DAT ed eutanasia attiva (di Alessandro De Santis)

Dalle dichiarazioni anticipate di trattamento all’eutanasia attiva.

1. Attività medica e consenso informato: riflessioni giuridiche

Le dichiarazioni anticipate di trattamento costituiscono un “contenitore” dell’autodeterminazione individuale e possono essere in astratto considerate come forma legittima di espressione di tale autodeterminazione biologica quando i potenziali contenuti delle stesse corrispondano ad una situazione di diritto compatibile con il quadro costituzionale e normativo[1]. E, dunque, di validità del biotestamento può discutersi solo in riferimento a dichiarazioni anticipate di trattamento che, oltre a riguardare il compimento degli atti della vita quotidiana, non travalichino il limite del cd. “rifiuto di cure”, anche ove da tale rifiuto derivino le estreme conseguenze. Invero, circa la compatibilità del “rifiuto di cure” con il quadro costituzionale si è espresso positivamente il Giudice delle leggi.

Al riguardo, valga notare che nell’area dei diritti sociali viene a collocarsi anche il diritto alla salute, altrimenti denominato diritto all’integrità psico – fisica, che rinviene il suo referente costituzionale nell’art. 32 della Costituzione[2]. Tale disposizione tutela la salute quale «fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività», sia nei confronti dello Stato, in prospettiva pubblicistica, che nei confronti dei privati; ma, nel contempo, codifica il divieto di sottoposizione della persona a trattamenti sanitari obbligatori, fatta eccezione per le ipotesi in cui ciò sia espressamente previsto da una disposizione di legge[3], in tal modo costituzionalizzando una concezione bidimensionale della salute, che rileva tanto nella sua componente pretensiva[4], che in quella oppositiva[5].

All’alba dell’entrata in vigore del testo costituzionale, senz’altro emergeva con maggiore nettezza la componente oppositiva di detta disposizione, in quanto l’art. 32 si delineava quale strumento di protezione della persona avverso eventuali ingerenze mediche coercitive, e, dunque, quale presidio fondamentale per evitare la degenerazione autoritativa del rapporto medico paziente, portata alla luce dal processo di Norimberga.

Fondamentale, sotto questo profilo, è l’affermazione, contenuta nel testo della norma, che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario[6] se non per disposizione di legge. Cosicché senz’altro il legislatore può imporre dei trattamenti medici ai consociati, ma solo ove trovino giustificazione nella necessità di tutelare la salute pubblica, ossia un interesse superiore destinato a prevaricare, sebbene in ipotesi eccezionali, l’interesse alla salvaguardia dell’integrità fisica individuale.

Parallelamente, l’art. 32 Cost. vive del collegamento osmotico con una disposizione di rango ordinario, quale l’art. 5 c.c.[7] che, nata per rispondere ad esigenze poste da un caso giurisprudenziale[8], vieta a qualsivoglia individuo di disporre del proprio corpo in guisa tale da menomare in maniera permanente la propria integrità o, ancora, da porsi in contrasto con la legge, con l’ordine pubblico, con il buon costume. Tale norma evidenzia ulteriormente l’interesse pubblicistico sotteso alla salvaguardia della salute dei consociati, che devono mantenersi in grado di espletare le loro funzioni sociali, sì da contribuire al benessere della collettività[9], e, comunque, non assumere comportamenti che si pongano in contrasto con la piattaforma di valori che orienta il vivere sociale in un determinato momento storico; ma, nel contempo, tratteggia altresì una modalità di manifestazione dell’autodeterminazione della persona, autorizzando implicitamente gli atti dispositivi del proprio corpo che non comportino menomazioni permanenti.

Delineatasi in tal senso la posizione costituzionale del diritto all’integrità psico – fisica, in stretto collegamento con il diritto alla vita, è emersa la necessità di ricostruire i presupposti di legittimità dell’attività medica. Nel dettaglio, l’alto interesse sociale rivestito dalla scienza medica, in quanto arte finalizzata alla salvaguardia di valori costituzionalmente rilevanti, ed in particolare del bene giuridico della salute di cui all’art. 32 Cost., conduce alla qualificazione dell’attività medica in termini di attività giuridicamente autorizzata, investita dell’operatività scriminante dell’art. 51 c.p., sotto il profilo dell’esercizio di una facoltà legittima. Tuttavia, requisito fondamentale dell’autorizzazione legislativa va rinvenuto nel consenso dell’avente diritto, da intendersi, in linea con quanto previsto dal comma 2 del summenzionato art. 32 Cost., quale presupposto di liceità dell’attività medica e non anche quale autonoma causa di giustificazione[10].

In altre parole, l’attività medica rinviene la sua legittimazione legale in una combinazione applicativa degli artt. 50 e 51 c.p., letti alla luce del dato costituzionale di cui all’art. 32 della Carta fondamentale, mentre il solo consenso del paziente può risultare sufficiente a fondare la liceità dei trattamenti estetici puri e dei trattamenti di routine, la cui minima invasività consente ragionevolmente di ritenere non violato il limite di cui all’art. 5 c.c., purché, chiaramente, non si verifichino alterazioni permanenti dell’organismo del paziente stesso[11].

È possibile, tuttavia, rinvenire talune eccezioni alla suddetta regola. Si tratta, in primo luogo, degli interventi sanitari cd. “necessari”, caratterizzati dal presupposto fattuale della necessità e dell’urgenza terapeutica di intervenire per fare fronte ad un imminente e grave pericolo per la vita del paziente. Questi ultimi, infatti, devono considerarsi giustificati dall’art. 54 c.p. , sussistendo i presupposti di invocabilità dello “stato di necessità”, ma ciò pur sempre in assenza di un dissenso espresso[12].

Altra eccezione si rinviene nei trattamenti previsti come obbligatori dallo stesso legislatore, per i quali si ritiene pacificamente operi la sola scriminante dell’esercizio del diritto di cui all’art. 51 c.p., in combinato disposto con le singole leggi di riferimento. In questo caso, l’eventuale dissenso del paziente non vale a privare di fondamento giuridico l’operato del sanitario, posto che le esigenze di salvaguardia della vita e della salute collettiva prevalgono sulla tutela della libertà di autodeterminazione del singolo[13].

In un quadro così tratteggiato, connotato dalla progressiva esaltazione della libertà di autodeterminazione della persona quale centro tolemaico di rotazione del sistema giuridico, emerge la necessità di valorizzare il disposto di cui all’art. 32 Cost., consentendo a ciascun individuo la gestione personalistica della sua situazione psico – fisica, attraverso una scelta effettiva tra le più opzioni lecite messe a disposizione dal contesto scientifico di riferimento, posto che a ciascuna scelta corrisponde una modalità di estrinsecazione della personalità[14]. Del resto, questo generale divieto di attuare interventi sanitari contro la volontà del paziente, fatte salve le ipotesi di trattamento necessario di cui al comma 2 dell’art. 32 Cost., è coerente con la nuova dimensione assunta dal concetto di salute, non più intesa come semplice assenza di malattia, quanto, piuttosto, come stato di benessere psico – fisico globale dell’individuo, coinvolgente gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza[15].

In tale prospettiva, “cura” non è più ciò che imperativamente il medico ritiene di proporre o imporre al paziente, in una visione autoritativa di salute che coincida solo con il principio di beneficialità, ma il contenuto, concreto e dinamico, dell’itinerario umano, prima ancor che curativo, che il malato ha deciso di costruire, nell’alleanza terapeutica con il medico e secondo scienza e coscienza di questo, per il proprio benessere psico – fisico, anche se tale benessere, finale o transeunte, dovesse preludere all’annientamento della sua vita[16]. E proprio per tali ragioni ormai si riconosce al paziente la possibilità di orientare autodeterministicamente la propria esistenza anche attraverso la scelta di “lasciarsi morire”, ove ad esempio non ritenga conforme ai principi ispiratori della propria persona la prosecuzione di una forzata alimentazione artificiale. Tale concetto di salute, provvisto di una forte dimensione sociale, acquista un pregnante significato anche presso il morente, traducendosi in tal caso in lotta per una dignità o qualità di vita a misura d’uomo[17].

Ad esito di questo percorso evolutivo legato alla tutela della persona, non può omettersi di sottolineare che la giurisprudenza sembra aver raggiunto un più elevato livello di consapevolezza circa il riconoscimento della facoltà del paziente di rifiutare le cure, come attestato dalla presa di posizione del Consiglio di Stato che sembra mettere la parola fine al caso Englaro[18]. Invero, i giudici amministrativi, nel rifiutare una visione autoritativa della cura, permeata al fondo da residui di beneficialità ippocratica, ribadiscono la necessità di consentire al paziente di rifiutare le cure cui non intenda sottoporsi, ove si tratti chiaramente di un rifiuto informato, autentico ed attuale. «Ciò è conforme al principio personalistico che anima la nostra Costituzione, la quale vede nella persona umana un valore etico in sé; vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente (…) e guarda al limite del “rispetto della persona umana” in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive».

Dunque, pare oggi consolidata una ricostruzione teorica che affonda le proprie radici nel progressivo sbiadimento dell’etica della sacralità della vita e che lascia spazio ad una differente concezione, la quale conferisce carattere di centralità alla qualità della vita, intesa come benessere e/o come rispetto dell’autonomia delle persone. L’assunzione di tale visuale prospettica dissolve l’assolutezza dei divieti morali di matrice cristiana, attraverso una rilettura filosofica dell’intero corpus dell’etica medica, che porta alla luce la sostanziale insussistenza di un “dovere di vivere” . La moralità dell’atto eutanasico viene dunque a dipendere dalla convinzione che alla vita umana deve poter essere garantita una condizione di benessere valutata come tale da colui che chiede di morire e di morire ha, dunque, diritto[19].

2. Dal rifiuto di cure all’eutanasia attiva.

Sulla scorta delle considerazioni fin qui effettuate, deve escludersi che, ad oggi, il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita, poiché, alle condizioni surriferite, la tutela autoritativa della stessa recede dinanzi al dispiegarsi autodeterministico della persona, che attraverso questa estrinsecazione si radica nel mondo dei viventi.

Un riconoscimento in tal senso si rinviene anche all’interno della recente disciplina delle dichiarazioni anticipate di trattamento, di cui alla L. n. 210/2017, il cui art. 1, dopo la preliminare enunciazione relativa agli scopi dell’intervento normativo, specifica che, dopo aver ricevuto la dovuta informazione preventiva circa il suo stato patologico, ogni persona capace di agire «ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte (…), qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso, e la sua volontà è acquisita nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente. Ha, inoltre, il diritto di revocare in qualsiasi momento (…) il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento»[20].

Ciò nondimeno, il convincimento espresso dal paziente con riguardo alla sospensione dei trattamenti sanitari in atto non rende lecito il differente fenomeno dell’eutanasia attiva, che la nuova normativa neppure menziona, piuttosto prevedendo, all’art. 1, comma 6, il divieto di esigere dal medico trattamenti sanitari «contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche assistenziali». Adoperando tale evanescente espressione, sulla cui corretta interpretazione si attendono delucidazioni giurisprudenziali, il legislatore potrebbe aver inteso far riferimento tanto all’eutanasia attiva, quanto al suicidio assistito, condotte, allo stato, espressamente sanzionate dal codice penale[21].

Tuttavia, il rifiuto di cure, ormai pacificamente ammesso, non è stato equiparato al fenomeno dell’“eutanasia attiva”, inteso quale comportamento attivo il cui effetto sia quello di provocare la morte del malato[22]. Difatti, giammai la giurisprudenza si è spinta ad una tale equiparazione, ed anzi ha ribadito, che il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può e non deve essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende in via diretta abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale[23]. 

Più precisamente, con l’espressione “eutanasia attiva” si fa riferimento ad un comportamento attivo, eventualmente ascrivibile al medico, il cui effetto è quello di provocare la morte del malato (ad esempio, la somministrazione di una dose letale di un farmaco)[24], mentre con il termine “eutanasia passiva” si richiama una condotta omissiva, posta in essere dal soggetto che si astiene dall’intervenire per salvare la vita del malato, con la precisazione, però, che in tale ultimo ambito rilevano anche casi dagli incerti confini, quali la “omissione tramite commissione”, come ad esempio il distacco di un’apparecchiatura salvavita; il tutto, pur sempre con il tendenziale scopo di alleviare le sofferenze del malato stesso[25].

La prospettiva recepita dalla giurisprudenza italiana e dal legislatore può definirsi moderata. Di certo non aderisce supinamente all’impostazione teorica propugnata dalla Chiesa cattolica, ferma nel ribadire l’immoralità radicale dell’eutanasia, in quanto violazione del comandamento divino: “non uccidere”.

Su tale postulato riposa l’impostazione dottrinale che si esprime negativamente, non solo sull’ammissibilità etica e giuridica dell’eutanasia attiva, ma anche del rifiuto di cure salvavita, richiamando l’etica della sacralità della vita onde sostenere l’assoluta indisponibilità di tale bene da parte dell’essere umano, rimanendo l’interesse individuale completamente assorbito dai prevalenti interessi pubblicistici che esigono una sua totale salvaguardia[26]. Altra importante argomentazione addotta a sostegno di tale posizione teorica consiste nella circostanza che, ciascun medico, in virtù del posizione professionale rivestita e del rilievo costituzionale dell’attività esercitata, permeata, al fondo, da una sedimentazione ippocratica, risulta titolare di una posizione di garanzia posta a salvaguardia della salute dei pazienti, con la conseguenza che tradirebbe il suo dovere di assistenza ove assecondasse la richiesta del malato di non procedere a trattamenti sanitari indispensabili[27].

Detta impostazione affonda le sue radici, come innanzi accennato, nell’etica della sacralità della vita, nella qual prospettiva la vita dell’uomo non è che un dono affidatogli in prestito dal Creatore, sicché uccidere significa non solo contravvenire alla giustizia ma anche disonorare il Creatore stesso, tenendo conto altresì della concezione dell’uomo quale imago dei e della necessità di salvaguardare la reciproca solidarietà umana[28].

Nel contempo, merita segnalare che nel dibattito biogiuridico diverse voci cominciano a dubitare della plausibilità della tradizionale distinzione tra eutanasia passiva ed eutanasia attiva, distinzione che, nei fatti, a fronte di un’analoga pretesa di sottrarsi ad una condizione di fine vita permeata da sofferenza, finisce col discriminare chi “non sia in grado di morire da solo” da chi, invece, “sia in grado di morire naturalmente”[29].

Difatti, vi è chi evidenzia come dinanzi ad un  fenomeno assolutamente naturale ed inevitabile – la morte – occorre una rivalutazione del senso della medicina non più soltanto come pratica scientifica dedita al miglioramento della salute ma anche come disciplina umanistico-filosofica che colloca al centro della sua opera la persona umana intesa in tutte le sue sfaccettature. Tale prospettazione si pone in linea con la visione dell’etica protestante, che conferisce all’eutanasia il ben differente significato di «atto di amore che si accorda a individui nello stadio terminale» e che consente di ridurre la tortura fisica e morale di pazienti gravemente malati o morenti, ponendo fine alla loro sofferenza con i mezzi messi a disposizione dalla tecnica[30].

In tale ottica, non può aderirsi supinamente all’indirizzo per cui la tutela offerta dal testo costituzionale al bene vita è tale da non ammettere alcun tipo di pratica eutanasica, la quale avrebbe come fine unico ed ultimo quello di negare proprio la protezione giuridica della vita. Vi è infatti chi ha osservato che il bene vita è relativo e sempre bilanciabile con altri diritti; ed anzi, proprio il diritto alla vita trova il suo coronamento includendo in sé il diritto di “prendere possesso” della propria vita e della propria morte[31]. In altre parole, il diritto alla vita va valorizzato anche nella sua sfaccettatura di diritto a vivere le fasi terminali dell’esistenza in condizioni e con modalità che non arrechino offesa alla dignità della singola persona; in altre parole, a ognuno va concesso di rivendicare il diritto a vivere con dignità tutte le fasi dell’esistenza umana.

A ciò si aggiunge la considerazione della non assolutezza del divieto di uccidere, destinato a stemperarsi nell’ipotesi in cui procurare la morte costituisce l’attuazione dell’autodeterminazione individuale del paziente, ferma restando la necessità di preservare il diritto del medico all’obiezione di coscienza; dunque, non si potrebbe comunque parlare di dovere di uccidere incombente sul medico, quanto piuttosto – analogamente a quanto accade nei casi in cui viene formulata una richiesta di aborto – della facoltà fondata sul proprio autonomo convincimento circa il comportamento da tenere nel caso in cui venga richiesto un atto di eutanasia[32].

Particolarmente interessante, a tal riguardo, è anche la posizione “sfumata” assunta dall’Accademia Svizzera Scienze Mediche secondo cui l’assistenza al suicidio non può considerarsi parte dell’attività medica, trattandosi piuttosto di un servizio erogato “al di fuori” della prestazione sanitaria. Trattasi infatti di posizione giustificata dalla necessità di difendere l’alleanza terapeutica ed il rapporto fiduciario intercorrente tra paziente e medico, che non si vuole intaccato o “inquinato” dall’obbligo di prestare assistenza al paziente che intenda suicidarsi[33].

Infine, vi è anche chi contesta fortemente la distinzione ontologica tra eutanasia attiva e passiva, sottolineando l’insostenibilità della tesi per cui, in ipotesi di interruzione del trattamento medico, debba individuarsi la malattia quale unica causa della morte. Infatti, la condotta del medico che interrompe il trattamento si inserisce in una precedente condotta attiva consistente nella somministrazione del trattamento medesimo, sicché a quella interruzione deve riconoscersi natura di condotta attiva al pari di una iniezione letale[34].

Ciò nondimeno, ammettere l’eutanasia attiva richiede uno sforzo etico-morale notevole ed emerge il rischio di una dilatazione eccessiva dell’autonomia individuale, idonea a radicare la poco condivisibile convinzione che l’ordinamento giuridico legittimi sempre e comunque il diritto di morire, anche laddove sussistano margini consistenti di guarigione[35].

Ed inoltre, non può omettersi di considerare che le condotte di eutanasia attiva e di suicidio assistito, come innanzi osservato, risultano, allo stato, penalmente rilevanti. La prima risulta idonea ad integrare il reato di omicidio del consenziente, sanzionato dall’art. 579 c.p.; la seconda, il reato di aiuto al suicidio, sanzionato dall’art. 580 c.p. Il quadro normativo vigente evidenzia una sostanziale chiusura rispetto alla “questione eutanasica” e l’eventuale consenso della vittima in condizioni patologiche terminali risulta destinato ad incidere sulla qualificazione giuridica e sull’offensività del fatto (eventualmente giustificando l’applicazione di determinate circostanze attenuanti), ma non anche a neutralizzare la rilevanza penale dello stesso[36]. Il senso ideologico di queste norme è chiaramente l’elevazione del bene della vita su un piano di indisponibilità e sembra porsi su di un medesimo piano anche l’art. 5 c.c., laddove oppone all’autodeterminazione individuale il limite dell’integrità fisica.

3. L’intervento della Corte Costituzionale con ordinanza n. 207/2018

A seguito di incidente stradale, Fabiano Antoniani (conosciuto come Dj Fabo) versava in una grave condizione patologica: tetraplegico e cieco, veniva alimentato attraverso un dispositivo per la nutrizione enterale e respirava grazie ad un ventilatore inserito tramite un foro nella trachea.

Non è opportuno indulgere, in questa sede, sulle tremende sofferenze che una siffatta condizione patologica comportava, vulnerando profondamente la dignità esistenziale del predetto, le cui facoltà intellettive rimanevano integre ed inalterate. E, dunque, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, Dj Fabo decideva di recarsi in Svizzera presso la clinica dell’associazione Dignitas, accompagnato dalla madre, dalla sorella e da Marco Cappato – membro attivo dell’associazione italiana “Soccorso Civile per l’eutanasia legale” – per procurarsi legalmente la morte morsicando un apposito congegno predisposto per l’iniezione di un farmaco letale (tanto avveniva in data 27 febbraio 2017).

Dj Fabo decideva di non accettare le ulteriori sofferenze eventualmente provocate dall’attuazione di una terapia palliativa e di sedazione profonda, reputando la scelta dell’eutanasia attiva maggiormente conforme alla propria personalissima concezione di una vita degna di essere vissuta.

Il Cappato, avendo prestato assistenza a Dj Fabo accompagnandolo in Svizzera e contribuendo alla predisposizione del trattamento eutanasico, veniva tratto a giudizio innanzi alla Corte di Assise di Milano, imputato del delitto di istigazione e agevolazione del suicidio. Tuttavia, con ordinanza del 14 febbraio 2018, la Corte di Assise di Milano sollevava una duplice questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.: la prima, «nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio, per ritenuto contrasto con gli artt. 2, 13, primo comma, e 117 della Costituzione, in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848»; la seconda, «nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 [recte: 12] anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione», per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.

In altre parole, la Corte di Assise, da un lato pone in discussione il perimetro applicativo della disposizione censurata, lamentando che essa incrimini anche le condotte di aiuto al suicidio che non abbiano contribuito a determinare o a rafforzare il proposito della vittima. Dall’altro, contesta il trattamento sanzionatorio riservato a tali condotte, dolendosi del fatto che esse siano punite con la medesima, severa pena prevista per le più gravi condotte di istigazione.

Il giudice a quo propone una rilettura della norma incriminatrice del 1930 alla luce del principio personalistico di cui all’art. 2 Cost., in forza del quale la persona e le sue scelte autodeterministiche in materia di fine vita devono considerarsi prevalenti rispetto alle esigenze statali, deponendo in tal senso anche il fondamentale diritto alla libertà personale, sancito dall’art. 13 Cost., secondo cui la vita umana non può ritenersi funzionale al conseguimento di un fine eteronomo rispetto al suo titolare, con conseguente libertà della scelta di porre fine alla propria esistenza. Ed a sostegno di tale impostazione si richiamava anche il secondo comma dell’art. 32 Cost., nella parte in cui sancisce l’obbligo di rispettare le scelte del paziente anche laddove dalle stesse possa derivare la morte[37].

Il Giudice delle leggi affronta la questione ed esordisce nel proprio ragionamento osservando che il nostro ordinamento non punisce il suicidio, neppure quando sarebbe materialmente possibile, ossia nel caso di tentato suicidio. Punisce però severamente chi concorre nel suicidio altrui, tanto in forma morale che in forma materiale. Il legislatore penale intende dunque proteggere il soggetto da decisioni in suo danno: gli crea intorno una “cintura protettiva” sottraendo ai terzi la possibilità di cooperare con lui nel provocarne la morte.

Questo assetto normativo, secondo la Corte, non si pone in contrasto con il diritto alla vita, delineato nel testo costituzionale quale «primo dei diritti inviolabili dell’uomo»[38], cui non si contrappone il riconoscimento giuridico di un diritto all’ottenimento dallo Stato o da terzi un aiuto a morire. D’altra parte, anche la giurisprudenza europea ha sostenuto che dal diritto alla vita non può semplicisticamente farsi discendere un vero e proprio diritto a morire[39].

Nel contempo, il riconoscimento giurisprudenziale e normativo del diritto all’autodeterminazione individuale non porta con sé, quale naturale precipitato, la neutralizzazione dell’offensività e della rilevanza penale dell’aiuto al suicidio, che continua a ricadere nell’ambito applicativo dell’art. 580 c.p.

Né può ritenersi violato il diritto all’autodeterminazione individuale (di cui agli artt. 2 e 13 Cost.). È certamente vero che il legislatore del 1930, con l’introduzione della norma incriminatrice in esame, intendeva «tutelare la vita umana intesa come bene indisponibile, anche in funzione dell’interesse che la collettività riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini». Ma è anche vero che la ratio di tale incriminazione permane, seppur con diverse sfumature, alla luce dell’attuale quadro costituzionale, che guarda «alla persona umana come a un valore in sé», da tutelare avverso le scelte estreme ed irreparabili tanto più se debole, vulnerabile, potenzialmente esposta a qualsivoglia interferenza decisionale esterna. In altre parole, «il divieto in parola conserva una propria evidente ragion d’essere anche, se non soprattutto, nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto».

Deve quindi rifuggersi il pericolo di adesione a una concezione puramente astratta dell’autonomia individuale, aperta alla potenziale eterodeterminazione coattiva delle vite considerate degne di essere vissute.

E le medesime considerazioni consentono di escludere il contrasto tra la norma in esame e l’art. 8 CEDU, che sancisce il diritto di ciascun individuo al rispetto della propria vita privata. Diritto che comporta, in linea di principio, il riconoscimento all’individuo di una sfera di autonomia nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo, sicché una interferenza della pubblica autorità nell’esercizio di tale diritto è possibile solo se prevista dalla legge e necessaria, «in una società democratica», per gli scopi ivi indicati, tra i quali rientra «la protezione dei diritti e delle libertà altrui», ma sempre purché proporzionata allo scopo perseguito.

In definitiva, l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione.

Tuttavia, i giudici costituzionali osservano anche che situazioni fattuali come quella di Dj Fabo risultavano impensabili al momento dell’emanazione del Codice Rocco, posto che solo l’avanzamento scientifico e tecnologico hanno reso possibile la cronicizzazione e dilatazione temporale di situazioni patologiche estreme, connotate dalla vulnerazione irreparabile delle normali facoltà dell’uomo ed un tempo destinate a condurre a morte rapida. Si tratta, infatti, di ipotesi nelle quali l’assistenza di terzi nel porre fine alla vita può presentarsi al malato come l’unica alternativa praticabile per sottrarsi ad un’esitenza non più conforme al fascio di convinzioni etiche, religiose e filosofiche che costituiscono il suo imprinting valoriale.

In situazioni di tale tipologia, certamente il malato potrebbe avvalersi della disciplina predisposta dalla L. n. 219/2017, richiedendo la collaborazione dei terzi per l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda. Ma tale impianto normativo non consente al medico di praticare trattamenti diretti a provocare la morte del paziente.

Ciò posto, anche la Corte costituzionale si mostra ben consapevole dell’esistenza di una diffusa corrente interpretativa che, sulla scorta delle argomentazioni sopra più ampiamente illustrate, reputa inconferente la distinzione tra eutanasia passiva ed eutanasia attiva, propendendo per la depenalizzazione di quest’ultima. E giunge addirittura a riconoscere che, entro lo specifico ambito considerato, «il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.». Da ciò consegue una rilevante lesione del «principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive».

Ma l’opzione di regolamentare giuridicamente l’eutanasia attiva deve necessariamente costituire il frutto di una scelta politica, non potendo il Giudice delle leggi inopportunamente sostituirsi al legislatore attraverso l’eterodeterminazione di un complesso bilanciamento di interessi che non può sfuggire al meccanismo parlamentare di coagulazione della volontà popolare.

Già in passato, in situazioni analoghe, la Corte costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità della questione sollevata, accompagnando la pronuncia con un monito al legislatore affinché provvedesse all’adozione della disciplina necessaria. Ma non è questa la tecnica decisoria adottata nel caso di specie, poiché idonea a lasciare in vita una normativa ritenuta non conforme a Costituzione, esponendo i rilevanti interessi in gioco ai pericoli di una protratta inerzia legislativa.

Dunque, onde evitare che la norma possa trovare applicazione medio tempore al caso in esame e contestualmente preservare la libertà operativa del Parlamento, i giudici costituzionali decidono di disporre il rinvio del giudizio in corso, fissando una nuova discussione delle questioni di legittimità costituzionale all’udienza del 24 settembre 2019, in esito alla quale potrà essere valutata l’eventuale sopravvenienza di una legge che regoli la materia in conformità alle segnalate esigenze di tutela. Rimarrà nel frattempo sospeso anche il giudizio a quo. Il tutto, in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale.

4. Considerazioni conclusive

Non può non colpire la netta presa di posizione operata dalla Corte costituzionale in riferimento ad un tema di estrema delicatezza, che coinvolge nella sua essenza la piattaforma di valori su cui si innesta la dinamica evolutiva del tessuto sociale.

Se da un lato, infatti, viene affermata la legittimità costituzionale della tutela della vita umana, al riparo da qualsiasi forma di ingerenza del terzo nella drammatica scelta di interruzione dell’esistenza, dall’altro il Giudice delle leggi evidenzia con fermezza la lacunosità della disciplina contenuta nella L. n. 219/2017, sostanzialmente inidonea a salvaguardare adeguatamente i valori della dignità della vita umana e dell’autodeterminazione del singolo, cristallizzandosi un netto superamento della concezione statalista pre-costituzionale che riduceva la vita ad un interesse della collettività[40].

In un’età della tecnica ove la nascita e la morte non costituiscono più eventi che si impongono per il loro essere fatti della natura sottratti al controllo dell’uomo, emerge netta l’adesione costituzionale al superamento del risalente “vitalismo ippocratico”, in luogo del riconoscimento all’individuo della piena titolarità delle scelte relative alla propria salute, in una concezione della libertà che intende la stessa come condizione assoluta da esercitare in relazione a ciò che si preferisce e tale da arrestarsi soltanto dinanzi alle disposizioni legislative che individuano i beni indisponibili[41].

Sono oramai lontani i tempi delle condanne sdegnate dell’autoregolatività e dell’autodeterminazione, fondate sull’apodittica invocazione di una sedicente “legge naturale”; così come deve rifuggersi la sterile contrapposizione con un narcisismo libertario ed indifferentemente permissivo dell’io, auspicandosi, piuttosto, la ragionevole calibratura del principio di autodeterminazione[42].

Appare dunque preferibile, nell’attuale quadro costituzionale, l’assunzione di una prospettiva laica fondata sul “principio di autonomia”, intesa come «capacità di riflettere criticamente sulla struttura motivazionale del proprio agire, in modo da essere e continuare ad essere uno che sceglie»[43]. In tale prospettiva, limiti e vincoli possono essere imposti solo per proteggere la società, mentre nessuno può arrogarsi il diritto di decidere cosa sia meglio per il singolo essere umano, ed il fine della medicina deve essere anche e soprattutto quello di promuovere l’estrinsecazione dell’autonomia, in quanto ratio essendi della legge morale e valore intimamente connesso alla dignità della persona[44].

Tuttavia, pare pur sempre opportuno collocare al centro di tale riflessione il controllo del corpo, quale valore universalmente riconosciuto che ci costituisce non solo in quanto esseri senzienti e pensanti ma anche in quanto agenti e individui autonomi. Nell’attuale struttura statale “secolarizzata”, l’apparato politico non può che far gravitare il proprio operato intorno al nucleo di tale valore, senza cedere alle lusinghe dell’agevole adesione a preconfezionati modelli ideologici, idonei, volta per volta, a soddisfare le istanze di questa o di quella forza sociale, ma non a centrare l’obiettivo ultimo[45].

L’evidente pericolo, nell’attuale degenerazione mass mediatica della comunicazione, è quello di uno sdoganamento “populista” della complessa questione bioetica oggetto di analisi, funzionale alla strumentalizzazione della stessa in chiave elettorale, in un processo di cancellazione delle “zone grigie” che rischia però di cancellare anche l’essenza del dibattito: la tutela della persona.

È chiaro, ed a tutti dovrebbe essere chiaro, che le questioni bioeticamente rilevanti celano una riflessione complessa e ricca di sfumature e si collocano normalmente al centro di un dibattito tecnico sofisticato, ricco di voci qualificate difficilmente riconducibili al bianco e al nero[46]. Il tema del fine vita coinvolge diverse prospettive valoriali, spesso articolate e multisfaccettate, dalla cui analisi ponderata non può prescindersi per l’elaborazione di una soluzione che persegua realmente il bene comune.

Solo in tal modo può darsi concretezza al moderno principio di dignità umana, intesa quale condizione di nobiltà ontologica e morale in cui ciascun essere umano è posto per il sol fatto di essere uomo e di esistere in quanto individuo unico ed irripetibile.

Senza dubbio i rischi di abuso insiti in ogni disciplina che ampli l’autonomia decisionale della persona debole nella fase finale della sua vita sono reali; ma questo non costituisce certamente un motivo valido per eludere un confronto produttivo, improntato ai criteri della ragionevolezza, della prudenza e della solidarietà e che ponga realmente la persona al centro della riflessione giuridica, al di là degli interessi politici sottostanti e delle conseguenze che, in chiave elettorale, possono scaturire da una decisione assunta con lucidità e realmente improntata al perseguimento del bene comune.


[1] Sul punto, cfr. M. Aramini, Introduzione alla bioetica,Milano, 2009, 446, il quale osserva che non possono ritenersi giuridicamente vincolanti le dichiarazioni anticipate che siano in contraddizione non solo col diritto positivo, ma anche con le norme di buona pratica clinica o con la deontologia medica. Cfr. anche Aa.Vv., Le manifestazioni anticipate di volontà: il living will tra autodeterminazione della persona e autonomia del medico, in C. Buccelli (a cura di), Le criticità nella medicina di fine vita: riflessioni etico – deontologiche e giuridico – economiche, Napoli, 2013, 77, ove si osserva che le DAT possono contenere espressioni di volontà inerenti: assistenza religiosa; donazione di organi; impiego del cadavere o di sue parti per scopi di ricerca e/o didattici; modalità di umanizzazione della morte (cure palliative, richiesta di cure domiciliari, ecc…); preferenze sulle alternative diagnostico – terapeutiche che possono presentarsi nel corso della malattia; dissenso rispetto a forme di accanimento terapeutico o sostegno vitale; sospensione dell’alimentazione o dell’idratazione artificiale.

[2] In particolare, il testo dell’art. 32 Cost. recita: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

[3] G. Chinè, A. Zoppini, Manuale di diritto civile. Quarta edizione, Roma, 2013, 131 – 132; cfr. anche F. Del Giudice, Compendio di diritto costituzionale. XIX Edizione, Napoli, 2015, 158; G. Coletta, Le difficoltà del dibattito bioetico e la necessità di una legislazione caratterizzata dal rispetto delle scelte individuali, in L. Chieffi, P. Giustiniani (a cura di), Percorsi tra bioetica e diritto. Alla ricerca di un bilanciamento, Torino, 2010,  58 – 61.

[4] Interessanti, al riguardo, le riflessioni di M. Mori, Manuale di bioetica. Verso una civiltà biomedica secolarizzata, Firenze, 2011, 367 – 372, il quale afferma che, secondo la posizione maggioritaria, l’art. 32 Cost. recepisce una prospettiva egalitaristica, secondo la quale è compito dello Stato adoperarsi, nei limiti delle risorse di cui dispone, onde tutelare adeguatamente la salute dei cittadini. Tuttavia, in tempi più recenti ha ottenuto diffusione anche una prospettiva libertaria, ispirata sotto alcuni aspetti alle idee del filosofo texano Tristram Engelhardt, in virtù della quale è moralmente sbagliato che lo Stato si occupi della salute dei cittadini, e ciò in quanto la dignità e l’autonomia della persona fanno si che questa abbia il diritto di controllare e gestire tutto ciò che riesce ad acquisire attraverso scambi volontari, dovendosi preservare la sua intangibilità rispetto ad ingerenze esterne idonee ad intaccare i suoi piani di vita. Ad esempio, se il sistema sanitario pubblico prevede l’aborto gratuito si giunge alla conseguenza che un antiabortista si trova coattivamente a dover pagare per l’erogazione di un servizio che giudica ripugnante e con il quale non vorrebbe avere nulla a che fare.

[5] Quanto al riparto di giurisdizione tra Giudice ordinario e Giudice amministrativo in relazione alle controversie concernenti la lesione del diritto alla salute si veda R. Garofoli, G. Ferrari, Manuale di diritto amministrativo, V Edizione, Roma, 2012, 1791 – 1792. Gli Autori sottolineano che, secondo una posizione che riscuote considerevoli consensi, ove il diritto alla salute presenti un contenuto prevalentemente oppositivo, la posizione del privato si atteggia a diritto soggettivo non affievolibile, con conseguente radicamento della giurisdizione presso il Giudice ordinario; al contrario, ove abbia contenuto prevalentemente pretensivo, come diritto a perseguire un miglioramento delle proprie condizioni, richiedendo per il proprio soddisfacimento l’interposizione di un potere pubblicistico discrezionale, affievolirebbe ad interesse legittimo, con conseguente trasmigrazione delle relative controversie presso il Giudice amministrativo.

[6] Con questa espressione si fa riferimento a tutte le condotte, commissive o omissive, poste in essere da un soggetto esercente l’attività sanitaria e implicanti un contatto con la persona del paziente, in vista del mantenimento, recupero o promozione del suo benessere fisico, psichico e sociale. A titolo esemplificativo, possono ricondursi a questa categoria la visita medica, l’attività diagnostica, la profilassi, i trattamenti antidolorifici, gli interventi chirurgici, la somministrazione di farmaci, i trattamenti cosmetici e plastici.

[7] Detta disposizione recita: «Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume».

[8] Il riferimento è a Trib. Napoli, 28 novembre 1931. Nello specifico, un giovane uomo napoletano, dietro pagamento di un compenso, fece trapiantare ad un anziano americano una delle sue ghiandole sessuali. Tuttavia, il Tribunale partenopeo mandò esente da responsabilità penale il chirurgo che aveva eseguito l’intervento, in quanto né il giovane uomo italiano, né l’anziano signore statunitense, ebbero complicazioni o menomazioni fisiche in seguito all’operazione.

[9] Per approfondimenti sul punto si veda M. De Tilla, L. Militerni, U. Veronesi (a cura di), La parola al paziente. Il consenso informato e il rifiuto delle cure, Milano, 2008, 5 – 9, ove, in particolare, si osserva che, fin quando scopo essenziale dell’ordinamento era la salvaguardia dell’interesse collettivo, impersonato da uno Stato autoritario, era inevitabile considerare permanenti tutte quelle diminuzioni dell’integrità psico – fisica tali da impedire all’individuo un pronto assolvimento dei doveri impostigli dalle istituzioni; tuttavia, lo scenario è mutato con l’assimilazione culturale e giurisprudenziale dei valori costituzionali, ad esito della quale si è giunti a ritenere che obiettivo ultimo dell’ordinamento sia la tutela della persona, sì da considerare diminuzioni permanenti dell’integrità psico – fisica tutte quelle che compromettono il benessere fisico, psichico e sociale dell’individuo, prescindendo dalla sua capacità di lavoro. Circa il rapporto tra divieto di atti dispositivi del proprio corpo e sperimentazione post – mortem, F. Sbordone, C. Buccelli, La sperimentazione post mortem, in C. Buccelli (a cura di), Aspetti etici della sperimentazione biomedica. Evoluzione, criticità, prospettive, Napoli, 2015, 211 ss.

[10] R. Garofoli, Manuale di diritto penale. Parte generale, Roma, 2011, 757 – 758; cfr. anche F. Pensa, Legittimazione dell’attività medica, in M. De Tilla, L. Militerni, U. Veronesi (a cura di), Il testamento biologico, verso una proposta di legge, Milano, 2007, 46 ss., il quale osserva che, poco dopo l’entrata in vigore del testo costituzionale si era diffusa una differente ricostruzione teorica che rinveniva la giustificazione dell’attività medica nel solo consenso del paziente, invocando l’applicabilità della scriminante del consenso dell’avente diritto di cui all’art. 50 c.c. Ciò nondimeno, detta impostazione non ha mancato di esibire immediatamente il suoi limiti dogmatici, posto che l’ambito di operatività del suddetto art. 50 c.p. rinviene un necessario limite nell’art. 5 c.c., che vieta senz’altro di autorizzare atti di disposizione del proprio corpo che cagionino una diminuzione permanente dell’integrità psico – fisica, così traghettando al di fuori dell’area di liceità gli interventi che determinino un’alterazione anatomica o funzionale permanente; A. De Santis, L’esercizio dell’attività medico chirurgica necessaria ed urgente nei confronti del paziente dissenziente: il caso Welby, in Spiaaldiritto, 4/2013, da www.spiaaldiritto.it (accesso del 23 – 11 – 2015), ove si osserva che il sanitario che agisce nel perseguimento di finalità terapeutiche, in ottemperanza alle regole dell’ars medica, nonché in presenza di uno consenso del paziente, esercita un diritto attribuitogli dall’ordinamento giuridico, e ciò, in particolare, in considerazione del valore fondamentale che il bene “salute” detiene in sede costituzionale, come desumibile dall’art. 32 della Grundnorm; per una ricostruzione giurisprudenziale della tematica Cass. Pen., Sez. IV, 3 ottobre 2001, n. 1571; Cass. pen., Sez. IV, 27 marzo 2001, n. 36519; Cass. civ., Sez. III, 23 maggio 2001, n. 7027 che, però, si discosta in parte dal precedente orientamento affermando l’autolegittimazione dell’attività medica che, per il suo legame con valori costituzionalmente rilevanti, rinverrebbe il suo fondamento nell’ordinamento giuridico complessivamente inteso.

[11] Tuttavia, secondo altra ricostruzione teorica risulterebbe superfluo il richiamo dell’art. 51 c.p., potendosi configurare, piuttosto, una “scriminante costituzionale”, che trova fondamento direttamente nell’art. 32 Cost. e che ha nel consenso informato il suo presupposto di operatività; sul punto Cass. pen., Sez. Un., 21 gennaio 2009, n. 618; R. Giovagnoli, Approfondimenti per il concorso in magistratura, 3, 2015, 193 – 194.

[12] F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2001, 289; cfr. anche F. Ambrosetti, M. Piccinelli, R. Piccinelli, La responsabilità nel lavoro medico d’équipe, Torino, 2003, 136.

[13] R. Garofoli, Manuale di diritto penale. Parte generale, Roma, 2011, 759 – 760. L’Autore precisa conclusivamente che la responsabilità penale del medico non è comunque esclusa ove la lesione subita dal paziente dipenda da un suo errore. Invero, il medico può andare esente da responsabilità soltanto ove rispetti, nell’esecuzione dell’intervento, tutti i limiti e i principi legislativi riferiti all’esercizio dell’attività medico – chirurgica ed il complesso delle leges artis che ne costituiscono il substrato tecnico.

[14] A. De Santis, La fecondazione eterologa nel quadro legislativo e giurisprudenziale italiano, in M. De Tilla, L. Militerni, U. Veronesi (a cura di), Fecondazione eterologa, Milano, 2015, 250, il quale evidenzia come, proprio alla luce di queste riflessioni, caratterizzate, al fondo, dall’adesione alla concezione monista della personalità, si forma il concetto di “alleanza terapeutica” nella sua lettura moderna, concetto che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene, rispettando i percorsi culturali di ciascuno. Il tutto, attraverso una determinazione volitiva che non si vuole annichilita da proibizioni di matrice pubblicistica sprovviste di razionale fondamento.

[15] Cfr., quanto al profilo più squisitamente bioetico, M. Aramini, Introduzione alla bioetica,Milano, 2009, 125 ss., ove si propone l’accoglimento di una definizione di salute intesa non come “stato” ma, piuttosto, come «“tensione” dell’uomo e della società per un benessere bio – psichico – spirituale e ambientale»; questa definizione della salute, considerata nella totalità dell’uomo calato all’interno di una situazione reale, specifica e qualifica la finalità sanitaria; S. Spinsanti, Salute, malattia e morte, in Aa.Vv., Nuovo dizionario di teologia morale, Milano, 1990, 1134 – 1144; quanto al profilo giurisprudenziale, Corte cost., 5 febbraio 1985, n. 161; Corte cost., 7 luglio 1999, n. 309.

[16] Cass. civ., Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748; cfr; ancora, sull’evoluzione del concetto di salute, Cass. civ., Sez. Un., 1 agosto 2006, n. 17461.

[17] D. D’Avanzo, Etica sanitaria, Milano, 1987, 92 – 93.

[18] Cons. St., Sez. VI, 2 settembre 2014, n. 4460, che riprende e sviluppa l’orientamento già espresso in maniera conferente da Cass. civ., Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748.

[19] M. Mori, Manuale di bioetica. Verso una civiltà biomedica secolarizzata, Firenze, 2011, 58 – 60. Cfr. anche C. A. Defanti, La qualità della vita, le decisioni mediche di fine vita e l’argomento della “deriva nazista” in bioetica, in Filosofia politica, XXIII, 3, 2009, 363 ss., che si occupa specificamente dell’affermazione, consolidatasi durante gli ultimi trent’anni del concetto di “qualità della vita” nel lessico comune. È interessante rilevare come una siffatta convinzione abbia fatto breccia, sebbene attraverso un recepimento moderato, anche nel pensiero di alcuni importanti teologi cattolici. In proposito, può emblematicamente menzionarsi H. Kung, W. Jens, Della dignità del morire, Milano, 1996, ove si osserva che «non possiamo però ignorare che oggi ci sono sempre più uomini e donne che non sopportano più una vita ormai perduta in cui dolori indescrivibili non scompaiono neppure con i più potenti sedativi (…) Costoro non desiderano essere tranquillizzati o resi incoscienti mediante psicofarmaci o morfina (…) essi desiderano piuttosto congedarsi e morire in piena coscienza. Ma dal momento che non possono morire, domandano una morte dignitosa: chiedono di essere aiutati a morire».

[20] Inoltre, ai sensi del comma 5 dell’art. 1, si prospetta la possibilità, per il paziente, di rifiutare in tutto o in parte anche le informazioni fornitegli dal medico in ordine alla sua situazione patologica. Del resto, tale scelta potrebbe risultare il frutto della personalissima volontà di non convivere con la consapevolezza della malattia o delle sue conseguenze, circostanza che potrebbe influenzare negativamente il decorso patologico.

[21] Cfr., sul punto, R. Masoni, Rifiuto di trattamento medico e scelte di fine vita nella L. n. 219/17: l’ultima tappa di un lungo percorso, in Dir. Fam. Pers., 3, 2018, 1139 ss.

[22] S. Cortese, Il ruolo della famiglia legittima e di fatto nelle scelte di fine vita del congiunto, in C. Buccelli (a cura di), Le criticità nella medicina di fine vita: riflessioni etico – deontologiche e giuridico – economiche, Napoli, 2013, 376.

[23] Cass. civ., Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748. In tale ottica deve ritenersi senz’altro vietata e, quindi, penalmente incriminabile a titolo di omicidio, la condotta di somministrazione di una dose letale di medicinale; cfr. anche Cass. civ., Sez. I, ordinanza 20 aprile 2005, n. 8291, che si sofferma sulla mancanza di una specifica presa di posizione legislativa; cfr. C. Tripodina, Il diritto nell’età della tecnica: il caso dell’eutanasia, Napoli, 2004, 17 ss.; G. Popolo, Testamento biologico ed eutanasia: i limiti contenutistici, in M. De Tilla, L. Militerni, U. Veronesi (a cura di), Il testamento biologico, verso una proposta di legge, Milano, 2007, 24 ss.

S. Cortese, Il ruolo della famiglia legittima e di fatto nelle scelte di fine vita del congiunto, in C. Buccelli (a cura di), Le criticità nella medicina di fine vita: riflessioni etico – deontologiche e giuridico – economiche, Napoli, 2013, 376. L’Autrice puntualizza che la nozione moderna di eutanasia è ascrivibile all’opera filosofica di Bacone, che rinnovando il concetto di buona morte degli antichi, inteso come morte serena e felice, spesso identificata con la morte eroica in battaglia o con la morte naturale in vecchiaia, lo caratterizzava con una nuova sfumatura “pietistica”, delineando lo stesso quale accompagnamento indolore del malato nella fase terminale della vita.

[25] Per una ricostruzione più articolata, D. Minutelli, L’eutanasia ed il suicidio assistito: aspetti etici e giuridici, in C. Buccelli (a cura di), Le criticità nella medicina di fine vita: riflessioni etico – deontologiche e giuridico – economiche, Napoli, 2013, 320, che distingue l’eutanasia in “propria” ed “impropria”. Alla prima corrisponde l’eutanasia attiva, mentre la seconda espressione ricomprende cinque differenti situazioni: a) l’eutanasia che corrisponde al rifiuto libero e consapevole del paziente di sottoporsi alla terapia necessaria alla sopravvivenza; b) l’eutanasia che corrisponde alla sospensione dell’accanimento terapeutico; c) l’eutanasia lenitiva o indiretta, causata dall’uso di farmaci per trattare i dolori nei malati terminali; d) l’eutanasia eugenetica; e) l’eutanasia passiva, configurabile ove si lascia morire un malato terminale che non è in grado di pronunciarsi circa il prosieguo della sua malattia, sospendendo le cure necessarie alla sua sopravvivenza.

[26] P. D’Addino Serravalle, Atti di disposizione del corpo e tutela della persona umana, Napoli, 1983, 145 ss.

[27] Per approfondimenti relativi a tale posizione teorica, M. De Tilla, L. Militerni, U. Veronesi (a cura di), La parola al paziente. Il consenso informato e il rifiuto delle cure, Milano, 2008, 121 – 123.

[28] M. Aramini, Introduzione alla bioetica,Milano, 2009, 113. Tuttavia, anche nell’ottica cristiana, l’adesione alla concezione sacrale della vita e la formulazione incondizionata del quinto comandamento non impedirono la creazione di eccezioni allo stesso, individuabili nella pena di morte, nelle uccisioni in guerra, nell’uccisione del tiranno, nella legittima difesa. Cfr. anche M. Cavina, Andarsene al momento giusto. Culture dell’eutanasia nella storia europea, Bologna, 2015, il quale evidenzia come, ai primi del Seicento, il Fornario, nel suo volume diretto ai confessori, elencava i doveri del medico cristiano e al quarto punto enunciava quello che può esserne considerato un principio di carattere generale, ossia «il dovere di non porre a repentaglio la salute dell’anima eterna in nome della cura del corpo caduco»; infatti, fin dal Concilio Laterano del 1215 la Chiesa aveva imposto al medico di non spingere il malato ad azioni che si ponessero in contrasto con la salvezza dell’anima. Detta impostazione teorica ha ricevuto anche degli autorevoli ma risalenti avalli giurisprudenziali; basti, in tale sede, fare riferimento a Cass. pen., Sez. I, 18 novembre 1954 in F. it., 2, 1955, 151 ss., secondo la quale l’affermazione dell’inviolabilità della vita umana è indispensabile «per la esistenza e lo sviluppo di ogni popolo nella società, dove l’uomo rappresenta una fonte di ricchezza e di forza come elemento riproduttore della specie, come lavoratore, come soldato; sicché la società organizzata giuridicamente nello Stato, nel punire l’omicidio, tutela un diritto suo proprio, oltre a quello dell’individuo».

[29] A. Vallini, Rifiuto di cure “salvavita” e responsabilità del medico: suggestioni e conferme dalla più recente giurisprudenza, in Dir. pen. proc., 1, 2008, 68 ss. Cfr. V. Pocar, L’eutanasia e il diritto all’autodeterminazione, in L’ateo, 2, 2003, 8. Esprime un concetto analogo, ma sulla scorta di un percorso interpretativo differente, S. Bartolommei, Corpo e cura di sé alla fine della vita: sulle “dichiarazioni anticipate di trattamento”, in Tendenze Nuove, 3, 2006, 317-318, affermando che «se si giudica ammissibile che in alcune situazioni si lasci morire qualcuno che ha in precedenza espresso il rifiuto delle cure, si deve ritenere ammissibile che in casi analoghi la morte possa essere procurata direttamente se questo era il desiderio espresso dal paziente sino all’ultimo momento della sua vita cosciente. Tutte queste soluzioni rientrano infatti nella stessa classe di atti: gli atti di disponibilità, da parte degli esseri umani, dei tempi e dei modi della uscita dalla vita, e la differenza riguarda solo i mezzi empirici utilizzati per conseguire il fine desiderato».

[30] G. Carobene, Dilemmi del fine vita nel confronto tra approccio scientifico e prospettiva religiosa (cattolica-protestante), in Biolaw Journal, 3, 2016, 107-108, ove si evidenzia opportunamente che «una nozione statica di salute, legata a una dimensione oggettiva e fissa del benessere psicofisico, deve essere superata rispetto ad una concezione soggettiva e dinamica del concreto contenuto del diritto alla salute».

[31] H. Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, Torino, 1997, 194 ss.

[32] U. Adamo, Eutanasia e diritto costituzionale, in Giur. Cost., 3, 2016, 1252 ss., e ciò sul presupposto che la tutela della medicina ha a che fare con l’integrità della vita, o almeno con la situazione nella quale la stessa sia ancora desiderabile per il paziente; cfr. D. Neri, La porta è sempre aperta? Osservazioni su dignità del morire, diritto ed etica medica, in Bioetica, 1, 1999, 156 ss.

[33] Assistance au décès: les directives de l’ASSM de 1995 restent valides. Bulletin ASSM 2002. Cfr., sul punto, L. D’Avack, Norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento: una analisi della recente legge approvata in Senato, in Dir. Fam. Pers., 1, 2018, 179 ss.

[34] G. Cricenti, Il diritto di rifiutare le cure. Critica delle distinzioni irrilevanti, in Eur. Dir. Priv., 3, 2011, 681 ss. L’Autore rafforza la sua affermazione richiamando l’elaborazione teorica di J.S. Mill, in base alla quale un evento è la somma di fattori positivi e negativi, ossia di azioni e di omissioni, è l’esito di una pluralità di cause, positive e negative; cfr. J.S. Mill, A System of Logic, Londra, 1959.

[35] M. Rinaldo, C. Cicero, La dignità del morire, tra istanze etiche e giuridiche, in Dir. Fam. Pers., 3, 2018, 1003 ss.

[36] A. D’Aloia, Diritto di morire? La problematica dimensione costituzionale della “fine della vita”, in Politica del diritto, 4, XXIX, 1998.

[37] A. Salerno, Eutanasia cosciente e agevolazione del suicidio: l’ultimatum della Corte costituzionale, in Il penalista, 1, 2019.

[38] Cfr., per approfondimento, Corte cost., 27 giugno 1996, n. 223.

[39] Corte Edu, 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito.

[40] A. Salerno, Eutanasia cosciente e agevolazione del suicidio: l’ultimatum della Corte costituzionale, in Il penalista, 1, 2019, ove contemporaneamente si sottolinea che la presa di posizione dei giudici della Consulta deve comunque considerarsi limitata ai peculiari casi di «persona affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli».

[41] M. Aramini, Introduzione alla bioetica,Milano, 2009, 441 – 442. Trattasi di una posizione teorica che rinviene il suo fondamento teorico negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione. Per approfondimenti, U. Veronesi (a cura di), Testamento biologico. Riflessioni di dieci giuristi, Milano, 2006, 189 ss.

[42] Cfr., sul punto, C. Vigna, Vita umana e autodeterminazione. Una questione molto disputata, in Biolaw journalRivista di BioDiritto, 2, 2017, 207.

[43]   CNB, Direttive anticipate di trattamento, parere del 18 dicembre 2003.

[44] F. Capuozzo, Problematiche di ordine etico e religioso, in M. de Tilla, L. Militerni, U. Veronesi (a cura di), Il testamento biologico, verso una proposta di legge,Milano, 2007, 177, la quale evidenzia che la dottrina del consenso informato, trasformando l’essenza del rapporto medico paziente, ha avuto il merito di far uscire l’individuo dal proprio stato di minorità, assegnandogli il diritto e la responsabilità di utilizzare in autonomia il proprio intelletto, seppur assoggettandosi alla guida del medico. Del resto, come evidenziato da P. Sobbrio, Il rapporto medico paziente alla luce del parere del CNB, in M. Gensabella Furnari (a cura di), Il paziente, il medico e l’arte della cura, Catanzaro, 2005, 76, dinanzi al testamento del biologico, il ruolo del medico, così come quello del notaio in riferimento al testamento pubblico, non si limita alla mera ricezione della volontà del paziente, ma è un ruolo attivo nel momento in cui, attraverso un’adeguata informazione, incide in un senso o nell’altro sulle dichiarazioni rese dal soggetto.

[45] D’altronde, la laicità, traendo origine dal razionalismo e dall’Illuminismo, presuppone un’idea relativistica della democrazia e proprio tale idea, dunque, si pone a fondamento del pluralismo democratico e mette in guardia dalle visioni assolutistiche e totalizzanti; cfr., sul punto, G. Zagrebelsky, Il «crucifige!» e la democrazia, Torino, 2007, 114 ss., 118 ss., 121 ss.; H. Kelsen, La democrazia, trad. it. di M. Barberis, Bologna, 1998, 219 ss., 269 ss., il quale, già in tempi più risalenti, aveva affermato il legame inscindibile tra il relativismo e la teoria liberale; J. Baubérot, Le tante laicità del mondo. Per una geopolitica della laicità, Roma, 2008, 53 ss., il quale afferma che «ogni religione ha un influsso sociale conforme al numero dei fedeli, ma non deve avere il potere di imporre la propria concezione della vita a chi è altrimenti orientato».

[46] V. Ottonelli, Il corpo come soggetto di diritti, in Il Mulino, 4, 2017, 547.