Delibera CSM 11 novembre 2015: Parere su ddl n. 2798 in materia di esecuzioni penali

Delibera CSM 11 novembre 2015: Parere su ddl n. 2798 in materia di esecuzioni penali

I. Premessa.

Nel corso degli ultimi anni è stata fortemente avvertita la necessità di porre al centro dell’azione politico-istituzionale una solida iniziativa riformatrice in grado di fronteggiare, con la efficacia imposta dalla gravità della situazione, il fenomeno del sovraffollamento carcerario con i suoi riflessi in termini di  mancato rispetto dei diritti fondamentali delle persone private della libertà personale.

E così, voci autorevolissime del nostro panorama costituzionale (dall’ex Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che in data 8 ottobre 2013 inviò un messaggio alle Camere sulla questione carceraria, alla stessa Corte costituzionale, in specie con la sentenza n. 279 del 2013), hanno rivolto al legislatore ed al governo l’auspicio di incisive iniziative di modifica del quadro normativo e delle scelte di politica amministrativa, tanto più che la Corte europea dei diritti dell’Uomo, con la sentenza Torreggiani vs Italia in data 8 gennaio 2013, ha riconosciuto l’aperto conflitto tra le condizioni di vita dei nostri istituti penitenziari e il principio fondamentale del necessario rispetto della dignità della persona.

Su questa base, il Governo ed il Parlamento hanno quindi promosso una serie di iniziative di modifica normativa.

Tali iniziative, raccogliendo i frutti del lavoro di alcune commissioni ministeriali (quali la Commissione di studio in tema di ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione e la Commissione di studio in tema di interventi in materia penitenziaria costituite, rispettivamente, con D.M. 2 luglio 2013 e con D.M. 13 giugno 2013), hanno introdotto significative novità nell’ambito della disciplina delle misure cautelari e dell’esecuzione penale. Tra queste: il decreto legge 1 luglio 2013, n. 78, convertito con legge 9 agosto 2013, n. 94 (concernente “Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena”) e il decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con legge 21 febbraio 2014, n. 10 (riguardante le “Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria”).

Con tali interventi, è stata introdotta una pluralità di misure, destinate ad affiancarsi agli interventi di edilizia penitenziaria, volte ad incidere, per un verso, sul numero degli ingressi in carcere e, per un altro verso, a favorire le uscite dagli istituti penitenziari.

Si va dalle corpose modifiche in materia di custodia cautelare, all’ampliamento delle possibilità applicative per le misure alternative; dall’introduzione della cd. liberazione anticipata speciale alla stabilizzazione della disposizione che consente di scontare presso il domicilio la pena detentiva non superiore a 18 mesi, anche se parte residua di maggior pena; fino ad arrivare all’estensione dell’ambito applicativo dell’espulsione come sanzione alternativa alla detenzione, prevista dal t.u. 286/98, finalizzata al rimpatrio di buona parte dei circa 29.000 detenuti stranieri, presenti al marzo 2014.

Va poi ricordato il d.l. 26 giugno 2014, n. 92, convertito in legge 11 agosto 2014, n. 117 («Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nei confronti di soggetti detenuti o internati»), che ha introdotto l’art. 35-bis ord. penit. con cui il legislatore ha inteso dare specifica attuazione alle richieste della Corte europea, avanzate con la ricordata sentenza Torreggiani, di introdurre rimedi preventivi e compensativi allalesione di diritti dei detenuti.

L’effetto complessivo degli interventi fin qui riassunti è consistito, da un lato, in una drastica diminuzione del numero dei detenuti (ivi compresi quelli in custodia cautelare) e, dall’altro lato, in un significativo aumento delle persone sottoposte a misure alternative al carcere.

Infatti, mentre al 31 dicembre 2009 (subito dopo l’importante sentenza Sulejmanovič della Corte EDU), i detenuti erano 64.791, arrivando nel primo semestre del 2010 a poco meno di 70.000 unità (ed ancora al 30 giugno 2013 a 66.008 presenze), le persone presenti negli istituti penitenziari italiani (compresi i detenuti in regime semilibertà e gli internati per misura di sicurezza), alla data del 30 giugno 2015, erano scese a 52.754. Assai rilevante, in particolare, è la riduzione dei ristretti in custodia cautelare che il 30 giugno 2015 erano 18.478, a fronte dei 29.809 del 31 dicembre 2009 (con un calo corrispondente a 11 punti in percentuale: dal 46% al 35%).
Parallelamente, per le misure alternative alla detenzione si è registrato un aumento di circa 11.500 soggetti rispetto al dato del 31 dicembre 2009 (pari a 12.455 unità), atteso che alla data del 30 giugno 2015 le misure alternative in esecuzione avevano raggiunto il numero di 23.377 (di cui 12.717 affidati al servizio sociale, 747 in semilibertà e 9.913 in detenzione domiciliare).

In questo contesto, peraltro, il C.S.M. ha seguito con particolare attenzione il processo riformatore, pronunciandosi, in più occasioni, attraverso pareri – resi ai sensi dell’art. 10 della legge 24 marzo 1958, n. 195 – sui disegni e le proposte di legge concernenti lamateria in esame.

Con detti contributi, il CSM ha saputo fornire, in un’ottica di leale collaborazione, un importante contributo di analisi e di proposta. Si pensi, tra gli altri, al Parere sul testo del decreto legge 1 luglio 2013, n. 78, convertito con legge 9 agosto 2013, n. 94, concernente: “Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena” (approvato con delibera del 30 luglio 2013); al Parere sul decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con legge 21 febbraio 2014, n. 10, riguardante le “misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria” (approvato con delibera del 23 gennaio 2014); nonché al Parere sul decreto legge 26 giugno 2014, convertito con legge 11 agosto 2014, n. 117, in materia di “Disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subìto un trattamento in violazione dell’art. 3 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché di modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, all’ordinamento del Corpo di Polizia penitenziaria e all’ordinamento penitenziario, anche minorile”, trasmesso dal Ministro della Giustizia con nota pervenuta in data 8 luglio 2014 (approvato con delibera del 30 luglio 2014).

E, del resto, il Consiglio Superiore, nel corso dell’ultimo quindicennio, avvertendo la centralità della questione penitenziaria, si è fatto promotore di numerose iniziative volte a stimolare il confronto con i suoi interlocutori naturali, in primo luogo il Ministro della Giustizia, nell’ottica, appunto, di addivenire a proposte condivise di modifica normativa ovvero, sul versante di sua competenza, di adottare le più opportune misure di riorganizzazione degli uffici giudiziari (in specie quelli di sorveglianza e gli uffici d’esecuzione delle procure).

Di fondamentale importanza, sotto questo profilo, è stata, ad esempio, l’attività svolta dalla Commissione mista per lo studio dei problemi della Magistratura di Sorveglianza, istituita con delibera 28 maggio 1998 e successivamente ricostituita con risoluzione del 26 luglio 2010, il cui contributo di analisi e di proposta è stato condiviso dal C.S.M. rispettivamente con le delibere del 2 luglio 2003 e del 21 novembre 2012, con la quale le relazioni sono state trasmesse anche al Ministro della Giustizia. In specie con l’ultima delibera, infatti, la Commissione mista aveva elaborato delle soluzioni in ambito ordinamentale, organizzativo e normativo, dirette ad affrontare alcune tra le principali criticità che in genere caratterizzano la fase esecutiva; e su quella base, con la risoluzione del 24 luglio 2013 (“Risoluzione in ordine a soluzioni organizzative e diffusione di buone prassi in materia di magistratura di sorveglianza”), il C.S.M. ha formulato una serie di proposte in tema di soluzioni organizzative degli uffici di sorveglianza, che dovrebbero semplificare le procedure e accelerarne la definizione; proposte in parte riprese dai successivi interventi normativi del legislatore e del governo, prima ricordati[1].

La presente riflessione, dunque, si colloca nel solco di una consolidata interlocuzione tra C.S.M. e Governo-Parlamento, volta a realizzare, nel rispetto delle prerogative di ciascuno degli Attori istituzionali ed in un’ottica di leale collaborazione, un dialogo proficuo capace di realizzare quella svolta positiva che, anche a livello europeo, viene fortemente richiesta al nostro Paese nella materia dell’esecuzione penale.


II. L’analisi della cd. delega penitenziaria.

1. Profili generali del D.D.L.

Di particolare importanza, nell’ottica riformatrice intrapresa dal Governo italiano sui temi dell’esecuzione penale, è il d.d.l. 2798 (“Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore contrasto del fenomeno corruttivo, oltre che all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della
pena”), presentato alla camera il 23 dicembre 2014, che all’art. 26 detta una serie di principi e criteri direttivi per una risistemazione organica dell’ordinamento penitenziario.

Sul punto, giova sottolineare che, come già ricordato, il C.S.M. si è espresso sui contenuti della cd. delega penitenziaria con la Delibera del 20 maggio 2015, che ha approvato, su proposta dalla Sesta Commissione referente, il “Parere, ai sensi dell’art. 10 legge n. 195/58, sulle modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore contrasto al fenomeno corruttivo, oltre che all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena”. Nondimeno, in tale frangente il parere non ha affrontato funditus le molteplici questioni fatte oggetto dell’intervento normativo, rinviando all’adozione di una separata delibera una più articolata riflessione.

Prima di affrontare, nel dettaglio, i contenuti della delega giova sottolineare due profili di notevole importanza.

In primo luogo, va evidenziato come l’iniziativa dell’Esecutivo in commento sia complementare rispetto ad un altro intervento di matrice governativa, sfociato nella l. 28 aprile 2014 n. 67 dal titolo «Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili», con il quale da un lato si introducono modifiche al sistema sanzionatorio, prevedendo la detenzione domiciliare come pena principale da applicare a tutte le contravvenzioni attualmente punite con l’arresto e a tutti i delitti la cui pena edittale massima è di 3 anni di reclusione, con la possibilità ulteriore, nel caso di pene il cui massimo edittale è tra 3 e 5 anni, di una decisione rimessa al giudice, tenuto conto della gravità del reato e della capacità a delinquere del condannato, alla possibilità per la detenzione non carceraria di avere durata per singoli giorni della settimana o fasce orarie, con l’eventuale applicazione di braccialetto elettronico; alla possibilità di affiancare la detenzione domiciliare con la sanzione del lavoro di pubblica utilità; e dall’altro lato si avvia una importante attività di riduzione della penalità, attraverso una massiccia depenalizzazione di alcune fattispecie di minor allarme sociale. Una prospettiva, questa, che non può che essere salutata con favore, considerato che ogni seria prospettiva di riforma dell’attuale assetto dell’esecuzione penale, non può che passare attraverso il superamento della costosa ed economicamente ormai insostenibile opzione carcerocentrica accolta dal Codice Rocco, favorendo il ricorso, fin dalla fase della cognizione, alle sanzioni alternative alla pena carceraria, tra le quali sarebbe stato  opportuno prevedere anche le ulteriori misure oggi contemplate soltanto nella fase esecutiva.

In secondo luogo, e sotto un profilo affatto diverso, va segnalato come il processo normativo di attuazione della delega, che costituirà la fase successiva alla prossima approvazione del d.d.l., viene accompagnato da un innovativo percorso di riflessione collettiva all’interno dei cd. stati generali dell’esecuzione penale, che
rappresentano un luogo istituzionale, aperto al contributo di operatori ed associazioni, di elaborazione di proposte secondo un modello innovativo di partecipazione e confronto “dal basso”.

Venendo al dettaglio, l’art. 26 del D.D.L. definisce i “princìpi e criteri direttivi” ai quali nell’esercizio della delega di cui all’art. 24[2], devono uniformarsi i decreti legislativi al fine di realizzare una “risistemazione organica dell’ordinamento penitenziario”. Un intervento che, secondo la relazione di accompagnamento, sarebbe necessario al fine di restituire “coerenza” ad un comparto interessato, nel tempo, da numerosi interventi normativi, che attraverso successive stratificazioni ne avrebbero compromesso l’organicità complessiva.

In particolare, il prevalere di istanze di tutela della collettività, talvolta riconducibili al manifestarsi di aggressivi fenomeni criminali, ha spesso disegnato, all’interno dei singoli istituti, un regime speciale destinato ad applicarsi a determinate categorie di reati o di condannati, nei cui confronti le esigenze rieducative sono state conseguentemente sacrificate, impedendo o rendendo assai più impervio l’accesso alle misure alternative al carcere.

Tale linea di evoluzione, che ha caratterizzato la nostra legislazione penitenziaria in specie nel corso degli ultimi dieci anni, ha subito un arresto a seguito del manifestarsi, in tutta la sua drammatica evidenza, del fenomeno del sovraffollamento penitenziario, per contrastare il quale sono state introdotte, come in precedenza rilevato, misure finalizzate ad intervenire sui flussi penitenziari, sia in ingresso che in uscita, favorendo un maggiore ricorso alle soluzioni alternative al carcere e, più in generale, ai benefici penitenziari.

Di fronte al manifestarsi, nell’arco dell’ultimo decennio, di opzioni di politica legislativa di segno contrastante, il Governo ha dunque avvertito la necessità di un intervento di rivisitazione complessiva della materia, nella prospettiva di un consolidamento delle opportunità di accesso alle misure extracarcerarie, di una maggiore valorizzazione di alcune risorse, umane e materiali, nel percorso rieducativo intramurario e, in generale, in una ottica di semplificazione dell’attività della magistratura di sorveglianza, oggi più che mai investita di competenze sempre crescenti.

Le linee generali di questo intervento, da realizzarsi, come detto, attraverso il conferimento di una delega legislativa al Governo sono espresse, dalle disposizioni contenute all’art. 26, attraverso proposizioni che talvolta disegnano una cornice molto ampia, a tratti scarsamente delineata. Ciò, peraltro, in più di un frangente rende non agevole la valutazione delle soluzioni proposte.

Trattandosi, in ogni caso, di un ambito ordinamentale nel quale si sono succeduti, nel breve periodo, numerosi provvedimenti legislativi, spesso originati da ragioni contingenti prettamente emergenziali, è fortemente auspicabile che la profonda opera riformatrice, che s’intenderebbe ora avviare, arrivi effettivamente a concretizzare, nei risultati prevedibili, una reale “risistemazione organica” della materia, definendo finalmente un sistema coerente e durevole.



2. L’analisi delle singole disposizioni della delega.

“a) semplificazione delle procedure, anche con la previsione del contraddittorio differito ed eventuale, per le decisioni di competenza del magistrato e del Tribunale di sorveglianza, fatta eccezione di quelle relative alla revoca delle misure alternative alla detenzione”.

Il condivisibile proposito di semplificazione delle cadenze dei vari procedimenti di sorveglianza è già stato perseguito con il D.L. n. 146/13 (convertito con la legge n. 10/14), che ha introdotto il comma 1-bis all’art. 678 c.p.p., a mente del quale è stata prevista una procedura camerale a contr ddittorio differito ed eventuale per le materie di competenza della magistratura di sorveglianza (quali la remissione del debito, la rateizzazione e conversione delle pene pecuniarie, la declaratoria di estinzione pena a seguito dell’affidamento in prova e la riabilitazione), salvo il ricorso al procedimento, più garantito, di cui all’art. 666 c.p.p. in relazione alle istanze direttamente involgenti la libertà personale delle persone detenute.

Non è dunque ben chiaro a quali ambiti la delega intenda riferirsi nel prevedere ulteriori forme di semplificazione attraverso la previsione di una procedura a contradditorio “differito ed eventuale”, che rischia di modificare in profondità alcuni caratteri tipici della “giurisdizione rieducativa” della magistratura di sorveglianza, caratterizzata dal pieno contraddittorio e dalla conseguente possibilità di interlocuzione tra l’interessato ed un Organo collegiale composto anche da giudici “esperti” a garanzia di un approccio multidisciplinare al giudizio prognostico. E del resto, l’Organo monocratico può già oggi assumere, de plano, decisioni d’urgenza destinate poi ad essere sottoposte, nel pieno contraddittorio, al vaglio definitivo del Tribunale di sorveglianza.

Se, quindi, la proposta di semplificazione delle procedura intende corrispondere all’esigenza di sgravare la magistratura di sorveglianza, le cui competenze sono sempre più cresciute nel corso degli ultimi due anni per effetto dei ricordati interventi di contrasto al sovraffollamento penitenziario, sarebbe forse preferibile percorrere altre soluzioni, tra le quali, come suggerito nelle conclusioni dei lavori della Commissione mista del Consiglio Superiore della Magistratura e del Ministero della Giustizia nel 2012, devolvere alla competenza del giudice dell’esecuzione una serie di materie non riconducibili all’ambito della “giurisdizione rieducativa” (come ad es. la remissione del debito o la rateizzazione ed alla conversione delle pene pecuniarie).

“b) revisione dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi che con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse”[3].

Nel sottolineare l’opportunità di rafforzare, coerentemente a linee di politica legislativa accolte in tutti gli ordinamenti occidentali, il ricorso a strumenti alternativi al carcere, sia per contrastare il fenomeno del sovraffollamento penitenziario, sia per individuare percorsi di riabilitazione più efficaci rispetto allo strumento della detenzione intramuraria, si evidenzia, con specifico riferimento ai
limiti di pena, come gli interventi succedutisi nel tempo abbiano determinato alcune aporie. Sul punto si sottolinea l’esigenza di realizzare un coordinamento tra la nuova ipotesi di affidamento in prova al servizio sociale, introdotta dall’art. 47, comma 3-bis, ord. penit., (oggi concedibile, a particolari condizioni, fino al limite dei 4 anni di pena, anche residua) ed i meccanismi generali di sospensione dell’esecuzione dell’ordine di carcerazione di cui all’art. 656, comma 5, c.p.p., che invece ad oggi prevede, in termini generali e salvo le eccezioni ivi contemplate, la sospensione soltanto fino a 3 anni di pena. Peraltro, l’introduzione, in occasione della seduta della Commissione giustizia della Camera del 24 luglio 2015, di un nuovo principio di delega (alla nuova lettera c, v. infra) che concerne l’innalzamento a quattro anni di pena detentiva del limite per la sospensione dell’esecuzione della pena dovrebbe portare a superare la disarmonia segnalata. Ed anzi tale novità sembra preludere ad un abbassamento a quattro anni dei limiti di pena detentiva richiesti per l’accesso all’affidamento in prova al servizio sociale.
Tale opzione legislativa, che di fatto accentua la divaricazione tra il momento della inflizione della pena e quello della sua esecuzione, rende ancor più urgente una riflessione sul complessivo assetto del nostro sistema sanzionatorio, che, come già osservato, dovrebbe auspicabilmente arricchirsi di nuove tipologie di sanzioni principali, applicabili già nel giudizio di cognizione (come ad esempio la detenzione domiciliare ed altre), cosi’ superando la rigida dicotomia tra pena detentiva-carceraria e pena pecuniaria, retaggio del codice Rocco.

Sempre in occasione della seduta della Commissione giustizia della Camera del 24 luglio 2015 è stata modificata anche la formulazione del principio di delega in esame (lettera b), specificandosi che la scelta a favore di una estensione dell’ambito applicativo delle misure alternative non impedisce di mantenere un regime maggiormente restrittivo per “i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale”, con esclusione dei condannati per i delitti di cui al comma 1 dell’art 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario.


In relazione alla modifica dei presupposti soggettivi si rinvia alla successiva lettera c).

“c) eliminazione di automatismi e preclusioni che impediscono o rendono molto difficile, sia per i recidivi che per gli autori di determinate categorie di reati, l’individualizzazione del trattamento rieducativo e revisione della disciplina di preclusione ai benefici alla pena dell’ergastolo”[4];

La legislazione introdotta verso la metà degli anni 2000 ha segnato l’inserimento, nel corpo dell’ordinamento penitenziario, di meccanismi automatici che non consentivano l’accesso ai benefici penitenziari a favore dei soggetti recidivi cd. reiterati e di quanti fossero incorsi nella violazione delle prescrizioni inerenti alle misure cautelari o alternative (cfr. art. 58-quater ord. penit.). A tale linea di evoluzione ha corrisposto l’introduzione, anche nella fase della cognizione, di un regime di particolare rigore per i recidivi reiterati che, soprattutto sul versante degli automatismi introdotti nel giudizio di bilanciamento delle circostanze, ha non di rado determinato, nella pratica giudiziaria, l’applicazione di pene assai elevate anche per fatti di non particolare gravità, nonché l’aumento dei termini di prescrizione.

Il riferimento alla “eliminazione di automatismi e preclusioni” sembrerebbe orientare verso la soluzione di una integrale abrogazione dell’art. 58-quater ord. penit., che oggi rappresenta la fattispecie più significativa del nostro panorama normativo tra quelle in origine fondate sulla presunzione di pericolosità a carico dei recidivi “qualificati” di cui all’art. 99 comma 4, c.p.; anche se la genericità della previsione contenuta nella delega non offre univoche indicazioni. Incidentalmente si osserva, peraltro, che una modifica della disciplina del regime applicabile ai recidivi in fase esecutiva dovrebbe essere accompagnata da una rimeditazione dell’istituto anche
sul versante sostanziale, restituendo al giudice della cognizione una maggiore discrezionalità nella determinazione del concreto trattamento sanzionatorio, in modo da adattare la pena applicata all’effettivo disvalore del singolo episodio criminoso.

Inoltre, nel corso degli anni, a partire dal D.L. n. 306/92, il legislatore penitenziario ha previsto, all’art. 4-bis, un articolato catalogo di reati per i quali sono previste significative limitazioni all’accesso dei benefici, in taluni casi (approssimativamente collocabili nell’ambito dei fenomeni di criminalità organizzata) subordinati alla prestazione di forme di collaborazione con la giustizia. Tale regime, il quale sostanzialmente codifica un doppio binario che percorre gran parte degli istituti del diritto penitenziario, è stato sottoposto, nel tempo, a critiche sempre più serrate da parte della cultura giuridica; ed anche la già citata Commissione mista aveva sottolineato, nel 2012, l’opportunità di un ripensamento che fosse in grado di raggiungere un nuovo equilibrio tra le scelte di politica criminale e penitenziaria e la sfera di discrezionalità giudiziale chiamata a coniugare le istanze di tutela della collettività con quelle di individualizzazione del trattamento, auspicando un complessivo riesame del sistema del ‘doppio binario’, restituendo alla magistratura di sorveglianza il compito di vagliare, in concreto, la posizione di tutti i soggetti in esecuzione penale, anche se appartenenti alle categorie più problematiche.

A seguito della modifica introdotta al testo della delega in occasione della seduta della Commissione giustizia della Camera del 24 luglio 2015, appare improbabile che l’art. 4-bis sia destinato ad una integrale abolizione, quanto piuttosto ad semplice ristrutturazione del catalogo dei reati-presupposto, il quale nel tempo ha assunto un carattere di spiccata eterogeneità, venendo a ricomprendere fattispecie che non presentano alcun collegamento con l’area della criminalità organizzata. In ogni caso, infatti, viene fatta salva la previsione di un regime speciale di maggiore rigore in relazione ai “casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale”.

Ciò premesso, non è facilmente prevedibile la concreta soluzione tecnica attraverso cui si intenda rimuovere gli automatismi preclusivi attualmente in essere, potendo astrattamente ipotizzarsi un superamento dei meccanismi ispirati a presunzioni assolute di persistenza della pericolosità sociale in assenza di collaborazione con la giustizia, per fare spazio a meccanismi fondati su presunzioni relative di persistente pericolosità, superabile con l’accertamento della rottura dei rapporti con il sodalizio criminale.

Tra le possibili novità sarebbe auspicabile che venga definitivamente superata la preclusione alla concessione della detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, comma 1-bis ord. penit. ai condannati per i reati di cui all’art. 4-bis ord. penit. (con l’ovvia esclusione di quelli di cui al comma 1, per i quali già vige il divieto di
concessione dei benefici ove non abbiano collaborato con la giustizia), considerato che ad essi è, invece, concedibile l’affidamento in prova, misura che presenta, sul piano degli spazi di libertà, una maggiore ampiezza ed estensione.

Sullo stesso versante potrebbe ipotizzarsi l’eliminazione del divieto di concessione della detenzione domiciliare per gli ultrasettantenni recidivi (art. 47-ter, comma 01, ord. penit.), la soppressione dell’art. 30-quater ord. penit. e dell’art. 47-ter, comma 9-bis, ord. penit. (secondo gli auspici della Commissione ministeriale presieduta dal prof. Giostra, istituita nel 2013 presso l’Ufficio legislatvo del Ministero della giustizia), nonché dell’art. 30-ter comma 5, ord. penit.

Tali novità vanno escluse con riguardo ai condannati per i delitti di cui al comma 1 dell’art. 4 bis O.P., norma quest’ultima a protezione di beni costituzionalmente rilevanti di altissimo pregio, nel nostro Paese sovente messi in pericolo dall’attività di potenti organizzazioni criminali nazionali e transnazionali, di stampo mafioso e terroristico.

Si potrebbe, semmai, convenire solo su una revisione in minima parte dell’elenco dei reati individuati al comma 1 dell’art. 4 bis O.P., senza toccare le fattispecie sintomatiche delle attività di pericolose organizzazioni criminali.

Infine, la delega sembra orientare verso l’eliminazione delle ipotesi di c.d. ergastolo “ostativo” che oggi obiettivamente pone, secondo le posizioni della più attenta dottrina, oggettivi problemi di compatibilità costituzionale, sancendo l’impossibilità di accesso a qualunque beneficio per coloro i quali, pur potendo a suo tempo collaborare con la giustizia, non lo abbiano volontariamente fatto. E’ noto, infatti, che la Corte costituzionale ha “salvato” l’istituto dell’ergastolo, sospettato di incompatibilità con i principi del finalismo rieducativo di cui all’art. 27, comma 3 Cost., proprio in quanto il sistema conosce la astratta possibilità che il condannato alla pena perpetua possa comunque accedere, alla fine di un articolato percorso, a misure di carattere extramurario (cfr. Corte Costituzionale, sent. n. 264 del 1974)[5].

Una soluzione tecnicamente percorribile al fine di contemperare opposte esigenze, tutte radicate nel testo costituzionale, potrebbe essere quella di prevedere, anche per i condannati per reati di cui alla cd. prima fascia dell’art. 4-bis, la possibilità di concedere la liberazione condizionale, oggi invece preclusa al pari di tutti gli altri benefici per coloro i quali non abbiano mai collaborato con la giustizia e si trovino, a volte a distanza di molti decenni, nella impossibilità di farlo. A meno che non si voglia percorrere la strada, più radicale, di una sostituzione del requisito della collaborazione
con la giustizia ai fini dell’accesso ai benefici penitenziari, con il raggiungimento della prova positiva della dissociazione del soggetto dall’organizzazione criminale (v. sul punto quanto proposto dalla Commissione ministeriale, presieduta dal Prof. Palazzo, istituita il 10 giugno 2013 per Elaborare proposte di interventi in tema di sistema sanzionatorio penale).

Nondimeno va segnalato che a seguito della modifica introdotta al testo della delega in occasione della seduta della Commissione giustizia della Camera del 24 luglio 2015, sembrerebbe che il legislatore non intenda rimuovere l’ergastolo ostativo in relazione ai “casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale”.
Sul punto si osserva come la locuzione adoperata, facendo riferimento ai concetti di “eccezionale gravità e pericolosità”, presenti un carattere di marcata elasticità, che rischia di affidare esclusivamente al Governo, in sede di attuazione della delega, la concreta determinazione delle fattispecie di reato ad essa pertinenti.

In ordine al c.d. “ergastolo ostativo”, ferma restando sul punto la genericità del d.d.l. in esame, si deve rimarcare che lo stesso non possa essere eliminato nei casi eccezionali in cui attualmente si realizza, nell’ottica di una razionale, effettiva e mirata strategia di contrasto alla criminalità organizzata (come più volte ribadito
dalla Corte Costituzionale e dalla C.E.D.U.).

“d) previsione di attività di giustizia riparativa e delle relative procedure, quali momenti qualificanti del percorso di recupero sociale sia in ambito intramurario sia nell’esecuzione delle misure alternative”;

Il nostro ordinamento è da tempo orientato verso l’implementazione di modalità alternative al paradigma carcerocentrico, secondo i canoni della cd. “giustizia riparativa”, presenti, sia pure in forma embrionale, già nella legge penitenziaria (cfr. l’art. 47, ord. penit., contenente la prescrizione di iniziative riparatorie da parte dell’affidato). Una prospettiva, questa, che appare complementare alla previsione di forme alternative di definizione della vicenda penale, che hanno da tempo fatto capolino nella nostra legislazione: si pensi, dopo l’introduzione di forme conciliative previste dalla giurisdizione del Giudice di pace, alla recente previsione dell’istituto della sospensione del processo con messa alla prova, mutuato dal processo penale minorile. In questo senso l’introduzione di meccanismi di Restorative Justice in fase esecutiva è coerente con la previsione dell’art. 1 del presente D.D.L., che prevede meccanismi estintivi del reato fin dalla fase della cognizione (v. supra).

La strada intrapresa risponde alla fondamentale esigenza di recuperare il ruolo della vittima,sia sul piano sostanziale che sul piano processuale, spesso del tutto marginale nel nostro sistema penale, ovviamente attraverso il ricorso ad idonei strumenti tecnico-professionali, atti ad evitare che la stessa possa sviluppare il rifiuto di un qualsivoglia contatto con l’autore; ed eventualmente con il coinvolgimento di enti istituzionali o associazioni in vista della realizzazione di forme di riparazione indiretta (opere di solidarietà sociale, lavori di pubblica utilità o forme di volontariato).

Va nondimeno scongiurato il rischio che tale paradigma possa caricarsi di valenze neo-retributive, ponendosi quale presupposto necessario per l’ammissione del condannato delle misure alternative, laddove appare preferibile che la giustizia riparativa costituisca una modalità di esplicazione del percorso rieducativo del condannato, quale momento qualificante del programma di trattamento predisposto in esito all’osservazione scientifica della personalità svolta in ambito intramurario.

In quest’ottica sarebbe auspicabile l’avvio della mediazione penale.
Tale istituto, infatti (sinora sperimentato solo per i minorenni e necessariamente gestito da personale altamente specializzato), pone, ove se ne realizzino le condizioni, il reo al cospetto della sua vittima, così rendendo possibile che, da una parte, il condannato prenda piena coscienza del male fatto con la sua condotta e inizi per questo un processo di profonda riflessione e, dall’altra, la persona offesa assuma un ruolo centrale nel processo rieducativo, così magari riuscendo anche a comprendere le ragioni per cui la giustizia non si soddisfa necessariamente attraverso l’espiazione della pena in carcere.

“e) maggiore valorizzazione del lavoro, in ogni sua forma intramuraria ed esterna, quale strumento di responsabilizzazione individuale e di reinserimento sociale dei condannati”[6];

Il lavoro carcerario, da elemento che connotava la pena in senso punitivo e di ulteriore afflizione, è ora diventato uno degli strumenti fondamentali del trattamento rieducativo dei detenuti, stimolando un positivo cambiamento nella loro vita e favorendone, per questa via, la risocializzazione (cfr. art. 15, ord. penit. e art. 20, comma 2, secondo cui esso non ha carattere afflittivo e non rappresenta, dunque, un inasprimento della pena).

Per tale motivo la legge penitenziaria stabilisce che negli istituti penitenziari deve essere favorita la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e alla loro partecipazione a corsi di formazione professionale. Al detenuto lavoratore sono riconosciuti diritti e tutele: (orario di lavoro giornaliero, riposo festivo, copertura assicurativa e previdenziale).

Al fine di favorire il lavoro carcerario, il legislatore italiano ha, nel tempo, introdotto numerose misure incentivanti, tra cui merita particolare menzione la cd. legge Smuraglia, che ha accordato particolari agevolazioni concesse a ditte esterne per l’organizzazione di attività lavorative all’interno delle carceri ovvero all’esterno a beneficio dei detenuti autorizzati al lavoro al di fuori del carcere.

L’ordinamento penitenziario, infatti, consente all’art. 21 la prestazione di attività a favore di imprese che operano al di fuori delle mura dell’istituto carcerario. Il contratto di lavoro è stipulato direttamente tra il detenuto e l’impresa esterna, che può essere sia pubblica che privata.

Nella pratica, peraltro, l’accesso al lavoro è garantito ad una bassissima percentuale di detenuti (anche nella forma del cd. lavoro di tipo domestico, prestato negli istituti penitenziari), attesa la scarsità delle risorse disponibili e la rigidità del sistema delle mercedi, agganciato alle previsioni del trattamento retributivo dei C.C.N.L..

A seguito della modifica introdotta al testo in occasione della seduta della Commissione giustizia della Camera del 24 luglio 2015 la delega è stata integrata dal riferimento al “potenziamento del ricorso al lavoro domestico” nonché “a quello con committenza esterna, aggiornando quanto il detenuto deve a titolo di mantenimento”.
Quest’ultima previsione fa propria la positiva sperimentazione svolta in altri contesti europei, ove viene effettuata la compensazione degli importi spettanti al detenuto a titolo di retribuzione con le spese di mantenimento in carcere gravanti sullo stesso, con salvezza dei contributi previdenziali.

Ulteriore possibilità estensiva dell’ambito di operatività della delega rimane quello di una valorizzazione, accanto all’attività lavorativa, di altre attività di valore morale o sociale corrispondenti alle inclinazioni ed alle attitudini del singolo detenuto, capaci di consentirgli una partecipazione al processo di crescita materiale o spirituale della società ed in ogni caso di consolidarne il percorso di responsabilizzazione.

La delega andrà coordinata con le disposizioni introdotte, anche recentemente, allo scopo di estendere il ricorso al lavoro all’interno delle carceri attraverso incentivi fiscali e previdenziali a favore delle imprese.

“f) previsione di un più ampio ricorso al volontariato sia all’interno del carcere, sia in collaborazione con gli Uffici di esecuzione penale esterna”[7];

Il volontariato penitenziario costituisce uno strumento fondamentale nel favorire i rapporti con la comunità esterna, che la legge n. 354 del 1975 individua quale un fondamentale strumento trattamentale del percorso rieducativo. L’art. 17, infatti, consente l’ingresso in carcere a tutti coloro che “avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di poter utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera”.

Secondo l’art. 78 ord. penit., inoltre, il magistrato di sorveglianza può ai Provveditorati regionali dell’Amministrazione penitenziaria il nominativo di alcuni volontari al fine di coinvolgerli nelle attività trattamentali e risocializzanti in collaborazione con le figure istituzionali degli istituti penitenziari e degli uffici di esecuzione penale esterna (educatori, assistenti sociali, psicologi, polizia penitenziaria).

Tale disciplina è coerente con l’art. 62 delle regole penitenziarie europee che stabilisce di “ricorrere per quanto possibile, alla cooperazione di organizzazioni della comunità per aiutare il personale dello stabilimento nel recupero sociale dei detenuti”.

Il valore della presenza dei volontari nel circuito dell’esecuzione penale è stato riconosciuto anche recentemente dal D.L. n. 92/14, che all’art. 1 comma 2 prevede la possibilità di stipulare intese tra i Tribunali di sorveglianza, le Università, le associazioni e gli enti locali per il riconoscimento di borse di studio a giovani laureati, grazie alle quali consentire loro di lavorare nelle cancellerie degli uffici di sorveglianza.

“g) disciplina dell’utilizzo dei collegamenti audiovisivi sia a fini processuali, nel rispetto del diritto di difesa, sia per favorire le relazioni familiari”[8];

La delega prevede il ricorso ai collegamenti audiovisivi in relazione a due situazioni molto diverse: la prima costituita “dall’ambito processuale” e la seconda dalla necessità di “favorire le relazioni familiari”.

Mentre con riferimento a quest’ultima ipotesi non può che esprimersi una indicazione assolutamente favorevole, onde consentire, in specie con riferimento ai casi in cui i familiari del detenuto risiedano in luoghi distanti o addirittura all’estero, il mantenimento di adeguate relazioni, con riferimento al primo ambito, pur riconosciuta la compatibilità costituzionale (Corte cost. 342/1999) e convenzionale (Corte EDU, 5 ottobre 2006, Viola /c. Italia) dello strumento telematico, la scelta della delega si presta ad alcune considerazioni problematiche.

Benché la norma faccia riferimento all’utilizzazione di tali collegamenti “a fini processuali”, sembra comunque verosimile che l’ambito di applicazione sia, considerata la sedes materiae della disposizione, tendenzialmente quello dei procedimenti di competenza della magistratura di sorveglianza.

Tra questi è possibile articolare una distinzione fondamentale, a seconda che essa eserciti le sue tipiche attribuzioni di giurisdizione sulla fase esecutiva, ovvero quella di Organo giudiziario delegato allo svolgimento di atti afferenti ad un procedimento cautelare o di cognizione (cfr. art. 666, comma 4, c.p.p. relativo alla possibilità per il magistrato di sorveglianza di acquisire per rogatoria le dichiarazioni dell’interessato).

Mentre in quest’ultimo caso la misura proposta renderebbe inutile la stessa delega al magistrato di sorveglianza, atteso che le dichiarazioni potrebbero essere acquisite con il collegamento audiovisivo dallo stesso giudice che procede, nel caso dei procedimenti tipici di competenza della magistratura di sorveglianza occorre distinguere.

In tutti i casi in cui il giudizio abbia ad oggetto valutazioni personologiche che presuppongono un contatto diretto dell’interessato con il Tribunale, non a caso composto anche dai cd. “esperti” (psicologi, medici, criminologi), l’estensione della possibilità di svolgere i collegamenti audiovisivi si presenta come problematico.
Così come nella materia dei reclami giurisdizionali, che possono avere ad oggetto comportamenti dell’Amministrazione penitenziaria che ledono diritti fondamentali del detenuto ed in relazione ai quali è opportuno che il reclamante possa avere un contatto diretto con il proprio giudice.

Diverso è il caso in cui il thema decidendum abbia ad oggetto materie diverse da quelle implicanti valutazioni sulla persona (si pensi, a mero titolo esemplificativo, ai procedimenti in materia di remissioni del debito). In relazione a queste ipotesi, la modifica prospettata può essere valutata favorevolmente.

Va nondimeno riconosciuto che il ricorso ai collegamenti audiovisivi è certamente idoneo a garantire un contenimento dei rischi per la sicurezza e degli oneri economici connessi alle traduzioni dei detenuti.

“h) riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e delle condizioni generali di esercizio”[9];

La delega si esprime, in maniera generica, sul riconoscimento del diritto dei detenuti al mantenimento delle relazioni affettive. Si tratta, secondo quanto riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 301/2012, di un diritto fondamentale della persona che, in un contesto peculiare come quello detentivo, assume una precipua valenza trattamentale, coerentemente con la generale impostazione della legge penitenziaria, volta alla conservazione dei rapporti con la comunità esterna ed in particolare con la famiglia, assicurata, nel vigente ordinamento, dall’istituto dei colloqui  telefonici e visivi (cfr. art. 15 ord. penit., secondo cui “Il trattamento del condannato e dell’internato è svolto…omissis… agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia”), oltre che dall’istituto dei permessi premio, previsto dall’art. 30-ter della legge n. 354 del 1975, la cui fruizione – stanti i presupposti soggettivi ed oggettivi – resta però di fatto preclusa a larga parte della popolazione carceraria.

La vigente normativa penitenziaria, peraltro, non sembra consentire che tale diritto possa estrinsecarsi finanche attraverso l’effettuazione in istituto dei c.d. ‘colloqui intimi’. Ciò in quanto l’art. 18, comma 2, ord. penit., nel disciplinare i colloqui visivi, precisa che essi “si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia”. E’ infatti evidente che tale forma di controllo non è compatibile con un pieno esercizio delle relazioni affettive anche a carattere sessuale.

La delega sembra orientarsi, invece, per l’introduzione di una siffatta possibilità, nella prospettiva di allineare la nostra legislazione a quanto previsto dalla normativa penitenziaria di molti Paesi europei ed extraeuropei, ove vengono approntate idonee misure, anche di natura logistica e regolamentare, volte a consentire una più completa fruizione dei rapporti affettivi. Una soluzione, questa, che è inoltre coerente con la Raccomandazione n. 11/1/2006 del Consiglio d’Europa ove anzi si sottolinea l’opportunità che vengano consentite visite coniugali “di lunga durata”, onde consentire il mantenimento di relazioni complessive, sul presupposto che visite più brevi, e quindi finalizzate unicamente all’espletamento di pratiche di tipo sessuale, “possono avere un effetto umiliante per entrambi i partner” (v. regola 24 punto 4 e relativo commento in calce alla stessa).

Ovviamente, come già sottolineato dalla Corte Costituzionale nella sentenza citata, al fine di consentire l’esercizio di tale diritto fondamentale non appare sufficiente ipotizzare la mera eliminazione del controllo visivo, dovendo necessariamente addivenirsi ad una disciplina che stabilisca termini e modalità di esplicazione del diritto: in particolare individuandone i destinatari, definendo i presupposti per l’autorizzazione delle “visite intime”, fissandone il numero e la durata, determinando dunque le necessarie misure organizzative. Ciò che, in definitiva, postula un intervento legislativo[10] e non ha dunque consentito alla Corte Costituzionale di pervenire ad una modifica del quadro normativo vigente attraverso una propria pronuncia.

A seguito della modifica introdotta al testo in occasione della seduta della Commissione giustizia della Camera del 24 luglio 2015 è stata opportunamente prevista l’estensione del riconoscimento del diritto alla affettività anche alle persone internate.

“i) adeguamento delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze rieducative dei detenuti minori di età”[11].

L’articolo 79 dell’ordinamento Penitenziario disciplina in modo transitorio l’applicazione delle regole penitenziarie per gli adulti ai minori in attesa di una legge organica che non è mai stata approvata.

La notevole genericità della formulazione originaria del testo è stata colmata in occasione della seduta della Commissione giustizia della Camera del 24 luglio 2015, nel corso della quale la norma è stata integrata in maniera assai articolata.

Principi cardine sono il mantenimento di una giurisdizione  specializzata affidata al tribunale per i minorenni e la estensione della disciplina prevista per i minorenni anche ai detenuti giovani adulti (in linea con la previsione dell’art. 5 del D.L. n. 92/14 conv. in L. 117/14[12], che ha modificato l’art. 24 del D.Lgs. n. 272/1989),
in modo da garantire “i processi educativi in atto” e, dunque, la continuità dell’azione trattamentale già avviata.

Sul versante penitenziario è prevista l’introduzione di disposizioni riguardanti l’organizzazione penitenziaria degli istituti penali per minorenni nell’ottica della socializzazione, della responsabilizzazione e della promozione della persona, con un rafforzamento dell’istruzione e della formazione professionale quali elementi centrali del trattamento dei detenuti minorenni; e, soprattutto, con un rafforzamento dei contatti con il mondo esterno quale criterio guida nell’attività trattamentale in funzione del reinserimento sociale. In tale prospettiva viene fortemente sottolineato il ruolo strategico delle misure alternative alla detenzione, le quali non potranno essere ostacolate da meccanismi preclusivi, dovranno essere “conformi alle istanze educative del condannato minorenne”, e non potranno essere revocate automaticamente se ciò possa configgere con la particolare funzione educativa e con il principio dell’individualizzazione del trattamento.

Gli emendamenti approvati al d.d.l. in Commissione Giustizia alla Camera.

Nella seduta del 24 luglio scorso della Commissione Giustizia alla Camera, il testo del d.d.l. è stato emendato. Ac anto alla interpolazione di alcuni tra i criteri di delega già analizzati (v. supra), sono stati inseriti dei nuovi criteri, che di seguito si riportano.

c) revisione della disciplina concernente le procedure di accesso alle misure alternative, prevedendo che il limite di pena che impone la sospensione dell’ordine di esecuzione sia fissato in ogni caso a quattro anni e che il procedimento di sorveglianza garantisca il diritto alla presenza dell’interessato e la pubblicità dell’udienza;

Il legislatore delegante ha inteso, innanzitutto, stabilire la regola generale per la quale l’ordine di carcerazione di una pena detentiva, anche residua, non superiore ai quattro anni debba essere sospeso dal pubblico ministero (secondo la disciplina dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen.), in modo da consentire al condannato di chiedere, da libero, la concessione di una misura alternativa alla detenzione.
Considerato, peraltro, che la misura di più frequente applicazione, l’affidamento in prova al servizio sociale, può essere accordata, di regola, in relazione alle pene non superiori ai tre anni, la modifica in esame potrebbe preludere ad un mutamento dei presupposti di applicazione delle misure alternative, coerentemente con la previsione di cui alla lettera b).

Non si condivide la delega, nella parte in cui intende rendere pubblica l’udienza nel procedimento di sorveglianza.

Si tratta, infatti, di un procedimento che, siccome incentrato a studiare la personalità del condannato, le sue risorse personali e familiari, comporta l’esposizione di circostanze concernenti la vita non solo del soggetto da giudicare, ma anche dei suoi familiari, spesso con il racconto di fatti estremamente delicati e intimi.

La pubblicità generalizzata dell’udienza renderebbe, quindi, tutti gli indicati contenuti, chiaramente sensibili, conoscibili a tutti, con grave lesione della privacy del condannato ed anche di terze persone.

Peraltro, il diritto del condannato a chiedere che l’udienza si svolga in forma pubblica è già stato garantito dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 97/2015.

Il sistema, quindi, è auspicabile rimanga quello attuale, che bilancia il diritto alla privacy con quello di difesa, ossia udienza in camera di consiglio con possibilità del condannato di accedere su richiesta alla pubblicità dell’udienza

d) previsione di una necessaria osservazione scientifica della personalità da condurre in libertà, stabilendone tempi, modalità e soggetti chiamati a intervenire; integrazione delle previsioni sugli interventi degli uffici dell’esecuzione penale esterna; previsione di misure per rendere più efficace il sistema dei controlli, anche mediante il coinvolgimento della polizia penitenziaria;

Il principio contenuto alla lettera d) è pienamente condivisibile. Occorre, però, evidenziare, per quanto riguarda gli Uffici Esecuzione Penale Esterna, che tutto quanto previsto nella delega nel suo nucleo essenziale già esiste nel nostro ordinamento. La ragione per la quale un’osservazione scientifica della personalità da condurre in libertà è a volte impossibile non nasce da una carenza normativa, ma dalla drammatica scopertura su tutto il territorio nazionale degli Uffici in questione, che sono letteralmente al collasso, anche perché gravati da sempre maggiori compiti (si pensi all’istituto di recente introduzione della messa alla prova nel processo di cognizione). Tutto questo comporta che i Tribunali di Sorveglianza o debbano fare a meno della relazione del servizio sociale, ove questo sia accettabile ad esempio per la scarsa caratura criminale di chi devono giudicare, o debbano più volte rinviare le procedure della libertà in attesa della relazione in questione. Peraltro, posto che la relazione degli Uffici Esecuzione Penale Esterna è necessaria anche per stilare la relazione di sintesi all’esito dell’osservazione scientifica della personalità in carcere, i Tribunali di Sorveglianza si vedono a volte costretti a rinviare anche le procedure concernenti i detenuti.

E’ necessaria, quindi, una seria volontà politica di porre gli Uffici in questione in grado di lavorare, dotandoli di risorse umane e materiali, eventualmente anche attraverso un intervento ad hoc del legislatore che stanzi a tal fine le risorse finanziarie necessarie, essendo il d.d.l. in esame munito di una clausola di invarianza finanziaria che risulta in proposito inadeguata rispetto alle finalità che si vogliono perseguire.

l) revisione delle disposizioni dell’ordinamento penitenziario alla luce del riordino della medicina penitenziaria disposto dal decreto legislativo 22 giugno 1999, n. 230;

Il nuovo principio di delega, da apprezzarsi favorevolmente, rinvia ad una complessiva revisione delle norme dell’ordinamento Penitenziario e del regolamento di esecuzione relative all’assistenza sanitaria, in modo da adeguarle all’avvenuto passaggio delle competenze al Servizio Sanitario Nazionale. In tale contesto, sarebbe opportuno rimarcare il principio della separazione delle funzioni di sicurezza da quelle sanitarie.

n) previsione di norme che considerino i diritti e i bisogni sociali, culturali, linguistici, sanitari, affettivi e religiosi specifici delle persone detenute straniere.

La nuova previsione di delega prende atto del tumultuoso incremento della popolazione detentiva straniera nelle carceri italiane, ormai stabilmente assestata oltre il 30%. Il legislatore, dunque, sembra farsi carico, opportunamente, della Raccomandazione n. 12 del 2012 del Consiglio d’Europa, attraverso l’introduzione di una norma ad hoc che ne specifichi bisogni e diritti, ponendo le condizioni, attraverso la previsione di equipes multiculturali ed un accesso reale alle informazioni su diritti e doveri nel contesto penitenziario, per l’attuazione, anche in questo ambito, del principio di uguaglianza posto dall’art. 3, comma 2, della Costituzione.

III. Alcune ulteriori proposte.

Nel complesso l’iniziativa riformatrice, come anticipato, va accolta con sicuro favore; e tuttavia va altresì riconosciuta l’esistenza di un margine non esiguo di ulteriore miglioramento dei suoi contenuti.

Prescindendo da un’analisi più ampia sull’ormai indifferibile esigenza di una riforma del codice penale del 1930, finalizzata da un lato a ridefinire l’area della penalità in termini di reale offesa di beni costituzionalmente protetti e, dall’altro lato, a superare definitivamente la centralità del carcere a favore delle “pene di comunità”, andrebbe innanzitutto re-impostato il sistema dell’esecuzione penale, nel senso di assicurare che il ricorso alla pena detentiva debba (rectius possa) avvenire nell’effettivo rispetto dei principi di umanità e dignità (cfr. la sentenza n. 26 del 1999 della Corte Costituzionale, secondo cui il detenuto è titolare di tutti i diritti compatibili con il suo stato di detenzione).

Andrebbero, quindi, introdotte norme in grado di riscrivere la quotidianità della vita in carcere non più come passiva e rassegnata attesa di un tempo (in)definito da trascorrere nell’ozio, quanto piuttosto come reale opportunità di un processo di responsabilizzazione e di reinserimento; processo che dovrebbe essere connotato dalla effettiva presenza di attività di lavoro e di studio (da implementare anche grazie alle opportunità delle nuove tecnologie), da maggiori contatti con il mondo esterno, attraverso colloqui in orari accessibili alle famiglie (anche in videoconferenza, specie per gli stranieri) e comunicazioni telefoniche più frequenti e fruibili, da una socialità, nei reparti detentivi, che dovrebbe essere garantita per un numero di ore corrispondenti quantomeno a quelle notturne: il tutto nel contesto di un modello organizzativo interno agli istituti penitenziari definitivamente ispirato alla cd. “sorveglianza dinamica”. Le norme in materia di lavoro andrebbero poi riscritte in modo da assicurare che esso possa essere, oltre che una fonte di reddito equamente garantito, una reale opportunità di qualificazione professionale e di reinserimento sociale, sottratta ad una logica premiale e a modalità di selezione talvolta poco trasparenti. Opportuna, in tale prospettiva, sarebbe la previsione normativa dell’obbligo di affidare ai detenuti taluni servizi che attualmente l’amministrazione penitenziaria è solita a soggetti esterni (es. servizi di pulizia dei locali, di giardinaggio e di manutenzione ordinaria). L’istruzione va ricondotta al suo ambito proprio: non un elemento del trattamento ma un diritto fondamentale, che deve essere garantito dalla presenza, in ogni istituto, di corsi scolastici di primo e secondo grado; e in ogni regione, di un polo universitario, con possibilità di seguire a distanza le lezioni e di tenere gli esami. Analogo discorso va poi fatto per i diritti religiosi, anch’essi oggi considerati, anacronisticamente, come parte del trattamento e non come diritti che dovrebbero essere garantiti a tutti i detenuti, senza differenze a seconda dei luoghi di detenzione.
Quanto al nuovo ordinamento penitenziario per i minori, esso andrà costruito in maniera da corrispondere alle specificità dei bisogni affettivi, educativi, formativi dei ragazzi; ed andrà concretamente implementato in istituti che, sul piano edilizio, abbiano caratteri di più accentuata apertura rispetto al modello attuale ed al cui interno operino figure qualificate ed esperte.

Ulteriore ambito di intervento potrebbe essere quello delle sanzioni disciplinari, le quali dovrebbero costituire l’extrema ratio a disposizione delle autorità penitenziarie e nei soli casi di minaccia alla sicurezza interna, secondo quanto previsto alla Regola 56 delle Regole Penitenziarie Europee. Considerato che esse incidono sulla possibilità di accesso ai permessi premio ed alla liberazione anticipata, sarebbe poi opportuno uno sforzo di maggiore tipizzazione delle relative fattispecie.

Con specifico riferimento alle misure alternative, sarebbe utile prevedere che all’esito positivo della misura corrisponda la revoca automatica di eventuali misure di sicurezza in precedenza applicate, secondo il principio generale previsto dall’art. 210, comma 2, c.p.; che il meccanismo di applicazione provvisoria della detenzione domiciliare da parte del Magistrato di Sorveglianza venga esteso anche
agli istituti previsti dagli artt. 47-quater e 47-quinquies ord. penit.; che sia eliminata dai requisiti di ammissibilità della domanda di affidamento in casi particolari l’allegazione del programma terapeutico; che sia superato il divieto di reiterata concessione della sospensione della pena ex art. 90 d.p.r. n. 309/1990, in linea con l’abrogazione del comma 5 dell’art. 94, operato dalla legge n. 10/2014, in materia di affidamento terapeutico; che vengano introdotte misure specifiche di esecuzione penale esterna in favore dei condannati per i quali sia sopravvenuta un’infermità psichica, ai sensi dell’art. 148 c.p. (nonché per i condannati a pena diminuita per infermità di mente) e che si estenda ai casi di infermità psichica l’istituto del differimento della pena di cui all’art. 147 c.p..

Inoltre, le numerose criticità che hanno caratterizzato, sul piano applicativo, l’ingresso dell’istituto dei “rimedi risarcitori” di cui all’art. 35-ter ord.penit., introdotto dal d.l. n. 92/2014 (quali, in particolare, il controverso significato della “attualità del pregiudizio”, la fruibilità del rimedio da parte dei condannati all’ergastolo, degli internati e dei condannati successivamente ammessi a misure alternative alla detenzione o al differimento della pena), renderebbero opportuno un intervento normativo chiarificatore.

Da ultimo, va evidenziata la necessità che il legislatore preveda un trattamento personalizzato anche per chi è detenuto in custodia cautelare in carcere.

Non vi è dubbio che si tratti di una “riforma di sistema”, anche perché il trattamento ha una funzione rieducativa, non esercitabile nei confronti di chi non è stato condannato in via definitiva.

Non di meno, però, risulta urgente una riflessione, in ragione della presenza di numerosi imputati in attesa di giudizio, anche per periodi consistenti, che richiedono un trattamento personalizzato non in funzione rieducativa, ma a tutela della dignità della persona, valore costituzionalmente imprescindibile, non legato alla definitività della condanna.

In conclusione: codificazione per legge dei circuiti penitenziari e previsione di un effettivo controllo giurisdizionale, sia al momento dell’inserimento del detenuto, sia in quello della eventuale declassificazione; ripensamento del sistema organizzativo degli Uffici di esecuzione penale esterna e rivitalizzazione del ruolo di coordinamento con le realtà sociali ed istituzionali territorio dei Consigli di aiuto sociale per l’assistenza penitenziaria e post-penitenziaria previsti dall’art. 75 ord. penit.; rafforzamento degli organici della magistratura di sorveglianza (oggi viepiù
impegnata dalla piena giurisdizionalizzazione delle procedure di tutela dei diritti) e del personale penitenziario (in specie direttori e funzionari pedagogico-giuridici) e dell’esecuzione penale esterna, negli anni non adeguatamente rafforzato ed anzi spesso interessato dai “tagli” conseguenti agli interventi di risanamento della spesa pubblica e, più in generale, revisione degli ordinamenti professionali del personale penitenziario, con l’introduzione di nuove qualifiche professionali; adozione di misure dirette a garantire che l’esecuzione della custodia cautelare abbia luogo in strutture realmente distinte dalle strutture penitenziarie: sono tutti ambiti ulteriori di un possibile intervento normativo, su cui è opportuno che il legislatore, in futuro, avvii una consapevole riflessione”.




[1] Né va dimenticata la delibera del 27 luglio 2006 con cui il C.S.M. ha approvato la relazione finale della Commissione di studio sulla pena e le sue alternative, istituita con delibera del 6 luglio 2005, che muovendo dalla ricognizione della situazione carceraria, anche all’epoca caratterizzata dal sovraffollamento e dalla presenza di detenuti non facilmente collocabili all’interno di percorso riabilitativi (in primis stranieri e tossicodipendenti), e constatando una situazione di sofferenza della magistratura di sorveglianza, sul piano organizzativo e degli organici del personale di magistratura ed amministrativo, formulò articolate proposte in materia di organizzazione degli uffici e di formazione.

[2] Tale disposizione che prevede che i decreti siano adottati dal Ministro della Giustizia entro il termine di un anno dall’entrata in vigore della legge-delega, previa acquisizione dei pareri delle competenti Commissioni parlamentari, da rendersi nei termini ivi indicati.

[3] Di seguito il testo approvato in Commissione giustizia della Camera nella seduta del 24 luglio 2015 (in neretto le modifiche): b) revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse, salvo i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale;

[4] Di seguito il testo approvato in Commissione giustizia della Camera nella seduta del 24 luglio 2015 (in neretto le modifiche): c) eliminazione di automatismi e preclusioni che impediscono o rendono molto difficile, sia per i recidivi che per gli autori di determinate categorie di reati, l’individualizzazione del trattamento rieducativo e revisione della disciplina di preclusione ai benefici penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo, salvo i casi di eccezionale gravità e pericolosità e in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale;

[5] Né va dimenticato, al riguardo, come la Corte europea dei diritti umani abbia affermato che l’ergastolo viola i diritti umani quando la possibilità di misure esterne al carcere sia espressamente esclusa o quando non sia previsto nell’ordinamento che, non oltre i 25 anni di detenzione, il condannato possa chiedere una revisione della sentenza o un alleggerimento di pena (cfr. CEDU, sent. 9 luglio 2013, n. 3896, Vinter e a. c. Regno Unito, ric. n. 66069/09, 130/10 e 3896/10).

[6] Di seguito il testo approvato in Commissione giustizia della Camera nella seduta del 24 luglio 2015 (in neretto le modifiche): g) maggiore valorizzazione del lavoro, in ogni sua forma intramuraria ed esterna, quale strumento di responsabilizzazione individuale e di reinserimento sociale dei condannati, anche attraverso il potenziamento del ricorso al lavoro domestico e a quello con committenza esterna, aggiornando quanto il detenuto deve a titolo di mantenimento;

[7] Di seguito il testo approvato in Commissione giustizia della Camera nella seduta del 24 luglio 2015 (in neretto le modifiche): h) previsione di una maggior valorizzazione del volontariato sia all’interno del carcere, sia in collaborazione con gli uffici di esecuzione penale esterna;

[8] Di seguito il testo approvato in Commissione giustizia della Camera nella seduta del 24 luglio 2015 (in neretto le modifiche): i) disciplina dell’utilizzo dei collegamenti audiovisivi sia a fini processuali, con modalità che garantiscano il rispetto del diritto di difesa, sia per favorire le relazioni familiari;

[9] Di seguito il testo approvato in Commissione giustizia della Camera nella seduta del 24 luglio 2015 (in neretto le modifiche): m) riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e internate e disciplina delle condizioni generali per il suo esercizio;

[10] Giova ricordare che la possibilità di esercitare, per i detenuti, il diritto all’affettività con il partner è stata prevista da numerose proposte di legge (dapprima su iniziativa del deputato Folena, in data 13 giugno 1996, poi dell’on. Pisapia, presentata il 28 febbraio 1997 ed infine, con la proposta n. 3020 del 12 luglio 2002 su iniziativa dei deputati Boato e Ruggeri).

[11] Di seguito il testo approvato in Commissione giustizia della Camera nella seduta del 24 luglio 2015 (in neretto le modifiche): o) adeguamento delle norme dell’ordinamento penitenziario alle esigenze educative dei detenuti minori di età secondo i seguenti criteri direttivi: 1) giurisdizione specializzata e affidata al tribunale per i minorenni, fatte salve le disposizioni riguardanti l’incompatibilità del giudice di sorveglianza che abbia svolto funzioni giudicanti nella fase di cognizione; 2) previsione di disposizioni riguardanti l’organizzazione penitenziaria degli istituti penali per minorenni nell’ottica della socializzazione, della responsabilizzazione e della promozione della persona; 3) previsione dell’applicabilità della disciplina prevista per i minorenni quantomeno ai detenuti giovani adulti, nel rispetto dei processi educativi in atto; 4) previsione di misure alternative alla detenzione conformi alle istanze educative del condannato minorenne; 5) ampliamento dei criteri per l’accesso alle misure alternative alla detenzione; 6) eliminazione di ogni automatismo e preclusione per la revoca o per la concessione dei benefìci penitenziari, in contrasto con la funzione rieducativa della pena e con il principio dell’individuazione del trattamento; 7) rafforzamento dell’istruzione e della formazione professionale quali elementi centrali del trattamento dei detenuti minorenni; 8) rafforzamento dei contatti con il mondo esterno quale criterio guida nell’attività trattamentale in funzione del reinserimento sociale.

[12] Tale norma, infatti, al fine di consentire il completamento di percorsi rieducativi modulati sulle specifiche esigenze di tale categoria di condannati ha, infatti, stabilito che le misure cautelari, le misure alternative, le sanzioni sostitutive, le pene detentive e le misure di sicurezza si eseguano, secondo le norme e con le modalità previste per i minorenni, anche nei confronti di coloro che nel corso dell’esecuzione abbiano compiuto il diciottesimo ma non il 25° anno di età, sempre che, per quanti abbiano già compiuto il ventunesimo anno, non ricorrano particolari ragioni di sicurezza valutate dal giudice competente, tenuto conto altresì delle finalità rieducative.

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