta come contropotere.

Ciò significa, per esempio, anche evitare di porsi in alternativa al potere legislativo, costruendo un alternativo diritto vivente in certi campi, come quello della bioetica e del biodiritto, con eccessi interpretativi ed eccessiva creatività giurisprudenziale.

Significa seguire La Costituzione e le norme sovranazionali e nazionali, con la piena consapevolezza che l’unica fonte della legittimazione del magistrato consiste nella autorevolezza delle decisioni adottate.

Significa inoltre tenere un atteggiamento di massima prudenza nell’ accettare inviti o nell’ instaurare nuovi rapporti amicali.

Il primo comma dell’art. 8, altresì, fa riferimento al dovere di mantenere una immagine di imparzialità ed indipendenza richiama il valore dell’apparenza: dovere non solo di essere, ma anche di apparire imparziale ed indipendente

2)Il principio di imparzialità.

L’ art. 111 Cost fa riferimento al processo da svolgere davanti ad un giudice terzo e imparziale.

Il principio di imparzialità è connesso a quello di eguaglianza, così da richiamare anche l’ art. 3 comma 1 Cost.

Imparzialità non vuol dire lontananza o disinteresse alle vicende politiche e alle questioni di rilevanza sociale che investono il Paese, ma si sostanzia piuttosto in una giustizia del caso concreto ispirata unicamente ai principi dell’ordinamento ed immune da ogni pregiudizio.

L’art. 9 prevede un complesso di regole cui informare il proprio comportamento: il rispetto della dignitàdi ogni persona, il rifiuto di ogni discriminazione e pregiudizio.

Il comma 2 infatti (impegnandosi a superare i pregiudizi culturali che possono incidere sulla comprensione e valutazione dei fatti e sull’ interpretazione ed applicazione delle norme)esprime l’ acquisita consapevolezza della necessità di estirpare il pregiudizio.

Il pregiudizio si identifica in un atteggiamento interiore, in un modo di esistere e di pensare, in un preconcetto indimostrato che deve essere rimosso attraverso un’acquisizione di consapevolezza e la messa in discussione delle basi concettuali sulle quali esso si fonda.

Questo impegno a rifiutare ogni tipo di discriminazione costituisce concreta attuazione del precetto di cui al secondo comma dell’art. 3 Cost..

L’ art. 13 riguarda il pubblico ministero: il pubblico ministero si comporta con imparzialità nello svolgimento del suo ruolo: il valore dell’ imparzialità deve orientare l’attività di indagine in direzione della ricerca della verità attraverso l’acquisizione di elementi di prova anche a favore dell’indagato, secondo un principio già dettato dall’ art. 358 c.p.p.

3)Il dovere di aggiornamento professionale.

L’art. 3, nell’ elencare i doveri di operosità e di aggiornamento professionale, nell’ ultimo comma impone ad ogni magistrato il dovere di accrescere il proprio bagaglio di conoscenze e la propria professionalità attraverso uno studio costante e la partecipazione alle iniziative di formazione.

Nel senso non solo di un mero affinamento delle conoscenze tecnico-giuridiche e di una tempestiva informazione sui sopravvenuti interventi normativi o mutamenti giurisprudenziali, ma anche nell’acquisizione di strumenti culturali adeguati alla comprensione di realtà sociali sempre più complesse.

4)I rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione.

L’art. 6, nel disciplinare i rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione, pur consentendo al magistrato di fornire notizie sull’ attività giudiziaria al fine di garantire la corretta informazione dei cittadini e l’esercizio del diritto di cronaca, sempre che non sia tenuto al segreto, e pur facendo ovviamente salvo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, pone al magistrato il dovere di ispirarsi a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste.

Il secondo co. art. 6, impone di evitare la costituzione o l’utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati.

E impone inoltre (novità rispetto al codice del 1994), l’obbligo di astenersi dal partecipare a trasmissioni nelle quali sappia che vicende di procedimenti giudiziari in corso saranno oggetto di rappresentazione in forma scenica: per evitare la spettacolarizzazione della giustizia.

Infine, riguardo all’utilizzazione da parte dei magistrati dei social network, occorrerebbe forse un aggiornamento del codice etico.

5)  I doveri del dirigente.

L’ultimo articolo del codice etico pone una elencazione minuziosa dei doveri del dirigente.

E’ accentuata rispetto al testo del 1994 l’importanza data all’organizzazione, attraverso l’attribuzione della responsabilità delle questioni organizzative generali e di quelle che si riflettono sul lavoro del singolo magistrato.

E’ quindi a carico del dirigente la ricerca e la predisposizione delle migliori condizioni per il rendimento del servizio, anche in vista della formazione dei programmi di gestione ai sensi dell’ art. 37 del d.l. n. 98 del 2011, nonché l’elaborazione di nuove prassi che siano espressione di un accurato lavoro comune.

L’impegno organizzativo coinvolge comunque tutti i magistrati, che ai sensi del comma 1 dell’art. 3 sono chiamati ad impegnarsi affinchè alla domanda di giustizia si corrisponda con efficienza, qualità ed efficacia ed ai sensi del comma 2 sono tenuti a partecipare attivamente e con assiduità ai momenti organizzativi e di riflessione comune interni all’ ufficio.

Connesso a ciò è il dovere (art. 11, ultimo comma) di fare tutto quanto è in suo potere per assicurare la ragionevole durata del processo, adottando prassi processuali virtuose e moduli organizzativi adeguati, concorrendo all’ attuazione di quella politica dell’ efficienza imposta dal nuovo testo dell’ art. 111 Cost.

La magistratura italiana a confronto con alcune magistrature straniere

Quello italiano del 1994 è il primo codice etico della magistratura nell’ambito europeo.

Il codice etico anticipa di pochi giorni la Raccomandazione del Comitato dei Ministri n. 12 del Consiglio d’ Europadel 2010 sul tema Indipendenza, efficienza e responsabilità dei giudici, con cui sono state dettate indicazioni volte ad accrescere l’impegno nella formazione professionale e la consapevolezza deontologica dei magistrati, incoraggiando la redazione di codici di etica giudiziaria da parte degli stessi magistrati, aventi contenuto più ampio della definizione degli illeciti disciplinari, nonché la creazione di comitati consultivi di etica.

Va altresì ricordato che nella coeva Magna Charta dei giudici adottata dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei (CCJE) del 17 novembre 2010 sono stati enunciati i principi fondamentali sia in tema di garanzie di indipendenza della magistratura che di deontologia e responsabilità dei magistrati.

In precedenza a livello internazionale, nell’ ambito della tavola rotonda tenutasi a L’ Aja dei presidenti delle Corti Supreme dei Paesi di civil law del 25-26 novembre 2002, su mandato ONU, erano stati approvati i Principi di condotta giudiziaria di Bangalore, volti a fissare standard per la condotta deontologica dei giudici, nei quali rivestiva valore primario il concetto di propriety, ossia il principio che impone il rispetto da parte del giudice di quanto viene reputato conveniente ed appropriato nell’ ambiente sociale in cui opera, nonché quello di appearance of propriety, a tutela del bene fondamentale dell’ immagine.

Si è detto che i principi di indipendenza ed autonomia rappresentano i corollari della magistratura italiana, ma questo non è una prerogativa comune agli altri ordinamenti giudiziari.

In Francia i giudici e il Pm appartengono allo stesso corpo, ma il Pm, a differenza di quello italiano, dipende interamente dal Ministero di Giustizia. I suoi uffici hanno una struttura gerarchica con capi subordinati direttamente al Ministero di Giustizia, il quale ha potere direttivo, di sorveglianza e di disciplina in capo al Pm e ne può determinare anche la progressione in carriera. Sono amovibili e non hanno l’obbligo dell’azione penale.

I meccanismi di promozione o l’azione disciplinare dipendono dal Ministro sia nei confronti dei giudici sia nei confronti del Pm. Nell’ordinamento francese il carattere burocratico incide molto sui profili dell’indipendenza dei giudici i quali infatti godono di garanzie ridotte.

Negli ultimi decenni i poteri del giudice francese sono cambiati: interpreta, argomenta, dialoga, compara, costruisce, completa la legge. Questo nuovo ruolo fa sorgere nuove responsabilità. Il giudice deve essere responsabile (dal punto di vista civile, penale e disciplinare) e deve anche tenere una certa immagine per quanto riguarda il suo operato. “Sembra che oggi, in Francia la legittimità di un giudice non dipenda più esclusivamente dal suo potere di giudicare gli altri, ma anche dalla maniera in cui lo fa. È proprio in tale contesto che la questione della deontologia dei magistrati è riapparsa in Francia.”

È negli anni Ottanta che si è ripresentata la necessità di avere delle norme deontologiche e il consiglio superiore della magistratura è riuscito a creare un corpo di regole di deontologia e di principi a valore normativo. Tra questi principi deontologici i più importanti sono: doveri d’imparzialità e d’indipendenza del giudice, il dovere di riserbo, la legalità, l’esigenza di delicatezza, di dignità e di onore, oltre al dovere di lealtà e di onestà.

La Germania è un ordinamento suddiviso in vari Land. Ad essi spettano compiti come il reclutamento e la disciplina dello status dei giudici, mentre l’organizzazione dei tribunali presenti in ogni stato è regolata in modo uniforme in tutta la Repubblica federale.

La pubblica accusa spetta a funzionari diversi dai giudici e reclutati separatamente. Sono nominati dal Ministero della Giustizia federale, mentre le sanzioni che li riguardano vengano stabilite da tribunali composti da giudici e da funzionari del Pm.

La pubblica accusa tedesca è caratterizzata dall’obbligatorietà dell’azione penale, ma nonostante questo, è alle dipendenze del potere esecutivo e deve seguire le sue direttive.

La magistratura tedesca ha un’organizzazione fortemente burocratica che attenua l’indipendenza del magistrato.

La mentalità tedesca è molto rigorosa tant’è che i cittadini stessi tendono a violare meno le regole, hanno una maggior fiducia nei giudici poiché ritengono che questi ultimi siano i primi a rispettare le regole e di conseguenza impugnano di meno le sentenze.

Questo clima di fiducia fa sì che la magistratura tedesca non sia dotata di un codice deontologico, perché sostanzialmente non ne ha bisogno.

A partire dagli anni 2000 però si è iniziato a nutrire interesse verso la deontologia giudiziaria, ma ci si trova dinnanzi ad un problema ossia la competenza decentrata di ciascuno Land in materia di amministrazione della giustizia. Quindi la deontologia tedesca è priva di quella dimensione collettiva che è tipica invece della magistratura italiana.

Paesi come la Slovenia e la Repubblica Ceca, dopo la caduta del muro di Berlino, si sono dotati di codici e principi deontologici, hanno avuto una magistratura forte, con un ruolo centrale ed associazioni nazionali di magistrati. Un destino molto simile a quello italiano, ma tale affinità si è limita a questi aspetti. I codici etici, infatti, non sono riusciti nel loro intento questo a causa di una magistratura non ancora “risanata”. Sono paesi ove la magistratura al suo interno è molto contradditoria, è viziata dalla corruzione e i cittadini non rimpongono fiducia nei propri giudici. Fino a quando non si riuscirà a cambiare la realtà giudiziaria non sarà possibile l’adozione di strumenti deontologici.

Gli Stati Uniti d’America appartengono al sistema di common law e sono una Repubblica federale di tipo presidenziale. Il diritto del paese si basa sulla Costituzione. Il sistema federale è costituito da tre poteri: legislativo, giudiziario ed esecutivo.

Il potere giudiziario degli Stati uniti è affidato alla Corte Suprema e ai vari Tribunali di ordine inferiore riconosciuti dal Congresso.

I giudici statali come il Pm vengono selezionati mediante un processo di elezione diretta che può essere differente nei vari States.

“È incontestabile che il sistema di elezione diretta, inevitabilmente, quale che sia il sistema prescelto, espone a rischi di un imprintig politico della funzione giurisdizionale che svilisce, di per sé, il carattere di imparzialità e le esigenze di alta qualificazione professionale che la carica richiede.

I giudici federali vengono nominati dal Presidente degli Stati Uniti, la valutazione è affidata alla Commissione di Giustizia del Senato e la votazione, con maggioranza semplice, finale spetta al Senato. E’ un processo che ha chiare valenze politiche che emergono dai criteri adottati dal Presidente per la nomina che attengono all’appartenenza politico-ideologica del giudice e alla tendenza del Senato di “sconfessare le scelte dell’esecutivo nel caso di maggioranze politiche diverse da quella presidenziale. Questo approccio politico pare essere in contrasto con il principio di imparzialità del giudice”, ma in realtà la Costituzione garantisce l’indipendenza del potere giudiziario stabilendo che i giudici federali possono restare in carica fino a che non vengono destituiti a seguito dell’impeachment e qualora il Congresso non abbia accertato nei loro confronti atti di tradimento, corruzione o altri gravi reati.

(Il Congresso è l’organo legislativo del Governo federale degli Stati Uniti d’America ed è costituito da due camere: il Senato e la Camera dei Rappresentanti).

Anche il Pm viene nominato mediante un’elezione diretta come quelle politiche o amministrative.

In questo sistema, quindi, la legittimazione dei magistrati è di natura politico-democratica, ossia fondata o sulla nomina o sull’elezione e il rapporto che viene ad instaurarsi è riconducibile o ad una responsabilità nei confronti dei cittadini o ad una responsabilità verso il potere esecutivo che ha provveduto alla nomina nel caso in cui l’operato di questi giudici non sia conforme al programma promesso durante la “campagna elettorale’’.

La Conferenza Giudiziaria degli Stati Uniti prevede un codice deontologico a cui i giudici federali devono attenersi. “Questo codice e i pareri sulla sua interpretazione forniscono ai giudici una guida su questioni riguardanti l’integrità e l’indipendenza della magistratura, la diligenza e l’imparzialità del giudice, le attività extra-giudiziarie consentite, e i criteri cui attenersi per evitare comportamenti impropri o che possano anche soltanto apparire tali.”

(‘La Conferenza Giudiziaria degli Stati Uniti è l’ente dei tribunali federali incaricato di determinare le politiche. E’ presieduta dal Presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti ed è composto da altri 26 giudici. È assistita nel suo lavoro da oltre 20 comitati, i cui membri sono nominati dal Presidente della Corte Suprema).

In Gran Bretagna la nomina dei giudici avviene in maniera discrezionale ad opera del Lord Chancellor, il sistema funziona per gli stessi motivi per cui funziona negli Stati Uniti.

Conclusione

Dall’analisi appena conclusa sugli ordinamenti di alcuni Stati europei e di quello americano è emerso che, nella maggior parte dei casi, sono Paesi in cui è presente un forte legame tra la magistratura e il potere esecutivo. Si tratta di Stati in cui non è necessario avere un codice deontologico, perché il “clima giurisdizionale” presente fa sì che i giudici già di per se rispettino queste norme comportamentali, morali senza bisogno che vengano positivizzate (anche se negli ultimi anni hanno iniziato anche loro a dotarsi di questi codici).

Nel nostro ordinamento, invece, non è possibile avere una dipendenza dei giudici dal potere esecutivo, perché questo, come conseguenza inevitabile, comporterebbe interferenze sull’operato dei magistrati facendone venir meno l’indipendenza e l’imparzialità.

SILVIA VITRO’

BIBLIOGRAFIA

I principi deontologici nella professione del magistrato, Gabriella Luccioli, pubblicato sulla rivista www.giudicedonna.it, 1/2018;

Profili comparatistici della magistratura, Roberta Lucchese, relazione universitaria, 2018;

Assetti della giustizia civile e penale in Italia, di P. Biavatti, D. Cavallini, R. Orlandi, 2016

Lezioni di procedura penale di G. Lozzi, 2014

Il codice etico dei magistrati italiani: un esempio per l’Europa, Raffaele Sabato, in AA.VV., Cento anni di Associazione Magistrati, Milano, IPSOA, 2009 

Deontologia giudiziaria – Il codice etico alla prova dei primi dieci anni di L. Aschettino, D. BIifulco, H. Épineuse e R. Sabato, Napoli, Jovene, 2006   

L’ordinamento giudiziario fra diritto comparato, diritto comunitario e CEDU, in Politica del diritto, n. 4, di S. Gambino e G. Moschella, 2005

di Marco Chiappetta

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PARIGI, 15 novembre 2015  – “Venerdì 13” è il titolo di una famosa serie di film horror e quanto è successo in questo orribile giorno dal titolo macabro è l’ultimo seguito di una saga orrorifica che sembra non avere fine, ma che ha già stancato tutti. La morte ha colpito quasi a ciel sereno, perché la guardia si era abbassata e gli orrori dello scorso gennaio gettati nel cestino come giornali vecchi e ingialliti. Le bestie selvagge che hanno ucciso la gioia di vivere di innocenti il cui crimine era divertirsi hanno colpito il cuore di un’Europa che ha da poco saputo di avere un tumore troppo a lungo trascurato. Il male è dentro casa, ha la stessa nazionalità delle vittime, risponde allo stesso tricolore con cui le vite spezzate sono ora onorate. Sotterrato così in fondo, sepolto laddove sembra non vederlo, ma è lì che le radici crescono, già malate e mortifere, strangolando tutto quello che toccano. È la guerra, parola brutta e odiosa, ma alla quale bisogna abituarsi. Non mi dispiace di non avere una testimonianza scioccante di venerdì 13 novembre. Non ero in strada, per un caso fortuito e per una pigrizia insolita per essere venerdì sera io e la mia ragazza eravamo a casa pronti a vedere proprio un film horror, secondo un rituale domestico abusato, ma non ci aspettavamo tanto quando gli schermi ci hanno offerto il più feroce e sanguinoso e purtroppo autentico degli spettacoli. E poi una notte di incubi e angosce, la porta chiusa a plurime mandate, un giorno intero chiusi in casa come topi assaporando quel tipo di esperienza raccontato mille volte dai nostri nonni, il silenzio funerario di un condominio e di un quartiere (Montmartre) solitamente movimentato e incasinato fino a causare insonnia, l’orrore moltiplicato dei social e delle televisioni (unica distrazione possibile in un giorno in cui era impossibile distrarsi altrimenti), tutto ciò ha formato un mosaico di rassegnazione e abitudine al male che è la vera radice di questo ennesimo lutto che portiamo dentro, il nostro cancro personale. Ma oggi non abbiamo rinunciato alla libertà e alla gioia di vivere, e con la morte nel cuore abbiamo deciso di uscire e respirare l’aria parigina, in una domenica quasi primaverile, in cui persino i turisti sembrano più taciturni e meno molesti, e la gente nei café, sulle terrazze, nel métro, pochi e muti, hanno sguardi cupi e infiniti silenzi e brevi parole e immense solitudini.

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Passiamo per la Place de la République, per la seconda volta in un anno lucernario di chi piange la Francia sconfitta, e quei luoghi dell’11° arrondissement, che mi avevano accolto quattro anni fa al mio arrivo a Parigi e dove tanta giovinezza è trascorsa in notti baudeleriane, sempre così pieni di gioia e vita, e oggi così infinitamente tristi con le transenne della polizia, gli omaggi floreali e le candele spente e biglietti dell’umanità di passaggio, i turisti alla ricerca di un istantaneo successo su Instagram o di un ricordino del loro viaggio, le lacrime vicino a un bar di chi conosceva una delle vittime. Presso la statua della piazza, dedicata alla gloria della repubblica francese, un bambino musulmano con una bandiera della Francia e sua madre con la bandiera algerina si riparano con un ombrello di verità dalla pioggia dei pregiudizi. A pochi passi, sul Boulevard Voltaire, il Bataclan e il suo cartellone della serata tragica si intravedono tra le foglie di un giardino circostante, così come il terribile vicolo in cui cadaveri venivano trascinati dai sopravvissuti, là dove da un’alta finestra una donna preferiva stare in bilico sul vuoto che finire crivellata nella carneficina fatta in nome di un Allah diverso, sconosciuto e per nulla akbar, per nulla grande. È una passeggiata quasi macabra e surreale, in luoghi che una trentina d’ore fa erano pieni di rumore, morte e strazio, oggi tranquilli e pacifici, insospettabili, visitati come musei dell’orrore, come un campo di concentramento ormai innocuo in cui il male è passato e scomparso lasciando una pace beffarda e illusoria. Parigi non brucia come l’idiota messaggio delle bestie neonaziste e nemmeno come nella poesia di Nazim Hikmet, ma brucia della passione, della cultura, della joie de vivre e del bonheur che l’hanno resa una città dai mille volti e dalle mille vite. Molti negozi sono chiusi, i cinema restano al buio e i concerti muti, senza musica né spettatori, ma a poco alla volta la gente esce, respira, parla e vive, e riattiverà l’orologio della vita, con i suoi riti sociali, il divertimento e il lavoro, perché non si piegherà alla morte e alla paura. Resisterà, come ha fatto coi primi nazisti, settant’anni fa. Come dopo Charlie Hebdo, dieci mesi fa. Sarà ancora più dura, ora che tutti siamo coinvolti, ora che morire è più facile di dormire. Le bestie del sedicente stato islamico (scritto in minuscolo perché minuscoli sono) hanno attaccato la sedicente città dell’abominio e della perversione perché per loro andare allo stadio, bere alcol, assistere a un concerto rock, andare a cena fuori sono i simboli della routine di un paese felice e civilizzato, certo perversa per chi crede che uccidere e morire in nome di bugie sia un valore.

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Il Bataclan, sul Boulevard Voltaire
 

È sempre una guerra sociale, e prima ancora che le indagini siano complete, posso esprimere la mia quasi certezza, come per gli attentati di Charlie Hebdo, che chi ha commesso tali atrocità vive in seno alla stessa società francese, ha origini remote certo ma è francese, o almeno tanto radicato in questo paese da conoscerne e odiarne gli ingranaggi, vive ai margini di banlieue dimenticate che sono ghetti in cui l’integrazione, forse anche a causa dei francesi stessi, è impossibile se non con la gente della stessa risma, ugualmente frustrata e repressa. Per loro la jihad deve essere qualcosa che li riscatti dalla vita di miseria e frustrazione che vivono a pochi chilometri di distanza dalla “perversa” movida degli aperitivi, dal lusso e dalla cultura della Ville Lumière, ciò che gli è stato vietato o che non hanno mai voluto. Vivono separati in casa, come stati interni uccisi da questioni arcane, una Gaza culturale senza muri se non quelli del pregiudizio sociale. La strage di venerdì, più di quella di gennaio (che, cinicamente, ci sembra quasi una bazzecola), non farà, purtroppo, che aumentare queste scissioni, fomentando l’odio e facendo proprio il gioco di terroristi che ci vogliono coinvolti in una guerra civile, cane mangia cane. È in questo massacro intellettuale, aambito dagli sciacalli della destra d’Italia a cui fa capo il medievale signor Salvini, che rischiamo di soccombere. Così come è squallido, fuori luogo, l’invito al cinismo e all’ipocrisia di chi critica l’empatia di questi giorni in rapporto al presunto oblio degli altri paesi colpiti dai nuovi nazisti. No, cari ipocriti e cinici, nessuno ignora Beirut, Tunisi, Ankara e l’aereo di Sharm, ma è umano, storico, lapalissiano, che proprio come la morte di un proprio parente ci tocchi più di quella di uno sconosciuto, così il dramma di un paese così vicino, di un continente piccolo e caldo come il nostro, ci sconvolga più di ciò che accade in paesi di cui molti hanno bisogno di una ricerca su Google per conoscere ubicazione geografica, usi e costumi. Le vite umane non hanno un peso etnico sulla bilancia, ma l’orrore in seno all’Europa patria di civiltà e democrazia fa certo più scalpore ed empatia di paesi a cui il perenne stato di guerra e tensione e inumane follie incivili appena raccontate dai media ci hanno abituati a una naturale, ovvia, rassegnata indifferenza al male del mondo non per forza colpevole. Parigi resisterà, anche se ora tante sue famiglie sono come tavoli con gambe mozzate, e le voci sono roche o senza fiato, Parigi resisterà e vivrà e combatterà. Ancora una notte è calata, ma già un’altra alba sorge, in questa città che vogliono cimitero e prigione, ma che non smetterà mai di credere al trinomio di valori che accompagna il suo tricolore. Theodor Adorno disse che dopo Auschwitz era impossibile fare della poesia, ma si sbagliava, perché si è continuato a fare poesia dopo Auschwitz, dopo il Vietnam, dopo le Torri gemelle, dopo Charlie Hebdo, e si continuerà a fare poesia, già da oggi e tutti i giorni, anche dopo il 13 novembre. Paris Akbar!

Estratto da Il quotidianogiuridico.it

Dibattiti

Referendum costituzionale: Sì o No?

giovedì 27 ottobre 2016

Il 4 dicembre 2016 gli elettori italiani saranno chiamati ad esprimere il proprio voto (SI’ o NO) per confermare o respingere una legge di revisione costituzionale deliberata dal Parlamento. Dal voto degli italiani dipende, dunque, la conclusione di un processo riformatore che ha attraversato tutta l’attuale XVII legislatura, articolandosi in fasi diverse e che ha le sue radici in un lungo dibattito, di durata ormai più che trentennale. I principali contenuti della legge di revisione riguardano il superamento del bicameralismo paritario (o perfetto), la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la modifica del titolo V della parte II della Costituzione. Di seguito, pubblichiamo le autorevoli opinioni del Prof. Olivetti, a sostegno del Sì e del Prof. Tarli Barbieri, a supporto del No. E voi da che parte state? Sì o No?

Pro 60 %

Olivetti Marco Professore ordinario di diritto costituzionale nell’Università LUMSA di Roma

Contro 40 %

Tarli Barbieri Giovanni Professore ordinario di diritto costituzionale presso l’Università di Firenze

Pro

Olivetti Marco

Superamento del bicameralismo paritario

Il cuore della legge costituzionale approvata dalle due Camere è la riforma del bicameralismo.

Essa ha le radici nell’origine stessa del bicameralismo italiano del secondo dopoguerra, che fu deliberato in Costituente come conseguenza del mancato accordo fra le forze politiche. Il bicameralismo divenne uno dei temi più divisivi nei lavori della Costituente: dopo che l’impostazione democristiana era prevalsa nel Progetto di Costituzione elaborato dalla Commissione dei 75, l’Assemblea modificò incisivamente la struttura del Parlamento, che venne articolato in due Camere elette entrambe a suffragio universale, differenziate debolmente quanto ai requisiti di elettorato attivo e passivo, alla durata e al sistema di elezione, mentre la scelta sulla formula elettorale venne affidata a un ordine del giorno che prefigurava l’elezione della Camera con sistema proporzionale e quella del Senato con collegi uninominali. Alle due Camere vennero conferiti identici poteri: nella legislazione (ordinaria e costituzionale), nel rapporto di fiducia col governo, nel controllo parlamentare.

La prassi costituzionale si incaricò in seguito di neutralizzare i residui elementi di differenziazione, mentre la legislazione elettorale previde sistemi proporzionali per entrambe le Assemblee e la legge cost. n. 2/1963 eliminò la differenza nella durata. Il risultato fu uno strano bicameralismo-fotocopia, nel quale le due Camere operavano più come articolazioni di un organo orientato in maniera unitaria e coordinata (il Parlamento) che come componenti distinte e differenziate di questo.

Tuttavia, la crisi della Repubblica dei partiti e il passaggio nel 1993 ad un sistema elettorale prevalentemente maggioritario fece rapidamente riemergere i rischi che un sistema di bicameralismo paritario basato sulla doppia fiducia inevitabilmente porta con sé. Già nelle elezioni legislative del 27-28 marzo 1994 le maggioranze nelle due Camere non risultarono del tutto coincidenti e nelle successive consultazioni tale non coincidenza si riprodusse all’indomani delle elezioni del 2006 e, in forma più drammatica, nel 2013, mentre anche nel corso della legislatura eletta nel 1996 si verificarono disarmonie fra le due Assemblee. Al di là di quest’ultimo caso, si può dunque osservare che in tre elezioni politiche sulle sei dell’era del maggioritario le maggioranze delle due Camere non risultarono coincidenti.

Il culmine di questa vicenda venne raggiunto all’indomani delle elezioni del 24 e 25 febbraio 2013, quando, in presenza di due sistemi elettorali simili, ma parzialmente diversi per l’elezione delle due Camere (con un premio di maggioranza operante su scala nazionale alla Camera e su scala regionale al Senato, secondo quanto previsto dalla legge n. 270/2005), le Camere sono risultate composte con orientamenti politici diversi: mentre alla Camera dei deputati la coalizione di centro-sinistra ottenne il 29,6 per cento dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi, il Senato risultò composto da quattro gruppi principali (Partito democratico e altre forze di centro sinistra, centro-destra, Movimento cinque stelle, Scelta civica e altre forze di centro). La conseguenza fu la paralisi politica, che si manifestò dapprima nell’impossibilità per illeaderdel centro-sinistra Pierluigi Bersani di formare un nuovo governo e in seguito nell’impasse delle elezioni presidenziali, risolta solo con la rielezione dell’allora 88enne presidente Napolitano, cui fece seguito la formazione di un governo di grande coalizione, guidato da Enrico Letta, con un programma di riforma organica della Costituzione. Le contraddizioni del bicameralismo sono dunque al centro della riforma costituzionale e all’inizio del percorso per realizzarla.

La riforma costituzionale consacra il superamento del bicameralismo paritario, mentre una pluralità di disposizioni differenziano la posizione delle due Assemblee parlamentari nazionali sia quanto alle funzioni complessivamente loro spettanti (art. 55), sia quanto alla partecipazione al procedimento di formazione della legge statale (art. 70), sia, infine, per quanto concerne il rapporto fiduciario con il Governo (art. 94).

Su questa base (che si potrebbe definire la sua pars destruens), la riforma ha optato per una incisiva riforma del Senato. Fra le diverse possibili direzioni in cui la nuova configurazione della seconda assemblea parlamentare nazionale avrebbe potuto essere orientata, la riforma costituzionale del 2016 ha optato per la qualificazione del Senato come una Camera in cui sono rappresentate le istituzioni territoriali. Il “volto” del nuovo Senato ne risulta radicalmente modificato rispetto alla tradizione post-bellica: e ciò sia quanto alla composizione, alla modalità di elezione, alle funzioni e – per quanto in maniera sinora solo abbozzata – al funzionamento.

Riduzione del numero dei parlamentari

Il nuovo Senato sarà composto da 100 senatori, dei quali ben 95 dovranno essere al tempo stesso titolari di cariche politiche regionali (consiglieri regionali) o comunali (sindaci). I senatori sono infatti distribuiti fra le diverse Regioni e province autonome garantendo una soglia minima di due senatori a ciascuna Regione o provincia autonoma (un sindaco e un consigliere regionale). Le Regioni più popolose avranno poi un numero supplementare di senatori – eletti fra i consiglieri regionali – in proporzione alla popolazione regionale. In totale, il Senato sarà dunque composto da 74 senatori-consiglieri regionali e da 21 senatori-sindaci, cui andranno aggiunti 5 senatori nominati – come oggi, ma con un mandato non più vitalizio, bensì limitato a sette anni – dal Presidente della Repubblica fra i cittadini che abbiano illustrato la patria per altissimi meriti in campo sociale, scientifico, artistico e letterario.

Un Senato composto di eletti politici locali appare coerente con la configurazione dell’assemblea di Palazzo Madama come camera incaricata di rappresentare le istituzioni territoriali: questa funzione è infatti agevolata dalla circostanza che i futuri senatori saranno al tempo stesso membri dei consigli regionali o sindaci.

Competenze del Senato

La competenza all’elezione dei senatori, sinora spettante al corpo elettorale (rectius: alla parte di quest’ultima composta dai cittadini aventi un’età superiore a venticinque anni), viene ora attribuita – per 95 senatori su 100 – ai Consigli regionali e ai Consigli delle Province autonome. Va sottolineato che tali organi saranno competenti ad eleggere non solo i senatori-consiglieri regionali, ma anche i senatori-sindaci. Dagli organi rappresentativi regionali e delle province autonome deriveranno pertanto ben 95 senatori su 100 (come si è già detto gli altri cinque saranno nominati, come oggi, dal Presidente della Repubblica).

L’elezione dei senatori avverrà all’inizio del mandato di ciascun Consiglio regionale o provinciale, relativamente ai senatori (consiglieri regionali e sindaci) spettanti a ciascuna Regione. Di conseguenza non si verificheranno più elezioni generali per il Senato, salvo che per la prima elezione successiva all'(eventuale) entrata in vigore della riforma costituzionale. In seguito, il Senato sarà rinnovato in quota parte da ciascun consiglio regionale all’indomani della sua elezione. Inoltre, siccome ciascun senatore resterà in carica per un periodo corrispondente al mandato del Consiglio che l’ha eletto, ma alla condizione di conservare la propria condizione legittimante l’elezione (consigliere regionale o sindaco), occorrerà eleggere nuovamente il senatore-sindaco ogniqualvolta il senatore cesserà dalla carica di sindaco.

Riguardo al funzionamento del nuovo Senato, la riforma ha da un lato confermato i tratti tradizionali del volto “parlamentare” di tale Camera: l’esclusione del vincolo di mandato (art. 67), l’irresponsabilità per opinioni espresse e voti dati, la necessità dell’autorizzazione a procedere per la limitazione delle libertà personale, di domicilio e di corrispondenza. Un regime differenziato rispetto a quello previsto per i deputati è stato invece previsto per le indennità.

Al tempo stesso, la riforma si segnala per ciò che non prevede: essa non accoglie i tratti caratterizzanti del modello tedesco, quali le istruzioni vincolanti e il voto unitario per delegazione parlamentare regionale. Alcuni critici ne desumono senz’altro che, per queste ragioni, il Senato non potrebbe operare come Camera delle autonomie territoriali, ma questa conclusione appare eccessiva: del resto il Bundesrat germanico è un modello a suo modo unico, mai imitato integralmente da nessuna delle Costituzioni che pure si sono ispirate ad esso (si pensi alla Costituzione sudafricana del 1996). Sicché la possibilità che il nuovo Senato funzioni effettivamente come Camera delle autonomie territoriali, capace di portare nel procedimento legislativo statale il punto di vista delle Regioni e dei comuni, trova nella riforma costituzionale le condizioni strutturali di base che ne permetteranno l’effettiva concretizzazione, anzitutto in ragione del fatto che i membri del Senato saranno anche, allo stesso tempo, eletti locali. Proprio questa loro condizione – da molti superficialmente criticata con il risibile argomento che legge il Senato come un “dopolavoro” per consiglieri regionali e sindaci – è la chiave di volta di una riforma che scommette sulla possibilità che il Senato diventi l’anello di congiunzione fra il sistema delle autonomie e il procedimento di formazione della legge statale. Quanto alla critica, da taluni formulata, secondo cui sarà difficile per i consiglieri regionali ed i sindaci eletti senatori esercitare i due mandati, anch’essa appare superficiale, e trascura tutti i casi di doppio mandato noti al diritto comparato. Si tratterà, com’è ben evidente, di una questione di organizzazione. L’esercizio efficace del doppio mandato dipenderà dalla capacità del futuro Senato di organizzare se stesso in maniera completamente diversa dal Senato attuale, in modo da svolgere in tempi ristretti i compiti (tutt’altro che marginali) che la riforma costituzionale gli assegna, e di farlo in modo da non impedire ai suoi componenti di svolgere in maniera efficace il mandato “principale” (quello di consigliere regionale o di sindaco) dal quale dipende la condizione di senatore. Ma giudicare il Senato delineato dalla riforma avendo in mente il modo in cui funziona quello attuale è operazione intellettualmente poco ordinata: la discontinuità del nuovo Senato rispetto a quello previsto dal testo oggi vigente è assai netta, simile a quella che si produsse fra il Senato regio e quello repubblicano. I problemi di funzionamento della nuova “camera alta” vanno giudicati con un approccio culturale che colga tutte le novità apportate dalla riforma.

Le funzioni attribuite al Senato sono oggetto di una articolata elencazione nell’art. 55.5 Cost., e a quelle ivi indicate vanno aggiunte quelle risultanti da altre disposizioni costituzionali, ove i meccanismi ivi previsti non siano riconducibili alle funzioni enumerate nell’art. 55.

La partecipazione all’esercizio della funzione legislativa resterà, in tale contesto, una delle funzioni più importanti del nuovo Senato. Essa avverrà in modi diversi, a seconda dei quattro procedimenti legislativi delineati nell’art. 70.

In primo luogo, il Senato resterà competente ad approvare le leggi, su un piano di piena parità con la Camera, nelle materie elencate nel primo comma dell’art. 70. Si tratta di un elenco significativo, che include, oltre alle leggi costituzionali, anche una serie di leggi ordinamentali relative alle autonomie territoriali ed al Senato, in materia di processo di integrazione europee e di attuazione degli istituti di democrazia diretta. L’elenco è ovviamente discutibile da un punto di vista analitico, ma appare condivisibile nella misura in cui è ispirato all’idea di escludere dall’area delle leggi bicamerali le leggi che regolamentano le grandi politiche pubbliche (che ricadono invece nella sfera di operatività del procedimento generale, di cui si parlerà subito appresso) e di affidare alla competenza paritaria delle due Camere solo leggi ordina mentali, che delineano le regole del gioco dei rapporti fra i diversi livelli di governo (Stato, Unione europea, autonomie territoriali).

In tutti gli altri casi, la partecipazione del Senato al procedimento di formazione delle leggi non avverrà più su un piano di parità, ma la Camera alta sarà collocata in una condizione di subordinazione rispetto alla Camera dei deputati, eletta a suffragio universale. Questa, del resto, è la condizione in cui si trovano le seconde Camere dei parlamenti di tutti gli Stati europei (con la sola eccezione, fino ad oggi, del nostro Paese e della Svizzera): quella del bicameralismo non più paritario ma asimmetrico.

La regola generale del procedimento di formazione della legge, in base alla riforma, sarà dunque quella regolata dall’art. 70, 3° comma: una volta approvata dalla Camera, una delibera legislativa verrà trasmessa al Senato, il quale potrà decidere di esaminarla e a tal fine sarà sufficiente la richiesta di un terzo dei senatori, che dovrà essere presentata entro dieci giorni dalla trasmissione della delibera legislativa. Una volta formulata tale richiesta, il Senato avrà a disposizione un mese di tempo per esaminare la delibera legislativa approvata dalla Camera e per formulare, ove lo ritenga opportuno, delle proposte di modificazione. Queste dovranno essere trasmesse alla Camera, alla quale spetterà la decisione finale: essa potrà accettare le proposte di modificazione deliberate dal Senato o mantenere il testo originario. In entrambi i casi il Capo dello Stato potrà procedere alla promulgazione e alla pubblicazione della legge. Un allungamento dei tempi del procedimento pare ipotizzabile solo nel caso in cui la Camera approvi, in sede di seconda deliberazione, nuove modifiche alla delibera legislativa, che in tal caso dovrebbero essere trasmesse al Senato, il quale potrebbe esercitare su di esse il potere di richiamo. Oppure nel caso in cui il Presidente della Repubblica rinvii al Parlamento la legge approvata secondo il procedimento che si è visto.

Rispetto allo schema procedimentale ora brevemente esposto, i commi 4 e 5 dell’art. 70 prevedono poi due varianti ben identificate: quello della legge di bilancio e quello di una legge adottata nell’esercizio della clausola di supremazia, vale a dire del potere, ora riconosciuto alla legge statale, di intervenire, a tutela dell’interesse nazionale, anche al di fuori delle materie su cui è riconosciuta competenza allo Stato. La procedura del 4° comma, e quella del 5° comma, dell’art. 70 tentano di riconoscere al Senato una partecipazione più intensa al procedimento di formazione della legge statale rispetto a quella possibile in via generale ai sensi dell’art. 70, 3° co., ma senza arrivare ad attribuire alla Camera delle autonomie territoriali un vero e proprio potere di veto, come accade nel caso del procedimento legislativo bicamerale.

Contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni e soppressione del CNEL

Riguardo alla riduzione del numero dei parlamentari, al contenimento dei costi delle istituzioni e alla soppressione del CNEL è possibile limitarsi ad alcune sintetiche osservazioni. Il numero dei parlamentari elettivi viene incisivamente ridotto, da 945 (630 deputati più 315 senatori) a 725 (630 deputati più 95 senatori elettivi). Ma la riduzione è in realtà più ampia: i futuri 95 senatori elettivi, infatti, saranno titolari anche di un’altra carica (quella di consigliere regionale o di sindaco) e non riceveranno emolumenti ulteriori rispetto a quelli loro spettanti in virtù di tale carica. Ne deriva che la riduzione del numero delle cariche politiche elettive è pari al numero degli attuali senatori elettivi.

Da questo dato risulta, evidentemente, una riduzione dei costi di funzionamento delle istituzioni, che dovrebbe essere incrementato anche da una riduzione dei costi del Senato, stante il nuovo ruolo costituzionalmente attribuito a questa assemblea. A ciò si aggiunge il risparmio derivante dalla soppressione del CNEL e quello che segue alla eliminazione dei rimborsi ai Consigli regionali. Il senso di queste misure va adeguatamente apprezzato, senza indulgere a facili populismi che individuino nella riduzione del numero dei parlamentari la panacea di tutti i mali, ma cogliendo il segnale di un’esigenza di maggiore sobrietà della politica che queste misure intendono lanciare e che è ovviamente auspicabile rimanga una scelta di sistema e non si esaurisca in una sorta di spot pubblicitario.

Quanto alla soppressione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, occorre ricordare come tale organo sia stato la traduzione organizzativa debole e infelice di un’idea dalle grandi potenzialità. Il CNEL era infatti nel disegno dei Costituenti la punta dell’iceberg dell’aspirazione a riconoscere uno status costituzionale alle principali manifestazioni del pluralismo nella vita economica (le categorie produttive). E’ ormai certo che esso non è riuscito a guadagnarsi un ruolo adeguato ad esprimere questa istanza, e dunque sarà molto difficile rimpiangerne la soppressione. Tuttavia l’esigenza per cui esso era stato previsto conserva valore, e dovrà trovare adeguato riconoscimento nella cultura politica e nelle prassi istituzionali.

Revisione del titolo V della parte II della Costituzione

Per quanto concerne la nuova riforma del titolo V, la parte della Costituzione relativa alle autonomie territoriali, già integralmente riscritta fra il 1999 ed il 2001, è fatta oggetto di un intervento di ristrutturazione complessiva, incentrato sulla ridefinizione del riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni, oltre che di una semplificazione del sistema delle autonomie nel suo complesso.

Quest’ultimo viene realizzato mediante la decostituzionalizzazione delle Province, lasciando così alle fonti (statali e regionali) di rango sub costituzionale la potestà di continuare a prevederle o di sopprimerle. La riforma costituzionale offre così copertura costituzionale ai processi avviati dalle riforme legislative del governo Monti e consolidati dalla legge Del Rio.

Riguardo al riparto di competenze legislative, le novità principali sono le seguenti:

a) La soppressione della competenza legislativa concorrente, che ha caratterizzato sin dall’origine il regionalismo italiano e che, con qualche eccesso di fretta, è stata ritenuta la responsabile della mancata chiarezza nella divisione dei ruoli previsti in Costituzione per Stato e Regioni.

b) Il trasferimento in capo alla legislazione esclusiva statale di ben 26 nuove materie rispetto al 2001, delineando un quadro di indubbia ri-centralizzazione legislativa.

c) Il mantenimento della potestà residuale delle Regioni, per tutte le materie non espressamente attribuite alla legge statale.

d) L’enumerazione indicativa di alcune competenze legislative regionali, nell’ambito di una competenza generale dello Stato a stabilire le disposizioni generali e comuni.

e) La facoltà del legislatore statale di intervenire anche “fuori materia”, vale a dire nelle materie residuanti in capo alla Regione, quando ciò sia richiesto da ragioni di interesse nazionale.

Da questo pur sommario elenco risulta chiara la direzione complessiva della riforma del titolo V: essa è quella di una chiara ri-centralizzazione legislativa. La “mano pesante” del legislatore di revisione, che non ha resistito alla tentazione di ridefinire nel complesso il riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni, invece di limitarsi ad una puntuale correzione – da più parti richiesta – di vari aspetti della riforma del 2001, genera non poche perplessità. Una soluzione più cauta e prudente sarebbe stata senz’altro preferibile. Ma anche chi si collochi – come a noi pare necessario – in questa prospettiva almeno parzialmente critica, non può non inserire questa critica in un contesto più ampio, che induce a relativizzarla.

Tre dati devono, a nostro avviso, essere considerati.

Il primo è che la ri-centralizzazione che senza dubbio caratterizza la riforma è limitata alla legislazione e non si estende all’amministrazione, la quale è retta dal principio di sussidiarietà, che non viene modificato dalla riforma: l’indicazione costituzionale resta pertanto quella attuale, secondo cui le funzioni amministrative devono essere collocate – fin quando possibile – al livello di governo più vicino al cittadino.

Il secondo dato è che la ri-centralizzazione legislativa è senza dubbio pronunciata se s confronta il testo della riforma con il testo formalmente vigente, vale a dire con la riforma del 2001. E’ tuttavia largamente noto che tale testo è stato largamente svuotato in sede di attuazione: disatteso ab initiodal legislatore statale, che non lo ha mai considerato come un autentico limite alle sue competenze e ha invece continuato a legiferare etsi titulus quintus non daretur. Inoltre la riforma del titolo V non è mai stata presa sul serio dalla giurisprudenza costituzionale, i cui orientamenti, dopo qualche timida apertura iniziale (ad es. la sent. 282/2002), si sono assestati sulla linea di un antiregionalismo ben consolidato, rinunciando a proteggere le attribuzioni legislative regionali e riconoscendo alla legge statale vari titoli di competenza ulteriori rispetto a quelli risultanti da una lettura rigorosa del testo costituzionale (si v. i meccanismi della “chiamata in sussidiarietà” e le numerose e variegate competenze trasversali del legislatore statale). Infine, la riforma del 2001 è stata definitivamente seppellita dopo il 2010, a causa della crisi economica e in nome delle esigenze di riduzione o di contenimento della spesa pubblica, che hanno trovato nella competenza statale in materia di coordinamento della finanza pubblica la via per riportare alla legge statale la competenza della competenza. In sintesi: il titolo V del 2001 è già oggi un cumulo di macerie. La mano pesante del legislatore di revisione interviene a battaglia già perduta per le Regioni, come ben dimostra la scarsa resistenza delle Regioni stesse di fronte ad un’operazione politica di forte riduzione della loro autonomia legislativa.

Il terzo dato è rappresentato dalla “compensazione” che per le Regioni può essere rappresentata – rispetto alla perdita di competenze legislative (peraltro, come si è accennato, previste ormai solo sulla carta) – dalla riforma del Senato e dalla trasformazione di questo in una Camera rappresentativa delle istituzioni territoriali, nella quale il peso delle Regioni è largamente maggioritario (74 senatori su 100 saranno consiglieri regionali). Iltrade offche la riforma delinea, insomma, è quello fra un indubbio (e in parte certo criticabile, quantomeno per la sua ampiezza) indebolimento dello spazio dell’autonomia legislativa regionale e il riconoscimento di uno spazio qualificato per le Regioni che permette ai “loro” senatori di partecipare alla formazione della legge statale, vale a dire di quello che torna ad essere l’atto normativo per eccellenza nella Repubblica delle autonomie e che in passato è stato, tradizionalmente, l’atto dalla cui configurazione quasi sempre “centralista” derivava una lesione delle autonomie regionali.

La riforma scommette insomma su una legislazione statale negoziata con le Regioni attraverso il Senato, puntando su questa valvola per il recupero della caratura autonomistica dell’ordinamento, che inevitabilmente va in parte perduta per la riduzione delle competenze legislative regionali. Dare una voce alle Regioni nella formazione della legge statale è, da questo punto di vista, dare attuazione a quella parte dell’art. 5 della Costituzione, in cui si richiede che la Repubblica adegui i criteri e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.

Contro

Tarli Barbieri Giovanni

Superamento del bicameralismo paritario

Il testo “Renzi-Boschi” presenta limiti tali da condurre ad un giudizio negativo, anche se le motivazioni che sono alla base di alcuni dei suoi contenuti appaiono, in linea di principio, anche condivisibili.

È il caso, ad esempio, della riforma del Senato.

Le soluzioni sul punto fatte proprie nel testo di riforma appaiono infatti discutibili, sia quanto alle modalità di elezione dei propri membri, sia quanto alla definizione delle funzioni.

Il “nuovo” art. 55, comma 4, Cost. radica nella sola Camera (la cui composizione rimane quella attuale) la titolarità del rapporto di fiducia con il Governo, l’esercizio della funzione di indirizzo politico, la titolarità della funzione legislativa (salvo le prerogative del Senato su cui cfr.infra) e quella di controllo dell’operato del Governo.

Da parte sua, ai sensi del successivo comma 5, «il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Concorre all’esercizio della funzione legislativa nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione, nonché all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea. Valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori. Concorre ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge e a verificare l’attuazione delle leggi dello Stato».

Riduzione del numero dei parlamentari

Per quanto riguarda la composizione del Senato, il “nuovo” art. 57 Cost. prevede che «il Senato della Repubblica è composto da novantacinque senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali e da cinque senatori che possono essere nominati dal Presidente della Repubblica» (comma 1) e che «i Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori» (comma 2).

Sul punto, oltre alla stravagante previsione della presenza dei cinque senatori di nomina presidenziale che, così come gliexPresidenti della Repubblica, non hanno a che vedere con le autonomie territoriali, si deve osservare che il “metodo proporzionale” per l’elezione dei senatori sarà comunque unafictioper quegli enti (la maggioranza) che ne eleggeranno pochissimi (10 enti eleggeranno 2 senatori; 2 enti ne eleggeranno 3).

Ancora più gravi incertezze emergono però a proposito del sistema di elezione dei senatori: ai sensi dell’art. 57, comma 5, Cost., «la durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti, in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi, secondo le modalità stabilite dalla legge di cui al sesto comma». A sua volta, il successivo comma 6 specifica: «Con legge approvata da entrambe le Camere sono regolate le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato della Repubblica tra i consiglieri e i sindaci, nonché quelle per la loro sostituzione, in caso di cessazione dalla carica elettiva regionale o locale. I seggi sono attribuiti in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio».

Come si vede, si tratta di un tessuto normativo ambiguo e assai discutibile anche sul piano redazionale. In particolare, ci si chiede quale sia la portata prescrittiva della previsione della «conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi» rispetto ad una potestà, quella dell’elezione con metodo proporzionale, che è in capo al Consiglio regionale (art. 57, comma 2, Cost.) e se essa si applichi ai candidati consiglieri regionali ovvero anche ai candidati Sindaci (peraltro eletti da un corpo elettorale diverso da quello dei consiglieri regionali): non è quindi chiaro se il comma 5 finisca per imporre una sorta di elezione diretta “mascherata”, da valutare alla stregua dei nuovi art. 55, commi 4 e 5, Cost. (e per inciso, in questa direzione va chiaramente il disegno di legge “Chiti-Fornaro” che il Presidente del Consiglio ha recentemente proposto come testo base in vista dell’esame della futura legge elettorale per il Senato).

Il quadro è reso ancora più complicato alla luce del comma 6 dello stesso art. 57 Cost., ai sensi del quale i seggi senatoriali debbono essere attribuiti «in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio». Come è evidente si tratta di due parametri assai diversi, ancorché espressi in modo tutt’altro che preciso, anche perché non si capisce come si coordinino con il vincolo di “conformità” di cui al comma 5: sembra comunque di capire che, mentre il riferimento ai «voti espressi» appare riferito ai risultati delle ultime elezioni regionali (ma allora esso si applica anche per l’elezione dei Sindaci?), quello alla «composizione di ciascun Consiglio» allude alla consistenza dei gruppi consiliari che tiene conto, in prima battuta, dei contenuti delle leggi elettorali regionali, pressoché tutte connotate da forti premi di maggioranza e soglie di sbarramento assai variabili nella loro consistenza (per tutti, Zagrebelsky).

In definitiva, dovrà essere la futura legge elettorale per il Senato (per inciso: approvata con il procedimento bicamerale, e quindi con il coinvolgimento pieno della seconda Camera) a sciogliere questo “groviglio” costituzionale (Rossi).

La nuova configurazione del Senato appare quindi quantomai ambigua, trattandosi di un ramo del Parlamento ridimensionato nella composizione (100 membri, computandosi i 5 senatori di nomina presidenziale) ma che, per le non chiare modalità della sua elezione e per l’assenza di vincolo di mandato e riconoscimento pieno delle guarentigie di cui all’art. 68 Cost. in capo ai propri membri, potrebbe ben atteggiarsi come una sorta di Camera politica svincolata dal rapporto fiduciario.

Competenze del Senato

Anche le competenze del Senato appaiono delineate dal “nuovo” art. 55 Cost. in modo generico e quindi tale da richiedere un processo di larga attuazione-integrazione ad opera di fontisub-costituzionali.

Tale rilievo appare significativo non solo perché le competenze del Parlamento (anche quelle di ciascuno dei suoi rami) dovrebbero essere delineate in modo sufficientemente analitico già a livello costituzionale (a maggior ragione nel caso di competenze “in concorso” tra i due rami del Parlamento, nel quadro del superamento di un assetto bicamerale paritario) ma anche perché alcune di esse sono declinabili in modo tale da quantomeno “interferire”, o comunque da richiedere un coordinamento, con il rapporto di fiducia del quale dovrebbe essere titolare la sola Camera dei deputati ai sensi del novellato art. 55, comma 4, Cost. o comunque con le altre competenze ad essa spettanti in forza di tale disposizione.

Il quadro deve essere completato con un riferimento al procedimento legislativo: la dottrina maggioritaria ha evidenziato i rischi derivanti da una moltiplicazione dei procedimenti legislativi sulla base di materie (ne sono stati contati almeno cinque, anche se alcuni autori ne rinvengono ulteriori: Rossi); e ciò inficia la scelta di fondo del testo, ovvero quella di abbandonare un modello centrato sull’allocazione della potestà legislativa a entrambi i rami del Parlamento, in favore di un nuovo assetto basato sulla prevalenza della Camera dei deputati (art. 70, comma 3, Cost.).

Si è osservato che una tale scelta è una conseguenza inevitabile dell’abbandono del bicameralismo paritario (così, Manetti): tuttavia, l’inevitabile flessibilità interpretativa delle espressioni linguistiche utilizzate nell’art. 70 Cost., talvolta poco rigorose, unita alla moltiplicazione delle materie, rende fin troppo probabile la moltiplicazione dei conflitti e quindi la possibilità di un’esplosione del contenzioso costituzionale che rischia di aggiungersi a quello esistente tra lo Stato e le Regioni (che, peraltro, il testo di revisione costituzionale non contribuisce a risolvere: cfr.infra, par. 3).

A ciò si aggiungano le perplessità relative all’elenco delle leggi che dovrebbero seguire il procedimento bicamerale (art. 70, comma 1, Cost.): perplessità che riguardano la loro eterogeneità ma soprattutto le gravi lacune proprio per quanto riguarda le leggi relative a materie di interesse delle Regioni o degli enti locali (si pensi, per citare alcuni esempi, alle leggi statali che pongono “norme generali e comuni” di cui all’art. 117, comma 2, Cost., alla generalità delle leggi statali attuative dell’art. 118 e 119 Cost.): si tratta di uno degli aspetti più criticabili del testo di revisione costituzionale, perché, in definitiva, l’emarginazione del Senato nel procedimento di approvazione delle leggi in questione finisce per snaturare la configurazione della seconda Camera come assemblea che dovrebbe (ma il condizionale, per ciò che si è detto, è d’obbligo) rappresentare le istituzioni territoriali (per tutti, Ruggeri; Bifulco).

In ogni caso, dai “nuovi” artt. 55 e 70 Cost. si trae l’impressione che il Senato si veda attribuito un insieme di competenze potenzialmente significative e non certo tali da “declassare” la seconda Camera ad una sorta di “dopolavoro” per i suoi componenti che, ricordiamolo, debbono esercitare un doppio incarico (che potrebbe diventare triplo: si pensi ai Presidenti delle Regioni o ai Sindaci delle dieci città individuate dalla l. 56/2014 che sono di diritto Sindaci metropolitani), senza un’indennità specifica (ai sensi del “nuovo” art. 69 Cost.): da qui i dubbi sulla reale efficienza di questa nuova Camera (Rossi) e, comunque, la necessità di rinvenire un coordinamento, assai difficile da configurare, tra lavori del Senato e quelli dei Consigli regionali, anche perché, ai sensi del “nuovo” art. 64, ultimo comma, Cost., «i membri del Parlamento hanno il dovere di partecipare alle sedute dell’Assemblea e ai lavori delle Commissioni».

Contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni e soppressione del CNEL

La riduzione dei costi della politica è una ulteriore linea di fondo che ispira la proposta “Renzi-Boschi”. Eppure, come si evince da una nota del Ministero per le riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento (Camera dei deputati, Ia Commissione permanente, 19 novembre 2014, res. somm., allegato n. 2), le minori spese sarebbero o relative o non quantificabili (come la prevista riforma delle Province o l’abolizione dei rimborsi e dei trasferimenti finanziari in favore dei gruppi politici presenti nei Consigli regionali, che, per inciso, rischia di accentuare la preminenza dei Presidenti e delle Giunte sui Consigli).

A ciò si aggiunga che il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, auspicabilmente con un approccio non populista, può essere perseguito assai più efficacemente sul piano della legislazione ordinaria (si pensi all’indennità dei deputati, sulla quale il testo di riforma tace, a differenza di quanto previsto per i consiglieri regionali), così come su quello delle autonome determinazioni degli organi costituzionali (la Camera dei deputati ha già provveduto a risparmiare 47 milioni di euro nel solo 2016).

Ciò detto, la soppressione del CNEL non appare particolarmente problematica, visto lo scarso rilievo istituzionale che questo organo ha dimostrato nella prassi anche recente.

Revisione del titolo V della parte II della Costituzione

L’ultima parte del testo “Renzi-Boschi” è dedicata alla “riforma della riforma” del Titolo V.

Il testo asseconda un approccio riformatore che valorizza fin troppo le prerogative statali, ridimensionando l’autonomia legislativa regionale; anche perché è tutto da dimostrare che un robusto riaccentramento di funzioni possa produrre effetti positivi nell’attuazione di quelle politiche pubbliche oggi rimesse, in tutto o in parte, alle Regioni.

In questo senso, una scelta discutibilissima è quella che non rende inapplicabile tale “riforma della riforma” alle Regioni a statuto speciale ma rafforza la loro autonomia statutaria, che potrebbe essere rivista solo d’intesa con le Regioni stesse (art. 39, comma 11, del testo di riforma).

Tali disposizioni suscitano notevoli perplessità, in primo luogo perché finiscono con l’ampliare la distanza, in termini di spazi di autonomia, tra le Regioni a statuto ordinario e le Regioni ad autonomia particolare, in un momento nel quale l’attualità delle specialità è oggetto di discussione a livello dottrinale e non solo.

Venendo ora alle novità relative alle Regioni a statuto, ordinario, il “nuovo” art. 117 Cost. introduce quattro principali novità:1) una redistribuzione delle materie, con un robustissimo incremento di quelle ricondotte alla potestà legislativa esclusiva dello Stato;2) l’individuazione espressa di ambiti materiali rimessi alla potestà legislativa regionale residuale, accompagnata dalla conferma della previsione secondo la quale essa è destinata a trovare applicazione «in ogni materia non espressamente riservata alla competenza esclusiva dello Stato»;3) l’eliminazione, almeno apparente, della potestà legislativa concorrente;4) l’introduzione di una sorta di “clausola di supremazia” per cui «su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale» (comma 4).

1) Sul primo punto colpisce, come già accennato, il riaccentramento alla potestà legislativa esclusiva dello Stato di numerosi ambiti materiali (essi salirebbero a 49!), anche al di là di quanto necessario per correggere alcune storture dell’attuale formulazione dell’art. 117 Cost.

È poi decisivo lo spostamento alla potestà legislativa esclusiva dello Stato del «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario» che nella prassi più recente ha costituito il titolo trasversale più penetrante e intrusivo dello Stato rispetto all’esercizio della potestà normativa regionale e che a seguito dell’entrata in vigore del testo di riforma consentirebbe allo Stato interventi anche di puro dettaglio (Brancasi).

2) Il testo di riforma non sembra superare (anzi, per certi profili, sembra esaltare) un limite di fondo anche dell’attuale art. 117 che ha finito per aumentare il contenzioso costituzionale, ovvero le frequenti sovrapposizioni tra titoli materiali allocati allo Stato o alle Regioni, tanto più in quanto, salvo la clausola di supremazia, il criterio fondamentale di ripartizione tra lo Stato e le Regioni sembra ancora connotato da rigidità e da frequenti imprecisioni nella definizione degli ambiti competenziali, ormai ridotti a un fascio di materie di competenza esclusiva dello Stato e a un fascio di materie di competenza residuale delle Regioni, accompagnate peraltro, come detto, alla riproposizione della clausola per cui quest’ultima si esplica, altresì, «in ogni materia non espressamente riservata alla competenza esclusiva dello Stato».

3) La proposta sopprime la potestà concorrente, sul presupposto, assai opinabile alla stregua della giurisprudenza costituzionale, che essa abbia determinato l’espansione del contenzioso costituzionale tra lo Stato e le Regioni.

La proposta “Renzi-Boschi” non sembra quindi tenere conto adeguatamente della necessità, in un ordinamento complesso, di una legislazione integrata tra Stato e Regioni, sulla base di una chiara individuazione delle rispettive responsabilità (De Siervo) e con l’istituzione, in funzione di raccordo, di una “vera” Camera delle autonomie.

A ciò si aggiunga che, a fronte della soppressione della potestà concorrente, la proposta in esame alloca allo Stato numerose competenze qualificate in termini di «disposizioni generali e comuni», «disposizioni di principio», «profili ordinamentali generali», «norme […] tese ad assicurare l’uniformità sul territorio nazionale», mentre altre materie sono declinate lungo il crinale degli interessi (nazionali o regionali), ed altre ancora alludono ad una competenza statale per profili “strategici” (Ruggeri). Non è chiaro se a tale riparto, invero pericolosamente ambiguo, possano applicarsi i punti di arrivo della legislazione e della giurisprudenza costituzionale formatasi nella vigenza dell’art. 117, comma 3, Cost. E soprattutto non è chiaro se tali variegate espressioni in questione siano equivalenti sistemici o alludano a spazi di normazione eterogenei, più o meno estesi nei singoli casi, dato che i confini del concorso tra la legislazione statale e la legislazione regionale, declinati in termini diversi, potrebbero essere sindacati in modo differenziato dalla Corte costituzionale (Rivosecchi).

I rischi di confusione e di moltiplicazione del contenzioso costituzionale appaiono quindi seri.

4) La proposta in oggetto costituzionalizza un istituto che certo supera la rigidità nella definizione dell’assetto delle competenze ma in una logica squisitamente centralistica: la c.d. clausola di supremazia, di cui all’art. 117, comma 4, Cost., è declinata infatti in termini assai generali, per non dire generici (la disposizione consente questa possibilità «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale»), e per di più attivabile solo su proposta del Governo, senza alcun riferimento né ai meccanismi di coinvolgimento delle autonomie regionali, oggi necessari a partire dalla “celebre” sent. 303/2003 della Corte costituzionale, né ad un ruolo forte del Senato, che pure avrebbe ben potuto essere configurato, ove si fosse scelta la via dell’approvazione con legge necessariamente bicamerale. A ciò si aggiunga che il novellato art. 117, comma 4, Cost. non allude nemmeno al rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità.

In definitiva, tale potere dello Stato appare di difficile giustiziabilità da parte della Corte costituzionale (Caretti).

Appare poi insieme discutibile e paradossale che questa previsione non si applichi alle Regioni a statuto speciale.

Gli altri contenuti della riforma: elezione del Capo dello Stato e modifiche agli istituti di democrazia diretta

Vi sono altri contenuti della riforma che meritano di essere menzionate, sia pure brevemente.

Sull’elezione del Presidente della Repubblica, l’art. 83, comma 3, Cost., è modificato prevedendo che dal quarto scrutinio sia sufficiente la maggioranza dei tre quinti dell’assemblea e dal settimo scrutinio la maggioranza dei tre quinti dei votanti.

Si tratta di una modifica assai criticabile, anche a prescindere dalle scelte legislative in materia elettorale, in quanto con tale previsione si rende possibile, a partire dal settimo scrutinio, sia pure teoricamente, l’elezione di un Capo dello Stato, per così dire, “di minoranza”, essendosi introdotto un quorum non riferito ai componenti.

D’altra parte, il fatto che nella prassi il numero dei votanti dovrebbe auspicabilmente coincidere con quello dei componenti del Parlamento in seduta comune, nulla toglie circa il discutibilissimo significato istituzionale di questa proposta che non sembra rispondere nemmeno all’esigenza di favorire una più celere elezione del Capo dello Stato.

Infine, un ultimo punto rilevante del testo di riforma è costituito da un insieme di previsioni che intervengono sugli istituti di democrazia diretta.

La previsione più rilevante è quella contenuta nell’art. 11 il quale prevede l’inserimento di un ulteriore comma all’art. 71 Cost., così formulato: «Al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali. Con legge approvata da entrambe le Camere sono disposte le modalità di attuazione».

Come è stato giustamente osservato, si tratta di una previsione assai generica, non priva di ambiguità, ed il cui valore pare essenzialmente “simbolico” (Lamarque).

Ciò detto, le stesse locuzioni “referendum propositivi” e “d’indirizzo” si prestano a numerosi interrogativi innanzitutto circa la loro natura, i loro limiti e i loro effetti.

È infatti da ricordare come l’allargamento delle tipologie referendarie dovrebbe tenere conto della scelta dei Costituenti per una democrazia fondamentalmente rappresentativa che, come tale, rende «impensabile un uso sistematico del referendum» (Paladin); né sono da sottovalutare i rischi di un uso plebiscitario degli strumenti di democrazia diretta.

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E’ necessario trasmettere alle nuove generazioni la memoria di un periodo in cui la mafia è giunta a sferrare i colpi più violenti al cuore dello Stato con iniziative stragiste di inaudita ferocia . Occorre ricordare quei tempi affinchè non abbiano più a ripetersi azioni così tragiche e devastanti ed affinchè non si riproducano le condizioni di solitudine e di isolamento di magistrati attivi in prima linea contro il crimine organizzato e le sue sfere di complicità e connivenza.

La drammaticità di quel periodo e la straordinaria passione di Paolo Borsellino per il proprio lavoro sono testimoniate da un documento di eccezionale forza ed intensità. Si tratta dell’ultima lettera da lui scritta, alle 5 del mattino del 19 Luglio 1992, dodici ore prima di essere trucidato assieme alla sua scorta.

“Gentilissima” Professoressa,
uso le virgolette perchè le ha usato lei nello scrivermi, non so se per sottolineare qualcosa e “pentito” mi dichiaro dispiaciutissimo per il disappunto che ho causato agli studenti del suo liceo per la mia mancata presenza all’incontro di Venerdì 24 gennaio.
Intanto vorrei assicurarla che non mi sono affatto trincerato dietro un compiacente centralino telefonico (suppongo quello della Procura di Marsala) non foss’altro perchè a quell’epoca ero stato già applicato per quasi tutta la settimana alla Procura della Repubblica presso il Trib. di Palermo, ove poi da pochi giorni mi sono definitivamente insediato  come Procuratore Aggiunto.

Se le sue telefonate sono state dirette a Marsala non mi meraviglio che non mi abbia mai trovato. Comunque il mio numero di telefono presso la Procura di Palermo è 091/***963, utenza alla quale rispondo direttamente.
Se ben ricordo, inoltre, in quei giorni mi sono recato per ben due volte a Roma nella stessa settimana e, nell’intervallo, mi sono trattenuto ad Agrigento per le indagini conseguenti alla faida mafiosa di Palma di Montechiaro.
Ricordo sicuramente che nel gennaio scorso il dr. Vento del Pungolo di Trapani mi parlò della vostra iniziativa per assicurarsi la mia disponibilità, che diedi in linea di massima, pur rappresentandogli le tragiche condizioni di lavoro che mi affligevano. Mi preanunciò che sarei stato contattato da un Preside del quale mi fece anche il nome, che non ricordo, e da allora non ho più sentito nessuno.
Il 24 gennaio poi, essendo ritornato ad Agrigento, colà qualcuno mi disse di aver sentito alla radio che quel giorno ero a Padova e mi domandò quale mezzo avessi usato per rientrare in Sicilia tanto repentinamente. Capii che era stato “comunque” preannunciata la mia presenza al Vostro convegno, ma mi creda non ebbi proprio il tempo di dolermene perchè i miei impegni sono tanti e così incalzanti che raramente ci si può occupare di altro.
Spero che la prossima volta Lei sarà così gentile da contattarmi personalmente e non affidarsi ad intermediari di sorta o a telefoni sbagliati..
Oggi non è certo il giorno più adatto per risponderle perchè frattanto la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata ed io non ho tempo da dedicare neanche ai miei figli, che vedo raramente perchè dormono quando esco da casa ed al mio rientro, quasi sempre in ore notturne, li trovo nuovamente addormentati.

Ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare e non ho difficoltà a rispondere, però in modo telegrafico, alle Sue domande.

1) Sono diventato giudice perchè nutrivo grandissima passione per il diritto civile ed entrai in magistratura con l’idea di diventare un civilista, dedito alle ricerche giuridiche e sollevato dalle necessità di inseguire i compensi dei clienti. La magistratura mi appariva la carriera per me più percorribilie per dar sfogo al mio desiderio di ricerca giuridica, non appagabile con la carriera universitaria per la quale occorrevano tempo e santi in paradiso.
Fui fortunato e divenni magistrato nove mesi dopo la laurea (1964) e fino al 1980 mi occupai soprattutto di cause civili, cui dedicavo il meglio di me stesso. E’ vero che nel 1975 per rientrare a Palermo, ove ha sempre vissuto la mia famiglia, ero approdato all’Ufficio Istruzione Processi Penali, ma otteni l’applicazione, anche se saltuaria, ad una sezione civile e continuai a dedicarmi soprattutto alle problematiche dei diritti reali, delle dispute legali, delle divisioni erediatarie etc.
Il 4 maggio 1980 uccisero il Capitano Emanuele Basile ed il Comm. Chinnici volle che mi occupassi io dell’istruzione del relativo procedimento. Nel mio stesso ufficio frattanto era approdato, provenendo anche egli dal civile, il mio amico di infanzia Giovani Falcone e sin dall’ora capii che il mio lavoro doveva essere un altro.
Avevo scelto di rimanere in Sicilia ed a questa scelta dovevo dare un senso. I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso ad occuparmi quasi casualmente, ma se amavo questa terra di essi dovevo esclusivamente occuparmi.
Non ho più lasciato questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressocchè esclusivamente di criminalità mafiosa. E sono ottimista perchè vedo che verso di essa i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarantanni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta.

2) La DIA è un organismo investigativo formato da elementi dei Carabinieri, della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza e la sua istituzione si propone di realizzare il coordinamento fra queste tre strutture investigative, che fino ad ora, con lodevoli ma scarse eccezioni, hanno agito senza assicurare un reciproco scambio di informazioni ed una auspicabile, razionale divisione dei compiti loro istituzionalmente affidati in modo promiscuo e non codificato.
La DNA invece è una nuova struttura giuridica che tende ad assicurare soprattutto una circolazione delle informazioni fra i vari organi del Pubblico Ministero distribuiti tra le numerose circoscrizioni territoriali.
Sino ad ora questi organi hano agito in assoluta indipendenza ed autonomia l’uno dall’altro (indipendenza ed autonomia che rimangono nonostante la nuova figura del Superprocuratore) ma anche in condizioni di piena separazione, ignorando nella maggior parte dei casi il lavoro e le risultanze investigative e processuali degli altri organi anche confinanti, e senza che vi fosse una struttura sovrapposta delegata ad assicurare il necessario coordinamento e ad intervenire tempestivamente con propri mezzi e proprio personale giudiziario nel caso in cui se ne ravvisi la necessità.

3) La mafia (Cosa Nostra) è una organizzazione criminale, unitaria e verticisticamente strutturata, che si contraddistingue da ogni altra per la sua caratteristica di “territorialità”. Essa e suddivisa in “famiglie”, collegate tra loro per la comune dipendenza da una direzione comune (Cupola), che tendono ad esercitare sul territorio la stessa sovranità che su esso esercita, deve esercitare, leggittimamente, lo Stato.
Ciò comporta che Cosa Nostra tende ad appropriarsi delle ricchezze che si producono o affluiscono sul territorio principalmente con l’imposizione di tangenti (paragonabili alle esazioni fiscali dello Stato) e con l’accaparramento degli appalti pubblici, fornendo nel contempo una serie di servizi apparenti rassembrabili a quelli di giustizia, ordine pubblico, lavoro etc, che dovrebbero essere forniti esclusivamente dallo Stato.
E’ naturalmente una fornitura apparente perchè a somma algebrica zero, nel senso che ogni esigenza di giustizia è soddisfatta dalla mafia mediante una corrispondente ingiustizia. Nel senso che la tutela dalle altre forme di criminalità (storicamente soprattutto dal terrorismo) è fornita attraverso l’imposizione di altra e più grave forma di criminalità. Nel senso che il lavoro è assicurato a taluni (pochi) togliendolo ad altri (molti).
La produzione ed il commercio della droga, che pur hanno fornito Cosa Nostra di mezzi economici prima impensabili, sono accidenti di questo sistema criminale e non necessari alla sua perpetuazione.
Il conflitto inevitabile con lo Stato, con cui Cosa Nostra è in sostanziale concorrenza (hanno lo stesso territorio e si attribuiscono le stesse funzioni) è risolto condizionando lo Stato dall’interno, cioè con le infiltrazioni negli organi pubblici che tendono a condizionare la volontà di questi perchè venga indirizzata verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli di tutta la comunità sociale.
Alle altre organizzazioni criminali di tipo mafioso (camorra, “ndrangheta”, Sacra Corona Unita etc.) difetta la caratteristica della unitarietà ed esclusività. Sono organizzazioni criminali che agiscono con le stesse caratteristiche di sopraffazione e violenza di Cosa Nostra. ma non hanno l’organizzazione verticistica ed unitaria. Usufruiscono inoltre in forma minore del “consenso” di cui Cosa Nostra si avvale per accreditarsi come istituzione alternativa allo Stato, che tuttavia con gli organi di questo tende a confondersi.

Intervento di Silvia Cecchi al Convegno 9.3.2018, Università di Bergamo

Il principio femminile della giustizia.

 Premessa

1-Il tempo a disposizione mi consente solo alcune riflessioni sul tema, che saranno per necessità concise, scaturite a margine della mia esperienza giudiziaria quotidiana, e non da studi di linguistica o lessicografia o di storia e antropologia del linguaggio. Un ‘balbettio’ che col tempo inizia a farsi ‘discorso’.

Sono tuttavia al corrente del dibattito e degli studi specialistici che da due-tre decenni, ma soprattutto negli anni recenti, sono fioriti sul tema:  in particolare sul tema della femminilizzazione di nomi, e soprattutto dei nomi di mestieri, professioni, titoli (con riferimento in particolare a quelle professioni a cui le donne hanno avuto accesso più recentemente e quindi non rilevate sul piano del linguaggio) e del cosiddetto maschile ‘inclusivo’ (quello plurale, ma anche quello singolare). Studi che attestano la matrice maschile-patriarcale del linguaggio occidentale in generale e che propugnano una sua apertura al femminile sono nati e coltivati in America, in Francia, in Germania, in diversi Paesi europei, anche in Italia[1]. A sostegno di questo movimento culturale è addotta l’esigenza di una visibilità e ‘autonomia’ del femminile anche sul piano simbolico per eccellenza, che è quello del linguaggio.

Sono al corrente anche delle numerose critiche mosse a tale rivendicazione. Fra le critiche più frequenti: operazione forzata, artificiale, inutile, spesso cacofonica, talora ridicola, che guarda alla forma e non alla sostanza dei problemi (‘meglio parificare i salari’, scrive un giornalista in un recente articolo su L’Espresso, affrontando il tema) e altre.

Dato per inteso e condiviso che tutto vuole misura, mi sono posta la questione in termini ‘rovesciati’: perché ancora oggi, se domandiamo a una valente professionista (che faccia professione di avvocato, di commercialista, di magistrato, di ingegnere, architetto od altra) anche sensibile alla causa femminile e sinceramente sostenitrice delle qualità professionali femminili in tutti questi campi, con quale appellativo preferisca essere chiamata, quasi sempre risponderà: io personalmente preferisco che il cliente mi chiami dottore, avvocato, giudice, architetto?.. magari lo ammetterà in privato e non lo dichiarerebbe in pubblico, ma posso assicurare che questa è la risposta più frequente fra le professioniste di età ma anche fra le giovanissime.

E poiché credo che l’essenza delle questioni più indigeribili si lasci cogliere meglio in controprova, devo prendere atto che una donna che voglia sentirsi riconosciuta nel proprio più alto valore professionale, preferisca tutt’oggi sentirsi appellare al maschile. Come se lo stesso titolo, declinato al femminile, perdesse qualcosa, subisse un tanto di diminuzione, una certa degradazione. Il registro più alto, da cui ciascuno ma anche ciascuna di noi si attende il riconoscimento più elevato, resta declinato al maschile.

Ma allora, tornando al dritto del discorso, passati come siamo per il suo rovescio –  comprendiamo meglio che la rivendicazione di una femminilizzazione del (o parte del) linguaggio, assume il significato di disvelare una minorazione che ancora accompagna il femminile come tale. Una lieve ‘zoppìa’ a cui si propone di porre rimedio, educando già sul piano linguistico alla cultura della differenza come valore, al riconoscimento della pari dignità fra professioni esercitate da ambo i generi. In altre parole, un’operazione di ‘ortopedia’ linguistica e culturale. Ed ecco che la futilità espressa in modo più o meno garbato dalle critiche a questo livello di rivendicazione, perde la sua ragion d’essere.[2] 

Sembra che ancora la professionista senta il bisogno di un travestimento, anche solo linguistico, come ai tempi di Porzia de Il mercante di Venezia di Shakespeare[3].

Va da sé che l’operazione ha un senso dove e fin dove possibile e dove significativa. La selezione di ambiti e termini, non potendosi immutare geneticamente una lingua a manifesta matrice e storia maschile-patriarcale, è la prima operazione da compiere, per raggiungere i risultati perseguiti, senza eccessi.

Se questo è vero, ci rendiamo conto come abbia senso parlare anche di una ‘politica del linguaggio’. Ci ricorda Raffaele Simone, dalle pagine di L’Espresso, che recentemente Donald Trump[4] ha disposto che negli atti del CdC (Center for Desease Control, la massima autorità sanitaria del paese) debbano sparire parole come ‘feto’, ‘transgender’, ‘diversità’, ecc..: qualche esempio di cosa dobbiamo intendere per ‘politica’ del linguaggio, che neutro mai dunque è, in nessun ambito, e perché dovrebbe esserlo nel nostro, dietro alle irrisioni di chi volesse sostenere il contrario?

Perché il linguaggio è pensiero, visione del mondo, idea e rappresentazione del mondo al tempo stesso. Sottende un compendio assiologico, rappresenta l’ordito leggibile sul rovescio della tessitura dei rapporti sociali e normativi. Dunque è anche politica, e nel nostro caso, fondamento di identità (come accade per l’idioma dialettale), salvaguardia delle differenze e del valore di esse come tali e del confronto fra loro, arricchimento contro l’omologazione, contro una reductio ad unum. Chi teme l’omologazione dei caratteri sessuali, perché non teme anche l’omologazione dei tratti connotativi linguistici?

Giustamente Adriana Cavarero scrive (scriveva, nel 1999): “La donna non ha ancora un vero linguaggio suo, utilizza il linguaggio dell’altro. Non si autorappresenta nel linguaggio, ma accoglie con esso le rappresentazioni di lei prodotte dal maschile. La donna parla e pensa, si parla e si pensa, ma non a partire da sé”.

Del resto la battaglia legislativa per la conservazione del cognome materno (vinta in buona parte, anche se solo recentissimamente, dopo essersi più volte arenata), affinché la donna madre possa trasmettere (anche) il proprio cognome ai figli da lei nati, significa non accettare che la donna diventi estranea alla propria stessa prole, che lei stessa educa (spesso in modo prevalente, talora esclusivo). Non è rivendicazione idealmente diversa a quella di una declinazione del linguaggio secondo genere, laddove ciò occorra e sia davvero significativo. Giustamente è stato osservato (nel mio caso fu un’osservazione di mio padre) che non vi è grande differenza tra il velo musulmano sul volto femminile e una legge che escluda dall’ordine simbolico del cognome anagrafico la madre rispetto ai proprii figli. Anche in questo caso scende un velo cancellatore sulla donna che viene esclusa simbolicamente dalla continuità genealogica marcata dal cognome. Storia famigliare e genealogia discendono, lo sappiamo, dal cognome e non dal prenome. Così, poco dopo i vent’anni, mia figlia ha aggiunto il mio cognome all’onorato cognome paterno.

Non si tratta neppure in realtà di farne una battaglia, sì invece del legittimo e doveroso riconoscimento di un diritto. Si tratta di prendere coscienza di fatti e della loro portata culturale: la valorizzazione delle specificità e delle differenti identità dei generi; la consapevolezza del contenuto valoriale di cui ciascuno di essi è portatore; la convinzione che la dialettica fra le due polarità distinte e riconosciute anche linguisticamente sia un fattore di civiltà e di arricchimento culturale. Forma e sostanza in questa prospettiva coincidono.

Quanto detto naturalmente ha un senso se crediamo che esista un principio femminile in generale e che esista un principio femminile nella giustizia. Aggiungo per inciso che il ‘diritto’ si presenta oggi come una sorta di ultima filosofia della modernità e ciò aggiunge una speciale rilevanza al tema in discorso.

Quest’ultimo principio è di origine assai antica, certo più antico di Sofocle, con cui noi tuttavia lo identifichiamo generalmente ed elettivamente attraverso la figura di Antigone, facendone una sorta di mito fondatore.

Del o di un ‘principio femminile’ nella giustizia hanno scritto molti pensatori o filosofi (anche) del diritto, da Hegel a Bloch (il Mutterrecht), da Spinoza a Italo Mancini, da Paul Ricoer a Zagrebelsky, da Luce Irigaray a Cristina Campo o ad Adriana Cavarero, e così avanti.

Ne hanno scritto molte giuriste contemporanee, citando o riferendosi a un principio femminile di giustizia nelle pieghe della narrazione della loro esperienza biografica, molte di esse magistrate (accanto al ‘diario di un giudice’ di Troisi, oggi abbiamo per esempio il ‘diario di una giudice’ di Gabriella Lucciòli, il diario autobiografico di Paola de Nicola, gli scritti di Donatella Stasio ecc. ). Vi è dunque una lunga e plurisecolare elaborazione teorica della questione.[5]

Spiegare in che cosa esso consista può dirsi sotto molteplici aspetti, più specifici e meno specifici.

In senso lato e non solo giuridico (ma con accezione assai rilevante nell’esercizio concreto della giurisdizione) può dirsi che i due principii si colgono nella contrapposizione tra l’attenzione all’individuale (concreto, storico, reale, corporeo: ai volti dell’uomo), da un lato, ela presidenza del dettato generale delle leggi, dall’altro; tra relazione-intuizione-empatia-sentimento eastrattezza, settorializzazione, tendenza alla sistematizzazione, alla strutturazione organizzata dei concetti; tra l’ordine ideale del ‘compiere un servizio’ in vista di un risultato concreto positivo el’ordine ideale del potere; tra razionalità concreta erazionalità ideal-astratta; tra la cura dei particolari, ascolto[6]e l’accelerazione, il taglio del narrato, la semplificazione dei processi di acquisizione, valutazione delle prove e del processo decisionale. Schematizzando fino alle implicazioni ultime: nella contrapposizione tra un ideale agonico/oppositivo/binarioe un ideale compositivo-mediativo; tra guerra e pace.

Ma, uscendo dalle schematizzazioni estreme (c’è sempre del femminile e del maschile in ognuno di noi) è stato scientificamente e universalmente accertato che un approccio affettivo-intuitivo giovi alla comprensione più profonda delle persone, all’intelligenza dei fatti, alla conoscenza: per questo tali doti, più vocazionalmente attribuite e riconosciute al femminile, si rivelano di primaria importanza[7], in quanto chiave di comprensione profonda di persone e fatti, soprattutto o anche nell’esercizio della professione giudiziaria.

Questa è la lezione di Antigone: la pietas contro la majestas; il potere delle relazioni, del legame di sangue, del sentimento contro la resa obbedienza alla sovranità delle leggi (fiat iustitia, pereat mundus); il principio di tutela dell’altro, di responsabilità per l’altro, di custodia dei rapporti famigliari e sociali, l’attitudine ad essere garante delle relazioni.  Dove il maschile salva il principio, il femminile salva la persona, l’essere vita. Dove il maschile drasticamente totalizza e sacrifica l’individuale al principio astratto, per il principio femminile l’altro è sempre una totalità: non si dà lo scambio metonimico tra parte e tutto (come accade nella sovrapposizione dell’atto criminale alla persona del suo autore nel momento di applicare una pena totalizzante, com’è la pena carceraria); femminile è la ricerca delle ragioni del salvare contro le ragioni della eliminazione-soppressione. Derivazione del principio femminile è allora anche la scelta costituzionale della finalità rieducativa della pena.

Il fondamento della responsabilità penale si viene sempre più spostando verso la violazione di un dovere di relazione, affrancandosi in grande parte dalle distrette di un dolo inteso in senso endopsichico individuale, passandosi così da un’etica strettamente individuale a un’etica relazionale. Si è così venuta demarcando in modo ancora più evidente la dualità ontologica tra colpa-responsabilità e pena: si è disvelata in tutta la sua evidenza e talora drammaticità il diverso statuto tra il malum culpae (sempre a sfondo etico, e tendenzialmente parziario), e il malum poenae(sempre fisico, prima che morale e sempre totalitario). 

Già nella intuizione di Spinoza non esiste un ‘male in sé’ bensì un male (e un bene) rispetto all’altro(persona, animale, pianta o cosa). Il male dunque non è nelle cose, ma nelle loro relazioni”Nessuna cosa è cattiva in sé stessa, essa non lo diviene se non quando danneggia un altro o lo distrugge”(Etica -Ethica ordine geometrico demonstrata- , IV, Pref.: prefazione).  Male e bene si presentano allora come categorie ontologicamente relazionali, ed etiche nella misura in cui l’etica stessa sia pensata in una sua fondazione relazionale.

E poiché la relazionalità appartiene precipuamente al dominio del femminile (per vocazione, naturalità e cultura), al principio femminile dobbiamo se la categoria della relazionalità sempre di più oggi si viene candidando a colonna portante della responsabilità, con tutto ciò che ne consegue sul piano della costruzione dogmatica del reato  e sul piano della teoria o filosofia della sanzione penale.[8]

La schematizzazione valga dunque e solo a meglio evidenziare come il principio femminile rappresenti una potente mitigazione, un correttivo rispetto ai caratteri di astrattezza e generalità del diritto (di derivazione illuministico- positivistica, razionalistica ma anche di derivazione idealistica), pur concorrenti rispetto al fine di assicurare uguaglianza, universalità, certezza e ritualità nella celebrazione dell’evento processuale.   

Se guardiamo alla evoluzione del diritto positivo- e penso sia al diritto civile (biodiritto; diritto del lavoro, diritto di famiglia; diritto dell’ambiente, tutela degli animali, ecc..) sia al diritto penale (che più appartiene alla mia esperienza) dobbiamo riconoscere che la trasformazione continua della legislazione nell’ultimo secolo si è mossa proprio nella direzione additata da valori idealmente riconducibili al principio femminile.

Una digressione – che digressione non è, ma verifica alla prova dei fatti- : se ci domandiamo come la donna magistrato si sia comportata e si comporti per lo più nell’attività professionale, dal 1963 (anno dell’ammissione della donna in magistratura) fino ad oggi, dobbiamo riconoscere senza timore di smentita che la donna ha dato e continua a dare grande prova di flessibilità, concretezza, versatilità, laboriosità, attenzione, buon senso, concretezza, misura, intuizione, pazienza, empatia. Ha saputo coniugare ammirevolmente ruoli diversi, restando garante dei rapporti famigliari come di quelli di colleganza. Ha dato prova al tempo stesso di un’alta razionalità, nel senso più completo della parola.

Mi sia consentito aggiungere ancora un’annotazione sulla differenza maschile-femminile: sia essa di natura culturale, biologica, antropologia, etologica o ideologico-politica, senza dubbio essa ha una radicazione esperienziale: la donna è richiesta di gestire una pluralità fluida di ruoli, di passare con flessibilità dall’uno all’altro, la donna è soprattutto garante delle relazioni interpersonali, siano esse famigliari, di sangue o ambientali e sociali con cui viene a contatto, che le sono affidate o di cui si fa carico; da questo ruolo di garante delle relazioni discende la sua specifica responsabilità.

Naturalmente ciò vale in linea di tendenza e di principio, là dove la donna ha salvaguardato il principio femminile che è in lei, l’ha riconosciuto e ha scelto di attuarlo e valorizzarlo.

Tutte noi (il processo si va modificando con il passaggio generazionale) siamo transitate da una stagione di ricerca di adeguamento al modello maschile, nell’ansia di dimostrare di saper fare come l’uomo, dall’aspirazione cioè alla parità, alla fase della differenza e della scoperta del suo valore. Laddove lasciavamo fuori dall’esercizio della professione tutto il nostro ‘privato’ di madri, mogli, figlie, persone garanti di rapporti, oggi recuperiamo ciò che può e deve essere recuperato di questa nostra ‘seconda’ vita all’interno della prima.

Purtroppo l’esperienza dimostra anche come tante donne siano cadute nella trappola mimetica, facendo proprie modalità maschili persino sul piano del linguaggio: la questione è tutt’altro che risolta anche nella componente femminile della magistratura. 

2-Una volta presa consapevolezza ed accettata l’esistenza e la portata di un ‘principio giuridico femminile’, possiamo tornare alla questione del linguaggio, e cioè al correlato linguistico di questo principio e della polarità che ad esso corrisponde e così possiamo forse comprendere meglio il senso profondo del nostro discorso.

Ho provato ad articolare più livelli sui quali la differenza maschile-femminile si lascia cogliere ed apprezzare nell’esercizio in concreto della attività giudiziaria:

1)  il piano terminologico, della formulazione della norma, della classificazione e nosografia legislativo-normativa[9];

2)- il piano della interpretazione della norma[10]: dove il linguaggio svolge un ruolo determinante, sia come ermeneutica del dettato normativo sia come nella descrizione verbale del fatto storico che si riconduce alla norma. La norma non è un a-priori immobile ma deve rendersi flessibile nel chinarsi sul fatto.

E’ sul piano del linguaggio che viene attuata l’operazione di incontro tra norma e fatto, tra norma e storia, l’impatto tra norma e realtà vivente.

Ancora una volta il linguaggio è pensiero, visione del mondo, interpretazione, individuazione del senso profondo di un accadimento.

Su questo livello io credo che sia stato e sia grande l’apporto della presenza femminile in magistratura.

Non si può non menzionare a questo proposito, fra gli altri esempi (la considerazione coinvolge tendenzialmente tutti i reati), il particolare approccio ai reati cc.dd. ‘di genere’ e dei reati infra-famigliari.

3) Ascrivo al ‘linguaggio femminile’ anche l’approccio e le modalità di conduzione dell’istruttoria, ove è possibile registrare una propensione femminile a dare più ampio spazio all’istruttoria condotta in prima persona, modalità di ascolto dei protagonisti della vicenda in esame ecc.; la donna magistrato in genere si mette in gioco in relazione diretta, in ‘presa diretta’, come usa dire. Meno propensa del collega uomo a delegare l’istruttoria. Nel rapporto diretto l’oralità si arricchisce della ‘vocalità’ (non sono la stessa cosa, come insegna l’esperienza e come spiegano studiose come Adriana Cavarero). La vocalità è inflessione, tono, timbro, ritmo. Voce e parola non coincidono. Poi c’è il linguaggio non verbale (decisivo nel bambino e nell’adolescente ma anche nell’adulto). La mimica, il linguaggio del corpo, gestuale, i silenzii, le lacrime e la loro eloquenza.

Il femminile si accosta ed esamina la persona offesa come un medico si rapporta al paziente.

Tutto ciò non è riconducibile direttamente o totalmente in una articolazione solo logica del pensiero. La razionalizzazione è uno stadio successivo che deve passare attraverso la percezione integrale (razionale-affettiva) della vicenda e dei suoi protagonisti.

Nel maschile prevale la volontà di chiarezza e di logica. Talora ciò costa una riduzione del fatto, sacrificato a un’eccessiva semplificazione nel nome della logicità formale della motivazione, il taglio tendenziale del narrato personale, il passaggio rapidissimo, precipitato dal dire al detto. La separazione della persona dalla sua storia (che non significa giustificarne la prolissità e avallare o tollerare l’indugio su particolari irrilevanti).

La grammatica del giudizio non può essere solo logico-formale. Anzi l’argomento solo logico comporta quasi sempre una mutilazione del caso, una perdita della sua intelligenza complessiva, talora un tradimento del senso profondo (storico, relazionale) in cui riposa la sua ‘verità’ giuridicamente e giudiziariamente rilevante. In altre parole il ‘giudizio’ non può accontentarsi di un sistema di pensiero logicocentrico (nel senso di esclusivamente concettuale e di organizzato a sistema). Quante volte ci si trova di fronte a sentenze che estraggano dalla narrazione orale solo l’argomento logico: propendo per ritenerle sentenze errate anche in diritto, non solo in fatto.

Sott’altro profilo: non vi è ‘pari opportunità nell’essere creduti’[11]. Un tanto di contraddittorietà insita nella deposizione della persona offesa donna sui fatti subiti viene speso qualificata come inattendibilità della sua testimonianza e minore credibilità soggettiva.

Occorre dare tempoalla narrazione; rispettare il silenzio, non affrettare o eliminare le pause delle risposte della persona offesa.

4) Un altro possibile livello del ‘linguaggio femminile’ è quello dei modelli dell’argomentazione giuridica e cioè dei modelli del ragionamento che conduce alla decisione. Mi sembra uno dei livelli di analisi più fecondi e che meriterebbe di essere approfondito.

Mi riferisco al linguaggio come modello logico-formale dell’argomentazione e del ragionamento.

Sotto quest’ultimo profilo, vale la pena rilevare come la presenza femminile in magistratura abbia sicuramente contribuito a decostruire schemi ritenuti da sempre granitici. Il sillogismo (il sillogismo giuridico: premessa maggiore – la norma-, premessa minore- il fatto- e conclusione – la decisione-), il procedimento deduttivo puro, ma anche il modello sussuntivo puro. Tali modelli sono per verità da anni entrati in crisi e sottoposti a serrata critica dalla dottrina giuridica oltre che nelle prassi giudiziarie. Penso agli studi ormai datati ma sempre illuminanti di Michele Taruffo (risalenti agli ormai lontani anni Settanta).

Oggi si tende (così anche Zagrebelsky), seppure non unanimemente, a superare sia il sillogismo sia la sussunzione a favore di un modello interpretativo ‘misto’ per cui la norma discende dalla sua astrattezza per venire incontro al fatto nella sua concretezza.

Il ‘femminile’, nell’accezione sopra indicata, tende a utilizzare procedimenti misti: induttivi e deduttivi insieme, sussuntivi del fatto nel tipo giuridico senza sacrificare particolari essenziali del fatto.

Spesso anche i modelli logico-giuridici utilizzati nella motivazione di una sentenza si lasciano interpretare secondo ‘genere’. Il ‘pensiero maschile’ predilige e si compiace della motivazione che tiene interamente sotto l’aspetto logico e che si regge su logica interna, che fa apparire la sentenza inattaccabile.

Spesso però tale sentenza tradisce la propria astrattezza dal fatto storico, la propria distanza, la non aderenza alla sostanza del fatto su cui decide.

Alcuni paradigmi logici piacciono molto all’uomo, tanto da ritenere che il diritto possa essere assimilato ad una scienza. L’informatizzazione e la predisposizione di ‘maschere’ o modelli precostituiti di articolazione del discorso e degli argomenti favorisce questa componente di logicità e organizzazione logica di facciata. Possiamo così trovarci di fronte a sentenze di buona fattura e pessimi giudici ( o pessime decisioni).

La donna magistrato propende per un modello argomentativo più induttivo che deduttivo. O meglio combina i due movimenti dalla norma al fatto e dal fatto alla norma con competenza, disinvoltura, naturalezza, pertinenza e sensibilità alla norma e sensibilità al fatto. Fatto e norma vanno ‘sentiti’, palpati da una sapienzialità difficile da formarsi sia nell’uomo che nella donna, ma indispensabili al ben giudicare.

Gioverebbe l’introduzione di esempi concreti tratte da sentenze emesse e dalla analisi della loro parte motiva. Il femminile con teme momenti di (apparente) contraddizione. Non affida la bontà di una decisione alla sola logicità interna e ‘autarchica’ o astratta della sua motivazione. Non è disposta a lasciar fuori dalla sentenzatranche de vie, o di fatti e di accadimenti, o di dichiarazioni. Non ragiona secondo logica, in genere binaria, di opposizione, estrema sintesi, semplificazione. Cerca di conservare e far salvo il più possibile il fatto nella sua vivente interezza.

5) il piano della interpretazione del proprio ruolo, inteso più come servizio che come potere. Ciò non significa che la donna magistrato non sia consapevole della componente autoritativa dell’esercizio della giurisdizione. Solo che sa funzionalizzare il potere-autorità e combinarlo con il senso del ‘servizio’. 

6) il piano (conseguenza del punto precedente) della organizzazione del proprio lavoro: il femminile propende per la disposizione più orizzontale o ‘a rete’ che non per la disposizione piramidal-gerarchico; interpreta l’assetto dell’équipe lavorativa in senso più dialogico che non di trasmissione potestativa di regole di condotta, pur mantenendo il principio di autorità e ferma restando la gerarchia delle funzioni. Lo stesso ampio ricorso ai protocolli sono espressione di un modello di lavoro che privilegia la struttura ‘a rete’ rispetto a quella gerarchica verticistica. Il femminile propende per l’assunzione delle decisioni in forma collegiale.

7) Da ultimo: il piano del linguaggio comune, nel corso del lavoro. Linguaggio come lessico comunicativo quotidiano e interpersonale in senso generico.Aspetto a mio parere molto sintomatico e molto importante, anche ai fini del nostro discorso.

Ancora una volta il linguaggio è pensiero.

Va premesso che all’idea e alla prassi del potere (a cui spesso il magistrato uomo riconduce più spesso l’esercizio della giurisdizione) il maschile associa una forte componente di aumentato prestigio sessuale. Ciò significa che il potere è pensato come attributo di chi lo incarna, a scapito della sua funzionalizzazione finalistica.

L’associazione a simboli sessuali (di sessualità maschile) provoca un feed-back sull’esercizio del potere giudiziario fortemente connotato dalle componenti deteriori della sessualità maschile e del potere.

Di qui un gergo espressivo di sopraffazione, competitività, oppositività, soppressione: “quello mi ha rotto i c…” ; ” Gliel’ho messo in quel posto…” “Il giudice non ti ha accolto la richiesta di misura? Tu fregalo!” “; “se non lo freghi prima tu ti frega lui”… ecc… (espressioni rivolte  a un collega, a un avvocato, a un denunciate, a un indagato..ecc. ). O ancora: “sbattilo dentro”, “è un fetentone”, “è feccia, che cosa te ne frega…” “diamogli una lezione”, “con tutta la fatica fatta per metterlo dentro, teniamolo dentro ancora un po’..” “quell’animale; che c. .. crede di fare? ” [12]

La situazione linguistico-comunicativa si aggrava se riflettiamo che nel nostro mestiere, sempre più manageriale (in cui, come in altri campi di attività, tende a dominare il vocabolo o il sintagma in lingua inglese, mutuati dal mercato e soprattutto dai mercati finanziari) il linguaggio prevalente e ‘gergale’ diventa sempre più quello della competizione dura; le mosse procedurali preferiscono la tattica, il conseguimento di un risultato quale che sia per le vie più brevi; vince chi gioca meglio e con più cinismo. Vince chi gioca duro o basso, non risparmiando colpi sotto la cintura.

I due stili lessicali, quello maschile-sessualizzato e il lessico cinicamente competitivo di derivazione neoliberista dunque e per giunta si coniugano, convergendo su un medesimo risultato.

Si aggiunga che tale lessico, già frequente nella comunicazione ordinaria, avviene in un ambiente fortemente gerarchico (come tutte le istituzioni nate ‘maschili’: esercito, apparati paramilitari o simil-militari ): non a caso viene fatto di definire tale linguaggio assai spesso come ‘linguaggio da caserma’. 

Alla parola, a questa parola ‘maschile’ riduttiva, sopraffattrice, oppositiva, a questi ‘colpi sotto la cintura’, che mira a sottomettere, far fuori, abolire il collocutore, il ‘femminile’ può e sa sostituire una parola unitiva, che collega, che apre uno spazio all’altro. La parola che muove dalla volontà di salvaguardare/salvare anziché eliminare. Un linguaggio concreto, affettivo, relazionale, r-iumanizzatore. L’intelligenza dell’altro: in ogni ambito: penale, civile, famigliare. La ricostruzione della ‘totalità’ dell’altro. La non ossessione del ‘perdere’.

E’ noto del resto come il femminile sia particolarmente capace nella attività di ‘mediazione’, anche in senso tecnico. Nel mettersi dalla parte dell’altro. Nel fare dell’affettività il perno della relazionalità.

L’uso da parte della donna di sintagmi cui sia sottesa una sessualizzazione al maschile del potere (corollario di un irriflesso binomio potere – sessualità) sarebbe ed è profondamente disfunzionale al contributo che il femminile è in grado di apportare alla funzione giudiziaria.

La magistrata che si consegni acriticamente a tale lessico-pensiero maschile, prima o poi si accorge che così perde, oltre alla propria identità culturale più profonda, anche lachancedi dare un contributo prezioso all’amministrazione della giustizia, nel pieno rispetto della legge, e agendo solo sul piano esegetico e modale-metodologico.

Non è il suo linguaggio, femminile. Soprattutto non serve a fare meglio giustizia. Attenzione dunque a non cadere in quella che ho chiamato ‘trappola mimetica’ ed imitazione del maschile: nel potere, nel carrierismo, nei totem della logica astratta, e persino nel gergo o lessico quotidiano (oltretutto l’accezione connotativa di potere che il maschile annette anche alla funzione giudiziaria spinge il linguaggio verso connotazioni sessualizzate o prevaricatorie che configgono profondamente con una retta e lata idea di giustizia). Trovo tutto questo mortificante e abdicatorio, segno di scarsa autostima e valorizzazione della femminile di cui la donna è portatrice potenziale. Inviterei in questo caso ad una ‘ecologia linguistica di genere’ anche nella comunicazione colloquiale ed extraprofessionale. Sotto questo aspetto il linguaggio può considerarsi luogo di elezione per comprendere il rapporto tra donna magistrato e professione.

Perché cadere nella trappola mimetica di un linguaggio non le appartiene, che divide, separa, che non ricuce, che lacera, che nega la donna e la mortifica? Di un lessico che soprattutto non esprime o tradisce la sua visione del mondo?

3-Ai fini della semplice presentazione del ventaglio di articolazioni o piani di lettura o di analisi cui si presta il tema potrei fermarmi qui.

Vorrei però aggiungere almeno due considerazioni conclusive:

La prima. Non è un caso che temi quali quello del rapporto bioetica-biodiritto, il tema immenso e complesso della sanzione penale, il tema della relazione uomo- ambiente e dei reati di genere abbia trovato grande beneficio e carica propulsiva dall’introduzione del ‘principio femminile’ nel diritto anche attraverso un’apertura del pensiero maschile, ma certo come conseguenza della presenza sempre maggiore della donna in magistratura. 

L’ultima: e qui torno alla riflessione generale dalla quale ero partita come premessa alla disamina del ‘femminile giuridico’, ma prendendo le mosse da una riflessione svolta da Donatella Stasio su Il Sole 24 ore del 24.2.2017: una riflessione amara sulle ragioni dell’esodo delle donne dalla magistratura.

L’autrice (magistrata lei stessa) riflette amaramente sul fenomeno dell’esodo delle donne dalla magistratura. E non perché non amino questa professione, che invece hanno amato ed amano molto. Ma perché non si riconoscono più in esso proprio dal momento che hanno riconosciuto l’esistenza e la valenza del ‘principio femminile giuridico’e proprio perché testimoni dirette, come lo sono io, di una tendenziale e  progressiva curvatura della produzione giudiziaria verso valori propri del dominio del femminile).

Contro di esso infatti non solo avvertono la resistenza di una componente maschile prevaricante ma la concomitante azione della aziendalizzazione, ispirata come sopra detto, ai principi neoliberistici della produttività, dell’efficienza espressa in termini statistico-numerici, della organizzazione delle risorse in termini imitativi di quelli di tipo aziendalistico.

Tali fattori, oggi imperanti (e posti a base delle valutazioni di professionalità, talché anche nella magistratura torva ingresso un atteggiamento paragonabile a quello della c.d. ‘medicina difensiva’ esprimibile come ‘giurisdizione difensiva’, esercitata cioè avendo come mète-guida, la carriera, la produttività, il calcolo statistico tra percentuale di impugnazioni – e dunque prova di resistenza di un provvedimento – e numero dei provvedimenti emessi sotto il profilo quantitativo: rapporto carico-scarico delle sopravvenienze, come si trattasse di una macchina la cui efficienza è espressa dal rapporto tra imputs e outputs), sono nemici della giustizia come tale e ne soffrono magistrati uomini quanto magistrati donne. Ma mentre i magistrati-uomini vi si adeguano con maggior rassegnazione e talvolta anche vi si riconoscono con un certo compiacimento, nel nome nelle caratteristiche che abbiamo già rilevato: propensione alla sistematizzazione, alla efficienza, all’organizzazione, alla astrazione in formulari informatizzati, alla velocizzazione dei passaggi (certo l’informatizzazione della giustizia ne ha potenziato tratti ‘maschili’), il femminile giuridico sente il pericolo di una nuova estromissione, della perdita del piccolo fazzoletto di terra che si era così faticosamente conquistato.

Lo si avverte anche sul piano del linguaggio: del resto ad ogni slittamento linguistico corrisponde uno slittamento semantico e dunque ideologico.[13]

Possiamo e dobbiamo riflettere su come il principio femminile sia oggi allora non solo un fattore di arricchimento della giustizia nel senso sopra accennato, ma anche uno zoccolo di resistenza dei valori umanistici, contro la degradazione di ogni settore istituzionale e sociale verso derive antiumanistiche e meramente produttivistiche nell’accezione deteriore del termine.

Ne va dunque del nostro umanesimo giuridico (una giustizia del fatto, delle persone, delle relazioni, dei corpi) nei confronti del quale sono convinta che la presenza femminile nella magistratura abbia un grande ruolo. 

La declinazione secondo genere del linguaggio giova alla soggettività-identità-dignità femminile, alla dialettica fra i generi, all’arricchimento della cultura e della civiltà ma anche alla salvaguardia di quel tanto di umanesimo che dobbiamo salvare a tutti i costi: e qui troviamo tanti colleghi uomini al nostro fianco e d’accordo con noi. Ciò dimostrerebbe la bontà dell’operazione linguistica qui sostenuta, nell’interesse di tutti. Grazie.


[1] Dagli studi di Alma Sabatini ( 1987), a quelli di Cecilia Robustelli ( 2000-2012), dalla Cavarero ( 1987: Costruiamo un linguaggio sessuato al femminile”) alla Malaisi per arrivare al recente scritto di Stefania Cavagnoli (“Linguaggio giuridico e lingua di genere: una simbiosi possibile”, 2013). Ho scoperto la produzione saggistica copiosa delle correlatrici e mi riprometto di leggerla e meditarla. Fiorente anche  la saggistica sul tema in Francia e in altri Paesi.

[2] Del resto anche nella nominazione delle cose comuni, spesso accade che la lingua scelga il femminile quando ‘abbassa il tono’ o il registro della comunicazione, quando scende di uno scalino: gli esempi sono molteplici: le parole più confidenziali o del lessico famigliare sono spesso coniugate al femminile, anche quando ammettano la variante maschile: i nomi proprii maschili non sono preceduti da articolo, salvo in talune prassi lessicali regionali, mentre quelli femminili sono più spesso preceduti dall’articolo femminile ‘la’; quasi sempre, in altre parole, dove si può scegliere la desinenza di genere, si opta per quella femminile quando si vuole parlare al ‘degrée zero’ (al livello della terra, del corpo, del quotidiano minore); anche i dialetti usano il femminile molto spesso dove la lingua ‘alta’ userebbe il maschile. Un tanto di ‘svilimento di status’ accompagna nascostamente la declinazione femminile dei nomi, quasi che il femminile rappresentasse la ‘gradazione abbassata’ del maschile.

[3]Porzia si presenta in Tribunale annunciando che il celebre avvocato nominato ha inviato al posto suo il giovane assistente Baldassarre e, travestita da uomo, tiene la celebre arringa che come noto salverà Antonio da morte contro le pretese di Shylock, oltre al proprio amore per Bassanio.

[4] Politica notoriamente già attuata nel ventennio, incluso anche quello che è stato definito il genocidio dei dialetti, così come può rilevarsi in ogni regime.

[5] Mi permetto di rinviare al mio:” Pena assoluta e giustizia relativa” ,  in cui sono stati dedicati alcuni paragrafi a questo tema.

Ritengo interessante richiamare una suggestiva e quasi misteriosa, nella sua profondità e ‘profeticità’, pagina di Cristina Campo tratta da ” Gli imperdonabili” : “Nei vecchi libri spesso all’uomo giusto è dato il celeste nome di mediatore” (…) Cos’è la mediazione se non una facoltà del tutto libera di attenzione? E’ questa la differenza tra la giustizia passionale di Elettra e la giustizia passionale di Antigone. L’una immagina di poter avanzare colpa per colpa, spostando il peso della forza dall’uno all’altro anello di una catena infrangibile. L’altra si muove in un regno dove la legge di necessità non ha più corso. Al giusto occorre attenzione.  Giustizia è un’attenzione fervente, del tutto non violenta”.

Astrazione (attitudine maschile) è il contrario di ‘attenzione’ intesa come modalità del chinarsi sull’esistente, ascoltarlo, comprenderlo nella sua essenza e nella sua espressione fenomenica, reale, nella sua totalità.

[6] Nella donna contano i particolari, le sfumature (come in arte, in poesia); nell’uomo più spesso la sintesi, la scarnificazione rapida del fatto al nocciolo logico del problema, scartati i particolari ‘superflui’, fattori di dispersione di pensiero o di vana complicazione.

[7] Vorrei richiamare ancora le belle pagine sull’apporto femminile alle cause della giustizia impersonate da figure femminili di sorelle di madri, di figlie, mogli.. – le Antigoni di oggi – tratte dal saggio di Pugiotto-Corleone, “Il delitto della pena” (pensiamo a Stefania Cucchi e a tante altre donne congiunte in rivolta in nome della giustizia e del legame con i propri cari, contro le verità ufficiali) ). Citerei anche l’Antigone riscritta da Valeria Parrella.

[8] La relazione, sede del valore etico inteso in senso sostanziale, direbbe Jung (il benessere-bene dell’uomo in relazione con l’altro). La vita umana è buona ‘ tra’ esseri umani, riteneva già Socrate. E così ritiene Spinoza.

Calamandrei: “L’ideale di un palazzo di giustizia sarebbe ancora quello del buon tempo antico: una quercia, e all’ombra di essa il giudice che ascolta le ragioni dei giudicabili; e intorno il popolo che assiste in circolo, senza schermi e senza sbarre divisorie. Giustizia all’aperto, alla luce del sole, senza porte chiuse e senza corridoi segreti” (Piero Calamandrei. Elogio dei Giudici (1959-2015).

Anche la scienza offre supporto di tale fondamento relazionale della responsabilità, misurata sul metro etico e giuridico: Rovelli, declinando dalle note teorie di Einstein sulla relatività generale: “Non c’è un valore, come non c’è un tempo che siano ‘veri’ in sé. Vero è solo ogni grandezza (o valore) rispetto all’altra. Vi sono innumerevoli tempi. Non ha senso porsi la domanda se esista o cosa sia vero del tempo, bensì chiedersi come evolvano i tempi ‘ l’uno rispetto all’altro’. Diecimila Shiva danzanti”.

[9]Giustamente viene richiamata l’importanza delle conquiste del linguaggio giuridico nella sistematica codicistica e sul piano definitorio normativo. L’esempio antonomastico è quello del reato di violenza sessuale, spostata sotto la categoria dei ‘reati contro la persona’ anziché dei reati contro l’onore; la violenza di genere individuata come categoria specifica: cfr. Sent. Cass. SS.U. Fossati 16.3.2016. L’eliminazione dei reati: atti di libidine violenti, ratto a fine di matrimonio, ecc.. La individuazione degli ‘atti persecutori’ da sempre nella realtà, ma non còlti a livello di previsione legislativa in una specifica concettualizzazione giuridica.

Non posso mancare di richiamare l’evoluzione del linguaggio normativo (di fonte sovranazionale e nazionale) sul tema specifico della violenza di genere a partire dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite sulla eliminazione della violenza contro le donne, 1993, che definisce la nozione di violenza all’art. 1: “Qualsiasi atto di violenza per motivi di genere che provochi o possa verosimilmente provocare danno fisico, sessuale o psicologico, comprese le minacce di violenza, la coercizione o privazione arbitraria della libertà personale, sia nella vita pubblica sia nella vita privata”. Cito ancora la Conferenza di Vienna sui diritti umani; la Risoluzione del Parlamento Europeo del 1997; la Conferenza di Pechino del 1995 (conferenza mondiale sulle donne) e il documento programmatico dell’Assemblea del Millennio ONU del 2000.

La Convenzione di Istanbul del Consiglio di Europa dell’11.5.2011 (ratificata dalla L. 27.6.2013 n° 77 Italia), entrata in vigore l’1.8.2014: sulla prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica), di cui la legge del 2013 è diretta espressione e conseguenza distingue le varie nozioni di:

a) Violenza contro la donna: espressione con cui si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni e sofferenza di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o privazione coatta della libertà, sia nella vita pubblica che nella vita privata (contro la donna in quanto tale).

b) Violenza domestica: designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo famigliare o tra attuali o precedentipartners, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima (rapporti di durata e connotati da coordinate spazio-temporali specifici)

c) Violenza di genere: si riferisce ai ruoli comportamenti attività e attributi socialmente costruitiche una determinata società considera appropriati per uomini e donne: profilo eminentemente culturale (può colpire anche gli uomini): art. 3 Costituzione.

d) Violenza contro le donne basata sul genere: qualunque violenza contro la donna in quanto tale e nei suoi ruoli.

L’elaborazione di queste definizioni postula un’approfondita analisi del fenomeno.

Merita richiamo la Direttiva 2012/29/ UE (cui è stata data attuazione con il D. L.vo 212/2015, entrato in vigore il 20.1.2016) chedetta norme minime in materia di diritti alla assistenza, informazione, interpretazione e traduzione, protezione di tutte le vittime dei reati, senza distinzione di tipo di criminalità e qualità delle vittime.

Anche in questa direttiva è presente la definizione di ‘violenza di genere’ così definita: “la violenza diretta contro una persona a causa del suo genere e che colpisce in modo sproporzionato le persone di un determinato genere. Può provocare danni fisici sessuali o psicologici. La violenza di genere è considerata una forma di discriminazione ed una violazione delle libertà fondamentali delle vittime e comprende la violenza nelle relazioni strette, la violenza sessuale (anche molestie), la tratta di esseri umani, la schiavitù e varie forme dannose quali i matrimoni forzati, la mutilazione genitale femminile e i ‘reati d’onore’. Le donne vittime della violenza di genere e i loro figli hanno spesso bisogno di protezioni speciali a motivo dell’elevato rischio di vittimizzazione secondaria, intimidazioni e ritorsioni connesse a tale violenza”.

-Sul piano dei contenuti e delle espressioni della violenza di genere sulla donna: da una chiarezza concettuale, definitoria (nata dalla osservazione ed esperienza del fenomeno) si passa ad allargare grandemente la nozione di maltrattamento, abuso sessuale, altre forme di violenza di genere, prima non riconosciute, perché non còlte nella loro specificità di indole, di movente.

Bene ha fatto la legge nel caso dellostalkinge ora anche in materia di maltrattamenti a prevedere l’ammonimento del Questore come risposta preliminare e una serie di misure preventive, di risposte cautelari mirate e non carcerarie. 

Si ponga mente anche alla riformulazione della norma sulla schiavitù; ai delitti nuovi ex artt. 583 bis (pratiche di mutilazione organi femminili); 600bis-nonies: sottrazione di fattispecie dalla legge 1958 (prostituzione); 734 bis: divieto di divulgazione generalità ed immagine p.o. in caso di violenza su donne; ecc: passi da gigante). Può citarsi anche la – peraltro vaga – proposta di introdurre il reato di ‘cancellazione di identità’, lo sfregio).

Si tratta indubbiamente di fattispecie nuove, che tutelano innanzituttol’autodeterminazionedella donna. Ci accorgiamo allora come il fenomeno venga nei decenni messo a fuoco a piccoli passi, e come l’essenza e il significato più proprio della condotta di abuso cominci a prendere corpo sul piano delle fattispecie normative.

La donna, da individuo confuso in un genere di cui non è soggetto, comincia ad acquistare lentamenteuna soggettività prima privata e poi pubblica.L’evoluzione legislativa attesta questo percorso. 

Con la legge sullostalkingè tutelato non solo il suo diritto sul proprio corpo, ma anche il suo spazio pubblico, libertà di uscire nella città in situazione di sicurezza, per studio, lavoro, svago, relazioni sociali e di amicizia. Lo Stato si assume anche gli oneri della sua difesa: il diritto della donna è protetto nell’interesse suo e dello Stato. Così va letta anche l’importante sentenza Cass. 2008 che riconosce ai Comuni il diritto di costituirsi parte civile, quando la tutela della libertà incolumità della donna sia stata inclusa espressamente nei rispettivi compiti statutari.

Ma le innovazioni maggiori le ha fatte la giurisprudenza, e su di essa l’incidenza della componente femminile appare essere stata decisiva, sia pure con una serie di casi singolarmente contrari (v. infra).

[10] Linguaggio come interpretazione.  Il genere nella verifica della produzione giurisprudenziale. Sul piano del trattamento giudiziario si rileva intanto:

a) la progressiva inclusione di forme di violenza molto ampie e differenziate, cui corrispondono altrettante ‘nominazioni’ ed espressioni linguistiche:

– la violenza psicologica (ricatti e violenza psicologica; umiliazioni fisiche, morali; svalutazioni; tutto ciò che induce perdita di autostima);

-la limitazione della libertà di incontrare persone, di svolgere attività personali, esprimere e coltivare talenti, non solo sport;

-la segregazione di fatto; la rinuncia a lavoro, le svariate forme di controllo.

– Lo stupro coniugale (in passato non accettato).

– La violenza economica (in tale prospettiva assume rilievo accertare a chi sia intestata la casa famigliare, chi provvede alle spese quotidiane e con quale stipendio, se e come viene tutelato il patrimonio di provenienza ereditaria, chi mantiene chi; assumono  rilevanza le  indagini e l’ accertamento sulle forme di rispetto o dis/misconoscimento del lavoro domestico; ecc…

– la violenza nella sopraffazione degli spazii e dei tempi (suddivisione stanze, del tempo libero…: fondamentale) .

– Bilanciamento comparativo dei carichi fra i componenti la coppia coniugale: a chi è demandata la cura anziani, la cura di tutto ciò che deve essere curato…;

 -I’irrilevanza della addotta ‘provocazione verbale’ nelle condotte di aggressione fisica.

-la violenza ‘assistita’

-le forme ‘omissive’ della violenza in famiglia.

[11] Lunga è la storia della valenza probatoria della testimonianza della vittima -donna: oggi viene valorizzata, con le debite cautele, senza bisogno di presidii o riscontri; in linea generale è prova piena ed autosufficiente (non così fino a pochi anni fa, e non diremo in altri paesi: in Iraq occorrono quattro -4- uomini per testimoniare a favore della donna in caso di violenza sessuale); viene tutelata processualmente da supporti psicologici, di riservatezza, mediante audizione protetta; sostenuta dall’ammissione quali parti processuali o terzi partecipanti al processo, di enti collettivi esponenziali.

Oggi dunque basta la sua sola dichiarazione a costituire prova, senza bisogno di riscontri di cui all’art. 192 c.p.p.. E tuttavia la testimonianza femminile continua ad essere guardata e valutata sotto una lente di diffidenza, specialmente se la p.o. si sia costituita parte civile (si avverte allora che la vittima costituitasi parte civile tende a “ricordare quello che le è utile”, avvalendosi anche di studi ‘scientifici’ e specialistici sulla testimonianza).

Qualche esempio di conduzione frequente dell’assunzione della testimonianza:

Domanda: perché signora ha accettato questo specifico comportamento?

Risposta: perché non ero sicura se aveva ragione lui o avevo ragione io. L’ho fatto per la famiglia, diciamo così. Per la famiglia si fa questo ed altro. Per i figli. Per quello che avrebbe detto la gente.

Domanda: ma Lei ha discusso questo comportamento. Ha detto perché Lei non lo riteneva giusto?

Risposta: perché lui rifiutava di parlarne. Mi diceva sempre che se non mi stava bene potevo separarmi o andarmene di casa. E io avevo sempre meno forza di rispondergli e di ridiscutere tutto il nostro rapporto, tutte le ingiustizie della nostra vita famigliare. Lasciavo perdere. Ero stanca.

Domanda: Eppure a un certo punto lei se ne è andata. Perché poi è tornata?

Risposta: perché lui me lo chiedeva tutti i giorni. Diceva che era cambiato. Diceva che stava male. E io mi sentivo in colpa. Mi sentivo come in debito verso di lui. C’era come una catena invisibile che mi teneva legata a lui. Ero confusa.

Domanda: ha mai pensato di parlarne con qualcuno, fare una denuncia, per esempio?

Risposta:ma tanto avrebbero creduto a lui. Lui quando parla, parla bene, si fa credere. Per me non avrebbe parlato nessuno. Hanno paura di lui.

Chiedere in processo a una donna:“Insomma, sia chiara, è stato così sì o no? L’ha penetrata o no? “, non è un approccio vantaggioso per il risultato probatorio e per la decisione finale.. Segue in genere il pianto e il silenzio.

Ricordo quando dissi in una requisitoria, citando Montaigne: “Arrivo fino al fuoco , ma non per bruciarmi”j’arrive jusqu’aux feu, mais non pas pour me bruler) : i giudici mi guardarono stupiti: Occorre capire e interpretare il linguaggio della donna  e dell’uomo nelle sue diverse età.. Occorre comprendere quando e fin dove la donna (specie ragazza) sfidi e osi, ma non per provocare azioni;

Domande all’imputato: lei ha sentito le dichiarazioni . Che cosa può dire in merito?

Risposta: che non è vero niente, io le ho sempre voluto bene, se ero geloso lo ero per amore, magari una volta è capitato perché avevo bevuto un po’ di più; magari una volta è capitato perché sono un po’ materiale, un po’ rozzo; avrò fatto qualcosa che non andrà bene ma lo fanno tutti i padri con i figli e tutti i mariti con le mogli, qualche piccola scappatella, ma poi lo nego, sentivo dire al bar…nei fatti ero tutto per la famiglia, semmai un po’ nervoso perché il lavoro non andava bene; era lei che faceva pesare tutto quello che faceva e non si occupava di me, invece di starmi vicino e sostenermi; mi faceva notare le cose, in casa sempre lo stesso clima tetro; preferiva stare con i suoi genitori o con un’amica che non con me; non le andava mai bene niente, sa la goccia che scava la roccia.

Domanda: Ma queste condotte specifiche, intrusive, abusive?

Risposta:ma io lo facevo per scherzo. Come si scherza sempre.

Domanda: e la sofferenza dei suoi figli come se la spiega?

Risposta: ah non lo so, in casa io non c’ero mai. Sarà stata la madre, l’hanno messa su i miei suoceri. Sarà stata la paura che ci separassimo, le discussioni che cominciava sempre lei, mi provocava… 

Se non si tiene conto della preoccupazione costante, nella vittima dichiarante femminile, di includere il punto di vista degli altri, delle persone cioè di cui si sente garante (figli, genitori, suoceri, dell’aggressore stesso, della cerchia dei parenti e conoscenti) e di non venire meno al ruolo di garante, non si comprende fino in fondo l’apparente contraddittorietà di alcuni passaggi della sua deposizione. Tali aspetti contraddittori non dovrebbero essere letti direttamente come sintomi di incoerenza, inaffidabilità, inattendibilità, scarsa credibilità, ma vagliati attentamente e letti nel contesto complessivo del ruolo concreto della persona offesa.

Il dichiarante maschile – anche l’imputato – si mostra in genere più monolitico, dunque all’apparenza più coerente, proprio perché resta all’interno del suo proprio e solo punto di vista. Anche quando il Giudicante ritiene biasimevoli punto di vista e commenti dell’imputato, tuttavia gli sembrerà nella sua logica ‘convincente’ (ai fini della valutazione del profilo soggettivo), e attribuirà le grossolanità a ignoranza e difetto di cultura, o infine a profili temperamentali. Spesso la dichiarazione che ha la meglio è quindi quella dell’imputato. Inoltre come sappiamo la donna ha timore di ritorsioni, oltre al timore che non sarà, a giudizio finito, riaccolta dall’ambiente.

La donna persona offesa attesta un altro dato molto frequente: che esiste ancora un livello di violenza accettata dalle donne in casa, specie se non hanno confronti ed accettata anche socialmente, culturalmente e persino giudiziariamente.

La maggior parte delle vittime donna dichiarano di avere ritenuto ‘normale’ fino a un certo momento la condotta maltrattante del marito; la soglia altrimenti incomprensibilmente elevata di accettazione di situazioni invivibili…

La maggior parte delle donne pensa che per affetto, amore, abnegazione, sacrifico, per dovere affettivo materno e di moglie si debba accettare quasi tutto. Anche la maggior parte delle persone che circondano la vittima pensa in verità che se la donna fosse rimasta zitta o avesse continuato a dispensare servizii nonostante tutto, il marito sarebbe migliorato o cambiato.

Tuttavia occorre dare atto che a livello giudiziario si è abbassato di molto il livello di sofferenza tollerabile e tollerata .

Il discorso sulla frequenza degli episodi resta pur sempre rilevate ma relativamente rilevante (quando una fatto capita una sola volta, può restare unico, ma si porta dietro o davanti uno sciame di comportamenti, di microepisodi che spesso non salgono al livello della narrazione ma creano stratificazione.

Così scopriamo che vi sono due modi di intendere la vittima: l’uno, più periglioso, che tende a farne un agente primario di giustizia (accezione accolta dal neoliberalismo giuridico) in cui la vittima privata tende a soppiantare lo Stato e il Giudice; l’altro, in cui la vittima è pensata come controparte dialogica, termine di una relazione, destinataria prima della norma penale. L’ipostatizzazione della condizione di vittima è cosa diversa dalla sua tutela e dall’opera di ricostruzione di un vincolo sociale e politico.

[12] Il potere non funzionalizzato porta con sé i suoi simboli fallici e il proprio linguaggio: “cumannari è miegghiu ca futtiri”, come dice un noto detto sisiliano.

[13] Ancora una volta non si sottovaluti il livello linguistico: i viaggiatori sui treni da passengers sono diventanti sempre più customers; i pazienti sempre più clienti (i direttori delle aziende sanitarie ordinano ai medici di base: voi dovete gestire il paziente, non curarlo…; gli studenti diventano sempre più dipendenti, clienti dell’azienda scuola, fattori di produzione; gli utenti della giustizia diventeranno anch’essi clienti dell’azienda giustizia?