Il 30 novembre 2023 si è tenuto un workshop online dal titolo: Tratta di esseri umani e sfruttamento. il nuovo volto della “schiavitù moderna” nella dimensione internazionale, europea e nazionale, organizzato da Unità per la Costituzione e dal Centro Studi Nino Abbate.

Il confronto ha coinvolto massimi esperti, nazionali ed internazionali, ed è stato trasmesso in diretta da Radio Radicale, sul cui sito è tuttora disponibile il link relativo all’intera durata del convegno. E’ stato un successo conseguente ad un notevole sforzo operativo (il convegno è stato integralmente curato con traduzione simultanea italiano/inglese) motivato dall’esigenza sempre più avvertita di affrontare tematiche di grande rilevanza attraverso un rinnovato approccio in cui l’attenzione alle prospettive delle vittime, ai riflessi economici e sociali dello sfruttamento massivo, alle interconnessioni con più settori disciplinari, assumono un’importanza prioritaria.

Ebbene, una metodologia di riflessione giuridica coerente con un fenomeno globale, che avanza in tutti i continenti, non avrebbe senso se non svolta anche con esperti e magistrati provenienti da altri ordinamenti giuridici. Una strategia nazionale di efficace contrasto del crimine e di identificazione e protezione delle vittime deve tener contro delle norme sovranazionali, della giurisprudenza delle corti europee; basti pensare alle ormai numerose pronunce della corte europea dei diritti dell’uomo, formatasi negli anni intorno all’articolo 4 della convenzione EDU. Pertanto, un approccio esclusivamente autoreferenziale sarebbe inevitabilmente miope e non in linea con l’attualità giuridica (si pensi, ad esempio, al processo di revisione della direttiva 2011/36/EU del 5 aprile 2011 concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, ormai ad una fase avanzata, che condizionerà le normative nazionali nelle parti che richiederanno un recepimento).

Un confronto costante e aperto, inoltre, consente agli stakeholders – ed in vero, ancora di più ai legislatori – di comprendere le falle del sistema e di correre ai ripari con le iniziative normative e organizzative, di settore o multi-agenzia. Ad esempio, di notevole impatto è il rapporto del gruppo di esperti che monitora l’attuazione da parte degli Stati membri della convenzione anti-tratta del Consiglio d’Europa del 16 maggio 2005, recepita dall’Italia con la legge 2 luglio 2010, n. 108. Il GRETA (Group of Experts on Action against Trafficking in Human Beings) è in imminente procinto di licenziare il terzo rapporto sull’Italia, con un focus particolare sull’accesso alla giustizia ed ai rimedi efficaci in favore delle vittime.

In effetti, pur se nel dibattito collettivo e a diversi livelli spesso si confondono concetti e rappresentazioni dei fenomeni, relegando realtà complesse in ingannevoli semplificazioni, quando non in mistificazioni e immagini stereotipate, è indifferibile calibrare gli interventi concreti alle emergenze ed ai rilevamenti dei dati.

La schiavitù moderna assume molti aspetti ed è conosciuta con diversi nomi: tratta di esseri umani, lavoro forzato, matrimonio forzato o servile, servitù per debiti, sfruttamento sessuale, pratiche simili alla schiavitù, vendita e sfruttamento di bambini ed altro.

In tutte le sue manifestazioni, essa è la rimozione sistematica della libertà di autodeterminazione di una o più persone – ad esempio, della libertà di accettare o rifiutare un lavoro, di lasciare un datore di lavoro per un altro, della libertà di decidere se, quando e chi sposare, come relazionarsi sul piano sessuale – al fine di sfruttarle per guadagni di singoli o di gruppi criminali organizzati, approfittando delle loro condizioni di vulnerabilità.

Lo sfruttamento, quale obiettivo finale della tratta di esseri umani, avviene in ambiti disparati, in cui le vulnerabilità sono acuite da fenomeni complessi (migrazioni, guerre, persecuzioni, povertà, crisi climatiche). Alle tradizionali forme di sfruttamento (sessuale e lavorativo in primis) se ne aggiungono altre meno monitorate, come lo sfruttamento in attività criminali forzate, così come alle modalità classiche si aggiungono forme evolute attraverso l’utilizzo dei sistemi tecnologici e di comunicazione avanzati.

Secondo le stime più recenti, nel 2021 circa 50 milioni di persone vivevano assoggettate in condizioni riconducibili a forme di schiavitù moderna.

L’evoluzione dei fenomeni è negativamente descritta dal progressivo peggioramento dei dati di rilevamento. Dal Protocollo ONU del 2000 contro la tratta di esseri umani, addizionale alla Convenzione contro la criminalità organizzata transnazionale, il fenomeno è in costante crescita.

Secondo il Global Slavery Index del 2023 (prodotto da Walk Free Foundation con la collaborazione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, presentato in Vaticano il 13 novembre 2023) a partire dal 2016 circa 10 milioni di uomini, donne, bambini in più sono stati sfruttati in quanto vittime di “nuove schiavitù”. Il peggioramento della situazione si è verificato in un contesto di conflitti armati crescenti e più complessi, di crisi ambientale diffusa, di aggressioni alla democrazia in molti Paesi, di un arretramento globale dei diritti delle donne e di impatti economici e sociali della pandemia COVID-19. Questi fattori hanno causato notevoli ostacoli all’occupazione ed all’istruzione, portando a un aumento della povertà estrema e della migrazione forzata, che insieme accrescono il rischio di tutte le forme di schiavitù moderna.

I riflessi di queste diffuse violazioni dei diritti umani li incontriamo costantemente e sotto diverse forme nel nostro contesto nazionale, dove il grave sfruttamento si concretizza in vicende drammatiche che quotidianamente impegnano la magistratura, le forze di polizia, gli enti del pubblico e privato sociale. Al contempo, delle vulnerabilità approfittano le organizzazioni criminali, che traggono dalla tratta di esseri umani e fenomeni connessi imponenti profitti, successivamente riciclati e reinvestiti, secondo i canoni comportamentali delle mafie, vecchie e nuove, nazionali e straniere.

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In ambito nazionale e internazionale, la magistratura ed in generale gli enti del law enforcement devono adeguarsi e comprendere la complessità del fenomeno, devono aggiornare le strategie di contrasto e le interpretazioni dei quadri giuridici di riferimento, devono superare gli stereotipi che spesso impediscono un efficace azione di lotta alla tratta e non garantiscono un pieno rispetto dei diritti delle persone vittimizzate.

E’ necessario interrogarsi sulle specificità nazionali, sulla specifica tipizzazione normativa dei fenomeni, sulla caratteristica originale, ad esempio, delle norme in tema di contrasto all’intermediazione illecita di manodopera (“caporalato”), sull’attualità degli strumenti cardine di identificazione e protezione delle vittime (art. 18 del d.lgs 286/1998) sull’interconnessione con la disciplina in tema di immigrazione e di riconoscimento della protezione internazionale.

L’approccio centrato sui diritti fondamentali delle persone e la capacità di operare in rete, attraverso metodi integrati multi-agenzia, sono oggi priorità che devono ispirare pubblici ministeri e giudici, sia sul piano organizzativo degli uffici, sia su quello operativo e decisionale.

Il convegno del 30 novembre è stato aperto dal saluto di Rossella Marro, presidente di Unità per la Costituzione che, introducendo i lavori, ha ben sintetizzato lo spirito di apertura intellettuale del gruppo verso nuove sfide culturali.

A catapultare immediatamente i partecipanti nella “carne viva” del tema ci ha pensato Toni Mira, giornalista e caporedattore dell’Avvenire, forte di un lungo impegno civile concreto che lo ha reso profondo conoscitore di tante realtà di sfruttamento nel nostro Paese. Il suo intervento ha dato voce alle tante vittime, migranti e italiane, rappresentando l’umanità vulnerabile e spesso invisibile che costituisce il serbatoio del profitto dei gruppi criminali. Il giurista interpreta e applica le norme, ma non dovrebbe mai dimenticare di portare con sé, nella cassetta degli attrezzi, anche umanità e sensibilità per conoscere la realtà che costituisce lo sfondo delle indagini e dei processi.

L’apprezzamento all’iniziativa è stato testimoniato dall’intervento della presidente della  commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, On. Chiara Colosimo.

Occorre sottolineare il nesso inscindibile tra tratta e fenomeni di grave sfruttamento e la criminalità organizzata, proprio perché, se analizzati in funzione teleologica, essi sono crimini economici, strumenti dei gruppi criminali organizzati utilizzati per ricavare profitti enormi. In quanto tali essi devono essere perseguiti, senza perdere di vista l’elemento essenziale dato dal fatto che il profitto illecito viene realizzato attraverso la sottomissione di vittime vulnerabili, private della loro autonoma libertà di autodeterminazione.

I propositi espressi dalla presidente della commissione, se attuati, proietterebbero l’istituzione parlamentare verso un’analisi più approfondita di tali fenomeni, attraverso la costituzione di specifici tavoli di studio ed elaborazione che possano ampliare quanto già accennato nella relazione della precedente legislatura, allorchè, ad esempio, nella sezione XV, a pag. 17, con riferimento alle sole mafie nigeriane si scriveva: questa Commissione, consapevole dell’esigenza, da un canto di apprestare una tutela più efficace alle vittime, e dall’altro di contrastare in maniera più efficiente le organizzazioni criminali, prima tra tutte la mafia nigeriana, che sulla tratta di essere umani fondano i propri illeciti affari, ha formulato una serie di proposte. Esse sono in primo luogo finalizzate a creare più specifiche competenze professionali, sia da parte della magi­stratura inquirente che da parte della polizia giudiziaria, in modo da approcciare il fenomeno in maniera sistematica e con piena conoscenza delle sue caratteristiche e peculiarità.

Dunque, la testimonianza della presidente della commissione parlamentare antimafia evidenzia la centralità delle vittime in ogni azione di contrasto, ma anche la corrispondenza tra human trafficking – “modern slavery” e reati spesso commessi da gruppi criminali organizzati, non di rado aventi le caratteristiche di cui all’articolo 416bis cod. pen..

Successivamente, il convegno  si è soffermato su sessioni tematiche. Dapprima è stato utile partire dalle tendenze e strategie necessarie per contrastare la tratta di esseri umani.

Andrea Salvoni,  vice-speciale rappresentante e coordinatore OSCE per la lotta contro la tratta di esseri umani e Petya Nestorova, segretario esecutivo della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri  umani, hanno fornito un quadro emblematico del fenomeno. Sono emerse emergenze e criticità: a fronte di una dimensione enorme del problema vi sono scarsi dati di identificazione delle vittime, di indagini, processi e condanne contro i trafficanti. Ancora meno rassicuranti sono i dati riguardanti i risarcimenti in favore delle vittime (compensation in senso lato, non necessariamente all’interno della fase giudiziaria). Inoltre, si registra la necessità di comprendere l’evoluzione dei fenomeni criminali, esattamente come ci si interroga sulle evoluzioni dell’agire mafioso. Trasformazioni tecnologiche e adattamenti ai conflitti in corso sono solo alcune caratteristiche in progress dei gruppi criminali.

Di conseguenza, le obbligazioni per gli Stati, diffusamente esplicate dalla Corte EDU (da ultimo segnalo con la sentenza Krachunova c. Bulgaria del 28 novembre 2023) diventano un costante riferimento interpretativo per i giudici nazionali; infatti, la convenzione europea dei diritti dell’uomo è uno strumento vivente, come sancito in più occasioni (a partire da Tyrer c. Regno Unito del 25 aprile 1978). Tuttavia, per addivenire alla coerente applicazione della convenzione EDU e segnatamente del suo articolo 4 (secondo cui: 1. nessuno può essere tenuto in condizioni di schiavitù e di servitù. 2. nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato o obbligatorio …) occorrono altri parametri a cui le istituzioni nazionali devono ispirare le loro azioni. Tra essi vi è la necessità di operare in coordinamento secondo un approccio multi-agenzia, in attuazione delle obbligazioni positive sancite dalla Corte, riassumibili nell’obbligo di identificare e proteggere le vittime in modo proattivo ed efficiente, l’obbligo di adattare il proprio quadro normativo e organizzativo in modo efficiente e aderente e l’obbligo di svolgere indagini efficienti.

A seguire, il confronto ha voluto stimolare la riflessione su come la tratta di esseri umani, in presenza dei necessari requisiti, possa anche assumere la connotazione di crimine contro l’umanità ed  in ordine a questi spunti è stato entusiasmante raccogliere la testimonianza di Rosario Aitala, giudice della Corte Penale Internazionale. E’ noto, infatti, che l’articolo 7 dello Statuto della Corte Penale Internazionale prevede una serie di condotte (acts) che costituiscono crimini contro l’umanità, se commessi quali attacchi diffusi e sistematici a danno della popolazione civile e se vi è una chiara intenzione di commetterli. A queste condizioni si registra la giurisdizione della Corte dell’Aja (come evidenziato dal relatore analizzando il caso di Dominic Ongwen, leader di un movimento armato ugandese, condannato definitivamente, nel dicembre 2022, a 25 anni di reclusione).

Dopo gli approfondimenti di livello internazionale, si è voluto riportare la discussione sui piani nazionali, all’interno di una sessione mirata ad evidenziare l’importanza dell’organizzazione e della strategia giudiziaria nel contrasto alla tratta di esseri umani quale crimine organizzato e nella tutela dei diritti delle vittime. A tal proposito, oltre al procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Giovanni Melillo (impossibilitato a presenziare per impegni sopravvenuti) è stata prevista la partecipazione di Hilary Axam, coordinatore nazionale sulla tratta degli esseri umani, al vertice del dipartimento di giustizia degli Stati Uniti in materia di tratta, Lynette Woodrow, responsabile nazionale della schiavitù moderna per il crown prosecution service del Regno Unito e Roberta Collidà, magistrato di collegamento presso il ministero della giustizia della Repubblica di Francia e per il Principato di Monaco.

E’ stato sorprendente percepire come, pur in presenza di ordinamenti giuridici diversi (statunitense, britannico, italiano e francese) vi siano una comune lettura dei fenomeni,  numerosi spunti condivisi ed elementi empirici ricorrenti, tra cui: le modalità di sfruttamento delle vittime, le esigenze di contrasto alla criminalità organizzata che trae profitti enormi, l’innovazione metodologica nelle indagini e nella valutazione delle prove, l’adeguamento della risposta giudiziaria all’evoluzione dei fenomeni globali, la necessità di precoce e incondizionata protezione delle vittime, la cooperazione giudiziaria internazionale attraverso tutti gli strumenti a disposizione.

Hilary Axam, ad esempio, ha sottolineato l’importanza di adeguata formazione di procuratori e giudici poiché non è semplice comprendere l’influenza che il trauma ha sulle vittime di tratta e sulla loro capacità di testimoniare.

Inoltre, è  di grande attualità in Italia il tema della criminalità minorile; ma se si evitano semplificazioni e si allarga lo sguardo è possibile rilevare frequenti casi di reclutamento e sfruttamento di minori in attività criminali forzate, come la detenzione ed il trasporto di stupefacenti. In tal caso, il  minore visto come autore di reato, in realtà è prima di tutto vittima. Ebbene, la relatrice britannica ha evidenziato l’attuale criticità britannica delle c.d. “county lines”, intendendo con questa espressione la pratica diffusa dei gruppi criminali di reclutare e sfruttare minori, anche in età non imputabile, per tali fini illeciti. La necessità di identificare le vittime anche quando prima facie sembrano solo autori di reato è oggi particolarmente sentita nel Regno Unito, anche in seguito alla condanna riportata con la sentenza della CEDU nel caso V.C.L. e A.N. c./Regno Unito del febbraio 2021 (per violazione dell’art. 4 della convenzione EDU) in relazione al caso in cui l’autorità giudiziaria britannica condannò due minori asiatici per coltivazione di marjiuana, omettendo di identificarli e proteggerli come vittime di tratta, poiché reclutati e costretti a svolgere tale lavoro.

Un momento centrale di sintesi rispetto al panorama normativo e giurisprudenziale italiano è stato affidato al contributo del prof. Luca Masera, ordinario di diritto penale presso l’università di Brescia. Le modalità peculiari di recepimento interno del protocollo ONU contro la tratta di persone, addizionale alla convenzione di Palermo del 2000 in tema di crimine organizzato transnazionale, le norme originali in tema di “caporalato” di cui all’art. 603bis c.p., le interferenze con le norme incriminatrici del favoreggiamento dell’immigrazione irregolare di cui all’art. 12 del d.lgs 286/1998 sono alcuni dei temi trattati. Accanto ad essi, si pongono argomenti di assoluta attualità come, ad esempio, la non punibilità delle vittime di tratta per i reati commessi come conseguenza del loro status di vittime o perché a ciò costrette. Tale principio è sancito, ad esempio, dall’art. 26 della Convenzione del Consiglio d’Europa e dall’art. 8 della direttiva 2011/36/EU e, de iure condito, potrebbe trovare ingresso nel nostro ordinamento soltanto previa (difficile) applicazione dell’articolo 54 c.p..

Si è detto, dunque, di fenomeni interconnessi; per tale ragione un’ultima sessione è stata dedicata ad un confronto a due voci tra Francesca Nicodemi, avvocato, esperto indipendente ed ex consulente di UNHCR e Francesco Cananzi, giudice della corte di cassazione, già consigliere del consiglio superiore della magistratura. Ne è venuta fuori una conferma armonica della complessità del fenomeno tratta e grave sfruttamento, attraverso la chiara evidenza della concreta applicazione del riconoscimento della protezione internazionale alle vittime di tratta, secondo la giurisprudenza formatasi in questi anni, e la casistica in base alla quale è emersa con forza l’importanza della conoscenza delle caratteristiche psicologiche e culturali delle vittime. Una delle prime esigenze conseguenti a questa lettura è data dalla priorità, anche in questo ambito, dell’identificazione precoce delle potenziali vittime. A questo proposito si pongono le linee guida UNHCR per l’identificazione delle vittime di tratta tra i richiedenti protezione internazionale e procedure di referral (2021). Una precondizione, emersa dal dibattito, per un’efficace azione di identificazione e protezione delle vittime consiste nella promozione di buone prassi e protocolli multi-agenzia tra gli attori istituzionali attraverso cui garantire un costante scambio di informazioni e collaborazioni, nell’ambito di procedure operative condivise; nel caso di specie, tra procure della Repubblica, commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, sezioni specializzate dei tribunali. Queste sollecitazioni hanno aperto vasti spazi di riflessione all’interno dei quali il giurista può coniugare interpretazione e applicazione delle norme con soluzioni basate sulle buone prassi e sulla cooperazione, al fine di raggiungere obiettivi di promozione e di impegno civile, senza peraltro la necessità di abbandonarsi ad interventi che esulano dalla realtà giuridica vigente, sovranazionale o interna.

Le conclusioni del convegno a cura di Antonio Balsamo, direttore del centro studi Nino Abbate, hanno costituito ulteriore e convinta espressione dell’intenzione di proseguire nell’approfondimento del tema, all’insegna di un nuovo metodo di confronto culturale, aperto al dialogo con altri ordinamenti e con la dimensione internazionale, con altre professionalità ed esperienze nell’ottica delle sinergie tra diversi attori istituzionali e civili. Inoltre, è auspicio concreto quello di misurarsi in prossimi eventi con le testimonianze provenienti direttamente dalle vittime, non più in una chiave di stereotipata commiserazione, bensì per ricevere un arricchimento nella conoscenza dei fenomeni ed anche possibili soluzioni da un diverso angolo prospettico, analogamente a quanto sta accadendo nell’esperienza anglosassone, in cui si fa riferimento al concetto di “survivors”, con l’obiettivo di valorizzare la prospettiva positiva del superamento dello stato di asservimento alla soggezione e allo sfruttamento.

di Eugenia Serrao in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la Costituzione

Abstract

Il contributo tratta dell’incidenza dell’entrata in vigore dell’art.50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta di Nizza) sulla c.d. condizione di esecuzione del ne bis in idem transnazionale e sulle eccezioni al principio previste dalla Convenzione di Applicazione dell’Accordo di Schengen

Sommario: 1. Da Schengen al Trattato di Amsterdam. – 2. Un principio fondamentale dell’Unione Europea. – 3. Un doppio binario nel medesimo spazio europeo. –  4. La Corte di Giustizia Europea ed il caso Spasic. – 5. Il principio alla filigrana della cooperazione giudiziaria. –  6. Le limitazioni al principio secondo la Carta di Nizza.  – 7. Il vessillo della res iudicata. –  8. La Carta di Nizza e le eccezioni al principio. –  9. L’autonomia del principio nell’ambito dell’Unione Europea.

  1. Da Schengen al Trattato di Amsterdam. Il ne bis in idem è divenuto, nel diritto penale dell’Unione Europea, un principio fondamentale. In esso è implicita la libertà di circolazione nello spazio giuridico europeo ed è espressa la finalità di proteggere i cittadini dal doppio processo in situazioni nazionali e transnazionali ogni qual volta si sia formato un giudicato penale su un medesimo fatto nei confronti della medesima persona ed a prescindere dalla sua cittadinanza europea (Corte di Cassazione, Sez. 6, n. 54467 del 15/11/2016, Resneli, Rv. 26893101). L’ambito di applicazione di tale principio si è esteso fino a determinare, da parte del Tribunale di I grado dell’Unione Europea, l’annullamento di una decisione del Consiglio (relativa a misure restrittive ex art.29 TUE nei confronti di un ex Ministro ucraino accusato di condotte appropriative lesive dello Stato di diritto) sul mero presupposto che l’adozione della stessa decisione non fosse stata preceduta da sufficiente attività istruttoria, da svolgersi sostanzialmente ex officio, presso l’Ufficio del Procuratore Generale dell’Ucraina (UPG), al fine di verificare se l’attuale indagine fosse condotta in violazione del divieto di bis in idem. In tale decisione è stato affermato che «il Consiglio è tuttavia tenuto ad assicurarsi che il procedimento penale sul quale si basa per mantenere misure restrittive nei confronti di una persona non violi il principio del ne bis in idem, purché la persona interessata gli fornisca elementi idonei ad ingenerare un dubbio in proposito». E’, dunque, sufficiente che l’interessato fornisca elementi idonei ad ingenerare «perplessità legittime» circa la possibile violazione del principio, perché l’organo procedente sia tenuto ad attivarsi per approfondire l’istruttoria (Corte di Giustizia, 30 gennaio 2019, Stavytskyi/Consiglio, T-290/17, EU:T:2019:37, punto 131; ma già in precedenza  CGUE, 21 febbraio 2018, Klyuyev/Consiglio, T-731/15, EU:T:2018:90, punto 242; cfr. il Considerando n.17 della Direttiva 2014/41/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 3 aprile 2014, relativa all’Ordine Europeo di indagine penale). Secondo quanto ripetutamente affermato nelle decisioni giurisdizionali italiane, il principio del ne bis in idem (disciplinato dall’art.649 cod. proc. pen. ma non previsto espressamente dalla Carta Costituzionale italiana e, tuttavia, riconosciuto come principio implicito negli artt.24 e 111 Cost.) non è un principio generale del diritto internazionale né può ritenersi principio di fonte consuetudinaria. Per essere vincolante in ambito internazionale, tale principio deve trovare la sua fonte in una specifica convenzione tra Stati, derogatoria alla disciplina dettata dall’art.11 cod. pen.

Con riguardo alle fonti, il principio affermato dall’art.4 del Protocollo aggiuntivo n.7 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo riguarda, è bene sottolinearlo, il divieto di un secondo processo all’interno del singolo Stato, mentre il diverso ambito di applicazione del principio nello spazio europeo è stato contemplato sin dal 1970 (art.49 Convenzione europea sulla validità internazionale dei giudizi repressivi, adottata a L’Aia il 28 maggio 1970, ratificata con legge 16 maggio 1977, n. 305) in diversi strumenti convenzionali, per poi confluire nell’art.54 della Convenzione di Applicazione dell’Accordo di Schengen (CAAS). Tale Convenzione è stata ratificata dall’Italia con legge 30 settembre 1993, n. 388,  con la riserva prevista dall’art.7, per cui l’art. 54 della Convenzione non si applica nelle ipotesi previste nell’art. 55, paragrafo 1, lettere a), b) e c), ossia  quando i fatti oggetto della sentenza straniera sono avvenuti sul nostro territorio in tutto o in parte, quando i fatti oggetto della sentenza straniera costituiscono un reato contro la sicurezza o contro altri interessi egualmente essenziali del nostro Paese o quando i fatti oggetto della sentenza straniera sono stati commessi da un pubblico ufficiale del nostro Paese in violazione dei doveri del suo ufficio.

 Sul fronte dell’Unione Europea, con il Trattato di Maastricht (Titolo VI del Trattato sull’Unione Europea, 1992) si è implementato il processo di sviluppo della cooperazione giudiziaria tra Stati membri, con l’introduzione del pilastro della Cooperazione in materia di giustizia e affari interni (GAI). Ma è con il Trattato di Amsterdam, nel 1997, che ha preso corpo lo specifico settore della Cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale, come uno dei pilastri sui quali si deve fondare l’obiettivo della progressiva realizzazione di uno «spazio di libertà, sicurezza e giustizia» (SLSG). In particolare, il Trattato di Amsterdam contempla tre capitoli: «libertà», che include la libera circolazione di persone, l’asilo e l’immigrazione legale, «giustizia», per gli affari civili e penali, e «sicurezza», che raggruppa aspetti di natura sia interna che esterna, quali il terrorismo, la criminalità, il narcotraffico, la tratta degli esseri umani. Al fine di sostanziare tale spazio, a partire dal 1999 hanno visto la luce i primi tre programmi di lavoro pluriennale: il primo, adottato al Consiglio europeo di Tampere (1999-2004); il secondo, adottato a L’Aia per il periodo 2005-2010, ed il terzo, quello di Stoccolma, concernente la strategia europea per il periodo 2010-2014.

L’importanza del Trattato di Amsterdam con specifico riguardo al principio del ne bis in idem si apprezza allorchè si ponga in luce che proprio attraverso tale strumento convenzionale è stato incorporato nel TUE l’acquis di Schengen e, con esso, la dimensione sovranazionale di operatività del principio.

  • Un principio fondamentale dell’Unione Europea. Si dovrà, tuttavia, attendere la Carta di Nizza ed il Trattato di Lisbona (2007), che ha attribuito alla Carta la forza giuridica dei Trattati, per vedere consacrato come principio fondamentale dell’Unione il principio del ne bis in idem entro lo spazio europeo. L’art.50 della Carta di Nizza, infatti, prevede espressamente il divieto di un secondo giudizio per i medesimi fatti anche quando il primo processo si sia svolto in un altro Stato membro. Con il medesimo Trattato la normazione in materia di cooperazione giudiziaria è stata attribuita, oltre che al Consiglio, al Parlamento Europeo.

L’importanza dell’affermazione di questo principio nello spazio europeo è massima. Si esamini, per le sue conseguenze, il caso deciso dalla Corte di Cassazione, Sez. 3, n. 21997 del 13/03/2018, I., Rv. 27315801: «In caso di reato commesso nel territorio nazionale da un cittadino soggetto anche alla giurisdizione ecclesiastica della Santa Sede, con cui non vigono accordi idonei a derogare alla disciplina di cui all’art. 11 cod. pen., il processo canonico innanzi agli organi della giurisdizione ecclesiastica non preclude la rinnovazione del giudizio in Italia per i medesimi fatti, non essendo quello del  ne bis in idem principio generale del diritto internazionale, come tale applicabile nell’ordinamento interno». Con tale pronuncia, la Corte di Cassazione ha, dunque, escluso che il principio espresso dall’art.54 della CAAS si estenda anche ai rapporti fra Stato italiano e Stato pontificio, così ribadendo l’assunto per cui, in difetto di specifica convenzione tra Stati, il divieto di un doppio giudizio non assurge a principio di diritto internazionale, nemmeno di matrice consuetudinaria, idoneo a derogare al disposto dell’art.11 cod. pen.

Dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, tale principio è diventato, d’altro canto, un parametro dell’impatto sistemico della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sul diritto secondario dell’UE. Una ragione di ciò è rinvenibile nel fatto che il principio del ne bis in idem espresso nell’art.50 della Carta di Nizza differisce, nella sua formulazione, dal principio stabilito nella Convenzione di Applicazione dell’Accordo di Schengen (CAAS). Nella Carta di Nizza, non è stata infatti inserita la «clausola di esecuzione» (art. 54 CAAS), né sono previste le eccezioni contemplate dall’art.55 della CAAS, fatte proprie dall’Italia, ed in varia formulazione da altri Stati, con la legge di ratifica. In base alla clausola di esecuzione, il ne bis in idem transnazionale esclude la possibilità che una persona sia sottoposta ad ulteriori procedimenti per il medesimo fatto a condizione che, se è stata imposta una sanzione: a) sia stata applicata, b) sia effettivamente in corso di esecuzione o c) non possa più essere eseguita secondo le leggi dello Stato contraente. Poiché nessuna di queste condizioni di applicazione è menzionata dall’art.50 della Carta di Nizza, è emersa la domanda, quando la Carta è divenuta fonte del diritto primario dell’UE, se le condizioni limitative della CAAS recepite dalle legislazioni nazionali sopravvivessero alla Carta, tenendo conto che quest’ultima è lex superior e posterior.

  • Un doppio binario nel medesimo spazio europeo. Il principio affermato con l’Accordo di Schengen ha, invero, ambiti di applicazione più ampi rispetto al medesimo principio contenuto nella Carta di Nizza; in conseguenza di ciò, ove le clausole previste dagli artt.54 e 55 della CAAS non si ritenessero più operanti nello spazio dell’Unione, si potrebbe verificare una sorta di doppio binario di operatività del principio nel medesimo spazio europeo. Oltre che con riguardo allo spazio territoriale, concernente quei Paesi aderenti alla Convenzione di Schengen ma non facenti parte dell’Unione Europea (Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera), le due fonti operano, infatti, su un diverso piano anche con riguardo alla materia. L’art.51 prevede, in particolare, che i principi enunciati dalla Carta di Nizza si applichino agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione (Corte di Giustizia, 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson, C-617/10, EU:C:2013:105); è, dunque, necessario un criterio di collegamento tra la normativa interna, anche eventualmente derogatoria al diritto dell’Unione, che regola il singolo caso trattato nel processo e le materie di competenza dell’Unione Europea (Corte di Giustizia, 13 luglio 1989, Wachauf, C-5/88, EU:C:1989:321). Ma si tratta di un limite che nella giurisprudenza della Corte di Giustizia è stato progressivamente ridotto, interpretando estensivamente il concetto di «attuazione del diritto dell’Unione» fino a ricomprendervi le norme interne la cui adozione ed applicazione incidano, in concreto, sul conseguimento di obiettivi dell’ordinamento europeo (Corte di Giustizia, 22 dicembre 2010  DEB, C-279/09, EU:C:2010:811, e 20 maggio 2003 Rundfunk, cause riunite C-465/00, C-138/01 e C-139/01, EU:C:2003:294). Altro tema di frizione nella comparazione tra le due norme è il rapporto tra la già menzionata clausola di esecuzione fissata nell’Accordo di Schengen, non ribadita nella Carta di Nizza, e lo spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia proclamato nei testi dell’Unione, indicato come obiettivo primario nella normazione europea.
  • La Corte di Giustizia Europea ed il caso Spasic. Nel caso Spasic (27 maggio 2014, C-129/14, EU:C:2014:586), la Grande Camera della Corte di Giustizia Europea ha qualificato la condizione di esecuzione della CAAS come una «limitazione» del diritto (ossia del divieto di bis in idem) sancito dall’art.50 della Carta di Nizza ed ha effettuato un’analisi di proporzionalità, conformemente all’art.52, par.1 della Carta ed all’approccio «Hauer» (Corte di Giustizia, 13 settembre 1979, C-44/79, EU:C:1979:290 secondo cui, per dotare l’ordinamento giuridico comunitario di garanzie dei diritti fondamentali i giudici possono rifarsi alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri). In ossequio alle condizioni poste dall’art.52 par.1 della Carta, la Corte ha ritenuto che la limitazione sia effettivamente proporzionata in quanto persegue un obiettivo di interesse generale che è connaturato al comune spazio di libertà, sicurezza e giustizia (SLSG), vale a dire l’interesse a prevenire l’impunità di persone condannate in via definitiva. La Corte di Giustizia ha, in particolare, ritenuto la condizione necessaria, poiché nessuna delle alternative meno restrittive previste dagli strumenti di riconoscimento reciproco (come la Decisione Quadro 2002/584/GAI sul mandato di arresto europeo o la Decisione Quadro 2008/909/GAI sul riconoscimento reciproco delle pene detentive per la loro applicazione transfrontaliera) potrebbe essere «egualmente efficace» nel garantire l’obiettivo di prevenire l’impunità. La Corte ha, in sostanza, considerato che la possibilità di avviare un secondo procedimento giudiziario per gli stessi fatti sia più efficace nel perseguire l’obiettivo di sicurezza nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia dell’Unione rispetto al ricorso al MAE o all’applicazione transfrontaliera delle sanzioni mediante il riconoscimento reciproco. Inoltre, la Corte ha affermato che, con uno strumento di reciproco riconoscimento, esiste un rischio intrinseco di impunità nella scelta discrezionale dello Stato membro che ha emesso la decisione finale di applicarla o meno (art.69).

Secondo quanto affermato dalla Corte di Giustizia, la clausola di esecuzione, che impedisce che un soggetto sia sottoposto ad un secondo processo a condizione che il primo, non solo si sia concluso con sentenza passata in giudicato ma, abbia visto la pena interamente eseguita, risulta pienamente coerente, ed è anzi l’unico rimedio che consenta di perseguire l’obiettivo di garantire ai cittadini europei uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Tale clausola realizzerebbe, in altre parole, il fine di evitare che colui che si è macchiato di un crimine sfugga, di fatto, alla pretesa punitiva degli Stati membri, ancorchè considerati nel loro complesso come territorio dell’Unione. Simile impostazione risulta, da un lato, ragionevole e condivisibile; se, tuttavia, si pone mente all’origine e alle finalità del principio e se, d’altro canto, si richiama il principio della fiducia reciproca tra Stati membri, pure ripetutamente proclamato nei testi normativi dell’Unione afferenti alla cooperazione giudiziaria, l’affermazione di cui sopra appare più discutibile e sembra riecheggiare le resistenze da sempre opposte all’introduzione del divieto di un secondo processo in ambito internazionale.

  •  Il principio alla filigrana della cooperazione giudiziaria. Ma in ambito europeo, il divieto ha assunto incondizionatamente il rango di diritto fondamentale, quantomeno con riguardo alle materie di competenza dell’Unione Europea, ed in un futuro ormai prossimo tale orientamento dovrebbe essere rivisto. Se l’Unione Europea mira a garantire un elevato livello di sicurezza per i suoi cittadini attraverso misure di prevenzione della criminalità, del razzismo e della xenofobia, nonché misure volte a promuovere il coordinamento e la cooperazione tra la polizia (Europol) e le autorità giudiziarie (Eurojust), lo sviluppo della politica giudiziaria di cooperazione in settori come la prevenzione, l’indagine, l’accertamento del crimine, la giurisdizione e l’esecuzione della condanna porterà con sé un diverso bilanciamento degli interessi e la possibilità di una più ampia applicazione del divieto di bis in idem, il cui caposaldo teoretico nella giurisprudenza dell’Unione è da rinvenire esattamente nella fiducia reciproca tra Stati.

Nel marzo 2014 la Commissione europea ha adottato una comunicazione dal titolo «L’agenda giustizia dell’UE per il 2020: rafforzare la fiducia, la mobilità e la crescita nell’Unione», dove delinea la sua visione per il futuro della politica di giustizia dell’Unione europea. In tale «agenda» è in primo piano il tema della fiducia tra Stati membri fondata, in prima battuta, sul presupposto che ciascuno Stato garantisca un sistema di giustizia indipendente, efficiente e rispettoso dei principi dello stato di diritto e, in seconda battuta, sull’effettivo recepimento e sulla conseguente applicazione a livello nazionale delle leggi di matrice comunitaria. Specifica menzione viene fatta della progressiva introduzione di «norme minime comuni sui diritti al processo equo, valide in tutta l’Unione, mirate a proteggere le persone indagate o imputate di reato»; si tratta, con evidenza, di diritti tra i quali si colloca a pieno titolo il diritto a non essere sottoposti a doppio processo per i medesimi fatti.

Si inseriscono in questo percorso di ampliamento degli ambiti di operatività del principio del ne bis in idem, quale immediata conseguenza del rafforzamento della fiducia reciproca tra Stati (mutual trust), il Regolamento 2018/1805/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 novembre 2018, relativo al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca (si vedano gli artt.8 e 19), la Direttiva 2017/1371/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2017, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale (si vedano i Considerando nn.21 e 28), la Direttiva 2014/41/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 3 aprile 2014, relativa all’ordine europeo di indagine penale (si veda l’art.11), la Direttiva 2014/57/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014 , relativa alle sanzioni penali in caso di abusi di mercato (si veda il considerando n.23). A tali strumenti si affianca, ai fini che qui rilevano, l’importante decisione quadro 2009/948/GAI del Consiglio del 30.11.2009 per la prevenzione e risoluzione dei conflitti relativi alla giurisdizione in materia penale (attuata in Italia con d.lgs. 15.2.2016, n. 29).

  • Le limitazioni al principio secondo la Carta di Nizza. Con riferimento alla possibilità di porre limitazioni al principio, la Corte di Giustizia si è espressa, su rinvio pregiudiziale del Tribunale di Bergamo (20 marzo 2018, Menci, C-524/15, EU:C:2018:197), sul tema della cumulabilità tra sanzioni amministrative e sanzioni penali in materia di IVA ammettendo il cumulo di procedimenti e sanzioni, sul presupposto che fosse rimesso alla libertà del singolo Stato scegliere le misure appropriate e ritenendo che tale cumulo non mettesse comunque in discussione il principio nella sua essenza. La Corte ha qui ribadito il criterio interpretativo espresso nella sentenza Spasic, secondo il quale una limitazione del principio del ne bis in idem garantito all’art. 50 della Carta può essere giustificata sul fondamento del successivo art. 52. Ciò comporta che la limitazione debba essere prevista dalla legge, debba rispettare il contenuto essenziale del principio e sia necessaria in vista del perseguimento di interessi generali dell’Unione o dell’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui. In questa decisione, la Corte si è particolarmente soffermata sulla necessità che le leggi che prevedono sia la sanzione amministrativa che la sanzione penale in conseguenza del medesimo comportamento siano chiare e precise e siano coordinate, in modo da ridurre a quanto strettamente necessario l’onere che derivi dal cumulo a carico dell’interessato. Volgendo la sua attenzione all’aspetto più strettamente sanzionatorio, la Corte ha, quindi, posto l’accento sull’obbligo per le autorità competenti di evitare che dal cumulo delle sanzioni derivi un trattamento nel suo complesso eccessivamente severo in relazione alla gravità del reato contestato.

A differenza del caso Spasic, il caso Menci riguarda però «limitazioni» al principio del ne bis in idem, per ripetere l’espressione della Corte, poste da leggi interne allo Stato italiano e procedimenti svoltisi nel territorio del medesimo Stato, cosicchè la Corte ha esaminato l’ulteriore profilo della conformità della propria interpretazione dell’art.50 della Carta di Nizza all’obiettivo di assicurare un livello di tutela del principio non inferiore a quello garantito all’art. 4 prot. n. 7 della CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte di Giustizia, 15 febbraio 2016, N., C 601/15 PPU, EU:C:2016:84, punto 77, e 5 aprile 2017, Orsi e Baldetti, C 217/15 e C 350/15, EU:C:2017:264, punto 24).

Altro profilo da esaminare, implicito nella stessa normativa di principio, se dissociata dalla clausola di esecuzione, riguarda l’applicazione del divieto di bis in idem a seguito di una pronuncia assolutoria. Significativa è, in proposito, la pronuncia della Corte di Giustizia Europea del 25 luglio 2018 (Županijski Sud u Zagrebu, C-268/17, EU:C:2018:602, punti 41-44) su questione pregiudiziale sollevata dal Tribunale di Zagabria. In tale decisione si è chiarito: a)  che il termine ‘sentenza’ menzionato nell’art.3, punto 2 della Decisione Quadro 2002/584 (2002/584/GAI, Decisione quadro del Consiglio del 13 giugno 2002 relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri) deve essere inteso in senso ampio con riguardo ad ogni decisione che chiuda definitivamente il procedimento penale in uno Stato membro, ancorchè non adottata da un giudice con forma di sentenza (in precedenza, 29  giugno 2016, Kossowski, C 486/14, EU:C:2016:483, punto 39); b) che si considera che una persona ricercata sia stata oggetto di una sentenza definitiva per gli stessi fatti nel caso in cui, in esito a un procedimento penale, l’azione penale si sia definitivamente estinta o, ancora, qualora le autorità giudiziarie di uno Stato membro abbiano emanato una decisione di definitivo proscioglimento dell’imputato per i fatti contestatigli (in precedenza, 16 novembre 2010, Mantello,  C 261/09,  EU:C:2010:683, punto 45).

Più pertinente al tema qui in esame è la citata sentenza della Grande Camera del 29 giugno 2016, su rinvio pregiudiziale del Tribunale Regionale Superiore di Amburgo (CGUE, Kossowski, C-486/14, EU:C:2016:483). La domanda di pronuncia pregiudiziale (così erroneamente qualificata dal giudice tedesco ai sensi dell’art.267 TFUE ma, in realtà, consentita in quanto la Repubblica Federale di Germania ha effettuato una dichiarazione ai sensi dell’art.35, par.2 TUE, con la quale ha accettato la competenza della Corte a pronunciarsi secondo le modalità di cui al paragrafo 3, lett. b di tale articolo) verteva sull’interpretazione degli artt.54 e 55 della CAAS, nonché dell’art.50 e dell’art.52, par.1, della Carta di Nizza. Premesso che la Repubblica Federale tedesca, in sede di ratifica della CAAS, aveva formulato la riserva di non vincolatività del principio qualora i fatti oggetto della sentenza straniera fossero avvenuti in tutto o in parte sul suo territorio, il Tribunale di Amburgo ha chiesto se tale dichiarazione di riserva fosse ancora valida dopo l’entrata in vigore della Carta di Nizza.

Va subito detto che la Corte non si è pronunciata su tale istanza, avendo escluso, in risposta al secondo quesito, analizzato preventivamente, l’esistenza di un valido «giudicato» in Polonia. Dalla pronuncia si evince, però, l’implicita affermazione di operatività della clausola di esecuzione prevista dall’art.54 della CAAS nella parte in cui, in aggiunta alla precedente sentenza definitiva, richiede la totale e piena esecuzione della pena. La Corte ha, poi, precisato che l’art.54 della CAAS deve essere interpretato alla luce dell’art.50 della Carta di Nizza, desumendone l’operatività incondizionata del principio nel caso in cui il precedente procedimento si sia concluso con decisione che estingue definitivamente l’azione penale senza che siano state irrogate sanzioni. A tale conclusione la Corte è pervenuta sottolineando che la lettera dell’art.54 della CAAS prevede l’applicazione del principio nei confronti di colui che sia stato «giudicato (non condannato) con sentenza definitiva» ed ha interpretato tale disposizione nel senso che il divieto di bis in idem operi quando l’azione penale sia definitivamente estinta, a seguito di esame nel merito, secondo il diritto dello Stato che ha pronunciato la prima decisione (cfr. anche Corte di Giustizia, 5 giugno 2014, M, C-398/12, EU:C:2014:1057, punti 28-31). Il principio opera, dunque, indipendentemente dal fatto che tale decisione provenga da un giudice o che assuma la forma di una sentenza o che sia stata irrogata una sanzione (cfr. già Corte di Giustizia, 11 febbraio 2003 Gözütok e Brügge, C-187/01 e C-385/01, EU:C:2003:87, punti 28 e 38). Si è, poi, chiarito che la clausola di esecuzione presuppone un precedente giudicato di condanna, non operando quale «condizione aggiuntiva» che prescinde dall’esito della decisione, con la conseguenza che di tale clausola non si dovrà tenere conto nei casi di proscioglimento. Anche in questa sentenza si conferma, come presupposto, l’orientamento della Corte di Giustizia per la tesi della persistente operatività della clausola di esecuzione, strettamente correlata al duplice obiettivo perseguito dalla normativa in cui rientra l’art.54 della CAAS, letto alla luce dell’art.3, par.2, TUE: da un lato, quello di evitare, nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, che una persona giudicata con sentenza definitiva venga perseguita, per il fatto di esercitare il suo diritto di libera circolazione, per gli stessi fatti sul territorio di diversi Stati contraenti; dall’altro, quello di evitare che la libertà di circolazione si trasformi in strumento di protezione di una persona sospettata di reato dall’eventualità di doversi sottoporre ad ulteriori accertamenti, per gli stessi fatti, in più Stati contraenti. Forti perplessità suscita l’assenza di riferimenti al giudizio di proporzionalità della condizione di esecuzione in relazione al menzionato bilanciamento tra obiettivi dell’Unione.

  • Il vessillo della res iudicata. Il tema della persistente operatività dell’art.54 della CAAS in tutte le sue implicazioni rimane, dunque, sullo sfondo ed impregiudicato[1]. Non risolve ogni dubbio, per il suo limitato punto d’osservazione, l’ulteriore affermazione (cfr. punto 46) secondo la quale la ricerca del carattere definitivo della decisione in materia penale assunta da uno Stato membro va condotta alla luce del bilanciamento tra la necessità di garantire la libera circolazione delle persone e quella di promuovere la prevenzione della criminalità.

Nel diritto interno, il divieto di un secondo processo per i medesimi fatti è comunemente considerato, oltre che un principio rispondente ad esigenze di razionalità e funzionalità del sistema, un principio di civiltà giuridica, un vero e proprio diritto dell’individuo (Corte Cost. ord. n. 150/1995; Corte Cost. sent. nn. 219/2008, 284/2003, 115/1987 e 1/1969). La Corte di Cassazione italiana si è espressa in merito al necessario presupposto del provvedimento definitorio del giudizio con efficacia di giudicato senza approfondire il tema dell’eventualità che un decreto di archiviazione abbia valore definitorio secondo la legge di altro Stato membro (Sez. 2, n. 51221 del 15/06/2018, Feil Bernd, Rv. 27506401). Un’autorevole definizione del presupposto di operatività del principio del ne bis in idem è rinvenibile nel Rapporto esplicativo della Convenzione Europea sulla validità internazionale dei giudizi repressivi (1970); ivi si legge che una decisione può considerarsi definitiva se ha acquistato la forza di res iudicata, con tale espressione dovendosi intendere una decisione irrevocabile perchè non è esperibile alcun ulteriore mezzo ordinario d’impugnazione o perché le parti hanno esaurito i rimedi previsti o perché sono decadute dal termine per esperirli.

D’altro canto, il tema della res iudicata, dal cui rispetto peraltro trae origine il principio, è ampiamente dibattuto, come si evince anche dalle concorrenti considerazioni svolte da alcuni giudici della CEDU, tra i quali il Presidente Raimondi, a margine della pronuncia Mihalache (Corte E.D.U., 8 luglio 2019,  Mihalache c. Romania); in tali considerazioni, in particolare, i giudici hanno espresso la loro critica proprio con riferimento allo scarso rilievo attribuito alla legislazione ed ai «formanti» dello Stato membro in cui è stata emessa la prima decisione per verificare se detta pronuncia abbia carattere di definitività.

  • La Carta di Nizza e le eccezioni al principio. Rimane ancora da chiarire, in difetto di decisioni sul punto, quale sia l’impatto della Carta di Nizza sulle eccezioni previste dall’art.55 della CAAS, le cui eterogenee finalità non mirano tanto a prevenire l’impunità quanto piuttosto a riaffermare la sovranità nazionale e potrebbero porsi in diverso equilibrio nel bilanciamento con gli obiettivi dello spazio di sicurezza, libertà e giustizia. Sotto un profilo squisitamente giuridico, va sottolineato che le eccezioni eventualmente formulate dagli Stati non sono state incorporate nell’acquis di Schengen con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam; ove non reiterate, dovrebbero considerarsi inefficaci nel territorio dell’Unione europea.

In questo contesto si colloca una pronuncia della Corte di Cassazione in cui si è espressamente affermato il superamento, con l’entrata in vigore della Carta di Nizza, tanto della clausola di esecuzione quanto delle eccezioni consentite dall’art.55 della CAAS (Cass. Sez. 6,  n. 15866 del 04/04/2018 , Spasiano, Rv. 27291201). Il tema affrontato dalla Corte di legittimità in questa pronuncia riguarda il rifiuto della consegna nel caso in cui il mandato di arresto europeo sia stato emesso in relazione a «reati che dalla legge italiana sono considerati commessi in tutto o in parte nel suo territorio, o in luogo assimilato al suo territorio» (rifiuto obbligatorio ai sensi dell’art.18 lett.p legge 22 aprile 2005, n.69, ora facoltativo ai sensi dell’art.18 bis lett.b, introdotto con legge 4 ottobre 2019, n.117), correlato al principio dell’irrilevanza giuridica dell’esercizio di concorrente giurisdizione in ragione della territorialità della giurisdizione penale. Tali princìpi, ha rilevato la Corte, risultano confliggenti con le esigenze di cooperazione internazionale alle quali sono ispirati istituti quali il MAE e, più in generale, con la creazione di uno spazio giudiziario europeo; ma, soprattutto, hanno assunto una diversa valenza con il riconoscimento del principio del ne bis in idem ad opera della Convenzione di Schengen. I giudici di legittimità hanno ritenuto pacifico che il principio del ne bis in idem introdotto con l’art.50 della Carta di Nizza abbia una portata più ampia del principio affermato nella CAAS, ritenendo superate tanto la condizione di esecuzione quanto le riserve previste dall’art.55 della CAAS; su tale presupposto, la Corte ha rilevato che il mero rifiuto della consegna, in una materia (criminalità organizzata) che trova la sua fonte nel diritto dell’Unione, «non viene di per sé a tutelare la riserva di giurisdizione dello Stato di rifugio, con l’effetto perverso di poter disporre fisicamente dell’imputato, ma di non poterlo poi giudicare o sottoporre a sanzione a causa del ne bis idem. In tal modo, il rischio dell’applicazione generalizzata della causa di rifiuto potrebbe condurre paradossalmente all’impunità di fatto della persona».

Ora, a prescindere dal mutato quadro normativo che ha reso facoltativo il rifiuto della consegna nell’ipotesi in esame, e a prescindere dalla disciplina dettata dall’Unione per la prevenzione e risoluzione dei conflitti relativi alla giurisdizione in materia penale (d.lgs. 15.2.2016 n. 29 di attuazione alla decisione quadro 2009/948/GAI del Consiglio del 30.11.2009), ciò che più rileva in questa sede è l’affermazione del superamento, nelle materie di competenza dell’Unione, delle eccezioni al principio del ne bis in idem poste dall’art.55 della CAAS a seguito dell’entrata in vigore della Carta di Nizza (ma in senso contrario, Cass. Sez.1 n.32395 del 11/11/2015, dep.2016). Tra queste eccezioni, si è già detto, figurava, in base all’art.7 della legge di ratifica (legge 30 settembre 1993, n. 388) l’ipotesi prevista nell’art. 55, paragrafo 1, lett.a) della Convenzione stessa, esattamente relativa al caso in cui i fatti oggetto della sentenza straniera siano avvenuti sul nostro territorio in tutto o in parte. Secondo la Corte di Cassazione, operando in tali casi il divieto di bis in idem europeo, il mandato di arresto potrebbe essere rifiutato nella sola ipotesi in cui, essendo il mandato di arresto fondato su condanna definitiva, sia già pendente nello Stato italiano un procedimento penale parallelo per il fatto oggetto del MAE, commesso in tutto o in parte nel territorio italiano «in quanto in tal caso la soluzione del conflitto (già esistente e non meramente potenziale) deve trovare necessaria soluzione nel meccanismo disciplinato dalla decisione quadro del 2009 e dal d.lgs. n. 29 del 2016».

La normativa da ultimo citata costituisce, indubbiamente, uno strumento preventivo del rischio che la medesima persona sia sottoposta a duplice procedimento penale per lo stesso fatto, consentendo all’autorità giudiziaria di verificare la pendenza di procedimenti «paralleli» nei confronti del medesimo indagato con l’obiettivo di concentrare l’esercizio dell’azione penale ed il processo in un unico Stato membro. Le regole di principio che attengono al ne bis in idem soccorrono, evidentemente, in tutti i casi nei quali la concentrazione dei procedimenti paralleli non sia avvenuta.

  • L’autonomia del principio nell’ambito dell’Unione Europea. Rimane, in conclusione, impregiudicata, ed anzi alquanto incerta per la varietà di posizioni assunte dalla giurisprudenza nazionale ed europea, la questione se si possa ritenere compatibile con gli obiettivi del Trattato di Lisbona mantenere integro l’acquis comunitario, già indicato tra gli obiettivi del Trattato di Amsterdam, e con esso lasciare invariata la condizione di esecuzione prevista dall’art.54 della CAAS. Con riguardo alle riserve formulate dagli Stati ai sensi dell’art.55 della CAAS, e fatta salva la già rilevata estraneità di esse all’acquis di Schengen, il giudice nazionale sarebbe tenuto a bilanciare gli interessi ivi sottesi con gli interessi proclamati nel Trattato di Lisbona ed, in ogni caso, a disapplicare l’art.7 della legge n.388/1993 per contrasto con l’art.50 della Carta di Nizza. Si tratta di questioni che richiedono una soluzione interpretativa che difficilmente può trovare soluzione nell’ottica di uniformare la portata del principio al livello di tutela assicurato nel sistema CEDU, così come invece è avvenuto con riguardo alla nozione di idem factum. Le questioni investono, infatti, profili strettamente attinenti alla cooperazione giudiziaria tra Stati membri, evidenziando in questo ambito l’autonomia del principio nell’ordinamento UE.

L’interprete deve, ora, confrontarsi con l’attuazione della disciplina per la prevenzione e risoluzione dei conflitti relativi alla giurisdizione e con il rafforzamento degli strumenti di cooperazione giudiziaria. In un’ottica evolutiva[2], dovrà essere rivista la compatibilità della clausola di esecuzione con la possibilità di porre limitazioni al principio ai sensi dell’art.52, par.1, della Carta di Nizza; in altre parole, limitazioni che rispettino criteri di proporzionalità e necessità in relazione al perseguimento degli obiettivi dell’Unione e che non inficino il contenuto essenziale del divieto di bis in idem (Corte di giustizia, 13 dicembre 2000, Karlsson, C-292/97, EU:C:2000:202, punto 45), soprattutto per la ampia accezione accolta dalla stessa Corte europea con riguardo al concetto di provvedimento definitorio del giudizio.


[1] S. Iglesias Sanchez, “The Court and the Charter: The impact of the entry into force of the Lisbon Treaty on the ECrs approach to fundamental rights”, in Common Market Law Review 2012, p. 1583 ss.

[2] S. Montaldo, Ne bis in idem e sistema ‘multilivello’ di tutela dei diritti fondamentali: i rapporti tra l’art. 54 della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen e l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali, in Diritti umani, 3, 2014.

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Articolo di Cristina Marzagalli

L’indipendenza della giustizia è una pietra miliare dello stato di diritto in Europa perché è funzionale alla difesa dei diritti e delle libertà dei cittadini. Negli ultimi anni stiamo assistendo a fenomeni che mettono in dubbio il principio dello Stato di Diritto (Rule of law), precondizione per la democrazia e per la separazione dei poteri. Il pericolo è stato percepito dall’Associazione Europea dei Magistrati, alla quale l’ANM aderisce in qualità di membro fondatore. La magistratura associata internazionale mette in campo gli strumenti di cui dispone per tutelare il valore dell’indipendenza della magistratura nei Paesi dove essa è rischio.

  1. Premessa

Sono tempi  incerti in cui viene messo in dubbio il principio dello Stato di Diritto (Rule of law), precondizione per la democrazia e per la separazione dei poteri.

Il pericolo è stato percepito dall’Associazione Europea dei Magistrati (AEM secondo l’acronimo francese o EAJ secondo l’acronimo inglese), alla quale l’ANM aderisce in qualità di membro fondatore, nell’esercizio della funzione che la caratterizza: la salvaguardia dell’indipendenza dell’ordine giudiziario quale condizione essenziale della funzione giurisdizionale e garanzia dei diritti umani e delle libertà (per un approfondimento sull’Associazione Europea dei Magistrati e sull’Unione Internazionale dei Magistrati si consulti C. Marzagalli, L’associazionismo giudiziario transnazionale, La Magistratura, luglio-dicembre 2014).

La riunione dell’Associazione Europea dei Magistrati, che si è svolta a Berlino (Germania) nei giorni 24 e 25 maggio 2018, è stata preceduta da una conferenza organizzata dalla stessa AEM  dal titolo L’indipendenza della giustizia – una pietra miliare dello stato di diritto in Europa.  La conferenza ha posto l’attenzione sul tema dell’indipendenza della magistratura in connessione con la rule of law in Europa. Prendendo spunto dalla storia recente del nostro continente evocata dal simbolismo della città di Berlino, ove ebbe luogo l’ultima grande offensiva del teatro europeo della seconda guerra mondiale, sono stati  sottolineati i rischi attuali nei Paesi Membri dell’Europa.  Importanti esponenti delle Istituzioni Europee hanno preso parte all’evento; tutti hanno unanimemente evidenziato come l’indipendenza della magistratura sia funzionale alla difesa dei diritti dei cittadini. Frans Timmermans, primo vice-presidente della Commissione Europea, ha asserito che l’Europa si basa sullo Stato di Diritto e che detto concetto va annoverato tra i valori fondamentali europei; esso comporta il mutuo riconoscimento delle decisioni dei Paesi membri, senza alcuna formalità, perché i Giudici Nazionali sono Giudici Europei.

La conferenza aveva l’obiettivo di portare all’attenzione dell’opinione pubblica, attraverso la forte copertura mediatica derivante dal richiamo della presenza di politici illustri, le situazioni critiche che si sono di recente sviluppate in alcuni Paesi Membri, come la Polonia. Proprio il recente insorgere di situazioni critiche ha determinato l’AEM ad organizzare questa conferenza, alla quale  hanno partecipato ben 40 delle 44 associazioni di magistrati aderenti all’AEM.

La poderosa presenza della stampa ha effettivamente assicurato ampia diffusione al tema dell’indipendenza della magistratura.

  • L’attacco alla rule of law

Tutto è iniziato in Turchia.  A partire dal 2010, l’Associazione Europea dei Magistrati è  intervenuta in maniera ricorrente a tutela della magistratura turca, adottando risoluzioni oppure altre forme di sostegno, in seguito alle plurime aggressioni dell’indipendenza dell’ordine giudiziario da parte del Governo nazionale.

La situazione è precipitata in occasione del meeting dell’Associazione Europea dei Magistrati organizzato a Gerusalemme nel maggio 2016 dalla Israeli Association of Judges. Il giorno precedente l’inizio dei lavori il collega Murat Durmaz,  delegato dell’Associazione Turca Yarsav, ha comunicato la sua impossibilità a partecipare all’incontro a causa del  divieto dell’High Council, sopraggiunto all’ultimo momento. Sebbene il  collega fosse stato precedentemente autorizzato a prender parte alla riunione dell’AEM, l’High Council ha comunicato all’ultimo minuto la propria decisione a Murat, così impedendogli di partire. Benché rientri nelle prerogative del Consiglio Superiore autorizzare o meno i giudici a recarsi all’estero, tuttavia le modalità di esercizio di tale potere hanno disvelato chiaramente la pretestuosità della decisione – comunicata all’interessato solo poche ore prima della partenza- e l’oltraggiosità nei confronti dell’ Associazione Europea dei Magistrati poiché ha impedito la partecipazione al consesso associativo di uno dei delegati. L’assemblea dell’AEM ha stigmatizzato la gravità del caso poiché proprio il Consiglio Superiore della Magistratura in Turchia, deputato alla tutela dell’indipendenza dei giudici, è intervenuto negativamente su uno dei rappresentanti dell’associazionismo giudiziario E’ stato subito chiaro trattarsi  dell’ennesimo atto di boicottaggio in danno dei colleghi turchi indipendenti al fine di favorire il Presidente Erdogan, che di fatto controlla il Consiglio Superiore del suo Paese.

La situazione della magistratura in Turchia è andata via via peggiorando. Nell’estate del 2016 si verifica un tentativo di colpo di Stato, che viene però sventato. Erdogan, col pretesto di difendere la Nazione dai gulenisti, trasforma la Turchia in uno Stato totalitario. Egli si sbarazza dei funzionari pubblici, dei giornalisti, degli avvocati, dei magistrati indipendenti e di tutti coloro che non gli sono fedeli. Migliaia di persone vengono licenziate, poste sotto procedimento disciplinare, incriminate e messe in carcere con addebiti pretestuosi.  

La preoccupazione per il principio di indipendenza dell’ordine giudiziario va oltre  la Tirchia. La situazione di altre magistrature si è rivelata critica sotto il profilo dell’indipendenza dal potere esecutivo.  In Polonia il PIS, che è il partito maggioritario di governo, ha modificato le regole per la composizione della Suprema Corte con l’intento di controllare la nomina dei membri.

In Romania sono state modificate le regole per la scelta dei capi degli Uffici di Procura, in maniera tale da assicurare la nomina di Procuratori compiacenti col governo .

L’attacco all’indipendenza della magistratura e alle regole che governano il potere giudiziario, insorto in un Paese candidato all’ingresso nell’Unione Europea, la Turchia, si è esteso in maniera preoccupante a Paesi  membri dell’Unione Europea.

  • La Turchia

Pochi giorni dopo il colpo di Stato, l’Associazione Yarsav viene disciolta con decreto emergenziale del Governo. Quando apprende la notizia, Murat Arslan, presidente dell’Associazione di Giudici e Pubblici Ministeri YARSAV affiliata all’AEM, si trova a Londra con la famiglia. Noncurante dei consigli degli amici, Murat rientra in Turchia, consapevole della sorte che lo attende. Il 19 ottobre 2016 Murat viene arrestato con l’accusa di essere membro dell’associazione armata terroristica FETO. Si trova in prigione a Sincan Ankara, in una cella con altri 16 detenuti: 8 letti, una sola doccia, un tappeto per pregare, un’ora e mezza alla settimana per i colloqui con la famiglia. La moglie e i due figli di Murat sopravvivono grazie all’ aiuto della famiglia; tutti i beni di Murat sono stati sottratti alla sua disponibilità.

Il 9 ottobre 2017 il Consiglio d’Europa ha assegnato a Murat Arslan il  premio Vaclav Havel per i diritti umani, su unanime proposta delle 4 associazioni europee di magistrati. Non potendo ritirare il premio personalmente, Murat ha inviato un messaggio dal carcere: “Non dobbiamo cadere nella disperazione. L’esistenza in vita dei nostri figli non ci consente di perdere la speranza”.     

Il 18 gennaio 2019 una Corte speciale, composta da giudici fedeli a Erdogan, ha condannato Murat Arslan a 10 anni di prigione. Il processo è stato celebrato in violazione di numerose norme del codice di procedura penale della Turchia ed ignorando i principi fondamentali del fair trial, come hanno testimoniato gli osservatori europei che hanno presenziato alle udienze. La prova decisiva per la condanna di Murat consiste nella circostanza di avere scaricato sul proprio cellulare l’applicazione ByLock, vale a dire la medesima applicazione utilizzata dai Gulenisti per il colpo di Stato; ciò significa, nella logica della Corte, che ogni downloader di ByLock è un gulenista. “La sentenza è uno dei più gravi attacchi e sembra inviare un messaggio a tutti i giudici che agiscono con indipendenza rispetto al potere esecutivo”. Questo il commento di Diego Garcia-Sayàn, rappresentante speciale dell’Onu per l’indipendenza dei giudici e degli avvocati (D. Garcia-Sayàn, Shame on you, El Pais, 24.1.2019).  

 Alla riunione dell’AEM tenutasi a Marrakesh nell’ottobre 2018, il Presidente José Igreja Matos ha sottolineato il permanere dell’impegno dell’AEM in favore della magistratura turca. Dopo l’attribuzione del prestigioso premio Vaclav Havel a Murat Arslan, la presa di coscienza della situazione della magistratura turca è aumentata e le attività poste in essere dall’AEM sono risultate nettamente più visibili, anche alle Autorità turche.

Un grande risultato è stato quello di siglare un protocollo, d’intesa con l’OCSE, con l’Associazione Norvegese e con l’Associazione Svizzera, che assicuri la presenza di osservatori internazionali, tra i quali l’AEM, ai processi giudiziari nazionali in corso nei confronti dei colleghi turchi. Ad identica soluzione si è pervenuti per i processi pendenti innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, per prestare assistenza ai colleghi turchi in essi coinvolti. In particolare, AEM è stata considerata dalla Corte come amicus curiae di Yarsav ed è perciò ammessa, in tale veste, alla partecipazione ai procedimenti presso la CEDU.

Un ulteriore, concreto risultato è stato raggiunto grazie al Fondo di Solidarietà alle famiglie dei magistrati turchi in difficoltà, creato di recente dall’AEM. Il Presidente del Comitato di gestione del Fondo, il collega svizzero Thomas Stadelmann, ha presentato un dettagliato resoconto sull’ammontare delle sostanze confluite nel Fondo e sul sistema di individuazione e pagamento alle famiglie in difficoltà. E’ emerso che, sinora, sono state accolte 96 domande di finanziamento, scelte di preferenza tra quelle provenienti da famiglie con figli minori, ed è stata consegnata la somma totale di euro 76.000,00. I pagamenti avvengono di preferenza tramite versamenti bancari su conti correnti sicuri, mentre la modalità di pagamento tramite Western Union non è più possibile perché detto sistema ha cessato di essere attivo in Turchia. Poiché il Fondo ha una consistenza residuale di euro 31.000,00, insufficiente per soddisfare le domande pendenti, l’AEM ha deciso di  chiedere alle Associazioni Nazionali di contribuire finanziariamente ad implementare il Fondo.

  • La Polonia

L’emergenza costituzionale polacca è iniziata nel novembre 2016, subito dopo che il partito Prawo I Sprawiedliwosc – PIS (che, tradotto, significa Legge e Giustizia) ha vinto le elezioni parlamentari. La crisi ha avuto luogo in due fasi. Nella prima fase gli organi preposti, tutti controllati dal PIS, hanno annullato la precedente nomina  dei 5 giudici costituzionali e li hanno sostituiti con un pacchetto di nuovi 5 giudici. Al contempo, sono stati approvati sei disegni di legge che, di fatto, hanno paralizzato il funzionamento del Tribunale Costituzionale, nell’intento di manipolarne l’attività. Questa prima fase si è conclusa nel dicembre 2016 con la nomina del vertice del Tribunale Costituzionale da parte del  Presidente della Repubblica .

Nella seconda fase, iniziata nel 2017, il CSM e la Suprema Corte sono stati sottoposti al controllo politico grazie alla modifica delle regole per la nomina dei rispettivi componenti. Per quanto riguarda la Suprema Corte, è stata individuata una diversa età pensionabile (abbassata da 70 a 65 anni di età anagrafica) che ha determinato il pensionamento di 27 giudici su 72.  Per quanto riguarda il CSM, ben 15 dei 18 componenti sono di nomina o provenienza governativa.

L’incostituzionalità di siffatte leggi ha suscitato proteste in tutto il Paese, dove la gente è scesa in piazza in massa per manifestare contro le modifiche adottate. (M. Matczak, Poland’s Contitutional crisis: facts and interpretations, in Foundation for Law, Justice and Society, www.fljs.org). 

La magistratura polacca ha reagito coraggiosamente. Nel 2018 i magistrati hanno boicottato le elezioni del Consiglio Superiore della Magistratura, astenendosi dalle votazioni. Si sono rivolti alle Istituzioni e alle Corti Europee, al rapporteur speciale dell’ONU Diego Garcia-Sayàna, all’OCSE, alla Commissione di Venezia, provocando numerose reazioni in loro favore a sostegno dell’indipendenza. Si cita a titolo d’esempio la Risoluzione 2188 adottata dal Parlamento Europeo l’11 ottobre 2017, che identifica la Polonia come una delle nazioni esempio di una nuova minaccia alla rule of law in ragione dell’attacco alla indipendenza del potere giudiziario derivante modifica della legge che regolamenta il CSM. Nel settembre 2018 la rete europea dei CSM, l’ENCJ, ha sospeso il Polish National Judicial Council dalla partecipazione alle attività dell’ENCJ perché ritenuto privo del requisito dell’indipendenza dal potere esecutivo.

La magistratura associata, rappresentata in Polonia dalle due maggiori associazioni nazionali Iustitia e Themis, ha sollecitato l’interessamento dei  media alla situazione interna e ha provocato il coinvolgimento delle associazioni europee per rafforzare la  battaglia a tutela della rule of law.  Grazie all’attivismo dei colleghi polacchi, ma anche dell’Accademia, agli inizi del 2019 la nota rivista americana Fordham International Law Journal ha pubblicato un articolo che descrive nel dettaglio l’evoluzione della situazione del sistema giudiziario in Polonia.

 M. Bogdan Jedrys dell’associazione polacca Iustitia partecipa costantemente alle riunioni dell’AEM per riferire sugli sviluppi della situazione della magistratura nel suo Paese. Iustitia ha recentemente denunciato l’uso strumentale del sistema disciplinare in danno dei magistrati; con lettera 13 febbraio 2019 indirizzata a Frans Timmermans,  vice presidente della Commissione Europea, Iustitia ha chiesto alla Commissione un intervento a tutela. In concomitanza con la missiva è uscita la pubblicazione del volume Disciplinary proceedings against judges and prosecutors a cura della Helsinki Foundation for Human Rights, che descrive i singoli casi di distorsione del sistema.

  • Gli altri Paesi europei a rischio

Il 19 febbraio 2019 la Romania ha adottato due leggi emergenziali nel settore della giustizia (emergency ordinances in the justice sector), che sono state fortemente criticate dall’Associazione nazionale dei pubblici ministeri Romanian Judges’ Forum e dal vice presidente della Commissione Europea Frans Timmermans. Entrambi hanno sottolineato come le ordinanze siano state approvate senza autentico dibattito parlamentare ed ignorando l’esito della consultazione effettuata presso l’assemblea generale della magistratura.  

La prima ordinanza governativa ha modificato le regole per la selezione dei candidati nazionali alla Procura Europea, tra i quali figura il capo della DNA Laura Codruta Kovesi.

La seconda ordinanza ha modificato le regole per la nomina del Procuratore Generale di Romania e degli altri vertici delle Unità Investigative Speciali, quali la Direzione Nazionale Anticorruzione e il Direttorato contro il Crimine Organizzato. Più precisamente, è stato attribuito al Plenum del CSM il potere di nomina di queste figure apicali, sottraendolo alla sezione Pubblici Ministeri del CSM , sinora competente. Stando all’opinione espressa da G4media.ro, la modifica è stata assunta dopo che la sezione Pubblici Ministeri del CSM   aveva dato parere negativo ad alcune proposte del primo ministro Tudorel Toader, in particolare la sostituzione del capo della DNA Laura Codruta Kovesi con altro pubblico ministero. Secondo la stessa fonte, il Plenum del CSM sarebbe invece più sensibile alle istanze del Primo Ministro. La medesima ordinanza istituisce una Sezione investigativa speciale per le indagini disciplinari sui magistrati, sottraendo al Procuratore Generale il potere di archiviazione. Attualmente, Laura Codruta Kovesi è sotto procedimento disciplinare originato dalla denuncia di un noto imprenditore rumeno; l’esito del procedimento disciplinare potrebbe pregiudicare la nomina della Kovesi al vertice della Procura Europea, posto per il quale risulta tra i candidati favoriti (www.romania-insider.com, 26.2.2019).   

Poco trapela dall’Ungheria, altro Paese ritenuto a rischio sotto il profilo dell’indipendenza della magistratura. Plurime fonti hanno  dato la notizia del varo di modifiche legislative da parte del governo Orban, asseritamente pregiudizievoli per l’ordinamento giudiziario, e di conflitti insorti tra alcuni organi costituzionali (si veda V. Vadàsz, Crisis in Judicial Administration?, MTA Law working Papers, Budapest, 19.6.2018). Tuttavia l’Associazione Europea dei Magistrati si è trovata nell’impossibilità di intervenire presso le Autorità Ungheresi a tutela dei colleghi poiché l’Associazione nazionale Ungherese della magistratura non ha chiesto alcun aiuto all’AEM né ha fornito informazioni utili a supportare le notizie apprese altrove.  

  • Conclusioni

La magistratura associata continua a mettere in campo gli strumenti di cui dispone per tutelare il valore dell’indipendenza nei Paesi dove essa è messa  in pericolo.

L’Associazione Europea dei Magistrati si riunirà il 9 e 10 maggio a Copenaghen per il meeting annuale. Nel corso del meeting verranno forniti gli aggiornamenti dai delegati delle Associazioni Nazionali dei Paesi a rischio. Una corretta informazione in ordine alle realtà giudiziarie è il presupposto imprescindibile per approntare reazioni adeguate. La sussistenza di determinate situazioni va, poi, riversata all’opinione pubblica attraverso la stampa per diffonderne la consapevolezza tra la gente.

Abbracciando tale principio, la Platform for an independent judicary in Turkey, composta dalle 4 associazioni europee di magistrati, ha intrapreso una campagna mediatica in favore di Murat Arslan affinchè egli non venga dimenticato. L’impegno dell’AEM è quello di ricordare costantemente Murat e gli altri colleghi turchi detenuti perché “finchè Murat Arslan e gli altri compagni sono in prigione, non vi sarà un solo giudice veramente libero” (M. Soares, President of the Association of Portoguese Judeges, message published in the newspaper Publico, 30.1.2019).

Oltre all’impegno degli enti rappresentativi di categoria, va richiamato il ruolo cruciale della Corte Europea di Giustizia a difesa della democrazia e della rule of law. L’art. 21 del trattato dell’Unione Europea include, tra gli obiettivi chiave, la finalità di consolidare e supportare la democrazia, la rule of law, i diritti umani e i principi di diritto internazionale. In molti Paesi Europei il populismo danneggia la democrazia poiché limita il dibattito e lo scambio di opinioni, delegittima la dissenting opinion, abbatte la rule of law, sminuisce l’autorità del Parlamento, influisce sulla separazione e sul bilanciamento dei poteri dello Stato. La difesa dei valori fondanti l’Unione Europea non può che provenire dalla Corte di Giustizia, svincolata da quei legami politici che limitano l’azione della Commissione Europea. (per un approfondimento sul tema si veda C. Grasso, The European Court of Justice as a bastion of democracy and rule of law, www.opendemocracy.net, 20.2.2019).  

CLASSIFICAZIONE
TRATTAMENTO INUMANO E DEGRADANTE – MALTRATTAMENTI – CURE INADEGUATE – DISABILITA’ PSICHICHE – MISURE DI CONTROLLO – INEFFICACIA DELLE INDAGINI

RIFERIMENTI NORMATIVI
CONVENZIONE EDU, artt. 3 e 13

RIFERIMENTI GIURISPRUDENZIALI
Corte E.D.U., V.C. v. Italy, no. 54227/14, §§ 89-95, 1 February 2018; Blokhin v. Russia [GC], no. 47152/06, §§ 135-40, 23 March 2016; Stanev v. Bulgaria [GC], no. 36760/06, §§ 201-04, ECHR 2012; Nencheva and Others v. Bulgaria, no. 48609/06, § 124, 18, June 2013; Bouyidc. Belgio [GC], n. 23380/09, § 109, CEDU 2015; Keenan c. Regno Unito, no. 27229/95, § 111, CEDU 2001-III; Nicolae Virgiliu Tănase c. Romania [GC], n. 41720/13, § 117, 25 giugno, 2019 e Bouyid, citata, § 86; Julin v. L’Estonia, nn. 16563/08 e 3 altri, § 120, 29 maggio 2012; M.S. c. Croazia (n. 2), n. 75450/12, §§ 74 e 75, 19 febbraio 2015; Đekić e altri c. Serbia, n. 32277/07, § 37, 29 aprile 2014; Nikolova e Velichkova c. Bulgaria, no. 7888/03, § 63, 20 dicembre 2007, e Bureš contro Repubblica Ceca, n. 37679/08, § 131, 18 ottobre 2012; Enukidze e Girgvliani c. Georgia, n. 25091/07, § 268, 26 aprile 2011; Andonovski contro l’ex Repubblica iugoslava di Macedonia, n. 24312/10, § 107, 23 luglio 2015; Centre for Legal Resources on behalf of Valentin Câmpeanu v. Romania ([GC], no. 47848/08, §§ 104-111, ECHR 2014; Vučković and Others v. Serbia (preliminary objection) [GC], nos. 17153/11 and 29 others, §§ 69-77, 25 March 2014.

PRONUNCIA SEGNALATA
Corte E.D.U., 23 gennaio 2020, Application no. 38067/15 LR v. North Macedonia

  Abstract

– La Corte ha riconosciuto la rappresentanza della vittima in capo a un’associazione non governativa, ricorrendo le “eccezionali circostanze” di cui alla causa Centre for Legal Resources on behalf of Valentin Câmpeanu v. Romania del 2014.

– Ha ritenuto esperiti tutti i mezzi di impugnazione interni.

– Ha ravvisato la violazione dell’art. 3 della Convenzione, sotto il profilo sostanziale, riconoscendo l’inadeguatezza del collocamento di un bambino con grave ritardo psichico, del quale era stata smentita però la disabilità fisica, in un istituto idoneo a occuparsi di persone con disabilità fisiche e non psichiche, quale conseguenza di un errore diagnostico, ritenendo che la misura della contenzione meccanica (immobilizzazione a letto), già di per sé incompatibile con la dignità umana, era stata predisposta nei riguardi di un minore disabile, dunque particolarmente vulnerabile, avuto riguardo al maggiore impatto, soprattutto psicologico, rispetto al soggetto adulto e che l’assenza dell’intenzione di umiliare o svilire una persona non conduce a escludere, in termini assoluti, la violazione dell’art. 3 CEDU.

– Ha riconosciuto la violazione dell’articolo 3 anche sotto il profilo procedurale, in relazione all’inefficiente indagine svolta dal pubblico ministero in ordine ai reati denunciati dall’Ombudsman prima e dall’HCHR dopo, evidenziando che l’obbligo procedurale di cui all’articolo 3 non è un obbligo di risultato, ma di mezzi (un’indagine per essere efficace deve garantire l’effettiva attuazione delle leggi nazionali che tutelano il diritto a non essere maltrattati e, nei casi che coinvolgono agenti o organismi statali, essere indirizzata all’accertamento della loro responsabilità).

  Il Caso

         Il bambino nel cui interesse ha agito il Comitato di Helsinki per i diritti umani a Skopje (di seguito HCHR) era stato abbandonato sin dalla nascita, nel 21 novembre 2004, dai suoi genitori che soffrivano di una disabilità mentale. Su richiesta della nonna, era stato affidato, all’età di tre mesi, a un orfanotrofio. Un centro di assistenza sociale venne poi designato suo tutore. All’età di un anno mostrava sintomi da ritardo nella crescita e all’età di tre anni e mezzo, un team di medici del B. Hospital, aveva diagnosticato una moderata disabilità mentale, una grave forma di disabilità fisica (paralisi celebrale) e un disturbo del linguaggio.

         Nel giugno 2012, su richiesta del tutore e con il consenso del Ministro competente, venne affidato alla B.B.S. Rehabilitation Institute (di seguito RIBBS), un istituto per persone con disabilità fisiche, ma mentalmente abili, gestito dallo Stato che, tuttavia, sia prima della sua ammissione, che durante la sua permanenza (corrispondente a un anno e nove mesi), aveva più volte comunicato alle autorità competenti di non potere ospitare un bambino con disabilità mentali, sordo e incapace di parlare. Numerosi problemi furono segnalati, anche a mezzo di relazioni di esperti: impossibilità di assicurare al minore l’educazione e la riabilitazione di cui avrebbe avuto bisogno, stante l’assenza di personale qualificato in grado di comunicare con lui e di capire i suoi bisogni; necessità di un suo trasferimento presso un centro più appropriato alle sue esigenze, in vista, tra l’altro, del peggioramento delle sue condizioni; comportamento autolesionistico del minore e tendenza a darsi alla fuga; impossibilità di fronteggiare tale ultima emergenza, per assenza di misure di sicurezza idonee a garantirne una costante supervisione, a fronte di un pericolo dovuto alla prossimità di una strada a scorrimento veloce.

         La vicenda è divenuta nota allorché, il 06 novembre 2013 (ovvero trascorso quasi un anno e mezzo dall’affidamento del minore presso la struttura), l’Ombudsman, in visita presso l’istituto, aveva trovato il bambino con le gambe legate al suo letto. Durante una conferenza stampa, il 25 giugno 2014, l’Ombudsman, nel presentare il suo rapporto annuale, denunciò il trattamento inumano e degradante riservato ai residenti della struttura e, in particolare, al bambino, al quale non erano state assicurate garanzie e cure adeguate alla sua disabilità.

         Il 15 aprile 2014, il minore fu trasferito presso l’S. Rehabilitation Institute,luogo in cui il egli si trova in atto al momento della decisione, ma – prima – il B. Hospital lo sottopose, su richiesta del tutore, a una nuova visita che confermò la prima diagnosi [una moderata disabilità mentale, una grave forma di disabilità fisica (paralisi celebrale) e un disturbo del linguaggio].

         L’HCHR, a seguito della conferenza stampa dell’Ombudsman, decise di visitare il minore presso il RIBBS e di denunciare il caso alle autorità giudiziarie, accusando il direttore del RIBBS e alcuni, non meglio identificati, impiegati di “tortura e altri trattamenti e punizioni crudeli, inumani o degradanti” e di “maltrattamenti nell’esercizio delle loro funzioni”, condotte punibili ai sensi degli articoli 142 e 143 del Codice penale. L’HCHR sostenne che il ricorrente, non solo era stato legato al letto per la gamba con una corda sufficientemente lunga da consentirgli di “raggiungere il corridoio“, ma che non gli erano state neppure garantite cure e trattamenti adeguati, il che equivaleva a una totale incuria. Inoltre, il RIBBS non disponeva di personale qualificato, tale da far fronte alle sue esigenze, con conseguente deterioramento delle sue condizioni di salute.

         Il pubblico ministero, nel novembre 2014, esaminati i documenti forniti dall’istituto e dall’Ombudsman e sentite le testimonianze del direttore dell’istituto e di quattro suoi dipendenti, archiviò la denuncia. Secondo l’autorità giudiziaria, il bambino era stato collocato impropriamente nell’istituto, che si occupava di persone con disabilità psichiche e non mentali. Egli non presentava alcuna disabilità fisica, essendo anzi iperattivo. Ciò nonostante, aveva sempre ricevuto cure quotidiane, la cui inefficacia era stata limitata a causa del disturbo nel linguaggio. Quanto alla misura di contenzione meccanica, occasionalmente praticata, questa non doveva essere considerata espressione di minaccia o uso illegale della forza e, dunque, di maltrattamento, essendo stata adottata per “ragioni di sicurezza”, ovvero per impedirgli di fuggire e mettersi in pericolo. In assenza, dunque, dell’elemento soggettivo, ovvero della volontà da parte degli indagati di sottoporre il bambino a trattamenti inumani o degradanti, non poteva ritenersi integrato alcun reato.

         Avverso tale decisione alcun ricorso venne proposto da parte del tutore del bambino. 

         Il 30 dicembre 2014 l’HCHR chiese l’intervento del Procuratore generale, ribadendo che il trattamento disumano e denigrante riservato al minore nel RIBBS violava le norme di diritto nazionale ed internazionale. Aggiungeva, inoltre, che il tutore del bambino, pur essendo consapevole della sua situazione, non aveva adottato misure adeguate a tutelare i suoi diritti e che le conclusioni dell’ufficio del pubblico ministero di prima istanza, secondo cui il richiedente era stato legato a un letto per “motivi di sicurezza“, erano “inaccettabili e assurde“: secondo l’HCHR, ciò era dimostrativo di un esercizio non professionale dell’ufficio.

         Il Procuratore generale, verificata l’attività investigativa svolta e le prove acquisite dal pubblico ministero, confermò la decisione di quest’ultimo.

         L’HCHR, in rappresentanza del bambino, ha, dunque, adito la Corte EDU prospettando la violazione dell’art. 3 (divieto di trattamenti disumani e degradanti) e dell’art. 13 (diritto a un ricorso effettivo) della Convenzione.

  Le questioni processuali
  La rappresentanza dell’organismo HCHR.

         I giudici di Strasburgo, a fronte della sollevata eccezione da parte del Governo, di difetto del locus standi in capo all’HCHR, hanno rilevato che effettivamente esso aveva presentato la domanda per conto della vittima delle asserite violazioni, senza produrre una procura o una autorizzazione scritta di questa, del suo tutore legale o di altro soggetto a ciò autorizzato.

         Richiamato il catalogo delle “circostanze eccezionali” (contenuto in Centre for Legal Resources on behalf of Valentin Câmpeanu v. Romania ([GC], no. 47848/08, §§ 104-111, ECHR 2014), alla luce delle quali può essere riconosciuto un collegamento de facto idoneo a fondare la rappresentanza in giudizio della vittima delle asserite violazioni (i.e.: vulnerabilità della vittima; natura dei fatti portati alla conoscenza della Corte; mancanza di un parente della vittima o di un tutore legale di essa che possano agire davanti alla Corte; mancanza di contatti tra la vittima e il suo rappresentante; coinvolgimento del rappresentante legale nel procedimento nazionale), i giudici di Strasburgo hanno precisato essere incontroverso che il minore era la vittima diretta delle asserite violazioni ai sensi dell’art. 34 della Convenzione; che egli doveva considerarsi soggetto vulnerabile, avuto riguardo alle sue condizioni; che era stato abbandonato alla nascita e inserito in istituzioni gestite dallo Stato sin dall’età di tre mesi; che non vi erano prove di contatti tra la vittima e i suoi parenti prossimi, anche dopo l’esternazione dell’Ombudsman. Inoltre, la vittima aveva sì un tutore legale, nominato dallo Stato per curarne gli interessi che, tuttavia, era stato accusato, prima davanti all’autorità nazionale, quindi davanti alla Corte stessa, di avere violato i suoi obblighi di protezione degli interessi del rappresentato, non avendo neppure contestato, sebbene informato dei rimedi esperibili, la decisione del pubblico ministero in prima istanza. Né era emerso che il tutore fosse stato sostituito dallo Stato.

         Sotto altro profilo, i giudici di Strasburgo hanno evidenziato che l’HCHR – subito dopo le dichiarazioni pubbliche dell’Ombudsman – aveva visitato il minore e si era messo in contatto con le diverse autorità, aveva presentato denuncia penale alla autorità giudiziaria e chiesto al Procuratore generale di rivedere la decisione del pubblico ministero e proseguire le indagini, unico mezzo esperibile dall’HCHR.

         Pertanto, avuto riguardo alla serietà delle violazioni, la Corte ha riconosciuto il diritto dell’organismo ad agire nell’interesse della vittima.

I criteri di ammissibilità (art. 35 della Convenzione)

          La Corte, richiamati i principi affermati in Vučković and Others (cfr. Vučković and Others v. Serbia (preliminary objection) [GC], nos. 17153/11 and 29 Others, §§ 69-77, 25 March 2014), ha rilevato che l’HCHR, una volta conosciuto il caso e visitato il minore, aveva sollecitato l’intervento delle autorità amministrative e determinato il controllo del competente ispettorato; aveva presentato una denuncia penale contro il direttore e alcuni dipendenti dell’istituto (RIBBS) per trattamento inumano e degradante ai danni della vittima, mettendo in moto le indagini del pubblico ministero, il cui risultato aveva consentito di identificare soggetti neppure menzionati nella denuncia. Tali indagini, peraltro, avevano coinvolto anche il personale medico del B. Hospital, in relazione alla diagnosi sbagliata effettuata sul minore, sebbene in denuncia non fosse stato operato alcun riferimento specifico ad esso.

         In conclusione, la Corte ha ritenuto che l’HCHR avesse in maniera esaustiva portato all’attenzione delle competenti autorità il presunto illecito ai danni della vittima e così ragionevolmente percorso tutti i rimedi esperibili nell’interesse del minore, formulando il ricorso prima dello spirare dei sei mesi, decorrenti, in questo caso, dalla notificazione all’HCHR del provvedimento di rigetto da parte del Procuratore generale, da considerarsi decisione finale.

 Il merito

         La violazione dell’art. 3     [<<Nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti>>]

         a) Il collocamento del richiedente e il trattamento ricevuto all’interno del RIBBS

         Per il ricorrente, il minore, a causa di un errore diagnostico, era stato affidato a una struttura inadeguata a soddisfare i suoi bisogni e a predisporre cure idonee alla sua condizione e che, tra l’altro, adottava misure afflittive nei riguardi di un bambino particolarmente vulnerabile, in violazione dell’art. 3 della Convenzione.

I giudici di Strasburgo hanno riconosciuto la fondatezza delle censure mosse dal ricorrente condannando lo Stato per violazione dell’art. 3 CEDU.

Il caso ha costituito l’occasione per richiamare i principi già formulati in V.C. v. Italy, no. 54227/14, §§ 89-95, 1 February 2018, in cui si è riconosciuto l’obbligo degli Stati di adottare misure atte a garantire che gli individui sotto la loro giurisdizione non siano soggetti a maltrattamenti, così come in Blokhin v. Russia [GC], no. 47152/06, §§ 135-40, 23 March 2016) e in Stanev v. Bulgaria [GC], no. 36760/06, §§ 201-04, ECHR 2012).

La Corte EDU ha, anzitutto, osservato che fin da subito il bambino era stato affidato ad un centro di assistenza sociale gestito dallo Stato, a cui è stata demandata la sua tutela e cura ovvero il suo collocamento presso strutture di riabilitazione. Ripercorso temporalmente il susseguirsi dei fatti, ha poi ritenuto che il collocamento del bambino nell’istituto RIBBS era stato inadeguato (trattandosi di struttura idonea a occuparsi di persone con disabilità fisiche e non psichiche) e che tale decisione era stata probabilmente il risultato di un errore diagnostico, atteso che, al tempo, i medici del B. Hospital avevano diagnosticato al bambino una forma di disabilità fisica che fu poi smentita.

Che il RIBBS non fosse un centro adatto a persone con disabilità mentali era circostanza nota e ribadita più volte dallo stesso istituto, così come l’assenza di personale qualificato in grado di comunicare con un bambino sordo e incapace di parlare e l’impossibilità di assicurare la sua regolare supervisione. Tuttavia, nonostante il tutore e le autorità competenti, prima ancora dell’ammissione del minore all’istituto, fossero stati edotti dell’inadeguatezza dello stesso, in alcun modo essi avevano agito per risolvere tempestivamente la situazione. Neppure il Governo ha fornito spiegazioni in merito all’incapacità delle autorità competenti a intervenire in modo rapido, concreto e adeguato (in proposito, la Corte opera un rinvio a Nencheva and Others v. Bulgaria, no. 48609/06, § 124, 18 June 2013).

L’assenza di un intervento tempestivo e, dunque, il protrarsi dell’infruttuoso trattamento avevano provocato il peggioramento delle condizioni generali del bambino, tanto che dalla relazione medica, redatta solo dopo che egli fu dimesso dalla struttura, si evince come il livello particolarmente basso del suo sviluppo fosse da addebitarsi all’insufficiente stimolazione e all’inefficacia del trattamento ricevuto.

I giudici di Strasburgo hanno, poi, ritenuto davvero preoccupante il fatto che per circa un anno e nove mesi un bambino di otto anni, disabile, sordo e non in grado di parlare fosse stato sottoposto a contenzione al fine “garantire la sua sicurezza”, senza che venisse vagliata una opzione meno intrusiva per far fronte a tale esigenza. A ciò si aggiunga che tale misura, già di per sé incompatibile con la dignità umana, era stata predisposta nei riguardi di un minore disabile, dunque particolarmente vulnerabile, considerato il suo maggiore impatto (soprattutto in termini psicologici) nei confronti di un bambino – specie se con disabilità – rispetto a quello che avrebbe su un adulto (si cita in proposito Bouyidc. Belgio [GC], n. 23380/09, § 109, CEDU 2015); senza considerare l’impossibilità, per un minore disabile, di lamentarsi delle conseguenze derivanti dal trattamento ricevuto (cfr. Keenan c. Regno Unito, no. 27229/95, § 111, CEDU 2001-III)

Infine, rispetto alle conclusioni delle autorità nazionali, secondo cui la mancanza dell’elemento soggettivo, ovvero dell’intenzione di nuocere al bambino, impediva di ritenere integrata alcuna fattispecie criminosa, la Corte EDU – richiamando alcuni precedenti – ha sostenuto che l’assenza dell’intenzione di umiliare o svilire una persona non conduce a escludere, in termini assoluti, la violazione dell’art. 3 della Convenzione (Nicolae Virgiliu Tănase c. Romania [GC], n. 41720/13, § 117, 25 giugno, 2019 e Bouyid, citata, § 86).

Sebbene il rischio che una persona fugga o provochi lesioni o danni sia un fattore da prendere in considerazione (in proposito si cita Julin v. L’Estonia, nn. 16563/08 e 3 altri, § 120, 29 maggio 2012), per i giudici di Strasburgo si sarebbe dovuto optare per una misura alternativa, meno afflittiva, soprattutto considerato che la pratica di legare il bambino al letto era rispondente a ragioni estranee alle sue condizioni di salute.

La Corte EDU ha, dunque, ritenuto che le autorità, avendo l’obbligo di salvaguardare la dignità del paziente e il suo benessere, erano responsabili ai sensi dell’art. 3 della Convenzione per l’inappropriato affidamento del bambino presso il RIBBS, per la mancata predisposizione di cure necessarie e per il trattamento disumano e degradante subito.

b) La violazione dell’art. 3 dal punto di vista procedurale

Rispetto alle doglianze concernenti l’inefficiente indagine svolta dal pubblico ministero, la Corte EDU – richiamando i principi generali riassunti in M.S. c. Croazia (n. 2), n. 75450/12, §§ 74 e 75, 19 febbraio 2015 – ha ritenuto integrata la violazione dell’art. 3 della Convenzione, sotto l’aspetto procedurale.

Per i giudici di Strasburgo, l’indagine svolta a seguito della denuncia dell’HCHR deve ritenersi tempestiva, in quanto durata meno di un anno, nonché esauriente atteso che al fine di ricostruire i fatti vennero esaminati molti documenti e ascoltate le testimonianze di tutti coloro che risultavano direttamente coinvolti negli eventi in questione (il direttore del RIBBS e quattro impiegati) e l’indagine era stata estesa anche nei riguardi del tutore del bambino (il direttore del centro di assistenza sociale a cui era stato affidato). Inoltre, la ricostruzione degli eventi operata da parte del pubblico ministero sulla base delle prove assunte non si discostava in modo significativo dagli eventi così come descritti dall’HCHR: l’affidamento del minore presso l’istituto venne ritenuto inappropriato, le cure ricevute carenti e inadeguate, venne accertata la pratica – occasionale – di legarlo al letto, e fu, in effetti, rilevata una discrepanza tra l’originaria diagnosi medica eseguita dal B. Hospital e lo stato di salute reale del minore.

Tuttavia, la Corte ha osservato che la denuncia presentata dall’HCHR era stata respinta alla stregua del principio per cui l’assenza dell’intenzione da parte degli indagati di sottoporre il paziente ad un trattamento inumano o degradante non consentiva di ritenere integrato alcun reato. Ebbene, a tal proposito, i giudici di Strasburgo hanno ricordato, anzitutto, che non è loro compito sostituirsi alle giurisdizioni nazionali. Spetta, invero, primariamente agli Stati risolvere i problemi di interpretazione delle norme nazionali (cfr. Nencheva e altri, citata, § 134); in secondo luogo, che la mancata accusa e punizione degli indagati non è condizione di per sé sufficiente per ritenere violato l’art. 3 della Convenzione, poiché l’obbligo procedurale di cui all’articolo 3 non è un obbligo di risultato, ma di mezzi (cfr. Đekić e altri c. Serbia, n. 32277/07, § 37, 29 aprile 2014).

Ciò premesso, la Corte EDU ha evidenziato che l’oggetto di discussione del presente procedimento non è la responsabilità penale individuale degli indagati, bensì la responsabilità dello Stato rispetto alle norme di diritto internazionale. Un’indagine – per essere efficace –deve, secondo i giudici di Strasburgo, garantire l’effettiva attuazione delle leggi nazionali che tutelano il diritto a non essere maltrattati e, nei casi che coinvolgono agenti o organismi statali, essere indirizzata ad accertare che essi siano chiamati a renderne conto (vedi Nikolova e Velichkova c. Bulgaria, no. 7888/03, § 63, 20 dicembre 2007, e Bureš contro Repubblica Ceca, n. 37679/08, § 131, 18 ottobre 2012). In caso contrario, il dovere di uno Stato di svolgere un’indagine efficace perderebbe il suo significato e i diritti sanciti dall’articolo 3 della Convenzione resterebbero, in pratica, inattuati (cfr. Enukidze e Girgvliani c. Georgia, n. 25091/07, § 268, 26 aprile 2011).

Dunque, nonostante le autorità inquirenti avessero stabilito che il collocamento del richiedente nel RIBBS era stato inappropriato; che il RIBBS aveva comunicato alle autorità competenti di non essere in grado di assistere il richiedente; e che la diagnosi medica del richiedente da parte di B. Hospital era stata carente, per la Corte EDU non vi era stato un effettivo tentativo di verificare se le carenze del sistema fossero dovute ad atti dei rappresentanti delle autorità o di qualsiasi altro funzionario pubblico, per i quali costoro potevano essere chiamati a rispondere.

I giudici di Strasburgo hanno, pertanto, ritenuto inadeguata l’indagine svolta ai fini dell’accertamento delle accuse di gravi violazioni dei diritti umani, anche a fronte dell’assenza di una “reazione appropriata” e del mancato riconoscimento di un risarcimento in favore della vittima.

La violazione dell’art. 13 CEDU

    Il ricorrente ha sostenuto la responsabilità del tutore del bambino, rimasto inerte dinnanzi all’affidamento e al conseguente trattamento dallo stesso subito nel RIBBS.

         La Corte, tuttavia, in considerazione dei motivi in base ai quali ha riscontrato una violazione dell’aspetto procedurale dell’articolo 3, ha ritenuto insussistente una questione separata ai sensi dell’articolo 13 della Convenzione (cfr. Andonovski contro l’ex Repubblica iugoslava di Macedonia, n. 24312/10, § 107, 23 luglio 2015).

  L’OPINIONE DISSENZIENTE DEL GIUDICE WOJTYCZEK

    Pare utile precisare che il riconoscimento della violazione dell’art. 3, sotto il profilo procedurale, ha costituito oggetto di una specifica critica nella partly dissenting opinion redatta dal giudice Wojtyczek, ad avviso del quale il caso solleva gravi questioni di giustizia processuale.

    Il primo profilo riguarda la portata degli obblighi procedurali derivanti dall’articolo 3 della Convenzione.

    Quel giudice ha rilevato che, con la sentenza M.S. c. Croazia (n. 2), n. 75450/12, §§ 74 e 75, 19 febbraio 2015, richiamata dalla maggioranza, sarebbero stati enunciati i seguenti principi: l’articolo 3 della Convenzione richiede agli Stati di mettere in atto efficaci disposizioni di diritto penale atte a scoraggiare la commissione di reati contro l’integrità personale; l’ordinamento giuridico nazionale e, in particolare, il diritto penale di settore, deve garantire una tutela pratica ed efficace dei diritti garantiti dall’articolo 3; il maltrattamento intenzionale di persone che si trovano sotto il controllo di agenti dello Stato non può essere sanato esclusivamente con un risarcimento alla vittima (cfr. Bureš contro Repubblica Ceca, n. 37679/08, § 81, 18 ottobre 2012). Inoltre, quando un individuo denuncia un maltrattamento ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione, la nozione di “rimedio efficace” comporta la necessità di un’indagine approfondita ed effettiva da parte dello Stato, tramite la quale giungere all’identificazione e alla punizione dei responsabili (cfr. Selmouni c. Francia [GC], n. 25803/94, § 79, CEDU 1999-V).

    Per soddisfare gli obblighi procedurali di cui all’articolo 3, dunque, le autorità inquirenti avrebbero dovuto verificare se le carenze del sistema fossero dovute ad atti dei rappresentanti delle autorità o di qualsiasi altro funzionario pubblico che potevano essere ritenuti responsabili. È ovvio, ha sostenuto il giudice, che in caso di risposta affermativa, queste persone avrebbero dovuto essere perseguite, atteso che gli Stati hanno l’obbligo di emanare e applicare una legislazione che criminalizzi gli atti e le omissioni dei pubblici ufficiali che determinino carenze del sistema. Tuttavia, l’approccio adottato dalla maggioranza si rivelerebbe – a suo avviso – problematico.

– In primo luogo, in un sistema penale basato sulla presunzione di innocenza, non è la decisione di non indagare o perseguire penalmente che richiede una giustificazione ma, piuttosto, il contrario. Per sostenere (come ha fatto la maggioranza) che le autorità inquirenti avrebbero dovuto verificare “se le carenze del sistema fossero dovute ad atti dei rappresentanti delle autorità o di qualsiasi altro funzionario pubblico, che potevano essere chiamati a risponderne“, andava prima chiarito, nel dettaglio, quali specifici elementi di fatto rendessero necessaria tale verifica e individuato, con maggior precisione, il gruppo dei soggetti coinvolti.

– In secondo luogo, il giudice dissenziente ricorda che la giurisprudenza della Corte ha individuato tre tipi di carenze che possono portare a una violazione dell’articolo 2 o 3: istituzionale, individuale o misto (cfr. Armani Da Silva c. Regno Unito [GC], no. 5878/08, § 284, 30 marzo 2016). Quelle di tipo istituzionale sono “carenze del sistema nel suo complesso piuttosto che errori individuali che comportano responsabilità penale o disciplinare“. Ebbene, nel caso in questione, si è parlato di “carenze sistemiche“, che corrispondono quindi a carenze istituzionali che finora, in base alla giurisprudenza precedente, non hanno dato luogo a responsabilità penali o disciplinari.

– In terzo luogo, con riferimento alle espressioni utilizzate dalla maggioranza, secondo cui l’obbligo di una indagine effettiva sarebbe soddisfatto in presenza di una “risposta adeguata” o di una “reazione adeguata“, il giudice ritiene che tali espressioni vadano oltre l’ambito del diritto penale: in assenza di un’azione penale, la risposta adeguata comprenderebbe, infatti, misure non penali, con la conseguenza che la maggioranza avrebbe così stabilito un nuovo obbligo, con il rischio di sostituire lo standard altamente preciso di “un’indagine approfondita ed efficace in grado di portare all’identificazione e alla punizione dei responsabili” con un vago test di “adeguatezza della reazione“.

In via conclusiva, il giudice dubita della efficacia di un tale approccio osservando che, normalmente, quando la Corte riconosce una violazione sistemica o strutturale da parte dello Stato indica anche le misure individuali (art. 41) o generali (art. 46) da adottare, laddove, nel caso in esame, nonostante la rilevata esistenza di carenze sistemiche, la maggioranza ha deciso di non indicare alcuna misura, individuale o generale.

Il secondo profilo analizzato dal giudice attiene all’equità del procedimento svoltosi davanti alla Corte.

Secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il principio del contraddittorio richiede che i giudici non basino le loro decisioni su elementi di fatto o di diritto che non siano stati discussi durante il procedimento e che diano alla controversia una svolta che nemmeno una parte diligente avrebbe potuto prevedere (in proposito si cita, Alexe c. Romania, n. 66522/09, § 37, 3 maggio 2016; Čepek v. Repubblica Ceca, n. 9815/10, § 48, 5 settembre 2013).

Ebbene, nel caso de quo, le parti sono state espressamente incaricate dalla Corte di perorare la causa sulla base dell’obbligo di svolgere un’effettiva indagine, nei termini indicati nella causa Labita c. Italia (“…quando un individuo afferma in modo credibile di aver subito un trattamento che viola l’articolo 3 per mano della polizia o di altri agenti simili dello Stato, tale disposizione, letta in combinato disposto con il dovere generale dello Stato ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione di “garantire a tutti coloro che si trovano sotto la loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti [nella Convenzione]…richiede implicitamente che ci sia un’effettiva indagine ufficiale. Come per un’indagine ai sensi dell’articolo 2, questa dovrebbe essere in grado di portare all’identificazione e alla punizione dei responsabili (cfr., in relazione all’articolo 2 della Convenzione, la sentenza McCann e altri c. Regno Unito del 27 settembre 1995, serie A n. 324, pag. 49, § 161; la sentenza Kaya c. Turchia del 19 febbraio 1998, Relazioni 1998-I, pag. 324, § 86; e la sentenza Yaşa c. Turchia del 2 settembre 1998, Relazioni 1998-VI, pag. 2438, § 98). In caso contrario, il generale divieto di tortura e di trattamenti e pene inumani e degradanti sarebbe, nonostante la sua importanza fondamentale……, inefficace nella pratica e sarebbe possibile in alcuni casi per gli agenti dello Stato abusare dei diritti di coloro che sono sotto il loro controllo godendo di una virtuale impunità (cfr. la sentenza Assenov e altri sopra citata, p. 3290, § 102) ” (principi affermati anche in M.S. v. Croatia (n. 2) (n. 75450/12, §§ 74 and 75, 19 febbraio 2015).

Esse potevano, quindi, legittimamente aspettarsi che la Corte decidesse il caso sulla base di questi principi. Tuttavia, nella parte successiva del suo ragionamento, la maggioranza ha deciso di applicare uno standard diverso, secondo cui la Corte poteva esaminare questioni diverse e le parti potevano fornire prove e avanzare argomentazioni che vanno ben oltre i principi enunciati nelle cause Labita c. Italia o M.S. c. Croazia (n. 2). Se le parti avessero saputo che sarebbe stato applicato questo diverso standard, probabilmente il Governo avrebbe potuto affrontare la questione relativa ala adeguatezza delle misure adottate dalle autorità nazionali per reagire ai fatti.

Il terzo profilo vagliato dal giudice ha ad oggetto la rappresentanza dei minori davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Il giudice Wojtyczek, rilevato che il ricorrente è soggetto minorenne, ha osservato che la sua domanda è stata presentata da un’organizzazione non governativa che lo ha rappresentato per tutta la durata del procedimento, persino dinanzi alla Corte.

In una situazione in cui i genitori non sono in grado di rappresentare il proprio figlio, ad avviso del giudice, è di fondamentale importanza garantire che il bambino sia adeguatamente rappresentato nel procedimento dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Molteplici sono, invero, i rischi derivanti dal conferire diritti parentali a un ente, anziché ad una persona fisica determinata. Le organizzazioni non governative hanno, infatti, propri punti di vista, obiettivi e interessi, che non necessariamente coincidono con quelli del minore che rappresentano.

Anche se, a quanto pare, tali problematiche non si sono verificate nel caso di specie, in una prospettiva più generale, il giudice ha segnalato il rischio che il caso di un minore venga strumentalizzato dall’organizzazione per il conseguimento dei suoi obiettivi, con la conseguenza che, in casi siffatti, sarebbe preferibile prevedere la nomina di un curatore ad litem.

CLASSIFICAZIONE
Violazioni tributarie – Ne bis in idem 

RIFERIMENTI NORMATIVI
art. 4 del Protocollo n. 7 annesso alla Convenzione E.D.U
art. 50 CDFUE

RIFERIMENTI GIURISPRUDENZIALI
Corte EDU, Grande Stevens c. Italia del 4 marzo 2014
Corte EDU, A e B c. Norvegia del 15 novembre 2016
Corte EDU, Bjarni Armannsson c. Islanda del 16 aprile 2019
Corte di Giustizia UE causa C-537/16, Garlsson Real Estate SA e altri c. Consob,
Corte di Giustizia UE, cause riunite C-596/16 e C-597/16, Di Puma c. Consob e Zecca c. Consob,
Corte di Giustizia UE, causa C-524/15, Menci
Corte Costituzionale, sentenza n. 43 del 24 gennaio 2018

PRONUNCIA SEGNALATA
Corte di Cassazione, sez. V, n. 34219 del 20.12.2019

Abstract

La sezione tributaria della Corte di Cassazione torna sul rapporto tra procedimento penale e tributario in caso di asserite violazioni fiscali, ed in particolare sul problema se l’instaurazione di due distinti procedimenti per gli stessi fatti configuri violazione del principio di divieto di bis in idem.

La sentenza ripercorre l’evoluzione del concetto di ne bis in idem alla luce della giurisprudenza della Corte EDU e della Corte di Giustizia, per giungere alla conclusione, basata sulle circostanze di fatto del caso concreto, che nella specie non vi è stata alcuna violazione.

Il caso

La vicenda riguarda un procedimento tributario in cui l’Agenzia aveva recuperato a tassazione alcuni costi esposti in dichiarazione da una società in nome collettivo, ritenendo che gli stessi fossero relativi al pagamento di fatture per operazioni inesistenti, e quindi non deducibili.

Aveva quindi emesso un avviso di accertamento a carico della società, e distinti avvisi a carico dei soci, ai quali il maggior reddito attribuito alla società era imputato di conseguenza.

La società ed i soci avevano impugnato i rispettivi avvisi, e si era così instaurato un unico contenzioso fiscale che, come spesso avviene in casi analoghi, aveva principalmente ad oggetto la fondatezza delle prove addotte dall’Ufficio al fine di dimostrare l’inesistenza delle operazioni indicate nelle fatture.

La Commissione Tributaria Provinciale accoglieva il ricorso dei contribuenti, mentre la Commissione Tributaria Regionale, in riforma della decisione del giudice di primo grado, accoglieva l’appello dell’Agenzia, confermando l’accertamento.

Nel corso del giudizio tributario, emergeva che per gli stessi fatti il legale rappresentante della società che aveva utilizzato le fatture ritenute false (cioè la stessa società soggetta all’accertamento fiscale) era stato anche sottoposto a procedimento penale per il corrispondente reato tributario, risultando assolto con la formula “perché il fatto non sussiste”, con sentenza divenuta poi definitiva.

Nel giudizio tributario, i contribuenti ricorrevano in cassazione deducendo una serie di motivi; due di questi riguardavano proprio il rapporto tra il procedimento penale, ormai concluso, e quello tributario.

Nel primo, i contribuenti si dolevano del fatto che la Commissione regionale non avesse preso in considerazione la sentenza di assoluzione pronunciata dal Tribunale penale, da cui – alla luce di tale esito – la CTR avrebbe potuto concludere per l’insussistenza della prova della condotta illecita anche nel giudizio tributario.

Questo motivo viene accolto dalla Corte con la motivazione che, per quanto l’assoluzione in sede penale non spieghi automaticamente efficacia di giudicato nel processo tributario, nemmeno quando i fatti oggetto di giudizio sono gli stessi, essa può, però, essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta decisione è destinata ad operare.

In altri termini, la Commissione regionale – afferma la Corte – era tenuta a valutare, al fine della formazione del proprio libero convincimento, la sentenza penale di assoluzione.

In merito alla seconda questione attinente ai rapporti tra processo penale e tributario, i contribuenti, con memoria, nel ribadire che il legale rappresentante della società contribuente era già stato giudicato, in sede penale, per gli stessi fatti, con sentenza ormai divenuta irrevocabile, deducevano “che i giudici di merito avrebbero anche dovuto valutare, in ossequio ai principi di diritto stabiliti dalla Corte Europea e richiamati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 43 del 2018, se nel caso di specie fosse stato violato il divieto di bis in idem, ravvisabile quando per lo stesso fatto vengano attivati due distinti procedimenti (nel caso di specie, procedimento amministrativo e procedimento penale), non coordinati tra loro nel tempo, che possano condurre all’applicazione di sanzioni non proporzionate”.

La decisione della Corte

Come già detto, si può anticipare fin da ora che la Corte esclude che, nel caso di specie, vi sia stata tale violazione.

Per giungere a tale conclusione, la sentenza compie un articolato ed interessante excursus descrittivo del fondamento e della evoluzione del concetto di ne bis in idem.

Innanzi tutto, ricorda che il principio è stato affermato, in principio, con riguardo alla materia penale ed all’irrogazione delle sanzioni definite dalla legge «penali», ma è stato successivamente esteso anche ai casi di sanzioni che, sebbene non formalmente penali, vengano ritenute tali, secondo i c.d. criteri Engel, per il contenuto afflittivo, alla luce della giurisprudenza della Corte Edu.

Di conseguenza, esso è stato applicato anche in caso di concorrenza di sanzioni formalmente amministrative con quelle penali, quando anche le prime venivano riconosciute sostanzialmente penali.

Poi cita la giurisprudenza della Corte EDU, ricordando come, dalla sentenza Grande Stevens contro Italia, che ha dato del principio un’interpretazione assai ampia e di natura prevalentemente processuale, e quindi essenzialmente formale, si è passati alla decisione A e B contro Norvegia, la quale, ridimensionando il precedente orientamento, ha affermato che non viola il principio del ne bis in idem convenzionale la celebrazione di un processo penale, e l’irrogazione della relativa sanzione, nei confronti di chi sia stato sanzionato in via definitiva dall’amministrazione tributaria con una sovrattassa, purché sussista tra i due procedimenti una «connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta».

In sostanza, ricorda la Corte di Cassazione, a partire da tale ultima sentenza “secondo la Corte EDU, la disposizione convenzionale non esclude lo svolgimento parallelo di due procedimenti, purché essi appaiano connessi dal punto di vista sostanziale e cronologico in maniera sufficientemente stretta e purché esistano meccanismi in grado di assicurare risposte sanzionatorie nel loro complesso proporzionate e, comunque, prevedibili”.

La sentenza in commento prosegue poi evidenziando che l’esito interpretativo così raggiunto è stato recepito anche dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia della UE, nelle tre sentenze coeve del 20 marzo 2018 (rispettivamente in causa C-537/16, Garlsson Real Estate SA e altri c. Consob, nelle cause riunite C-596/16 e C-597/16, Di Puma c. Consob e Zecca c. Consob, e in causa C-524/15, Menci, quest’ultima relativa alla materia tributaria), secondo cui la violazione del ne bis in idem sancito dall’art. 50 CDFUE non si verifica a) allorché le due sanzioni perseguano scopi differenti e complementari, sempre che b) il sistema normativo garantisca una coordinazione fra i due procedimenti sì da evitare eccessivi oneri per l’interessato e c) assicuri comunque che il complessivo risultato sanzionatorio non risulti sproporzionato rispetto alla gravità della violazione, derivando tale obbligo dall’art. 52, par. 1, della Carta e dal principio di proporzionalità delle pene sancito dall’art. 49, par. 3.

Infine, evidenzia che anche la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 43 del 24 gennaio 2018,  ha messo in rilievo che, nell’interpretazione di tale concetto, “si è passati dal divieto imposto agli Stati aderenti di configurare per lo stesso fatto illecito due procedimenti che si concludono indipendentemente l’uno dall’altro, alla facoltà di coordinare nel tempo e nell’oggetto tali procedimenti, in modo che essi possano reputarsi nella sostanza come preordinati a un’unica, prevedibile e non sproporzionata risposta punitiva, avuto specialmente riguardo all’entità della pena (in senso convenzionale) complessivamente irrogata”.

L’importante conseguenza di tale evoluzione è che non si può continuare a sostenere che il divieto di bis in idem convenzionale abbia carattere esclusivamente processuale, giacché criterio eminente per affermare o negare il legame materiale è proprio quello relativo all’entità della sanzione complessivamente irrogata.

In termini pratici, secondo tale interpretazione, a fronte di una prima sanzione di modesta entità, sarebbe del tutto ammissibile l’instaurazione del secondo procedimento per lo stesso fatto, in presenza di quegli elementi che rivelino l’unicità di risposta sanzionatoria, ad iniziare dal criterio temporale.

Dopo avere, quindi, solo accennato alla sentenza della Corte EDU Bjarni Armannsson c. Islanda del 16 aprile 2019, (che ha fornito ulteriori criteri per valutare il criterio della connessione tra i due procedimenti, in particolare non solo con riferimento alla tempistica degli stessi, ma anche alla modalità di formazione ed acquisizione della prova in ciascuno di essi) la decisione in commento passa quindi all’esame della situazione concreta alla luce di tali principi.

Ritiene così che nei confronti del legale rappresentante della società (l’unico rispetto al quale si pone il problema, perché rispetto all’altro socio si era svolto solo il processo tributario)  non si sia configurata la violazione del divieto di bis in idem perché nel caso di specie gli stessi contribuenti non avevano fornito elementi di fatto sufficienti per valutare la situazione, a partire dall’importo delle sanzioni amministrative che sarebbero state irrogate.

La sentenza in commento si segnala così, tra l’altro, anche per un elemento già messo in evidenza in precedenti “report” sull’argomento: alla luce della più recente interpretazione del principio in base alla giurisprudenza della Corte EDU, per stabilire se vi sia stata violazione o meno non si può prescindere da un esame delle circostanze concrete e specifiche di ogni procedimento, per cui la risposta al quesito sarà sempre soggetta a variare da caso a caso.

CLASSIFICAZIONE
Libertà di espressione – Diritto di libera manifestazione del pensiero – Diritto di cronaca – Condanna per diffamazione aggravata a mezzo stampa – Intervista giornalistica riportata come tale – Violazione dell’art. 10 CEDU – Sussiste

RIFERIMENTI NORMATIVI
CONVENZIONE EDU, art 10

PRONUNCIA SEGNALATA – Corte E.D.U., 16.01.2020, Application no. 59347/09 Magosso e Brindani v. Italia

Abstract

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha accolto il ricorso – riconoscendo la violazione dell’art.10 CEDU – proposto dal giornalista e dal direttore responsabile di un settimanale italiano, condannati per il delitto di  diffamazione al pagamento di una pena pecuniaria e di una provvisionale ai danni di due alti ufficiali dell’Arma dei Carabinieri, per avere affermato che i Carabinieri erano a conoscenza del criminoso progetto terroristico nei cui confronti del giornalista Walter Tobagi, commesso dal gruppo terroristico denominato “Brigate rosse”, sostenendo la tesi che la vittima avrebbe potuto essere salvata.

1. I ricorrenti, Renzo Magosso e Umberto Brindani, che nel 2004 erano rispettivamente giornalista e direttore responsabile del settimanale “Gente”, hanno lamentato la violazione del diritto di cui all’art. 10 della Convenzione, e in particolare la compressione del loro diritto di cronaca, in relazione alla condanna pronunciata contro di loro dal Tribunale di Monza – poi confermata in appello il 20 settembre 2007 – sia pure soltanto alla pena pecuniaria, per il delitto di diffamazione ai danni di due alti ufficiali dell’Arma dei Carabinieri, specificamente per la pubblicazione di un articolo in merito all’omicidio del giornalista Walter Tobagi, commesso nel 1980 dal gruppo terroristico denominato “Brigate rosse”, sostenendo la tesi che la vittima avrebbe potuto essere salvata.

1.1. In tale articolo Renzo Magosso aveva infatti affermato che i Carabinieri erano a conoscenza del criminoso progetto terroristico da almeno sei mesi prima dell’uccisione del giornalista. Ciò aveva fatto sulla base di quanto dichiarato da un ex sottufficiale dell’Arma, che aveva riferito di aver a suo tempo presentato ai suoi superiori un’informativa sul progetto dei terroristi di eliminazione fisica del giornalista e che, per tutta risposta, era stato invitato ad occuparsi d’altro.

1.2. Il Tribunale di Monza riconobbe la sussistenza del delitto di diffamazione rilevando che Renzo Magosso aveva agito superficialmente, non verificando l’esattezza delle informazioni ricevute dal sottufficiale, e aveva inteso soltanto fare uno scoop giornalistico, omettendo di dare conto delle verità ufficiali sul caso, contenute nelle sentenze pronunciate su quella vicenda.

1.3. La Corte di cassazione, con la sentenza – Sez. 5, n. 12659 del 23 novembre 2010, dep. 2011 – con cui rigettò i ricorsi di Renzo Magosso e Umberto Brindani, osservò che il giornalista aveva omesso il controllo sulla veridicità dei contenuti di quanto dichiarato dall’intervistato, in specie aveva omesso di interpellare su quelle circostanze gli interessati e le fonti istituzionali. Aggiunse che quel controllo sarebbe stato necessario in ragione della particolare forza diffamatoria di quanto affermato dall’intervistato.

2. Sul tema dell’efficacia scriminante del diritto di cronaca quando esercitato per mezzo di interviste Sez. U, n. 37140 del 30/05/2001, Galiero, Rv. 219651 stabilì che “la condotta del giornalista che, pubblicando il testo di un’intervista, vi riporti, anche se alla lettera, dichiarazioni del soggetto intervistato di contenuto oggettivamente lesivo dell’altrui reputazione, non è scriminata dall’esercizio del diritto di cronaca, in quanto al giornalista stesso incombe pur sempre il dovere di controllare veridicità delle circostanze e continenza delle espressioni riferite”.

Aggiunse poi che “è da ritenere penalmente lecita, quando il fatto in sè dell’intervista, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione e al più generale contesto in cui le dichiarazioni sono rese, presenti profili di interesse pubblico all’informazione tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo e da giustificare l’esercizio del diritto di cronaca, l’individuazione dei cui presupposti è riservata alla valutazione del giudice di merito che, se sorretta da adeguata e logica motivazione sfugge al sindacato di legittimità”.

3. Successivamente la giurisprudenza di legittimità, muovendosi nel solco di tale autorevole arresto, ribadì che al giornalista che effettua l’intervista “incombe pur sempre il dovere di controllare veridicità delle circostanze e continenza delle espressioni riferite”, aggiungendo che “è essenziale l’accertamento correlato alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione e al contesto in cui le dichiarazioni sono rese” – Sez. 5, n. 517 del 22/11/2006, dep. 2007, Morelli e altro, Rv. 235692 –.

In ordine all’intervista che finisca con costituire essa stessa una notizia, precisò che la falsità delle dichiarazioni diffamatorie riportate dal giornalista e la stessa specifica capacità offensiva delle espressioni dell’intervistato possono restare irrilevanti nel caso in cui “lo stesso fatto che la dichiarazione sia stata resa costituisca un evento, sia un fatto di cui il pubblico ha interesse e diritto a essere informato” – Sez. 5, n. 42085 del 10/10/2007, P.C. in proc. Panerai e altro, Rv. 238217 – .

Precisò tale ultima sentenza che “la possibilità di distinguere in questi casi la responsabilità del giornalista da quella dell’autore della dichiarazione riferita va verificata in concreto”, non potendosi dettare criteri astratti che valgano a scindere sempre e comunque le due responsabilità.

Un aspetto essenziale è costituito dalla verifica del concreto ruolo svolto dal giornalista, se si sia limitato “a riferire l’evento” o, invece, sia divenuto “strumento della diffamazione”: per questa parte è necessario appurare “in quale contesto valutativo e descrittivo siano riportate le dichiarazioni altrui, quale sia la plausibilità e l’occasione di tali dichiarazioni, quali le ragioni e la credibilità del dichiarante”.

Quel che quindi è necessario è capire “se il giornalista abbia assunto la prospettiva del terzo osservatore dei fatti, agendo per conto del pubblico dei suoi lettori, ovvero sia solo un dissimulato coautore della dichiarazione diffamatoria, che agisce contro il diffamato”.

4. La Corte Edu ha anzitutto osservato che la vicenda oggetto dell’articolo incriminato era di pubblico interesse, legata ai cd. anni di piombo, ossia al periodo dell’interferenza della loggia massonica P2 nella vita istituzionale italiana e del fenomeno terroristico; ha sul punto notato che i giudici nazionali trascurarono questo importante aspetto, dando maggior valore al profilo sensazionalistico dell’articolo incriminato.

5. Ha quindi ricordato principi già da tempo affermati, in forza del quali occorre distinguere – quando si è di fronte all’esercizio del diritto di cronaca per mezzo di interviste – le dichiarazioni del giornalista da quelle rese dai terzi e citate nell’articolo, e ha sul punto riscontrato che ciò non fu fatto dai giudici nazionali.

Ha poi aggiunto che, ove il giornalista riporti dichiarazioni di terzi, occorre chiedersi non già se egli possa provare la verità delle notizie ma se abbia agito in buona fede e abbia operato le necessarie preliminari verifiche.

Ha allora dato atto che i due ricorrenti hanno prodotto una serie considerevole di documenti per dare conto di aver effettuato le verifiche di credibilità delle dichiarazioni della loro fonte; e ha anche osservato che, con il passare del tempo, era divenuto sempre più difficile provare i fatti oggetto delle dichiarazioni e che il danno alle persone presumibilmente diffamate sarebbe probabilmente venuto meno. Le controverse dichiarazioni, infatti, avevano ad oggetto vicende risalenti alla fine del 1979 e l’articolo di stampa era stato pubblicato ben venticinque anni dopo, nel 2004.

6. Da qui la conclusione che la condanna dei due giornalisti si è sostanziata in un’interferenza sproporzionata nel loro diritto alla libertà di espressione, e pertanto non coerente e non necessaria, secondo i principi di una società democratica.

La Corte Edu ha pure rilevato l’eccessività del risarcimento, rilevando che i giudici di merito avevano condannato i due ricorrenti a pagare in favore delle persone offese la somma di euro 120000 a titolo di provvisionale, oltre alla somma di circa 33000 euro per spese sostenute nei  tre gradi di giudizio. Ha a tal proposito sottolineato che, seppure la provvisionale sia stata poi corrisposta dalla casa editrice del settimanale, tal tipo di misure finisce con il produrre un effetto dissuasivo sui giornalisti, con il rischio di disincentivarli dal contribuire alla discussione pubblica su questioni che riguardano la collettività.

7.Sulla centralità del ruolo assunto nello sviluppo di una società democratica, dalla libera stampa, che ha il dovere e il diritto di informare il pubblico su tutte le questioni di interesse generale, comprese quelle relative all’amministrazione della giustizia cfr. Corte Edu, sent. 24 febbraio 1997, De Haes e Gijsels c. Belgio.

Quanto alle condizioni di tutela del diritto del giornalista, ossia che agisca «in buona fede, sulla base di fatti correttamente riportati, e fornisca informazioni “affidabili e precise” nel rispetto dell’etica giornalistica», v. Corte Edu, sent. 21 gennaio 1999 (Grande Camera), Fressoz e Roire c. Francia, e Corte Edu, sent. 26 aprile 1995, Prager e Oberschlick c. Austria.

Sul principio per il quale, quando si tratta dell’esercizio del diritto di cronaca mediante interviste, non si può chiedere al giornalista, che agisce in buona fede, “di controllare tutte le informazioni riportate in un’intervista”, v. Corte Edu, sent. 4 luglio 2017, Kącki c. Polonia.

Infine, sul pericolo costituito da risarcimenti del danno liquidati in misura eccessiva, che fanno correre il rischio di scoraggiare «una discussione libera su questioni di interesse pubblico» v. Corte Edu, sent. 8 novembre 2018, Narodni List D.D. c. Croazia.

CLASSIFICAZIONE
Diritto alla libertà ed alla sicurezza – Detenzione illegale – Rimedi effettivi – Scopo delle restrizioni ai diritti previsti dalla Convenzione.

RIFERIMENTI GIURISPRUDENZIALI
caso Mehmet Hasan Altan e Şahin Alpay c. Turchia (20 marzo 2018)
caso Akgün c. Turchia (2 aprile 2019)

RIFERIMENTI NORMATIVI
Convenzione E.D.U., art. 5, paragrafi 1, 3 e 4
Convenzione E.D.U., art 18

PRONUNCIA SEGNALATA
Corte EDU, caso Kavala c. Turchia (domanda n. 28749/18), 10 dicembre 2019

Abstract

Nella vicenda del ricorrente, arrestato in relazione ai fatti avvenuti in Turchia nel 2013 (disordini a Gezi Park) e 2016 (tentativo di colpo di Stato), sottoposto a misura cautelare senza la possibilità di un effettivo rimedio contro il provvedimento che la ha disposta, laddove la Corte Costituzionale turca ha impiegato quasi un anno e mezzo per emettere una sentenza sulla sua detenzione (peraltro a lui sfavorevole), e poi rinviato a giudizio per fatti che non trovavano riscontro negli atti processuali, la Corte ha ritenuto:

all’unanimità, che vi sia stata violazione dell’art. 5 paragrafo 1 (diritto alla libertà ed alla sicurezza della Convenzione E.D.U. e dell’art. 5 paragrafo 4 (diritto ad una decisione rapida sulla legittimità della detenzione);

per sei voti a uno, che vi sia stata violazione dell’art. 18, insieme all’art. 5 paragrafo 1,

che lo Stato interessato debba adottare ogni misura per porre fine alla detenzione del ricorrente, provvedendo al suo immediato rilascio.

Il caso

La vicenda è illustrata dalla stessa Corte in un comunicato stampa del 10.12.2019, e la stessa si può sinteticamente riassumere nei seguenti termini.

Il ricorrente, Mehmet Osman Kavala, un cittadino turco, fu arrestato a Istanbul il 17 ottobre 2017 in connessione con i fatti relativi al tentato colpo di Stato del 15 luglio 2016, ma anche in relazione a fatti avvenuti nel 2013, in particolare gli scontri in un parco di Istanbul, Gezi Park, nei quali quattro civili e due poliziotti furono uccisi.

Egli fu, quindi, arrestato con l’accusa di voler sovvertire l’ordine costituzionale in Turchia con atti di violenza ed il governo in carica, sempre con atti violenti.

Fu interrogato il 31 ottobre 2017 e sottoposto a misura cautelare in carcere.

Tutte le sue istanze presentate per la liberazione furono respinte.

Il 29 dicembre 2017 il ricorrente adì la Corte Costituzionale turca, che si pronunciò sul ricorso il 28 giugno 2019, stabilendo che, pur essendo il ricorso ammissibile, tuttavia era infondato in merito alla legittimità dell’ordine di custodia cautelare, mentre lo dichiarò inammissibile per la parte relativa alla mancanza di pubblicità nelle udienze sul riesame di quest’ultimo ordine.

Nel frattempo, l’8 giugno 2018, il ricorrente aveva adito la Corte EDU sotto vari profili.

Il ricorso alla Corte EDU

Nel ricorso assumeva tre violazioni della Convenzione:

art. 5 paragrafo 1 e 3: ha addotto di essere stato posto in custodia cautelare in carcere in mancanza di fondati elementi in merito alla commissione dei reati a lui addebitati;

art 5 paragrafo 4 in merito alla lentezza della procedura davanti alla Corte Costituzionale;

art 18 assumendo che i suoi diritti (in particolare, la sua libertà) erano stati limitati per ragioni diverse da quelle previste nella Convenzione, essenzialmente per ragioni politiche.

La decisione della Corte

La Corte ha dapprima affrontato un’eccezione di improcedibilità dello Stato turco, per il fatto che, come emerso sopra, al momento della presentazione del ricorso alla Corte, i rimedi interni non si erano ancora esauriti, atteso che il ricorso alla Corte Costituzionale turca era ancora pendente.

La Corte ha respinto l’eccezione, affermando che è vero che il requisito dell’esaurimento dei ricorsi interni viene normalmente valutato con riferimento alla data di ricorso alla Corte, tuttavia esiste una giurisprudenza secondo cui tale esaurimento può anche intervenire dopo la data di presentazione del ricorso, ma prima della valutazione di ammissibilità del ricorso alla Corte, e tale orientamento viene seguito in questo caso.

In merito ai singoli motivi di ricorso:

a)

Sulla violazione dell’art. 5 paragrafo 1 e 3 la Corte ha osservato che il ricorrente fu sottoposto a custodia in carcere sulla base di “forti sospetti” della commissione di due reati: tentativo di sovvertire il governo in carica e tentativo di sovvertire l’ordine costituzionale in Turchia, attraverso atti di violenza.

La Corte precisa che per valutare tale motivo di ricorso, dovrà esaminare gli atti dei giudici turchi che hanno applicato la custodia cautelare, nonché valutare gli argomenti addotti dalla Corte Costituzionale, che aveva dichiarato giustificata la misura.

Ebbene, la Corte ha ritenuto che negli atti non vi fosse, in realtà, alcun elemento che ricollegasse i fatti ai reati di cui il ricorrente era accusato. Le condotte che gli sono state attribuite erano prevalentemente atti non violenti, e non trovavano riscontro in quanto descritto nel capo di imputazione. Anche in merito ad un coinvolgimento nel tentato colpo di Stato del luglio 2016, negli atti vi era solo un riferimento a contatti del ricorrente con un’altra persona, indagata per questo, ma non sufficienti a dimostrare un suo coinvolgimento nei reati che gli erano stati attribuiti. Ha, quindi, ritenuto che non vi fosse alcun elemento per ritenere la fondatezza dell’accusa, ai fini dell’applicazione della custodia in carcere, ed ha ravvisato la violazione dell’art. 5 paragrafo 1.

b)

Sulla violazione dell’art 5 paragrafo 4, la Corte ha osservato che tra il momento di registrazione del ricorso alla Corte Costituzionale e la pubblicazione della sentenza di quest’ultima sono trascorsi un anno, cinque mesi e ventinove giorni.

Questo tempo è stato ritenuto eccessivo, atteso che il ricorrente era in custodia cautelare in carcere da ottobre 2017, che per un anno e sette mesi non ha avuto la possibilità di comparire in una udienza davanti ad un giudice, che le sue istanze di rimessione in libertà sono state tutte respinte con formule stereotipate, e che fino al febbraio 2019 l’azione penale non fu formalmente esercitata.

La Corte ha pertanto ravvisato la violazione del suddetto art. 5 paragrafo 4 nel tempo eccessivo impiegato dalla Corte Costituzionale per emettere la sentenza.

c)

Sulla violazione dell’art. 18, la Corte ha osservato che, sebbene fosse legittimo da parte delle autorità turche volere investigare sui disordini di Gezi Park e sul tentativo di colpo di Stato del luglio 2016, tuttavia le indagini sull’indagato sembravano non riguardare direttamente la sua condotta. Egli, infatti, è stato interrogato su rapporti all’interno ed all’esterno della Turchia, ma non sui fatti dei quali era accusato.

Anche il capo di imputazione e la richiesta di rinvio a giudizio, benché di oltre 600 pagine, non indicava però fatti e comportamenti specifici attribuiti al ricorrente, mentre riportavano fatti e comportamenti del tutto leciti da lui posti in essere come appartenente a ONG.

Inoltre, il fatto che egli sia stato arrestato oltre quattro anni dopo i fatti di Gezi Park ed un anno dal tentato colpo di Stato indica come il legame tra l’arresto ed i fatti fosse ancora più labile, e tutto ciò non è stato giustificato negli atti. Per contro, la Corte ha notato che il capo di imputazione è stato redatto dopo che lo stesso Presidente della Repubblica aveva citato il nome del ricorrente in due discorsi pubblici, nel novembre e dicembre 2018.

Pertanto la Corte ha ravvisato la violazione dell’art. 18, ritenendo che la restrizione della libertà avesse, in realtà, scopo diverso da quello strettamente processuale, ma fosse finalizzata ad un obiettivo di dissuasione nei confronti di altri soggetti.

La Corte ha quindi concluso chiedendo l’immediato rilascio del ricorrente.

Il giudice Bošnjak (sloveno) ed il giudice Yüksel (turco) hanno espresso opinioni separate; quella del giudice turco è stata parzialmente dissenziente.

Va, comunque, ricordato che questa decisione non è, al momento, definitiva. Entro tre mesi dalla sua pubblicazione, le parti coinvolte possono chiedere che il caso sia trasmesso alla Grande Camera della Corte.

CLASSIFICAZIONE
ESPROPRIAZIONE PER P.U. – DELEGA AL CONCESSIONARIO –  INSOLVENZA DEL CONCESSIONARIO – OBBLIGAZIONE DI GARANZIA DELLA P.A.

RIFERIMENTI GIURISPRUDENZIALI
Corte E.D.U., 14 marzo 2019, Arnaboldi c. Italia
Corte cost. 22 ottobre 2007, n. 348
Cass. 27 agosto 1998, n. 8496
Cass. 26 febbraio 1999, n. 104
Cass. 17 marzo 2004, n. 5388

RIFERIMENTI NORMATIVI
Convenzione E.D.U., artt. 1 (protocollo 1 alla CEDU)
D.L. 19 marzo 1981, n. 75, conv. con l. 14 marzo 1981, n. 219

PRONUNCIA SEGNALATA
Cass. civ., sez. 1, sentenza n. 30442 del 21 novembre 2019

Abstract

In caso d’insolvenza del soggetto delegato allo svolgimento della procedura ablativa, la pubblica amministrazione beneficiaria è tenuta, in forza di autonomo obbligo di garanzia, a provvedere al pagamento del ristoro dovuto al proprietario espropriato.

Il caso

In un separato giudizio, su domanda del soggetto espropriato, era stata pronunciata la condanna del Consorzio delegato allo svolgimento della procedura espropriativa al pagamento dell’indennità di esproprio e di occupazione legittima ed era stata dichiarata la carenza di legittimazione passiva del Ministero della Protezione civile, ai sensi dell’art. 81 l. n. 219 del 1981.

L’espropriato, successivamente, poiché il fallimento del menzionato consorzio, si era chiuso per insufficienza dell’attivo, aveva esercitato l’azione di cui all’art. 2041 cod. civ., nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Protezione civile.

La domanda era stata rigettata dai giudici di merito.

La Corte d’appello aveva osservato: a) che difettava il carattere della sussidiarietà, in quanto l’ordinamento aveva assicurato all’impoverito la possibilità di esperire una diversa azione, indipendentemente dal fatto che questa avesse condotto ad un risultato utile, anche a causa dell’insolvenza dell’obbligato; b) che nel caso di specie lo spostamento patrimoniale non era privo di giusta causa, in quanto trovava il suo fondamento nella procedura espropriativa; c) che mancava anche la prova che la Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Protezione civile avesse conseguito un arricchimento, quantomeno indiretto, per effetto dell’esproprio che era stato disposto in favore di altro soggetto pubblico; d) che, infine, neppure era stato dimostrato che sussistesse un nesso di reciprocità tra il preteso arricchimento e il depauperamento.

La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Sulla specifica questione dell’insolvenza del privato delegato dalla p.a. allo svolgimento della procedura espropriativa si registra l’intervento di Corte E.D.U., 14 marzo 2019, Arnaboldi c. Italia.

Quest’ultima ha rilevato che  «se è vero che l’insolvenza di una società privata non può comportare una responsabilità dello Stato riguardo alla Convenzione e ai suoi Protocolli (Shestakov c. Russia (dec.), n. 48757 del 18 giugno 2002, lo Stato non può sottrarsi alla sua responsabilità delegando i propri obblighi ad enti privati o a persone fisiche. In altre parole, il fatto che lo Stato scelga una forma di delega in base alla quale alcuni dei suoi poteri sono esercitati da un altro organo non è sufficiente a risolvere la questione della sua responsabilità. Secondo la Corte, l’esercizio di poteri statali che hanno un’influenza sui diritti e sulle libertà sanciti dalla Convenzione può far sorgere la responsabilità dello Stato, indipendentemente dalla forma in cui tali poteri si trovano ad essere esercitati, fosse anche da parte di un ente di diritto privato (Costello-Roberts c. Regno Unito, 25 marzo 1993, § 27, serie A n. 247 C, Wos c. Polonia (dec.), n. 2286/02, § 72, CEDU 2005 IV, Sychev c. Ucraina, n. 4773/02, § 54, 11 ottobre 2005, e Kotov c. Russia [GC], n. 54522/00, § 92, 3 aprile 2012). Nel caso di specie, la Corte ritiene che non vi sia alcun dubbio che la società Padana Appalti SPA – come pure le società che l’hanno preceduta nella presente causa – sia stata incaricata di una missione di servizio pubblico essendo delegata di tutti i poteri connessi all’espropriazione di un terreno ai fini della sua acquisizione al patrimonio pubblico e della costruzione di un’opera pubblica. Secondo la Corte, la scelta di avvalersi della delega di tali poteri non può sollevare lo Stato italiano da quelle che sarebbero state le sue responsabilità se avesse preferito adempiere lui stesso a tali obblighi, come sarebbe stato in suo potere fare. […] Ne consegue che lo Stato italiano rimane tenuto ad esercitare una vigilanza e un controllo per tutta la durata della procedura di espropriazione, fino al pagamento del relativo indennizzo, cosicché è responsabile per non aver adottato le misure necessarie a garantire che le somme accordate a titolo di indennità per l’espropriazione fossero effettivamente versate al ricorrente. A questo proposito, è opportuno rammentare che la Convenzione mira a garantire diritti non teorici o illusori, ma concreti ed effettivi (si veda, tra molte altre, Matthews c. Regno Unito, n. 24833/04, § 34, CEDU 1999-I)».

Cass. n. 30442 del 2019

Le indicazioni della Corte di Strasburgo e l’esigenza di realizzare, sul piano effettuale, la garanzia del riconoscimento del diritto dell’espropriato al conseguimento dell’indennizzo hanno indotto la Corte di Cassazione, previa riqualificazione della domanda, a trarre dall’art. 42 Cost. il fondamento dell’esistenza di un obbligo di garanzia della p.a. beneficiaria in prima battuta della procedura (e indipendentemente dalle successive vicende circolatorie del bene ablato), obbligo destinato ad operare in caso di insolvenza del concessionario, tenuto in via principale al pagamento dell’indennizzo.

CLASSIFICAZIONE
DELITTI CONTRO LA LIBERTÀ MORALE – TORTURA – ELEMENTI COSTITUTIVI.

RIFERIMENTI GIURISPRUDENZIALI
Corte E.D.U., Aydin c. Turchia 25 settembre 1997
Corte E.D.U., Prince c. Regno Unito 10 luglio 2001
Corte E.D.U., Scoppola c. Italia 10 giugno 2008
Corte E.D.U., Cestaro c. Italia 7 aprile 2015
Corte E.D.U., Bartesaghi e altri c. Italia 22 giugno 2017

RIFERIMENTI NORMATIVI
Convenzione E.D.U., art. 3
Cod. pen., art. 613-bis

PRONUNCIA SEGNALATA
Cass. pen, sez. 5, sentenza n. 47079 del giorno 8 luglio 2019

Abstract

Il delitto di tortura è stato configurato dal legislatore come reato comune, vincolato per le modalità della condotta (violenze o minacce gravi, crudeltà), per l’evento naturalistico (acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico) e per il soggetto passivo (persona privata della libertà personale o affidata alla custodia, potestà vigilanza, controllo, cura e assistenza dell’agente ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa)

Il caso

La decisione segnalata scaturisce dai ricorsi proposti avverso il provvedimento del Tribunale per i minorenni che aveva confermato l’ordinanza applicativa, nei confronti di una pluralità di persone, della misura cautelare in carcere in relazione al delitto di tortura, introdotto nel codice penale (art. 613-bis) dall’art. 1, primo comma, della l. 14 luglio 2017, n. 110.

La vicenda aveva preso le mosse dalla richiesta di intervento di un vicino di casa della vittima, allarmato dai rumori che si avvertivano dalla strada e dalle urla di aiuto provenienti dalla abitazione della persona offesa; il personale intervenuto aveva, in quell’occasione, appreso che l’uomo era da tempo bersaglio di spedizioni aggressive da parte di giovani ignoti che, soprattutto nel corso della notte, prendevano a calci la porta di ingresso della abitazione, per poi allontanarsi. In data successiva, un esposto denuncia, a firma congiunta di diversi residenti nella zona, aveva segnalato che, da alcune settimane, durante le ore serali e le prime del mattino, si erano verificati continui e reiterati danneggiamenti ai danni della abitazione della persona offesa, con lancio di pietre e di altri oggetti, calci e colpi alla porta della abitazione e agli infissi della stessa: una dei firmatari dell’esposto, nelle spontanee dichiarazioni rese, aveva riferito che le molestie erano iniziate da molti anni, forse una decina; che, tuttavia, ultimamente, a partire dal Carnevale 2019, alle molestie dei ragazzini minorenni si erano aggiunte altre vessazioni e, per quanto riferito dalla stessa persona offesa, anche violenze fisiche da parte di adulti portatisi dinanzi alla abitazione con due autovetture. Per quanto riferito ai vicini dalla persona offesa, questi era stato aggredito e picchiato da persone mascherate; un’altra volta, pochi giorni dopo, una banda di individui sempre mascherati, aveva lanciato bidoni dell’immondizia contro la porta di casa; e, comunque, tutte le sere seguenti si erano verificate condotte gravemente moleste nelle ore notturne contro la persona offesa, che al fine aveva sporto denuncia. L’uomo aveva dichiarato di essere schernito e aggredito da tempo da parte di ignoti che, in più occasioni, erano anche penetrati in casa sua, recentemente anche percuotendolo con mazze sulle mani, sui fianchi, sul ventre e sulle ginocchia; avevano distrutto  suppellettili di casa e rubato trecento euro prima di fuggire. D’altro canto, la polizia aveva dato atto di avere rinvenuto la persona offesa in casa in preda alla paura, in stato confusionale e in degradanti condizioni di trascuratezza igienica e di salute, avendo egli dichiarato di non mangiare da una settimana, neppure essendo uscito di casa per la spesa, per timore di imbattersi nei suoi aggressori; venivano, altresì, riscontrati i danni al portone di casa, alle finestre, alle serrande. L’uomo veniva ricoverato d’urgenza, per grave insufficienza renale, e sottoposto a intervento chirurgico per accertata perforazione viscerale; presentava anche  evidenti tracce di sangue coagulato alle labbra, alle gengive e tra i denti, compatibili con traumi pregressi, nonché ecchimosi estese a entrambi gli arti inferiori, riconducibili a percosse o cadute.

A seguito delle indagini erano anche stati acquisiti video ritraenti le “spedizioni”

La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Come ricorda la decisione segnalata, nel dare applicazione all’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la Corte di Strasburgo ha fatto emergere un orientamento che ha segnato un passaggio evolutivo nella definizione del concetto di tortura, nel senso che essa può essere anche intesa sotto il profilo psicologico, il quale, pur non lasciando tracce visibili sul corpo, può costituire, comunque, una modalità molto sofisticata di inflizione del dolore (Aydin c. Turchia del 25/09/1997).

La Corte europea ha anche sottolineato la necessità di una contestualizzazione del comportamento, che deve essere valutato non solo alla stregua del grado di sofferenza inflitta, ma anche della natura e dello scopo dell’atto, soprattutto in considerazione della condizione di vulnerabilità e di minorata difesa della vittima   La contestualizzazione del comportamento fa sì che si debba tener conto di tutte le circostanze del caso, ossia della durata del trattamento, dei suoi effetti fisici e mentali, del sesso, dello stato di salute della vittima, della sua età (Prince c. Regno Unito del 10/07/2001; Scoppola c. Italia del  10/06/2008, in relazione al mantenimento prolungato in stato di detenzione di persona disabile e di età avanzata; Cestaro c. Italia del 7 aprile 2015; Bartesaghi e altri c. Italia del 22 giugno 2017, con le quali è stato ritenuto che le condotte poste in essere in occasione del G8 di Genova presso la caserma Bolzaneto siano da qualificare come tortura, ai sensi dell’art. 3, cit., per avere provocato sofferenze fisiche e psichiche acute (“aiguës”), in ordine alle quali se ne è ravvisato il carattere particolarmente grave e crudele. 

Cass. n. 47079 del 2019

Muovendo dalle indicazioni della Corte di Strasburgo, la Corte di Cassazione compie una puntuale disamina degli elementi costitutivi della fattispecie, sottolineando: a) che l’art. 613-bis cod. pen. ha introdotto un reato doloso, formalmente vincolato per le modalità della condotta (violenze o minacce gravi, crudeltà), per l’evento naturalistico (acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico) e  per il soggetto passivo (persona privata della libertà personale o affidata alla custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza dell’agente, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa); b) che viene richiesta  una condotta plurima o abituale, o in alternativa, che il fatto comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. L’evento può essere costituito anche da “acute sofferenze fisiche” oppure da un “verificabile trauma psichico”, in via alternativa; c) che la tortura è stata  concepita come reato eventualmente abituale, nel quale caso la condotta è integrata dalla reiterazione di più condotte nel tempo (anche solo due, e anche in un minimo lasso temporale, come un’ora o alcuni minuti, potendo mutuarsi, sotto tale profilo, l’orientamento giurisprudenziale formatosi in relazione alla fattispecie degli atti persecutori, ex art. 612-bis cod. pen.; d) che la gravità indicata dal legislatore riguarda non solo le minacce, ma anche le violenze; e) che la “crudeltà”, che costituisce un elemento normativo di fattispecie, integra un requisito di natura prettamente valutativa, e intrinsecamente dotato di forte carica valoriale, per il quale, infatti, il legislatore non richiede neppure la reiterazione; f) che l’art. 613-bis valorizza il peculiare rapporto sussistente tra il torturatore e la sua vittima, restringendo il novero dei possibili soggetti passivi del reato di tortura a tre categorie di persone, una delle quali è riferita proprio a  coloro che si trovino in una “condizione di minorata difesa”, con un’opzione normativa che trova  conforto nell’orientamento della giurisprudenza convenzionale, incline alla contestualizzazione del comportamento, in modo da tenere conto di tutte le circostanze del caso, ivi compresa la qualità e le condizioni fisiche e psichiche della vittima, come sesso, stato di salute, età; g) che, in ragione della ratio dell’incriminazione – ravvisabile nella lesione della dignità umana, quale limite il cui superamento integra l’evento dal punto di vista giuridico, e alla cui luce deve essere letto e interpretato anche l’evento naturalistico descritto dalla norma –  il trauma psichico delineato dall’art. 613 bis cod. pen., può essere interpretato in conformità alla definizione di trauma che se ne trae dalla teorizzazione in ambito psicologico, dove, per esso, si intende un evento che, per le sue caratteristiche, risulta “non integrabile” nel sistema psichico pregresso della persona, minacciando di frammentarne la coesione mentale; g) che la prova dell’evento va ancorata a elementi sintomatici del trauma psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente e anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare tale effetto destabilizzante in una persona comune, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata.

Su disposizione del Primo Presidente Giovanni Mammone, si inoltra il report redatto dal Cons. Antonello Cosentino, componente del gruppo di attuazione del Protocollo fra la nostra Corte e la Corte EDU, relativo a Cass., Sez. II civ., sent. n. 24470 del 10 ottobre 2019, in tema di successione nel tempo tra disciplina sanzionatoria amministrativa ad una disciplina sanzionatoria penale in materia di repressione dell’insider trading. La Cassazione, in seguito alla sentenza della Corte costituzionale  n. 223 del 2018 – che ha  dichiarato incostituzionale l’art. 9, comma 6, l. n. 62/2005, per violazione degli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione  all’art. 7 CEDU,  nella parte in cui stabilisce che la confisca per equivalente di cui all’articolo 187 sexies d.lgs. 58/1998 si applica retroattivamente pur quando il complessivo trattamento sanzionatorio amministrativo  conseguente all’intervento di depenalizzazione risulti in concreto più sfavorevole di quello applicabile in base alla previgente disciplina penale – ha annullato la misura della confisca per equivalente applicata all’insider secondario ai sensi dell’art. 187 sexies TUF.

[CLASSIFICAZIONE]

LIBERTA’ DI ESPRESSIONE

[RIFERIMENTI NORMATIVI]

Convenzione EDU, art. 10;

Codice penale, art. 51 c.p.

[SENTENZE SEGNALATE]

Cass. pen., Sez. II, sentenza n. 38277 del 7.6./17.9.2019, Belpietro ed altro.

Esercizio del diritto di cronaca – efficacia scriminante – reato commesso per procurarsi la notizia – estensione – ragioni.

Abstract. La II sezione penale (sentenza n. 38277 del 7.6.2019, dep. 17/09/2019, allo stato non massimata), previa interpretazione convenzionalmente orientata dell’art. 51 c.p. in relazione all’art. 10 Conv. EDU, ha ritenuto che la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca operi anche in riferimento al delitto di ricettazione commesso per procurarsi la notizia pubblicata, e non soltanto in riferimento ai reati commessi con la pubblicazione dell’articolo.

1. Nel caso esaminato, i ricorrenti (dichiarati colpevoli di concorso – con soggetto nelle more deceduto – nella ricettazione di un CD rom contenente telefonate illecitamente registrate ex art. 617 c.p. sulla linea telefonica d’ufficio del direttore della COOP di Vigevano, ceduto dai titolari della società che gestiva la sicurezza in COOP LOMBARDIA – al fine di consentire ai due giornalisti imputati di realizzare un servizio giornalistico sfruttando il contenuto delle predette intercettazioni illecite) lamentavano inosservanza degli artt. 43, 51 e 648 c.p., nonché 21 Cost. e 10 Conv. EDU per il mancato riconoscimento della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca.

2. La giurisprudenza di questa Corte aveva inizialmente negato la compatibilità della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca con il delitto di ricettazione, avendo osservato che “le scriminanti dell’esercizio del diritto di critica e del diritto di cronaca rilevano solo in relazione ai reati commessi con la pubblicazione della notizia, e non anche rispetto ad eventuali reati compiuti al fine di procacciarsi la notizia medesima” (Sez. 1, n. 27984 del 07/04/2016, Rv. 267053 – 01: in applicazione del principio, è stato rigettato il ricorso dell’imputato del reato di cui all’art. 650 c.p., il quale, nella sua qualità di giornalista, aveva violato il divieto prefettizio di stazionare e circolare in una determinata zona nella quale lo stesso si era introdotto al fine di acquisire notizie utili per la realizzazione di una trasmissione radiofonica, in differita, sulle manifestazioni del movimento “NO TAV”).

2.1. Una prima apertura nel senso dell’astratta compatibilità tra la predetta causa di giustificazione ed il predetto reato si era implicitamente avuta con Sez. 2, n. 25363 del 15/05/2015, n.m. sul punto, che aveva, peraltro, ritenuto immune da censure la valutazione della Corte di appello che aveva escluso la configurabilità, nel caso concreto, della predetta causa di giustificazione.

3. La Corte di Strasburgo ha compiutamente esaminato il tema, in relazione alla generale garanzia della libertà di esprimersi, sancita dall’art. 10 Conv. EDU, con la sentenza emessa della Grande Chambre il 21 gennaio 1999 nel caso Fressoz et Roire c. Francia. 

I ricorrenti FRESSOZ e ROIRE, rispettivamente direttore e giornalista del settimanale satirico Le Canard enchainé, erano stati condannati per il reato di ricettazione di fotocopie di dichiarazioni dei redditi provenienti dalla violazione del segreto professionale da parte di un non identificato funzionario dell’Ufficio delle imposte, per avere pubblicato, in occasione di un’agitazione sindacale all’interno di un’azienda automobilistica di rilievo nazionale (causata, tra l’altro, dal rifiuto del suo Presidente e della direzione di concedere aumenti salariali agli operai), i predetti documenti coperti dal segreto fiscale, dai quali erano risultati desumibili i plurimi aumenti salariali percepiti dal predetto Presidente nel triennio antecedente, ed avevano presentato ricorso alla Corte EDU lamentando che la predetta condanna avrebbe violato la loro libertà di espressione, garantita dall’art. 10 Conv. EDU.

La Grande Chambre ribadì preliminarmente che:

– la libertà di espressione costituisce uno dei cardini essenziali di una società democratica ed una delle condizioni primarie del suo progresso e dello sviluppo di ciascuno, e “copre” anche le “informazioni” e le “idee” che possano offendere, ferire o turbare qualcuno, perché così esigono il pluralismo, la tolleranza e lo spirito di apertura, senza i quali non vi è una “società democratica”;

– la stampa ha una funzione rilevante in una società democratica: benché non debba travalicare alcuni limiti, in particolare relativamente alla protezione della reputazione e dei diritti altrui, nonché alla necessità d’impedire la divulgazione di informazioni riservate, le compete nondimeno il compito di comunicare, nel rispetto dei propri doveri e responsabilità, informazioni ed idee su tutti i temi d’interesse generale;

   – alle autorità nazionali può essere attribuito il potere di valutare se ragioni di “prevalente necessità sociale” legittimino restrizioni all’esercizio della libertà di espressione, ma, “di regola”, la “necessità” d’imporre restrizioni all’esercizio della libertà di espressione deve essere provata in modo convincente: tuttavia, il predetto potere si pone in conflitto con l’interesse della società democratica ad assicurare e mantenere integra la libertà di stampa e, per tale ragione, quando si tratti di valutare se le restrizioni imposte dalle autorità siano proporzionali rispetto allo scopo perseguito, è opportuno conferire alla libertà di stampa grande rilevanza.

3.1. Secondo la II Sezione, si tratta <<di affermazioni di principio non sempre delineate con tratti netti, talora anche paradossali (se solo “di regola”, la “necessità” di imporre restrizioni all’esercizio della libertà di espressione deve essere provata “in modo convincente”, si ammette implicitamente che ci siano casi – non indicati, e la cui individuazione è quindi rimessa all’interprete – in cui le suddette restrizioni possono risultare legittime pur se motivate in modo non convincente, il che sembrerebbe legittimare l’elusione della garanzia convenzionale de qua), ma dalle quali è comunque desumibile con certezza che, nel bilanciamento tra i valori in conflitto, alla libertà di stampa va sempre riconosciuto un rango apicale, naturalmente a patto che le informazioni divulgate: a) corrispondano al vero; b) riguardino temi d’interesse generale; c) non si concretizzino unicamente in attacchi personali”>>

3.2. Con specifico riferimento alla vicenda esaminata, la Grande Chambre osservò che la pubblicazione dell’articolo che divulgava l’informazione in contestazione, pur illegittimamente acquisita, “apportava un contributo ad un dibattito pubblico su un tema di interesse generale; il suo scopo non era di arrecare pregiudizio alla reputazione del signor C., ma, più ampiamente, di dibattere una questione di attualità che interessava la collettività”, dovendo, comunque, considerarsi che “alla funzione della stampa, che consiste nel diffondere informazioni e idee su temi di interesse pubblico, si aggiunge il diritto per la collettività di riceverle”, e che, nel caso esaminato, i problemi dell’occupazione e della remunerazione suscitavano tradizionalmente notevole interesse nella collettività.

Quanto alla provenienza illegittima dei documenti dai quali erano state desunte le informazione pubblicate (della quale entrambi i giornalisti francesi erano certamente consapevoli), si osservò che, in linea di principio, la garanzia di cui all’art. 10 Conv. EDU non può esonerare i giornalisti dall’obbligo di rispettare le leggi penali di diritto comune, considerato anche che lo stesso art. 10 cit., nel § 2, legittima l’imposizione di limiti all’esercizio della libertà di espressione; tuttavia, quando il giornalista si sia procurato le notizie d’interesse pubblico divulgate attraverso la commissione di una ricettazione (la Grande Chambre parlò di “origine opinabile dei documenti”), occorre accertare se, nelle particolari circostanze del caso, l’interesse d’informare la collettività prevalesse sui doveri e sulle responsabilità che gravano sui giornalisti.

3.3. Ciò premesso, chiamata a valutare in concreto se l’obiettivo della salvaguardia del segreto fiscale – di per sé legittimo – offrisse una giustificazione pertinente e sufficiente alla limitazione della libertà di stampa, la Grande Chambre ritenne che non sussistesse l’interesse a mantenere segrete le informazioni de quibus, le quali, pur non essendo divulgabili, erano comunque accessibili a singoli contribuenti del medesimo comune di residenza dell’interessato (i quali potevano a loro volta comunicarle a terzi, e così via), attraverso la consultazione dell’elenco comunale dei soggetti d’imposta, che contiene l’indicazione, per ciascun contribuente, del reddito imponibile e dell’ammontare dell’imposta; d’altro canto, uno dei ricorrenti si era difeso affermando anche che i dati in ipotesi illegittimamente divulgati erano correntemente pubblicati sulle riviste specializzate del settore finanziario, e su ciò non erano state mosse contestazioni; per tali ragioni, “benché la pubblicazione delle denunzie dei redditi fosse proibita nella fattispecie, le informazioni che contenevano non erano più segrete”, e, conseguentemente, “la protezione delle informazioni in quanto riservate non costituiva una necessità preponderante”.     

Non essendo state messe in discussione né la materialità dei fatti riferiti, né la buona fede dei giornalisti nel riferirle, e non avendo la pubblicazione delle informazioni intenti meramente diffamatori, ma riguardando anzi vicende di rilevante interesse pubblico che si innestavano all’interno di un dibattito sociale in corso, si ritenne conclusivamente che la condanna dei due giornalisti non costituisse un mezzo ragionevolmente proporzionato al perseguimento degli scopi legittimi avuti di mira attraverso le restrizioni indirettamente imposte (attraverso il divieto di pubblicazione di documenti ricettati) alla libertà di stampa nel caso di specie, “tenuto conto dell’interesse della società democratica ad assicurare e mantenere la libertà della stampa”.

Fu, pertanto, ravvisata una violazione dell’art. 10 Conv. EDU.  

4. In seguito, la Corte EDU, Grande Chambre, sentenza 10 dicembre 2007, caso Stoll c. Svizzera, ha precisato che le limitazioni previste dalla legge alla libertà di espressione, ai sensi dell’art. 10 Conv. EDU, possono essere opposte per impedire la divulgazione di informazioni confidenziali, sia da parte di chi le ha ricevute direttamente, sia da parte della stampa, e che la divulgazione da parte della stampa di un documento segreto non è illecita in sé, ma solo quando essa possa apportare un considerevole pregiudizio agli interessi nazionali (in applicazione del principio, la Grande Chambre, capovolgendo la sentenza della Chambre semplice del 25 aprile 2006, ha ritenuto illegittima la divulgazione delle notizie delle quali in quella occasione si discuteva, perché potenzialmente in grado di compromettere seriamente un negoziato diplomatico in corso).

5. Valorizzando l’orientamento della Corte EDU, e ponendosi consapevolmente in contrasto con il precedente orientamento di questa Corte di legittimità, la II Sezione ha ritenuto che la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca sia  compatibile con il delitto di ricettazione.

5.1. In particolare, con riguardo ai limiti intrinseci di operatività della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca, il collegio ha ritenuto che l’art. 10 Conv. EDU, come univocamente interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU a partire dalla citata sentenza emessa dalla Grande Chambre il 21 gennaio 1999 nel caso Fressoz et Roire c. Francia, imponga d’interpretare l’art. 51, comma 1, prima parte c.p. nel senso che la causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca può essere configurata non soltanto in relazione ai reati commessi con la pubblicazione della notizia, ma anche in relazione ad eventuali reati compiuti al fine di procacciarsi la notizia medesima: <<Risulta, invero, senz’altro esperibile un’interpretazione delle norme interne, ed in particolare dell’art. 51, comma 1, prima parte, c.p., che eviti un risultato applicativo (nel caso di specie, l’inapplicabilità della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca a reati diversi da quelli commessi attraverso la pubblicazione dell’articolo) in contrasto con l’art. 10 Conv. EDU, come interpretato dalla Corte EDU, in ossequio al menzionato obbligo di interpretazione conforme delle norme interne al diritto europeo. Tale interpretazione non si pone neppure astrattamente in contrasto con la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione, ed anzi appare maggiormente in sintonia con la garanzia di cui all’art. 21 Cost. (libertà di manifestazione del pensiero); in proposito, può, infatti, ritenersi tradizionalmente consolidato l’orientamento della Corte costituzionale (sentenze n. 94 del 1977, n. 225 del 1974, n. 105 del 1972), risalente ma mai messo in discussione, secondo il quale non può dubitarsi che sussista, e sia implicitamente tutelato dall’art. 21 Cost., un interesse generale della collettività all’informazione, di tal che i grandi mezzi di diffusione del “pensiero” (nella sua più lata accezione, comprensiva delle “notizie”) sono a buon diritto suscettibili di essere considerati nel nostro ordinamento, come in genere nelle democrazie contemporanee, quali servizi oggettivamente pubblici o comunque di pubblico interesse>>.

5.2. Inoltre, con riguardo ai limiti intrinseci di operatività della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di cronaca, il collegio ha ritenuto che l’art. 10, § 2, della Convenzione EDU <<legittimi l’imposizione di limiti alla libertà di stampa soltanto se finalizzati a tutelare la sicurezza nazionale, l’integrità territoriale, la pubblica sicurezza, a prevenire la commissione di reati, a proteggere la salute e la morale pubblica, la reputazione o i diritti dei terzi, ad impedire la divulgazione di informazioni riservate, a garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario.  Tenuto conto delle peculiarità del caso concreto, e dell’interpretazione che la Corte EDU, Grande Chambre, sentenza 10 dicembre 2007, caso Stoll c. Svizzera, ha fornito del riferimento convenzionale alla divulgazione di notizie riservate o confidenziali, le uniche possibili ragioni giustificative della compressione del diritto di cronaca potrebbero risiedere nella tutela della reputazione dei titolari di COOP LOMBARDIA, peraltro in ipotesi offuscata non da comportamenti pur sempre giuridicamente leciti (come nel caso Fressoz et Roire), bensì dall’accertamento del fatto che essi avessero a loro volta commissionato intercettazioni illecite per controllare l’operato dei propri dipendenti, in violazione delle più elementari garanzie sindacali>>.

6. La sentenza impugnata è stata, pertanto, annullata, precisando che, ferme restando la consapevolezza che gli odierni ricorrenti avevano della provenienza illecita delle notizie pubblicate e la corrispondenza al vero delle notizie pubblicate, ai fini della configurabilità in concreto della causa di giustificazione de qua il giudice del rinvio avrebbe dovuto valutare valutare:

– se la pubblicazione degli articoli in contestazione apportasse un contributo ad un dibattito pubblico su un tema di interesse generale (quello della tutela dei diritti dei lavoratori in relazione ai controlli occulti) oppure avesse unicamente lo scopo di arrecare pregiudizio a COOP LOMBARDIA, concorrente commerciale di ESSELUNGA e quindi del CAPROTTI;

– se, essendosi i ricorrenti procurati le notizie d’interesse pubblico divulgate attraverso la commissione di una ricettazione, nelle particolari circostanze del caso concreto l’interesse d’informare la collettività prevalesse sui <<doveri e responsabilità>> che gravano sui giornalisti;

– se, ai predetti fini, possa assumere rilievo la procurata intromissione di un terzo (il defunto concorrente).

[classificazione]

CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO E DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI – DIRITTO DI DIFESA E CONTRADDITTORIO ‒ GIUDIZIO CIVILE ‒ ISTANZA DI RIESAME DEL PROVVEDIMENTO DI PROROGA DEL TRATTENIMENTO PRESSO CENTRO CIE ‒ DIRITTO DI DIFESA E PRINCIPIO DI CONTRADDITTORIO EFFETTIVO NEL PROCEDIMENTO DI RIESAME DELLA MISURA DI TRATTENIMENTO, E DELLA SUCCESSIVA PROROGA,

[riferimenti normativi]

Convenzione EDU, artt. 5 e 6

Carta dei diritti fondamentali della U.E., artt. 47 e 48

Costituzione, artt. 24, 111 e 117

Direttiva 2008/115/CE, art. 15

D.lgs. n. 286 del 1998, artt. 5 e 14

[sentenza segnalata]

Cass., sez. Ⅰ civ. ord. n. 27076 del 23 ottobre 2019

La Corte di cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso di una cittadina senegalese avverso il provvedimento del Tribunale di Roma che aveva dichiarato inammissibile, senza la previa fissazione di udienza, l’istanza di riesame del provvedimento di proroga della misura di trattenimento presso centro CEI. La prima sezione civile della Corte, con l’ordinanza n.27076/2019, ha riconosciuto la necessità del rispetto del diritto di difesa e di effettivo contraddittorio, tutelato a livello sovranazionale, nel procedimento di riesame della misura di trattenimento, o della sua eventuale proroga, da attuare con le forme del rito camerale ex art. 737 c.p.c.

.

1. Con l’ordinanza in esame la prima sezione civile si pronuncia sul ricorso di una cittadina senegalese avverso il decreto di inammissibilità dell’istanza di riesame del provvedimento di proroga della misura di trattenimento presso un centro(CEI), emesso dal Tribunale di Roma. Quest’ultimo, nel dichiarare l’inammissibilità dell’istanza, poiché irritualmente proposta, con decreto n. 14575/2018, depositato il 12 settembre 2018, ha ritenuto non necessario fissare l’udienza di comparizione delle parti.

2.La ricorrente lamentava il mancato rispetto delle garanzie offerte a livello nazionale dagli artt. 24 e 111, Cost., nonché a livello sovranazionale dagli artt. 6 della CEDU, 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali della U.E.

3. La Cassazione ha ricordato che sul piano nazionale la disposizione di cui all’art. 14, comma 1, del d.lgs n. 286 del 1998 prevede che «quando non è possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera ovvero il respingimento, a causa di situazioni transitorie che ostacolano la preparazione del rimpatrio o l’effettuazione dell’allontanamento, il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza temporanea e assistenza più vicino». Il giudizio di convalida, ai sensi del comma 4 dell’art. 14, si svolge con fissazione dell’udienza «in camera di consiglio con la partecipazione necessaria di un difensore tempestivamente avvertito».

4. Nulla dispone, invece, la normativa italiana quanto alla possibilità di proporre istanza di riesame del provvedimento di proroga, ma, ricorda l’ordinanza in rassegna, assume rilievo rispetto  alla lacuna della disciplina nazionale la Direttiva 2008/115/CE, il cui art. 15 par. 3 stabilisce che «In ogni caso, il trattenimento è riesaminato ad intervalli ragionevoli su richiesta del cittadino di un paese terzo interessato o d’ufficio. Nel caso di periodi di trattenimento prolungati il riesame è sottoposto al controllo di un’autorità giudiziaria».

    5.La Corte ha ritenuto indubbia la possibilità del riesame della misura di trattenimento.

5.1 Rispetto a tale questione sulla quale era incentrata la censura del ricorrente il giudice di legittimità ha ritenuto che, indipendentemente dall’esistenza di un procedimento ad hoc, il riesame della misura di trattenimento deve avvenire nel rispetto delle garanzie del diritto di difesa e del contraddittorio.

5.2 Nel far ciò la Cassazione ha richiamato quanto sostenuto dalla Corte di Giustizia, chiamata più volte a pronunciarsi sulle violazioni del diritto di difesa e del principio di contraddittorio, sostenendo che i diritti della difesa, che includono il diritto di essere sentiti e il diritto di accedere al fascicolo, sono diritti fondamentali costituenti parte integrante dell’ordinamento giuridico dell’Unione e consacrati dalla Carta di Nizza. L’obbligo di rispettare i diritti della difesa dei destinatari di decisioni che incidono in modo rilevante sui loro interessi incombe, dunque, in linea di principio, sulle amministrazioni degli Stati membri ogniqualvolta esse adottano provvedimenti che rientrano nella sfera d’applicazione del diritto dell’Unione.

5.3 Scendendo nello specifico della procedura di trattenimento finalizzata all’espulsione dello straniero, la Cassazione ha ricordato che secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo qualsiasi forma di privazione della libertà personale debba avere una base legale nel diritto interno; ciò, tuttavia, non è abbastanza, dovendosi guardare anche alla qualità della legge, questa deve essere necessariamente compatibile con la preminenza del diritto che è nozione di cui sono intrisi tutti gli articoli della convenzione.                                                

5.4 Sempre con riferimento alle misure di trattenimento la Corte EDU ha osservato che la privazione della libertà personale è misura talmente grave da non essere sufficiente che questa sia conforme a diritto nazionale, ma occorre che sia anche “necessaria” al caso di specie, in quanto altre misure, meno severe, sono state prese in considerazione e ritenute inidonee.

5.5 I soggetti privati della libertà personale hanno quindi diritto di ottenere, nel minor tempo possibile, l’esame della regolarità del provvedimento; e proprio la delicata posizione in cui il detenuto si trova impone, a maggior ragione, che il procedimento di riesame della misura si svolga nel contraddittorio effettivo tra le parti e nel rispetto delle prerogative offerte dal diritto di difesa.

5.6 Quanto alla giurisprudenza di legittimità, la pronunzia in rassegna ha richiamato una precedente pronuncia (Cass., 29/09/2017, n. 22932), che, in assenza di specifica disciplina normativa, aveva individuato nello strumento generico del procedimento camerale, proponibile ai sensi dell’art. 737 del c.p.c, lo schema processuale al cui interno far valere la domanda di riesame della misura di trattenimento dello straniero in un centro (CIE). La Corte sostiene che il rito camerale esperibile ex art, 737 c.p.c «sia idoneo a garantire il contraddittorio perfino nel caso in cui non sia disposta l’udienza, sia perché tale eventualità è limitata solo alle ipotesi in cui, in ragione dell’attività istruttoria precedentemente svolta, essa appaia superflua, sia perché in tale caso le parti sono comunque garantite dal diritto di depositare difese scritte. Il che, ovviamente, presuppone che le stesse siano poste in condizione di esercitare siffatta forma di difesa, prima che il giudice renda il relativo provvedimento».

  5.7 L’istaurazione di un contraddittorio nelle forme del rito camerale ex art. 737 c.p.c. viene quindi considerata idonea a garantire il diritto alla libertà personale ed il diritto ad un contraddittorio effettivo ed alla difesa in giudizio.         

5.8 Del resto, ricorda ancora la pronunzia in rassegna, l’esigenza di tutelare i diritti al contraddittorio e alla difesa ha indotto la Cassazione a rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 13 e 24 Cost., dell’art. 14, comma 1 bis del d.lgs. n. 286 del 1998, con riferimento alla misura dell’obbligo di presentazione presso un ufficio della forza pubblica, nella parte in cui non stabilisce che la convalida di tale misura debba avvenire nel contraddittorio con lo straniero.

5.9 La Corte pone l’accento sulla necessità di sottoporre la misura di trattenimento (in quanto privativa delle libertà dei singoli) a futuri controlli; tuttavia, il soggetto sottoposto a misura di trattenimento è realmente tutelato solo ove la procedura di riesame rispetti il diritto di difesa e garantisca un contraddittorio effettivo.

5.10 La Corte ha quindi rilevato che nessuna forma di contraddittorio era stata attuata dal tribunale investito dalla richiesta di riesame della proroga del trattenimento della richiedente presso il CIE, poiché il giudice delegato aveva ritenuto inammissibile il ricorso senza fissare l’udienza e senza neppure concedere alla parte istante la forma più attenuata del diritto alla difesa, costituita dall’assegnazione un termine per il deposito di memorie difensive.  

11.La Cassazione ha, quindi, cassato il decreto, rimettendo al giudice del rinvio l’applicazione dei principi di diritto precedentemente esposti, con particolare attenzione all’istaurazione di un contraddittorio effettivo.

[CLASSIFICAZIONE]

POSSESSO – AZIONI A DIFESA DEL POSSESSO – AZIONI POSSESSORIE (NOZIONE, DIFFERENZA CON LE AZIONI DI NUNCIAZIONE, DISTINZIONI) – AMMINISTRAZIONE PUBBLICA – AZIONI CONTRO LA P.A. DETENZIONE DEL BENE DA PARTE DELLA P.A. – TRASFORMAZIONE IN POSSESSO UTILE “AD USUCAPIONEM” – CONDIZIONI – INTERPRETAZIONE CONFORME ALLA CEDU –

 [RIFERIMENTI NORMATIVI]

Costituzione: art.42

Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU): art. 1 Prot.n.1 annesso alla CEDU

Cod.civ.art.1141 c.2

[SENTENZA SEGNALATA]

Cass., Sez. I civ., sent. n. 27197 del 23 ottobre 2019.

Abstract

La prima sezione della Corte di cassazione, con la sentenza n.27197/2019, ha fatto il punto sulle condizioni e sugli spazi di operatività dell’istituto di diritto privato dell’usucapione nell’ipotesi di occupazioni illegittime, ponendosi in linea di continuità con quanto affermato da Cass.n.10297/2018 e confermando un indirizzo sul punto interpretativo restrittivo e coerente con i principi di matrice convenzionale affermati dalla giurisprudenza della Corte edu in tema di privazione sine titulo del diritto dominicale.

In un giudizio promosso dall’Azienda territoriale per l’edilizia residenziale della provincia di Treviso nei confronti dei proprietari di alcune aree e diretto all’accertamento dell’intervenuto acquisto per usucapione dei terreni dei convenuti sui quali l’ente aveva realizzato nell’anno 1977, su delega del comune di Castelfranco Veneto- che dopo essere stato evocato in giudizio spiegava a sua volta domanda di usucapione delle aree medesime- cinque fabbricati all’esito di procedura espropriativa, i giudici di primo e di secondo grado rigettavano, per quel che qui interessa, le domande di usucapione, pronunziandosi su ulteriori domande proposte da altri soggetti pure parti del giudizio.

In particolare la Corte di appello riteneva che l’animus possidendi necessario per l’usucapione dovesse intendersi quale intento del preteso usucapiente di tenere la cosa come propria mediante attività corrispondente all’esercizio della proprietà, o altro diritto reale, prescindendo dall’esistenza o conoscenza di tale diritto. Aggiungeva che non potendo il privato in ipotesi di occupazione acquisitiva fruire del rimedio reipersecutorio, diversamente da quanto previsto nella ipotesi di cd. occupazione usurpativa, la Corte di appello non riconosceva all’Amministrazione occupante la possibilità di acquisire la proprietà attraverso il possesso ad usucapionem.

Cass.n.27197/2019 ha confermato la decisione impugnata.

Per quel che qui rileva la Cassazione ha fatto il punto sulle condizioni e sugli spazi di operatività dell’istituto di diritto privato dell’usucapione nell’ipotesi di occupazione illegittima.

Dopo avere ricordato i precedenti di legittimità favorevoli alla configurazione di condotte materiali di occupazione e di manipolazione del bene immobile di un privato da parte dell’Amministrazione anche ai fini della loro usucapibilità, senza distinzione tra le fattispecie dell’occupazione acquisitiva e di quella usurpativa (Cass. n. 1804/2013 e SU n. 735/2015), si è sottolineato che tale indirizzo consentirebbe in astratto, a partire dalla configurazione dell’illecito, la possibilità per l’Amministrazione occupante di maturare un possesso integrativo dell’usucapione in applicazione delle norme di diritto privato in presenza di un animus possidendi necessario ad usucapire che si manifesta attraverso un atto di interversione del possesso.

Ed infatti, venuto meno l’agire secondo modelli pubblicistici l’amministrazione potrebbe acquisire come un qualsiasi privato, in ragione di condotte di occupazione e manipolazione, la proprietà del bene per usucapione.

Ma la Cassazione si premura a chiarire le condizioni che possono giustificare siffatto modo di acquisto della proprietà, conseguente ad un illecito di diritto comune lesivo dell’altrui diritto di proprietà ed alternativo rispetto alle ipotesi della restituzione dell’area, della transazione, della rinunzia abdicativa e non traslativa del proprietario al suo diritto che resta implicitamente contenuta nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente, o del provvedimento amministrativo D.P.R. n. 327 del 2001, ex art. 42-bis.

La implicita premessa di base dalla quale muove la pronunzia in esame è costituita da un lungo ed accidentato percorso giurisprudenziale, fortemente condizionato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – a partire dai noti casi Carbonara e Ventura e Belvedere Alberghiera c. Italia del maggio 2000- e dai “seguiti” interni( Corte cost.nn.348 e 349 del 2007, Cass.S.U. n.735/2015) ed ormai stabilizzato nel senso della natura permanente dell’illecito perpetrato in danno del privato attraverso condotte riconducibili alle figure(di matrice pretoria) dell’occupazione acquisitiva e/o usurpativa o in via di mero fatto.

Ora, secondo Cass. n.27197/2019 perché le condotte di occupazione acquisitiva ed usurpativa o in via di mero fatto possano dare luogo all’acquisto della proprietà del bene in favore dell’espropriante per usucapione, nei casi in cui il potere di fatto sulla cosa sia esercitato inizialmente dalla P.A. come detenzione – in presenza di validi provvedimenti amministrativi (dichiarazione di p.u., decreto di occupazione d’urgenza, ecc.) -, occorre l’allegazione e la prova da parte della P.A. della trasformazione della detenzione in possesso utile “ad usucapionem”, ex art. 1141 c.c., comma 2, cioè il compimento di idonee attività materiali di opposizione specificamente rivolte contro il proprietario-possessore, non essendo sufficienti né il prolungarsi della detenzione né il compimento di atti corrispondenti all’esercizio del possesso che di per sé denunciano unicamente un abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene.

Cass. n.27197/2019 pone dunque un limite alla concreta operatività dell’usucapione nelle vicende di cui si è detto, ritenendo che l’occupazione illegittima non può “integrare il requisito del possesso utile ai fini dell’usucapione, sortendosi altrimenti l’effetto di reintrodurre nell’ordinamento interno forme di espropriazione indiretta o larvata, in violazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale annesso alla Cedu”.

Ed infatti, il possesso che pure si accompagna alla permanenza dell’illecito non può valere, senza soluzione di continuità, agli effetti dell’usucapione destinati ad operare fin dal momento dell’iniziale esercizio della relazione di fatto con il fondo altrui, con estinzione retroattiva della tutela reale ripristinatoria e di quella indennitaria del proprietario del fondo.

Sul punto, Cass.n.27197/2019 si discosta da quanto affermato, sia pur in ambito di regolamento di competenza e rispetto ad una vicenda nella quale si discuteva di diritto di servitù, da Cass. n. 19294/2006, laddove era stato ritenuto che “l’accertamento dell’avvenuto usucapione della servitù di un elettrodotto esclude il presupposto del risarcimento da illecito, retroagendo gli effetti dell’usucapione, quale acquisto del diritto reale a titolo originario, al momento dell’iniziale esercizio della relazione di fatto con il fondo altrui, e togliendo ab origine il connotato di illiceità al comportamento di chi abbia usucapito”. Indirizzo, quest’ultimo, formatosi sotto la precedente giurisprudenza che riconosceva l’occupazione acquisitiva ma non per i diritti reali minori (v. infatti, Cass. 25.3.1998 n. 3153).

La circostanza che nella specie non fosse stata fornita alcuna allegazione di fatto ai fini dell’interversio ha quindi giustificato il rigetto del ricorso.

La Cassazione ha poi approfittato per evidenziare che la censura del comune, laddove era partita dall’idea che i mutamenti giurisprudenziali sul tema degli effetti dell’occupazione c.d. acquisitiva non fossero applicabili al caso di specie, in quanto successivi all’epoca in cui avrebbe potuto decorrere il possesso necessario all’usucapione che si sarebbe potuta quindi realizzare nell’anno 1997, prima dei detti mutamenti giurisprudenziali ai quali si è accennato era destituita di fondamento.

Sul punto la Corte ha rigettato la ricostruzione difensiva dell’amministrazione comunale, evidenziando che quella prescelta dal ricorrente costituiva una prospettiva non convincente, non essendo diretta al perseguimento di “un percorso ermeneutico di progressivo adattamento dell’istituto dell’usucapione a principi costituzionali e convenzionali presenti nel sistema, ma di una sorta di overruling sostanziale, creativo di un diritto che, destinato a valere per il futuro, non varrebbe a qualificare nei presupposti applicativi, e a disciplinare negli effetti, fattispecie maturate nel pregresso.”

In definitiva, l’insufficienza dell’allegazione in punto di interversione del possesso “che nato in un quadro di legittimità del modello ablatorio adottato dall’Amministrazione occupante avrebbe dovuto proseguire in discontinuità con i precedenti presupposti prospettando una vera e propria interversio possessionis” ha giustificato il rigetto del ricorso.

Cass.n.10289/2018, che costituisce il prodromo rispetto alla pronunzia qui ricordata, aveva già sottolineato la necessità di restringere l’ambito di operatività dell’usucapione in vicende successive a forme di occupazioni illegittimi (nell’accezione ampia di cui qui si è detto), ricordando l’indirizzo sul punto restrittivo del giudice amministrativo secondo il quale l’occupazione illegittima di un fondo da parte della P.A. e la conseguente trasformazione di un bene privato, al di fuori di una legittima procedura espropriativa o di un procedimento sanante ex art. 42 bis cit., costituisce illecito permanente e non è idonea ad integrare il requisito del possesso utile ai fini dell’usucapione, rischiandosi altrimenti di reintrodurre nell’ordinamento interno forme di espropriazione indiretta o larvata, in violazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla Cedu (Cons. di Stato, sez. IV, n. 3838/2017, n. 329/2016, 3988/2015).

Nella stessa occasione, Cass.n.10298/2018 aveva ulteriormente sottolineato come tale conclusione fosse coerente con la capacità di diritto privato della P.A., il cui corollario è la soggezione della stessa alle conseguenze ripristinatorie e risarcitorie previste dal diritto comune quando essa sia responsabile di illeciti, sia con la tipicità dei modi con cui la P.A. può acquistare la proprietà dei beni nell’ambito del procedimento espropriativo. Per tale motivo, aggiungeva Cass.n.10289/2018, sarebbe risultato incongruo, in mancanza di alcun espresso referente normativo, che dall’esercizio illegittimo di poteri di imperio l’amministrazione potesse ricavare un utile, divenendo proprietaria del bene, senza erogare alcunché al privato spogliato.

CLASSIFICAZIONE

Divieto di trattamenti inumani e degradanti – Art. 3 Convenzione EDU – Obblighi positivi dello Stato – Assistenza di una minore alla scena dell’arresto violento del padre – Equiparazione ad un “maltrattamento” – Violazione – Indagine efficace – Insufficiente attività d’indagine sulle credibili accuse di maltrattamenti da parte della polizia – Violazione.

RIFERIMENTI GIURISPRUDENZIALI

Corte e.d.u. Kudła c. Polonia [GC], 26 ottobre 2000; Corte e.d.u. Labita c. Italia [GC], 6 aprile 2000; Corte e.d.u. Assenov ed altri c. Bulgaria, 28 ottobre 1998; Corte e.d.u. Salman c. Turchia [GC], 27 giugno 2000; Corte e.d.u. Söderman c. Svezia [GC], 12 novembre 2013; Corte e.d.u. Gutsanovi c. Bulgaria, 15 ottobre 2013; Corte e.d.u. Lyapin c. Russia, 24 luglio 2014; Corte e.d.u. Samesov c. Russia, 20 novembre 2018; Corte e.d.u. Olisov e altri c. Russia, 2 maggio 2017.

RIFERIMENTI NORMATIVI

Cost., art. 13

Convenzione E.D.U., art. 3

Codice di procedura penale, art. 386

PRONUNCIA SEGNALATA

Corte EDU, Sez. III, sentenza 12 novembre 2019 (n. 37735/09), A. c. Russia

Abstract

Integra un “maltrattamento”, in quanto tale rientrante nel divieto di trattamenti inumani e degradanti, previsto dall’art. 3 della Convenzione EDU, l’aver sottoposto una minore alla scena dell’arresto violento del padre, produttiva di gravi traumi psicologici, senza alcuna pianificazione da parte della polizia delle modalità di esecuzione, essendo prevedibile la presenza della minore al momento dell’arresto.

– Viola il divieto di trattamenti inumani e degradanti, previsto dall’art. 3 della Convenzione EDU, sotto il profilo procedurale, il mancato avvio di un’indagine preliminare effettiva a seguito delle accuse di maltrattamenti eseguiti dalla polizia nel corso di un arresto, dovendosi qualificare come superficiale ed inefficace una mera indagine interna.

Il caso

Il caso, deciso il 12 novembre u.s., traeva origine da un ricorso (n. 37735/09) contro la Russia, presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione e.d.u., dalla sig.ra A, una cittadina russa residente ad Apsheronsk (Russia).

Nel maggio 2008 il padre della sig.ra A., all’epoca dei fatti agente di polizia, venne arrestato nel corso di un’operazione segreta organizzata dal Servizio federale per il controllo della droga (“la FSKN”). L’operazione ebbe luogo fuori dalla scuola, dopo che il padre l’aveva accompagnata ad un evento di fine anno, mentre la ragazzina stava per salire nella macchina del padre per tornare a casa. Secondo il racconto della sig.ra A., gli agenti di polizia avevano violentemente gettato a terra il padre, ripetutamente prendendolo a calci all’altezza del busto. Alla fine, la ragazzina era riuscita ad aprire la portiera della macchina, allontanandosi precipitosamente. Venne trovata in stato di shock per strada da uno zio e portata a casa. Poco dopo, le venne diagnosticato un disturbo neurologico, enuresi e un disturbo post-traumatico da stress, che, in base al suo racconto, era migliorato solo diversi anni dopo.

Nel luglio 2008 la madre della ragazza aveva presentato un esposto alla Procura della Repubblica, denunciando il fatto che la figlia era presente al pestaggio e che quanto avvenuto in sua presenza le aveva provocato danni alla salute. Era stata quindi avviata un’indagine. Tuttavia, le autorità giudiziarie non avevano avviato un procedimento penale, ritenendo che la forza fisica non era stata usata contro il padre della ragazzina, e che, quindi, non vi erano elementi per poter ritenere che un reato fosse stato commesso. A sostegno di tale assunto, le autorità inquirenti avevano ritenuto attendibili le dichiarazioni di coloro che erano stati presenti al momento del fatto, in particolare gli ufficiali della FSKN e i testimoni dell’operazione sotto copertura, oltre che i referti della struttura in cui il padre era stato trattenuto in stato di detenzione subito dopo il suo arresto, da cui non risultava che questi avesse riportato lesioni.

La madre della ragazzina aveva proposto ricorso davanti ai giudici nazionali, i quali, nell’ottobre 2008, ritennero corretta la decisione di non avviare un procedimento penale. Nel frattempo, il procedimento penale avviato contro il padre della ragazzina per la vendita di cannabis era stato archiviato nel dicembre 2009 perché le prove acquisite nei suoi confronti erano state ottenute illegalmente ed erano quindi inutilizzabili.

Il ricorso e le norme violate

Nell’adire la Corte di Strasburgo, basandosi in particolare sull’articolo 3 (divieto di trattamenti disumani o degradanti), sull’articolo 13 (diritto ad un efficace rimedio) e sull’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione europea, la sig.ra A. si era lamentata del fatto che l’aver assistito al pestaggio di suo padre le avesse comportato gravi conseguenze per la sua salute. La donna sosteneva in particolare che l’arresto era avvenuto vicino alla scuola e, quindi, le autorità avrebbero dovuto prevedere la probabilità che ella potesse essere presente. Aveva anche sostenuto che l’indagine pre-investigativa su quanto avvenuto era stata superficiale e inadeguata.

La decisione

Innanzi tutto, la Corte EDU ha rilevato che l’accusa della ragazza di aver assistito all’arresto di suo padre, riferendo di aver assistito al pestaggio, era credibile. La Corte non ha potuto escludere che la presunta forza usata contro il padre – in particolare l’essere stato sbattuto a terra e preso a calci più volte – non avesse lasciato tracce visibili sul corpo, come lui stesso aveva dichiarato. Il padre e un altro testimone avevano infatti affermato che gli ufficiali della FSKN indossavano tute da ginnastica, il che lasciava presumere che gli stessi indossassero anche scarpe da ginnastica, piuttosto che stivali di tipo militare, il che spiegava la ragione per cui non fossero presenti lividi o abrasioni.

Inoltre, le dichiarazioni degli ufficiali della FSKN, delle autorità giudiziarie e del Governo, i quali avevano concluso che nessuna forza era stata usata contro il padre, non erano del tutto credibili alla luce delle dichiarazioni di altri testimoni, in particolare di un ufficiale del Servizio di sicurezza federale presente durante l’arresto, il quale aveva invece riconosciuto che gli agenti della polizia avevano usato la forza. La violenza dell’arresto era stata anche confermata da un elettricista che stava eseguendo alcuni lavori di manutenzione sui semafori vicino alla scuola dove era avvenuto l’arresto. La Corte ha ritenuto non convincenti le motivazioni dell’indagine interna che aveva dichiarato inattendibile quanto dichiarato dall’elettricista, vale a dire che questi era un presunto tossicodipendente. Non erano stati forniti dettagli in merito a eventuali procedimenti amministrativi avviati nei suoi confronti quale assuntore di stupefacenti. Né, nonostante l’importanza della sua testimonianza per stabilire i fatti, se fosse mai stato effettivamente sentito dal collegio investigativo che aveva eseguito l’inchiesta pre-investigativa. In effetti, la persona che aveva svolto l’indagine interna era lui stesso un ufficiale della FSKN, ciò che poneva problemi sulla sua indipendenza.

Infine, la Corte EDU ha ritenuto che le dichiarazioni dei due testimoni che avevano confermato che l’operazione si era svolta sotto copertura, secondo i quali nessuna forza fisica era stata usata contro il padre della ragazzina, non avevano alcun valore. Ed infatti, uno di quei testimoni aveva successivamente riconosciuto di aver dichiarato il falso nei procedimenti penali contro il padre della minore su richiesta degli ufficiali della FSKN. Era anche emerso, dalle loro dichiarazioni, che gli stessi non avrebbero potuto vedere il padre mentre veniva arrestato. Le loro dichiarazioni, nonché i risultati della decisione di avviare il procedimento penale contro il padre della ragazzina, avevano quindi screditato le spiegazioni degli ufficiali della FSKN.

Le autorità, tuttavia, avevano “risposto” alle accuse credibili della minore solo con l’avvio di un’indagine pre-investigativa, rifiutandosi di avviare un procedimento penale e di svolgere, quindi, un’indagine vera e propria. La Corte EDU ha riscontrato che l’inchiesta non aveva forni-to al Governo prove idonee a mettere in dubbio le accuse credibili della ragazza riguardo al fatto di essersi trovata esposta all’arresto violento del padre, che la Corte ha pertanto ritenuto provato. Inoltre, le autorità non avevano tenuto conto degli interessi della minore, che aveva solo nove anni a quel tempo, nella fase della pianificazione e dello svolgimento delle operazioni nei confronti del padre. Gli agenti delle forze dell’ordine, i quali erano ben consapevoli del fatto che la ragazzina si trovava sulla scena dell’operazione, avevano proceduto senza prestare attenzione alla sua presenza, esponendola così ad una scena di violenza contro il padre, senza alcuna resistenza da parte sua. Ciò che l’aveva profondamente colpita, secondo la Corte, essendo dunque venute meno le autorità al loro dovere di prevenirne il “maltrattamento”, con conseguente violazione dell’obbligo positivo che incombe allo Stato ai sensi dell’articolo 3.

La Corte EDU ha poi accertato che v’era stata un’ulteriore violazione dell’articolo 3 per quanto riguardava la mancanza di un’effettiva indagine su quanto occorso il 31 maggio 2008. Il semplice svolgimento di un’indagine pre-investigativa, non seguita da un’indagine preliminare, era insufficiente affinché le autorità si conformassero ai requisiti di un’indagine efficace sulle credibili accuse di maltrattamenti da parte della polizia ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione EDU.

Alla luce di quanto sopra, la Corte EDU ha pertanto ritenuto che non fosse necessario esaminare separatamente le doglianze della ragazza ai sensi dell’articolo 13 della Convenzione concernenti la mancanza di un’effettiva indagine o ai sensi dell’articolo 8, in quanto basate sugli stessi fatti oggetto del ricorso proposto ai sensi dell’art. 3.

I precedenti della Corte EDU sul tema del divieto di maltrattamenti

Deve essere qui ricordato come la Corte ha sempre affermato che l’articolo 3 della Convenzione sancisce uno dei valori fondamentali della società democratica. Vieta in termini assoluti la tortura, i trattamenti o le pene disumane o degradanti, indipendentemente dalle circostanze e dal comportamento della vittima (caso Kudła c. Polonia [GC], 26 ottobre 2000, n. 30210/96). Quando un individuo rilascia un’affermazione credibile di aver subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 da parte della polizia o di altro tipo di agenti simili dello Stato, tale disposizione, letta in combinato disposto con il dovere generale dello Stato ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione di “garantire a tutti, all’interno della propria giurisdizione, i diritti e le libertà definiti nella Convenzione”, richiede implicitamente che ci debba essere un’efficace indagine ufficiale. Tale indagine dovrebbe essere in grado di portare all’identificazione e alla punizione dei responsabili (caso Labita c. Italia [GC], 6 aprile 2000, n. 26772/95). Le accuse di maltrattamenti contrarie all’articolo 3 della Convenzione devono certo essere supportate da prove adeguate. Per stabilire i fatti, la Corte applica lo standard della prova “oltre ogni ragionevole dubbio” (caso Irlanda c. Regno Unito, 18 gennaio 1978, n. 5310/71). Tuttavia, tale prova può derivare dalla coesistenza di elementi indiziari sufficientemente dotati dei consueti caratteri della gravità, precisione e concordanza, o di simili evidenze probatorie non superabili mediante presunzioni di fatto (caso Salman c. Turchia [GC], 27 giugno 2000, n. 21986/93).

Per quanto riguarda i minori, che sono particolarmente vulnerabili, le misure applicate dallo Stato per proteggerli da atti di violenza che rientrano nel campo di applicazione degli articoli 3 e 8 dovrebbero essere efficaci e includere ragionevoli misure per prevenire i maltrattamenti di cui le autorità avevano o avrebbero dovuto avere conoscenza, oltre che presentare una deterrenza efficace contro violazioni così gravi di integrità personale. Tali misure devono mirare a garantire il rispetto della dignità umana e la protezione del superiore interesse del minore (caso Söderman c. Svezia [GC], 12 novembre 2013, n. 5786/08, in cui come è noto, venne riscontrata la violazione dell’art. 8 della Convenzione EDU sotto il profilo del mancato rispetto della vita privata, essendo venuto meno lo Stato agli obblighi positivi di tutela non apprestando chiare disposizioni di legge che criminalizzassero l’atto di filmare di nascosto una minore nuda).

In uno specifico precedente, la Corte EDU ha riscontrato in un caso analogo a quello qui esaminato (caso Gutsanovi c. Bulgaria, 15 ottobre 2013, n. 34529/10) che la possibile presenza di minori, la cui giovane età li rende psicologicamente vulnerabili, sulla scena di un arresto, è un fattore da prendere in considerazione nella pianificazione e realizzazione di questo tipo di operazione. In quel caso la Corte EDU ebbe a rilevare che il fatto che l’operazione di polizia fosse avvenuta nelle prime ore del mattino e aveva coinvolto agenti speciali che indossavano delle maschere che coprivano i loro volti, aveva contribuito ad accrescere il senso di paura e ansia provati dai bambini che avevano assistito all’arresto del padre, nella misura in cui il trattamento a cui erano stati sottoposti aveva superato la soglia di gravità richiesta per l’applicazione dell’articolo 3, equivalente ad un trattamento degradante.

I precedenti della Corte EDU sul tema dell’’indagine efficace

Quanto, infine, all’ulteriore violazione procedurale dell’art. 3 della Convenzione, riscontrata nel caso in esame, i giudici di Strasburgo tradizionalmente affermano che il mero svolgimento di un’indagine pre-investigativa, non seguita da un’indagine preliminare seriamente condotta, è insufficiente affinché possa dirsi rispettato da parte delle autorità il requisito dell’indagine efficace a fronte di accuse credibili di maltrattamenti da parte della polizia ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione (caso Lyapin c. Russia, 24 luglio 2014, n. 46956/09; più recentemente, caso Samesov c. Russia, 20 novembre 2018, n. 57269/14). Il fatto, quindi, che una seria e credibile indagine non fosse stata avviata al fine di escludere la credibilità delle accuse della minore di essere stata esposta alla visione del violento arresto di suo padre, comporta che dette modalità violente vengano date per accertate dalla stessa Corte (caso Olisov e altri c. Russia, 2 maggio 2017, n. 10825/09).

CLASSIFICAZIONE

MISURE DI PREVENZIONE PERSONALI E PATRIMONIALI

Ancora sulla legittimità del sistema di prevenzione italiano in relazione alle fonti convenzionali e dell’UE

RIFERIMENTI NORMATIVI

Costituzione, art. 117;

Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE), art. 17;

Convenzione EDU, art. 1 Protocollo addizionale n. 1;

D. Lgs. n. 159 del 2011, artt. 16 e 24.

SENTENZA SEGNALATA

Cass. pen., Sezione II, sentenza n. 31549 del 6 giugno / 17 luglio 2019.

Abstract. Con la sentenza segnalata, la II sezione penale della Corte di cassazione, chiamata sotto plurimi profili a valutare la compatibilità del sistema di prevenzione italiano con le fonti convenzionali e dell’UE, ha dichiarato manifestamente infondate tutte le questioni di legittimità costituzionale proposte, puntualizzando altresì i rapporti tra procedimento penale e di prevenzione.

1. La II Sezione penale è stata chiamata ad esaminare, tra le altre, una « questione di legittimità costituzionale e pregiudiziale di legittimità comunitaria in relazione agli artt. 16 e 24 del D. Lgs. n. 159/2011 in relazione all’art. 117 Cost. (nella misura in cui richiama l’art. 1 del protocollo 1 CEDU) ed all’art. 17 della Carta dei Diritti Fondamentali UE ».

1.1. Secondo i ricorrenti, gli artt. 16 e 24 D. Lgs. n. 159 del 2011, che individuano i soggetti destinatari e le condizioni per l’adozione della confisca di prevenzione, sarebbero formulati con genericità ed onnicomprensività, risultando irrispettosi delle esigenze di determinatezza richieste dalla Corte EDU e tali da non consentire di salvaguardare il diritto di proprietà, tutelato dall’art. 17 CDFUE; l’asserita indeterminatezza della descrizione normativa dei presupposti di fatto rilevanti ai fini del giudizio prognostico sulla pericolosità sociale del soggetto violerebbe sia la Convenzione EDU che la CDFUE (il cui 17 prevede che la privazione dei beni può avvenire solo alle condizioni “previste dalla legge”) anche ove non si voglia riconoscere alle misure di prevenzione patrimoniali previste dall’art. 24 cit. natura di sanzione penale: peraltro, in successive memorie successive la confisca di prevenzione è stata configurata dai ricorrenti come una sorta di sanzione penale, il che comporterebbe evidenti conseguenze anche sul necessario grado di determinatezza della previsione normativa.

1.2. Il collegio ha dichiarato le dedotte questioni di legittimità costituzionale manifestamente infondate in riferimento a tutti i profili indicati dai ricorrenti.

Si è, in primo luogo, osservato che l’art. 17 della CDFUE (a norma del quale “Ogni persona ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquisito legalmente” e “Nessuna persona può essere privata della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge …”) enuncia principi coincidenti con quelli di cui all’art. 42 Cost. e conformi ai principi generali della Convenzione EDU, e comunque garantisce il diritto di godere della proprietà dei beni acquisiti “legalmente”, mentre quelli oggetto della confisca di prevenzione sono per definizione beni che, ricorrendo determinate condizioni, « si ha ragione di ritenere che siano stati acquisiti “illegalmente”»; inoltre, è certamente configurabile un “pubblico interesse” all’aggressione di patrimoni in disponibilità di soggetti ritenuti pericolosi, ove si accerti, sulla base di regole effettivamente “previste dalla legge”, che detti patrimoni costituiscano oggetto di illecita accumulazione.

D’altro canto, la stessa giurisprudenza costituzionale (Corte cost., sentenza n. 24 del 2019, le cui argomentazioni sono ampiamente riepilogate in motivazione dalla decisione che si segnala) ha recentemente confermato che il predetto interesse pubblico può essere riferito non soltanto ai casi di c.d. “pericolosità qualificata” (ed alla connessa esigenza di contrastare le attività della criminalità organizzata), ma anche in riferimento ai patrimoni dei soggetti cc.dd. “pericolosi generici”, ed ha anche ritenuto la determinatezza della normativa di settore (pure messa in discussione dai ricorrenti), atteso che l’art. 16 D. Lgs. n. 159 del 2011 richiama, quanto all’individuazione dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione di carattere patrimoniale, i “soggetti di cui all’art. 4”, il quale a sua volta richiama non solo “i soggetti indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. od indiziati di aver commesso altri reati comunque legati a vicende di criminalità organizzata” [art. 4, comma 1, lett. a) e b)], ma anche quelli “di cui all’art. 1, lett. a) e b)”, cioè i c.d. “pericolosi generici”.

In proposito, sono state ricordate:

– la declaratoria d’illegittimità costituzionale per difetto della necessaria determinatezza, non emendato dal diritto vivente, dell’art. 1, lett. a), D. Lgs. n. 159 del 2011, essendo la nozione di «traffici delittuosi» dichiaratamente non circoscritta a delitti produttivi di profitto, e non potendo, quindi, il riferimento ad essa legittimare, dal punto di vista costituzionale, misure ablative di beni posseduti dal soggetto che risulti avere commesso in passato tali delitti, difettando in tal caso il fondamento stesso di quella presunzione di ragionevole origine criminosa dei beni, costituente la ratio di tali misure;

– la contestuale declaratoria d’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 20 e 24 D. Lgs. n. 159 del 2011, sollevate con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Conv. EDU: anche per tale ragione, è stata dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale che sostanzialmente riproponeva interrogativi cui era già stata data compiuta risposta.

2. Le difese denunciavano anche questione di legittimità costituzionale degli artt. 10, comma 3, e 27, comma 2, D. Lgs. n. 159 del 2011, nella parte in cui limitano alla sola violazione di legge la proponibilità del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti di confisca adottati nell’ambito dei procedimenti di prevenzione e nella parte in cui prevedono una contrazione del termine (dieci giorni) per proporre il ricorso per cassazione.

2.1. Il collegio ha dichiarato anche tali questioni di legittimità costituzionale manifestamente infondate (quella riguardante il secondo profilo era anche irrilevante ai fini della decisione).

La giurisprudenza costituzionale (Corte cost., sentenze n. 106 del 2015 e n. 321 del 2004) ha, in più occasioni, ritenuto immune da vizi di legittimità costituzionale la disciplina che limita la facoltà di proporre ricorso per cassazione alla sola denuncia delle violazioni di legge, per il rilievo che il confronto con il procedimento penale non può essere fatto, trattandosi « di settori direttamente non comparabili », ed anche perché si tratta di procedimenti dotati di proprie peculiarità, sia sul terreno processuale che quanto ai presupposti sostanziali; d’altra parte, « è giurisprudenza costante (…) che le forme di esercizio del diritto di difesa possano essere diversamente modulate in relazione alle caratteristiche di ciascun procedimento, allorché di tale diritto siano comunque assicurati lo scopo e la funzione (…) e, di conseguenza, non può ritenersi lesivo dei parametri evocati che i vizi della motivazione siano variamente considerati a seconda del tipo di decisione cui ineriscono »; d’altro canto, nel procedimento di prevenzione è prevista la possibilità di ricorrere alla Corte di appello anche per il merito e, dopo un secondo grado di merito, può ritenersi legittima la limitazione del sindacato di legittimità alla sola violazione di legge.

In conclusione, secondo il collegio, « alla luce di tale decisum e del fatto che sul punto il quadro normativo nazionale e comunitario non ha subito modifiche di rilievo, non si può (…) che ritenere la manifesta infondatezza della questione di incostituzionalità qui esaminata »; sempre in considerazione delle peculiarità che caratterizzano il procedimento di prevenzione rispetto al procedimento penale, è stata dichiarata manifestamente infondata la questione sollevata sotto il profilo ulteriore (peraltro motivatamente ritenuta anche priva di rilievo ai fini della decisione).

3. La II Sezione penale è stata anche chiamata ad esaminare (su istanza di un ricorrente sottoposto a misura di prevenzione patrimoniale pur essendo incensurato – l’unico procedimento a suo carico era ancora pendente in primo grado – e nonostante il fatto che le decisioni della Giustizia Tributaria collegate alle vicende oggetto del procedimento di prevenzione instaurato in suo danno fossero state tutte a lui favorevoli) la tematica dei rapporti tra procedimento penale e procedimento di prevenzione.

Il collegio ha premesso che

« la necessità di “tassativizzare” il contenuto della suddetta normativa è sorta, in specie, dopo la sentenza della Grande Camera della Corte Edu pronunciata il 23 febbraio 2017, nel caso De Tommaso contro Italia, con la quale la Corte EDU ravvisò la violazione dell’art. 2 del Protocollo n. 4 alla Convenzione EDU in quanto l’art. 1 del d.Lgs. cit. non soddisfa gli standard qualitativi in termini di precisione, determinatezza e prevedibilità che deve possedere ogni norma che interferisca con i diritti della persona, sicché la valutazione della pericolosità è rimessa alla discrezionalità del giudice senza che il cittadino possa, ex ante, conoscere quali comportamenti in concreto possano dar luogo alla misura (§§ 117-118 della motivazione) ».

Ha, quindi, osservato che la disciplina dettata dagli artt. 29 D. Lgs. n. 159 del 2011 (rubricato “Indipendenza dall’esercizio dell’azione penale”) e 28 stesso D. Lgs. (che disciplina la revocazione della confisca), « consente di ribadire il risalente e mai smentito principio secondo il quale i procedimenti penali e di prevenzione sono assolutamente autonomi, proprio perché l’uno non è pregiudiziale all’altro », ricordando che, secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, le « misure di prevenzione previste dalle leggi italiane (…) non implicano un giudizio di colpevolezza, ma mirano a prevenire il compimento di atti criminali (…). Inoltre, la loro imposizione non dipende dalla preventiva pronuncia di una condanna per infrazione penale (…) esse non possono dunque essere paragonate ad una pena » (così Corte EDU, Sez. II, 17/05/2011, caso Capitani e Campanella c. Italia; nel medesimo senso, cfr. Corte cost. n. 24 del 2019, §§ 9.7. ss).

Diverso è anche l’onere probatorio che occorre, da una parte, per legittimare la condanna penale e, dall’altra, ai fini dell’accertamento della pericolosità sociale prodromico all’imposizione di una misura di prevenzione:

« in sede penale, l’imputato può essere condannato solo ove l’accusa abbia fornito un quadro probatorio formato da indizi “gravi, precisi e concordanti” (art. 192 cod. proc. pen.) che consenta di ritenere l’imputato colpevole “al di là di ogni ragionevole dubbio” (art. 533/1 cod. proc. pen.), tant’è che deve pronunciarsi assoluzione anche «quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussista, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile» (art. 530/2 cod. proc. pen.) ».

Diversamente, ai fini del giudizio di prevenzione non è richiesta una soglia così elevata per l’accertamento della pericolosità, tant’è che, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità:

« a) «nel giudizio di prevenzione, proprio in ragione della sua autonomia dal processo penale, la prova indiretta o indiziaria non deve essere dotata dei caratteri prescritti dall’art. 192 cod. proc. pen., con la logica conseguenza che le chiamate in correità o in reità non devono essere necessariamente qualificate dai riscontri individualizzanti, ai fini dell’accertamento della pericolosità»: ex plurimis Sez. 6, n. 921/2014, dep. 2015, Rv 261842; Sez. 1, n. 6613/2008 Rv 239358;

b) possono essere ritenuti sufficienti anche quegli indizi che, in sede penale, hanno portato all’assoluzione dell’imputato ex art. 530/2 cod. proc. pen.: ex plurimis, Sez. 6 n. 921/2014 cit.; Sez. 1, n. 806/1988 Rv 178117; Sez. 1, n. 2/1985, Rv 167762;

c) è legittimo addurre, a sostegno del giudizio di pericolosità sociale del prevenuto, elementi risultanti dal giudizio penale di cognizione conclusosi con sentenza di patteggiamento che, quantunque non sia una decisione che accerta la responsabilità, non è, tuttavia, una conclusione assolutoria per l’imputato: Sez. 1, n. 2142/1998, Rv 211032».

Il collegio ha ricordato, in proposito, che nei medesimi termini, quanto alle differenze esistenti tra il giudizio penale e quello di prevenzione, si è espressa la Corte costituzionale con la sentenza n. 24 del 2019 (§ 12.1.):

« occorre subito eliminare ogni equivoca sovrapposizione tra il concetto di tassatività sostanziale, relativa al thema probandum, e quello di cosiddetta tassatività processuale, concernente il quomodo della prova. Mentre il primo attiene al rispetto del principio di legalità (…) inteso quale garanzia di precisione, determinatezza e prevedibilità degli elementi costitutivi della fattispecie legale che costituisce oggetto di prova, il secondo attiene invece alle modalità di accertamento probatorio in giudizio, ed è quindi riconducibile a differenti parametri costituzionali e convenzionali – tra cui, in particolare, il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e il diritto a un “giusto processo” ai sensi, assieme, dell’art. 111 Cost. e dall’art. 6 CEDU – i quali, seppur di fondamentale importanza al fine di assicurare la legittimità costituzionale del sistema delle misure di prevenzione, non vengono in rilievo ai fini delle questioni di costituzionalità ora in esame. Non sono, dunque, conferenti in questa sede i pur significativi sforzi della giurisprudenza – nella perdurante e totale assenza, nella legislazione vigente, di indicazioni vincolanti in proposito per il giudice della prevenzione – di selezionare le tipologie di evidenze (genericamente indicate nelle disposizioni in questione quali «elementi di fatto») suscettibili di essere utilizzate come fonti di prova dei requisiti sostanziali delle “fattispecie di pericolosità generica” descritte dalle disposizioni in questa sede censurate: requisiti consistenti – con riferimento alle ipotesi di cui alla lettera a) dell’art. 1 del d.lgs. n. 159 del 2011 – nell’essere i soggetti proposti “abitualmente dediti a traffici delittuosi” e – con riferimento alla lettera b) – nel vivere essi “abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose” ».

D’altro canto, il collegio osserva che, sotto questo profilo, l’assetto del procedimento di prevenzione ha sempre “resistito”:

– sia a livello costituzionale, poiché la giurisprudenza costituzionale, tutte le volte che è stata investita di questioni inerenti alla costituzionalità “intrinseca” del sistema della prevenzione, sia personale che patrimoniale, le ha sempre respinte (cfr. Corte cost., nn. 11/1956, 27/1957, 23/1964, 368/1964, 721/1988, 465/1993, 487/1995, 335/1996, 21 e 216 del 2012 oltre che, da ultimo, n. 24/2019, che ha espressamente recepito l’interpretazione che la giurisprudenza di legittimità ha dato dell’aggettivo “delittuoso”, dell’avverbio “abitualmente”, del termine “traffici” delittuosi);

– sia a livello convenzionale (Corte EDU, Grande Camera, 22/02/1994, Raimondo; Sez. II, 15/06/1999, Prisco; Grande Camera, 06/04/2000, Labita; Sez. II, 05/07/2001, Arcuri; Sez. I, 04/09/2001, Riela; Sez. II, 05/01/2010, Bongiorno; Sez. II, 06/07/2011, Pozzi; Sez. II, 17/05/2011, Capitani e Campanella, cit.; sez. I, 02/03/2017, Talpis: tutti casi nei quali era naturalmente resistente sempre l’Italia).

Il collegio non ha mancato di evidenziare che normativa dell’UE è coerente con i suddetti principi di origine giurisprudenziale:

« l’art. 2 della Decisione Quadro 2005/212/GAI del Consiglio del 24 febbraio 2005, avente ad oggetto “la confisca di beni, strumenti e proventi di reato”, dispone che “1. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie per poter procedere alla confisca totale o parziale di strumenti o proventi di reati punibili con una pena privativa della libertà superiore ad un anno o di beni il cui valore corrisponda a tali proventi”: il che significa che la legislazione europea consente le misure ablative per beni provento da reato, senza, quindi, che sia necessario che il proposto abbia dovuto necessariamente subire una condanna a seguito del processo intentatogli. La suddetta norma è rimasta in vigore anche a seguito dell’emanazione della direttiva 2014/42/UE che, pur prevedendo la confisca a seguito di condanna (art. 4), da una parte, ex art. 14/1, non ha abrogato il cit. art. 2 (al contrario dell’art. 3) e, dall’altra, ex art. 1 (rubricato come “Oggetto” della direttiva), ha chiarito che “1. La presente direttiva stabilisce norme minime relative al congelamento di beni, in vista di un’eventuale conseguente confisca, e alla confisca di beni in materia penale. 2. La presente direttiva non pregiudica le procedure che gli Stati membri possono utilizzare per confiscare i beni in questione”: il che è come dire che, siccome le norme contenute nella direttiva costituiscono un minimum al quale gli Stati membri devono attenersi, i suddetti Stati (e, quindi, l’Italia) hanno la facoltà di ricorrere a procedure (diverse) per confiscare i beni “in materia penale” nel senso che possono stabilire la confisca anche se, a monte, non vi sia alcuna condanna penale, come, appunto, è previsto nel nostrano sistema delle misure di prevenzione” ».

Pur se la genericità del sintagma “attività delittuose” potrebbe far sorgere dubbi sul possibile difetto di tassatività della relativa previsione e, quindi, sulla “cattiva qualità” di essa, già evidenziata dalla Corte EDU, Grande Camera, 23/02/2017, caso De Tommaso c. Italia, la giurisprudenza di legittimità, anche per impulso di quella costituzionale, era già addivenuta ad un’interpretazione restrittiva e tassativizzante del suddetto sintagma, affermando che esso dev’essere pur sempre interpretato in uno all’ulteriore sintagma “elementi di fatto”:

« si può, quindi, ritenere (…) che gli “elementi di fatto” addebitati al proposto devono avere un disvalore penale nel senso che quei fatti, per essere posti a fondamento di una pronuncia di pericolosità sociale, devono poter essere sussunti in fattispecie penali produttive di reddito illecito. Ed è proprio alla stregua di tale interpretazione tassativizzante, che, da ultimo, la Corte cost., con la sentenza n. 24 del 2019, ha ritenuto la legittimità costituzione dell’art. 1/1 lett. b) D.Lgs. cit. in quanto “espressiva della necessità di predeterminazione non tanto di singoli ‘titoli’ di reato, quanto di specifiche ‘categorie’ di reato. Tale interpretazione della fattispecie permette di ritenere soddisfatta l’esigenza (…) di individuazione dei «tipi di comportamento» («types of behaviour») assunti a presupposto della misura. Le “categorie di delitto” che possono essere assunte a presupposto della misura sono in effetti suscettibili di trovare concretizzazione nel caso di specie esaminato dal giudice in virtù del triplice requisito – da provarsi sulla base di precisi “elementi di fatto”, di cui il tribunale dovrà dare conto puntualmente nella motivazione (art. 13, secondo comma, Cost.) – per cui deve trattarsi di

a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto;

b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui;

c) i quali a loro volta costituiscano – o abbiano costituito in una determinata epoca – l’unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito ».

4. La decisione segnalata, dopo aver conclusivamente ribadito l’autonomia tra il procedimento penale e quello di prevenzione, ha valutato se e in che termini il processo penale possa interferire con quello di prevenzione, enucleando le seguenti fattispecie:

a) materiale probatorio prodotto nell’ambito del giudizio di prevenzione, derivante da processi penali già conclusi;  

b) materiale probatorio acquisito dal Pubblico Ministero a seguito di indagini, e:

– non sottoposto al vaglio del giudice penale;

– sottoposto al vaglio di un giudizio penale in corso.

Le conseguenti valutazioni, pur di grande rilievo applicativo, non riguardano temi di rilievo sovranazionale.

CLASSIFICAZIONE

TRIBUTI – RICORSO INTRODUTTIVO – TERMINI – IUS SUPERVENIENS – APPLICAZIONE ART. 6 CEDU

RIFERIMENTI NORMATIVI

art. 6 CEDU – ART. 16 DPR 636 DEL 1972

PRONUNCIA SEGNALATA – Cass. civ, sez. V, n. 24698 del 2019, pres. Napolitano, rel. Guida

Abstract

         Lo ius superveniens, che estende i termini per proporre un ricorso giurisdizionale, è di immediata applicazione nei processi in corso, anche alla luce dell’interpretazione dell’art. 6 Convenzione fornita dalla Corte EDU, secondo cui, nell’interpretazione della legge processuale, occorre evitare gli eccessi di formalismo in punto di ammissibilità o ricevibilità dei ricorsi, consentendo, per quanto possibile, la concreta esplicazione del diritto di accesso alla giustizia.

1. Il caso

L’analisi della questione di diritto alla base del presente documento richiede una breve descrizione dei fatti storici, che affondano le proprie radici in anni piuttosto remoti.

In data 1.4.1980, il Fondo Pensione Agenti Professionisti di Assicurazione chiedeva il rimborso di quanto versato a titolo di acconto e saldo irpeg per l’anno 1978, ritenendo che, in base all’art. 41 dell’allora vigente dPR 29 settembre 1973, n. 597, gli interessi maturati sui contributi degli iscritti non dovessero, in realtà, concorrere alla base imponibile.

A fronte del silenzio rifiuto sull’istanza di rimborso, l’ente lo impugnava davanti alla Commissione Tributaria Provinciale (CTP) di Roma, che accoglieva il ricorso. La decisione era, poi, confermata dalla Commissione Tributaria Regionale (CTR), che respingeva l’appello dell’ufficio.

L’ufficio ricorreva all’allora esistente Commissione Tributaria Centrale (CTC): dalla sentenza in commento si evince che oggetto di discussione era la tardività del ricorso in primo grado, ai sensi dell’art. 16 dpr 636 del 1972, nel testo vigente ratione temporis, secondo cui il ricorso andava proposto “salve  diverse  disposizioni  delle  singole leggi  d’imposta, entro  sessanta giorni dal rifiuto o dalla scadenza dei novanta giorni” (in quest’ultimo caso, qualora vi fosse stato silenzio rifiuto). In sostanza, centocinquanta giorni dall’istanza di rimborso.

Sulla base di questa disposizione, essendo stato il ricorso originario del contribuente proposto in data 19.9.1981, la CTC accoglieva il gravame dell’ufficio e lo dichiarava tardivo, in quanto il termine, calcolando anche il periodo di sospensione feriale, sarebbe scaduto il 15.10.1980.

Il contribuente ricorreva, allora, in Cassazione. Con uno dei motivi di ricorso denunciava la mancata applicazione dello ius superveniens nel corso del giudizio. In particolare, l’art. 7 del d.P.R. 739 del 1981 aveva modificato l’art. 16 d.P.R. 636 del 1972 prevedendo, nella parte rilevante ai fini di causa:

Il  termine per   proporre il ricorso  e’ di sessanta  giorni e decorre dalla notificazione   dell’atto  soggetto   ad  impugnazione. La notificazione della cartella esattoriale vale notificazione del ruolo.

 In   caso  di   versamento  diretto  o  qualora  manchino  o  non  siano stati notificati  gli atti  indicati nel primo comma, il contribuente che ritiene di aver  diritto a  rimborsi ne fa istanza all’ufficio tributario competente  nei termini   previsti  dalle    singole  leggi  d’imposta   o,  in mancanza   di disposizioni  specifiche, entro  due anni dal pagamento ovvero, se posteriore, dal giorno in cui sia sorto il diritto alla restituzione.

 Trascorsi   almeno  novanta giorni  dalla  presentazione   dell’istanza  di rimborso, senza che   sia  stato  notificato  il provvedimento dell’ufficio tributario  sulla stessa, il ricorso puo’ essere proposto fino  a quando il diritto al rimborso non e’ prescritto.

2. L’analisi

La Corte ha ritenuto fondato il motivo di ricorso, con considerazioni che hanno coinvolto anche principi della CEDU.

Punto centrale ai fini della decisione è l’applicazione o meno dello ius superveniens sopra ricordato, cioè l’introduzione in corso di causa dell’art. 7 d.P.R. 739 del 1981 che, modificando l’art. 16 d.P.R. 636 del 1972, ha previsto che, nei casi di silenzio rifiuto formatosi dopo novanta giorni dalla presentazione della domanda di rimborso, il ricorso giurisdizionale può essere proposto fino a quando il diritto al rimborso non è prescritto.

Come ricorda la sentenza, la nuova normativa, entrata in vigore l’1.1.1982, e quindi mentre il presente contenzioso era in corso, ha sostituito un termine breve di decadenza con il termine di prescrizione, notevolmente più lungo.

La sentenza ha ritenuto lo ius superveniens direttamente applicabile al giudizio in corso, essenzialmente sulla base del principio del “giusto processo” in senso lato, di cui all’art. 6 della Convenzione EDU come interpretato dalla Corte di Strasburgo, nella sua declinazione che si può definire di “accesso alla giustizia”, nel senso che

gli organi giudiziari degli Stati membri, nell’interpretazione della legge processuale: “devono evitare gli eccessi di formalismo, segnatamente in punto di ammissibilità o ricevibilità dei ricorsi, consentendo per quanto possibile, la concreta esplicazione di quel diritto di accesso ad un tribunale previsto e garantito dall’art. 6 della CEDU del 1950” (Corte EDU, II sezione, 28.6.2005, Zednìk c. Repubblica Ceca, in causa 74328/01; Corte EDU, I sez., 21.2.2008, Koskina c. Grecia, in causa 2602/06; e Corte EDU, I sez., 24.4.2008. Kemp c. Granducato di Lussemburgo, in causa 17140/05).

Su questa base, ha cassato la sentenza impugnata che aveva dichiarato tardivo il ricorso, con rinvio del procedimento al giudice di secondo grado per l’esame del merito della causa.

3. La giurisprudenza CEDU richiamata

Come detto, la Corte di Cassazione ha risolto la controversia essenzialmente sulla base di principi della Convenzione come interpretati dalla Corte EDU, non esistendo nel diritto interno una norma transitoria che regolasse l’applicabilità dello ius superveniens sopra citato.

Il principio al quale la Corte di Cassazione si è rifatta è quello del “giusto processo” (art. 6 CEDU) nella sua accezione di “accesso alla giustizia”, secondo cui la possibilità di ricorso giurisdizionale, affinché un tribunale esamini il caso che un soggetto vuole portare alla sua attenzione, deve essere la più effettiva possibile, senza eccessive restrizioni, soprattutto di carattere meramente formale, pur lasciando la Corte ampio margine di apprezzamento agli Stati su come regolare tale diritto.

In questo senso, la decisione della Corte EDU Kemp c. Lussemburgo riguarda i criteri eccessivamente formalistici per la proposizione di un ricorso davanti alla Corte Suprema, in cui la Corte ricorda che la réglementation relative aux formalités pour former un recours vise à assurer la bonne administration de la justice et le respect, en particulier, du principe de la sécurité juridique e, quindi, che la regolamentazione delle formalità e modalità per proporre un ricorso deve tendere ad assicurare la buona amministrazione della giustizia.

Nel caso Zdenik c. Repubblica Ceca, la Corte, nella sentenza del 2005, esplicita il suo pensiero nel senso che

si le droit d’exercer un recours est bien entendu soumis à des conditions légales, les tribunaux doivent, en appliquant des règles de procédure, éviter à la fois un excès de formalisme qui porterait atteinte à l’équité de la procédure, et une souplesse excessive qui aboutirait à supprimer les conditions de procédure établies par les loi, e, quindi, nel senso che se l’esercizio del diritto di adire un’autorità giudiziaria è sottoposto a condizioni di legge, i tribunali, nell’applicarlo, devono evitare eccessi di formalismo che comprometterebbero il diritto ad un “giusto” processo, vanificando il diritto stesso.

Nel caso Koskina e altri c. Grecia, deciso dalla Corte nel 2008, i ricorrenti si dolevano del fatto che la Corte di Cassazione greca avesse dichiarato inammissibile uno dei motivi di ricorso nella controversia che li riguardava, perché le circostanze di fatto non erano state esposte in maniera chiara. La Corte EDU, pur con tutte le premesse sul suo ruolo nel valutare tale tipo di ricorsi e sul fatto che il diritto di accesso alla giustizia non è incompatibile con regole nazionali che lo delimitino, ha ritenuto nella specie che vi sia stata violazione dell’art. 6 Convenzione, per un approccio eccessivamente formalistico dei giudici nazionali.

La sentenza in questione è, ovviamente, una applicazione specifica del principio di accesso alla giustizia, legata ad uno specifico caso concreto.

Il tema del diritto di accesso alla giustizia – che fa parte, a sua volta, del più ampio principio del diritto ad un “giusto processo” – è, ovviamente, molto esteso, tanto da essere stato oggetto di una specifica analisi anche da parte dell’Agenzia dei Diritti Fondamentali (FRA), agenzia dell’Unione Europea, che ad esso ha dedicato una specifica pubblicazione, in collaborazione con il Consiglio d’Europa e la stessa cancelleria della Corte EDU  (Manuale di diritto europeo in materia di accesso alla giustizia, 2016, soggetto ad aggiornamenti periodici).

Esso si articola non solo nell’art. 6 Convenzione, ma anche nell’art. 13 della medesima (Diritto ad un ricorso effettivo) e, nell’ambito del diritto UE, si può considerare ricompreso nell’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione.

Come riportato nello stesso manuale, l’articolo 6 della CEDU ha un ambito di applicazione limitato e si applica solo alle controversie concernenti accuse penali, diritti civili e doveri riconosciuti nell’ordinamento interno. L’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE non è altrettanto limitato e si applica a tutti i diritti e le libertà riconosciuti dal diritto dell’UE, che comprendono alcuni ulteriori diritti economici, sociali e culturali. Sussiste, tuttavia, una differenza importante in termini di applicabilità. L’articolo 6 della CEDU si applica a tutte le situazioni che rientrano nella definizione di «accuse penali o diritti e doveri civili». L’articolo 47 della Carta è applicabile solo allorché gli Stati membri attuano il diritto dell’UE.

4. L’art 6 CEDU nella giurisprudenza tributaria recente della Corte di Cassazione

Per quanto il rapporto tra diritto tributario e CEDU sia sempre stato controverso, fin dai tempi della sentenza Ferrazzini c. Italia, occorre, però, rilevare come progressivamente si è avuto un notevole avvicinamento tra i due sistemi.

Va ricordato al riguardo, in particolare, che la Corte di Cassazione oggi applica piuttosto regolarmente i principi della Convenzione nei processi tributari.

Ne sono esempi, con specifico riferimento all’art. 6, tre recentissime sentenze, oltre a quella in commento.

Nel caso trattato da Sez. V, n. 1787 del 2019 si discuteva dell’errata indicazione, per mero errore materiale, dell’atto impugnato, i cui dati corretti peraltro emergevano dagli atti, e la Corte, anche sulla base dell’applicazione dell’art. 6 CEDU, ha dichiarato inammissibile un motivo che tendeva a far valere la nullità della sentenza, ritenendo che una lettura esclusivamente formalistica della situazione non fosse in linea con il principio del “giusto processo”.

Nel caso trattato da Sez. V, n. 23683 del 2019, invece, pur essendosi affermato che occorre, pertanto, che il processo tributario sia coerente con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo -avendo il legislatore costituzionale e ordinario esteso le regole in tema di giusto processo di matrice convenzionale a qualunque controversia giudiziaria, è stato, però, ritenuto che l’adempimento formale di cui si discuteva (l’omesso deposito da parte del contribuente appellante, presso l’Ufficio di Segreteria della CTP che aveva pronunziato la sentenza impugnata, di copia dell’impugnazione notificata, che aveva determinato la pronuncia di inammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 53 comma 2, secondo periodo, d. lvo n. 546/1992 nel testo modificato dall’art. 3-bis D.L. n. 203/2005, conv. in legge n. n. 248/2005, contro la quale lo stesso contribuente ricorreva in cassazione) fosse del tutto compatibile con i principi della Convenzione.

Anche sez V, n. 12134 del 2019 ha ritenuto, in senso sfavorevole al contribuente, che il ricorso privo di sottoscrizione non sia ammissibile, e ciò pur vagliando tale situazione alla luce dell’art. 6 CEDU, in quanto l’imposizione di condizioni, forme e termini processuali, nel rispetto del principio di proporzionalità, risponde ad obiettive esigenze di buona amministrazione della giustizia, soprattutto se si tratta di regole prevedibili e di sanzioni prevenibili con l’ordinaria diligenza.

In altri termini, l’art. 6 CEDU non è la chiave per superare il sistema nazionale di regole e limitazioni dell’accesso alla giustizia, ma è interessante notare, ai fini di questa analisi, come anche nelle decisioni sfavorevoli al contribuente, i principi CEDU facciano, comunque, parte della valutazione giuridica sulla situazione oggetto del caso concreto tributario.

CLASSIFICAZIONE

GIUDIZIO – DIBATTIMENTO – RINNOVAZIONE PER MUTAMENTO DEL GIUDICE – PROVA DICHIARATIVA ASSUNTA DAL PRIMO GIUDICE – UTILIZZABILITA’ MEDIANTE LETTURA – CASI E CONDIZIONI

RIFERIMENTI NORMATIVI

art. 6 Cedu – ART. 111 Cost. – art. 525, comma 2, cod. proc. pen.

PRONUNCIA SEGNALATA – Cass. pen, Sez. un., n. 41736 del 2019, pres. Carcano, rel. Beltrani, ric. P.G. C. A. L’Aquila in proc. c. Bajrami

Abstract

  • Il principio d’immutabilità del giudice, previsto dall’art. 525, comma 2, prima parte, cod. proc. pen., impone che il giudice che provvede alla deliberazione della sentenza sia non solo lo stesso giudice davanti al quale la prova è assunta, ma anche quello che ha disposto l’ammissione della prova, fermo restando che i provvedimenti sull’ammissione della prova emessi dal giudice diversamente composto devono intendersi confermati, se non espressamente modificati o revocati;
  • l’avvenuto mutamento della composizione del giudice attribuisce alle parti il diritto di chiedere, ai sensi degli artt. 468 e 493 cod. proc. pen., sia prove nuove sia la rinnovazione di quelle assunte dal giudice diversamente composto, in quest’ultimo caso indicando specificamente le ragioni che impongano tale rinnovazione, ferma restando la valutazione del giudice, ai sensi degli artt. 190 e 495 cod. proc. pen., anche sulla non manifesta superfluità della rinnovazione stessa;
  • il consenso delle parti alla lettura ex art. 511, comma 2, cod. proc. pen. degli atti assunti dal collegio in diversa composizione, a seguito della rinnovazione del dibattimento, non è necessario con riguardo agli esami testimoniali la cui ripetizione non abbia avuto luogo perché non chiesta, non ammessa o non più possibile

1. Il caso

La Corte di appello di L’Aquila, con decisione del 4 maggio 2018, ha dichiarato la nullità della sentenza con cui il Tribunale di Chieti, in data 18 aprile 2017, aveva affermato la penale responsabilità di Bajrami Kievis per delitti concernenti sostanze stupefacenti, rilevando che le prove richieste dalle parti, e su cui si fondava la condanna, erano state ammesse dal Tribunale in una composizione collegiale diversa – limitatamente ad un componente – rispetto a quella con cui aveva successivamente assunto le prove e pronunciato sentenza.

Contro detta pronuncia è stato proposto ricorso per cassazione dal procuratore generale della Corte di appello che ha denunciato inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 525, comma 2, cod. proc. pen.

La VI sezione della Corte di cassazione, ricevuto il ricorso, ne ha disposto la rimessione alle Sezioni unite in forza del contrasto esistente nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla portata del principio di immutabilità di cui all’art. 525, comma 2, cod. proc. pen.

2. Le questioni rimesse alla decisione delle Sezioni unite

Le Sezioni unite sono state chiamate a pronunciarsi in ordine al seguente duplice quesito:

– se il principio di immutabilità imponga la corrispondenza, rispetto al giudice che pronunci sentenza, del solo giudice dinnanzi al quale le prove siano assunte o anche di quello che abbia disposto l’ammissione delle prove stesse;

– se, per apprezzare l’esistenza del consenso delle parti alla lettura dei verbali di prova assunti dal tribunale nella composizione poi mutata, sia sufficiente la mancata opposizione delle stesse oppure sia necessario accertare la presenza di ulteriori circostanze che rendano univoca la mancata opposizione

3. L’analisi

3.1. Le premesse. Le Sezioni unite muovono dal precedente – Sez. U, n. 2 del 15/01/1999, Iannasso ed altro, Rv. 212395 – con il quale si stabilì:

– che, in caso di mutamento del giudice, il dibattimento dovesse essere rinnovato sin dalla dichiarazione di apertura, e quindi anche per la fase delle richieste e di ammissione delle prove;

– che i verbali delle dichiarazioni rese al giudice nella precedente composizione formassero legittimamente il fascicolo per il dibattimento;

– che, in assenza di richiesta di parte per l’ammissione della prova assunta in precedenza, il giudice potesse disporre d’ufficio la lettura delle dichiarazioni in precedenza rese;

– che, in presenza di una richiesta di parte per l’ammissione della prova, il giudice non avesse il potere di disporre la lettura dei verbali acquisiti al fascicolo per il dibattimento senza previo esame del dichiarante e in assenza del consenso di entrambe le parti alla lettura.

Hanno quindi rilevato che furono due le questioni non esaminate dalla richiamata decisione, e cioè:

  • se, a seguito della rinnovazione, la richiesta di nuova assunzione dell’esame del dichiarante già sentito possa essere proposta dalla parte che non ne aveva inizialmente chiesto ed ottenuto l’ammissione;
  • se il giudice, richiesto della nuova assunzione, possa valutare detta richiesta secondo i parametri ordinari per l’ammissione delle prove e, in ipotesi, non accoglierla con adeguata motivazione, o se, invece, sia vincolato alla sua ammissione,

3.2. La decisione.

3.2.1. Considerazioni generali. L’art. 525, comma 2, cod. proc. pen. attua il principio di immediatezza e quindi la tendenziale identità tra il giudice che assume le prove e il giudice che decide. In tal senso si è espressa anche la giurisprudenza costituzionale – sent. n. 205 del 2010 –.

A seguito del mutamento della composizione del giudice collegiale o della persona fisica del giudice monocratico, il procedimento regredisce alla fase degli atti preliminari al dibattimento, dal momento della dichiarazione di apertura, a cui seguono le richieste di prova delle parti e il provvedimento del giudice di ammissione.

Non è però necessario, onde evitare la nullità assoluta che presidia il rispetto del principio di immediatezza, che il giudice, nella diversa composizione, rinnovi formalmente l’ordinanza ammissiva, dato che i provvedimenti emessi in precedenza conservano efficacia se non sono espressamente revocati o modificati.

Opera il generale principio di conservazione degli atti giuridici che, nelle plurime attuazioni che riceve nella disciplina processuale, mira a salvaguardare, entro limiti di ragionevolezza, i tempi di durata del processo.

Chiarito che la rinnovazione non deve essere oggetto di una disposizione espressa del giudice, resta fermo che questi, anche d’ufficio, può ritenere la necessità di reiterazione delle predette attività.

3.2.2. Il ruolo delle parti. Una volta che il dibattimento viene rinnovato, le parti possono esercitare nuovamente le facoltà di deposito delle liste testimoniali e di richiesta delle prove, e possono proporre nuove richieste di prova.

Quanto agli esami già svolti dinnanzi al giudice diversamente composto, valgono le regole ordinarie in punto di ammissione delle prove, e pertanto occorre che vi sia richiesta di parte, con la precisazione che la richiesta deve provenire dalla parte che aveva indicato il soggetto da riesaminare nella lista testimoniale depositata a suo tempo – fatta eccezione, ovviamente, degli esami di soggetti che non devono essere previamente indicati in lista – o che lo ha indicato nella nuova lista presentata dopo la rinnovazione.

La parte che non ha indicato in lista la persona da esaminare non ha diritto all’ammissione ma può soltanto sollecitare l’esercizio dei poteri officiosi del giudice alla stregua dell’art. 507 cod. proc. pen.

3.2.3. I poteri del giudice. Il giudice, richiesto della rinnovazione dell’esame, può e deve valutare l’eventuale manifesta superfluità della reiterazione degli esami in precedenza svolti, non ammettendo quelli che si rivelino superflui. L’esame potrà dirsi non superfluo, tra l’altro, ove le parti si siano avvalse del potere di indicare circostanze su cui esaminare nuovamente il dichiarante, o abbiano allegato elementi da cui desumere la sua inattendibilità.

Ragionando diversamente, si avrebbero problemi di compatibilità con il principio di uguaglianza e ragionevolezza, dato che un potere di valutazione sulla eventuale superfluità è espressamente previsto in capo al giudice ove venga richiesto l’esame di un soggetto che abbia reso dichiarazioni in altro procedimento e il cui verbale sia stato acquisito.

In tal modo si evita che il nuovo esame si sostanzi in una pedissequa conferma di quanto già in precedenza dichiarato, e quindi in una inutile formalità.

Questa soluzione ha trovato l’avallo della giurisprudenza costituzionale (sent. n. 205 del 2010), che di recente ha chiarito che il legislatore può apprestare i presidi volti a prevenire il possibile uso strumentale e dilatorio del diritto alla rinnovazione dell’esame (sent. n. 132 del 2019).

3.2.4. Utilizzabilità delle precedenti dichiarazioni. Resta ferma l’utilizzabilità delle dichiarazioni assunte davanti al giudice diversamente composto, perché i relativi verbali compongono legittimamente il fascicolo per il dibattimento; di essi ben può darsi lettura, ex art. 511 cod. proc. pen., dopo la ripetizione dell’esame o anche in difetto di essa, ove non sia stata chiesta o non sia stata ammessa o non sia più possibile.

Il consenso delle parti alla lettura non è necessario ove la ripetizione non abbia avuto luogo in difetto della richiesta di rinnovazione o di non ammissione della richiesta o di impossibilità della rinnovazione; ed è privo di rilievo quando la ripetizione sia stata chiesta e sia stata ammessa, ma il nuovo esame non sia stato assunto, pur essendo possibile, ed in suo luogo sia stata disposta la lettura delle precedenti dichiarazioni.

4. La giurisprudenza CEDU richiamata

Le Sezioni unite hanno apprezzato la conformità della soluzione accolta all’interpretazione che la Corte Edu ha dato dell’art. 6, §§ 1, 3, lett. b) e, soprattutto, lett. d) della Convenzione.

Hanno a tal proposito richiamato anzitutto la sentenza del 9 luglio 2002, caso P.K. c. Finlandia, in cui la Corte Edu, dopo aver precisato che il mutamento del giudice dopo l’audizione di un testimone decisivo impone la rinnovazione dell’esame dinnanzi al giudice diversamente composto, ha stabilito che il processo non può comunque dirsi iniqui sol perché, in caso di mutamento del giudice, non si sia proceduto alla riaudizione dei testimoni, in quanto il diritto alla nuova audizione non è assoluto ma può essere limitato in presenza di circostanza particolari che giustifichino l’eccezione al principio di oralità e a quello di immutabilità del giudice, sempre che l’imputato abbia fruito di garanzie capaci di compensare il mancato nuovo esame.

Ha quindi ricordato che tali circostanze che possono determinare la deroga al principio di immediatezza sono state individuate:

  • nel fatto che il presidente del collegio, dinnanzi al quale fu svolto l’esame del testimone, sia stato successivamente sostituito da un supplente che aveva assistito alle precedenti fasi del dibattimento. Così, Corte Edu, sentenza 4 dicembre 2003, caso Milan. C. Italia;
  • nel fatto che l’imputato non abbia indicato in ordine a quali decisivi elementi di fatto la nuova audizione potrebbe rivelarsi utile in prospettiva difensiva: così. Corte Edu, 10 febbraio 2005, caso Graviano c. Italia;
  • nel fatto che uno soltanto dei componenti del collegio sia stato sostituito e che il nuovo componente abbia comunque avuto modo di leggere le dichiarazioni rese dal testimone decisivo: così, Corte Edu, 2 dicembre 2014, caso Cutean c. Romania e Corte Edu, 6 dicembre 2016, caso Skaro c. Croazia.

CLASSIFICAZIONE

LOTTIZZAZIONE ABUSIVA – CONFISCA URBANISTICA – PRESCRIZIONE DEL REATO – PRINCIPIO DI PROPORZIONALITA’ – ANNULLAMENTO SENZA RINVIO – ANNULLAMENTO CON RINVIO LIMITATAMENTE ALLA STATUIZIONE SULLA CONFISCA – PRINCIPIO DI LEGALITA’ – ECCESSO DI GIURISDIZIONE

RIFERIMENTI GIURISPRUDENZIALI

Corte E.D.U., II Sezione, in via principale, 20 gennaio 2009 e 10 maggio 2012, ricorso n. 75909/01, Sud Fondi c. Italia; Corte E.D.U., II Sezione, 30 dicembre 2013, ricorso n. 17475/09, Varvara c. Italia; Corte E.D.U., Grande Chambre, 28 giugno 2018, ricorsi n. 1828/06, G.I.E.M. srl and Others c. Italia; Corte Cost. n. 49 del 2015.

RIFERIMENTI NORMATIVI

Convenzione E.D.U., artt. 1 (protocollo 1 alla CEDU), 6, 7, 52

Testo Unico dell’edilizia (D.lgs. n. 380/2001), art. 44, comma 2

Codice di procedura penale, artt. 578-bis;622

Codice penale, art. 240; 240 bis; 322 ter

PRONUNCIA SEGNALATA

Cass. pen., sez. 3, ord. n. 40380 del 15 maggio 2019, Perroni (depositata il 2 ottobre 2019)

Abstract

La confisca urbanistica è applicabile anche in caso di reato di lottizzazione abusiva estinto per prescrizione, ma è necessario che il giudice di merito valuti la proporzionalità della misura ablativa rispetto al fatto lesivo accertato, considerata la sua natura di sanzione sostanzialmente penale, come da consolidata giurisprudenza dei giudici di Strasburgo.

– In caso di mancanza di motivazione, essendo stata la misura ablativa disposta in via automatica, secondo l’interpretazione dell’art. 44 co. 2 d.P.R. 380 del 2001, prevalente all’epoca delle decisioni di merito, è necessario verificarne la proporzionalità in base ad un giudizio che, involgendo questioni di merito, non può essere demandato alla Corte di Cassazione.

– Rispetto alla declaratoria di estinzione del reato, imposta dalla non manifesta infondatezza dei motivi di ricorso, pur non essendo anomalo che il giudice di merito proceda a ulteriori accertamenti, difetta una disposizione processuale che consenta alla Corte di Cassazione di annullare la sentenza senza rinvio per estinzione del reato di lottizzazione abusiva e disporre, al contempo, il rinvio al giudice d’appello per la verifica della conformità della disposta confisca al criterio di proporzionalità secondo i parametri di cui alla sentenza CEDU G.I.E.M. s.r.l. e altri c. Italia.

La sez.3 ha quindi rimesso alle Sezioni Unite il seguente quesito « Se, in caso di declaratoria di estinzione per prescrizione del reato di lottizzazione abusiva, sia consentito l’annullamento con rinvio limitatamente alla statuizione sulla confisca ai fini della valutazione da parte del giudice di rinvio della proporzionalità della misura, secondo il principio indicato nella sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 28 giugno 2018, causa G.I.E.M. s.r.l. e altri c. Italia».

L’ORDINANZA DELLA 3^ SEZIONE PENALE (n. 40380 del 15/05/2019, Perroni)

Il caso

L’imputato era stato condannato dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto per il reato di cui all’art. 44, lett. c), d.P.R. 380/2001, per avere realizzato, in qualità di legale rappresentante di una ditta edile, la lottizzazione abusiva di un’area catastalmente individuata, accertata la non conformità dell’opera (esclusa invece, a seguito di perizia collegiale, per uno dei dodici corpi di fabbrica) alla previsione progettuale approvata con il piano di lottizzazione, con evidente sovradimensionamento rispetto ai limiti consentiti dallo strumento urbanistico.

Il giudice di primo grado aveva considerato irrilevante la concessione in sanatoria, illegittima poiché in contrasto con le previsioni del piano di lottizzazione e con lo strumento urbanistico generale e disposto la confisca dell’area e dei fabbricati abusivamente realizzati.

La Corte d’appello di Messina, adita dall’imputato, confermava la decisione dei primi giudici – anche rispetto alla confisca – ritenendo l’esistenza di un eccesso di volumetria e, conseguentemente, l’illegittimità della concessione in sanatoria per non conformità con il piano di lottizzazione, ritenuto a sua volta illegittimo.

Il giudizio di legittimità era stato rinviato in attesa della pronuncia della Grande Chambre Corte E.D.U., in affaire G.I.E.M. srl et autres c. Italia e, all’esito, i giudici della Terza sezione penale della Corte di cassazione hanno ritenuto che i motivi di ricorso presentassero sì aspetti di infondatezza – ma non manifesta – con conseguente, valida instaurazione del rapporto impugnatorio, annullando senza rinvio la sentenza impugnata per estinzione del reato dovuta al decorso dei relativi termini di prescrizione.

Ricognizione della materia alla luce della giurisprudenza C.E.D.U.

La questione ha offerto alla Corte di legittimità lo spunto per operare anzitutto un’ampia riflessione sull’attuale possibilità di recepire nell’ordinamento interno i recenti approdi della giurisprudenza C.E.D.U. e per compiere una vera e propria ricognizione dei principi formulati dai giudici di Strasburgo in materia (tema considerato ineludibile, posto che la sentenza impugnata doveva essere annullata senza rinvio per essere il reato estinto per prescrizione), a partire dalle sentenze Sud Fondi c. Italia del 20 gennaio 2009 (e del 10 maggio 2012), relative al c.d. ecomostro di Punta Perotti, sino alla pronuncia del 30 dicembre 2013, Varvara c. Italia e, da ultimo, alla sentenza della Grande Chambre, in G.I.E.M. srl e altri c.  Italia, del 28 giugno 2018.

I giudici di legittimità hanno ricordato che, nonostante sin dalle pronunce Sud Fondi e Varvara, la Corte E.D.U. avesse chiarito la natura <<penale>> della confisca urbanistica ai sensi dell’art. 7 della Convenzione, la giurisprudenza di legittimità aveva continuato a considerare la misura ablativa come atto amministrativo, sebbene a carattere sanzionatorio ai sensi dell’art. 7 della Convenzione E.D.U., e a ritenerne l’applicabilità anche in assenza di condanna (e, in particolare, nel caso di estinzione del reato per prescrizione), sempre che fosse accertato in capo al soggetto destinatario della confisca l’elemento soggettivo del reato di lottizzazione abusiva (previsto dall’art. 30 del T.U.), in uno con la materialità dello stesso.

Osservano i giudici della Terza Sezione che una parte minoritaria della giurisprudenza di legittimità aveva, tuttavia, già sottolineato la rilevanza del requisito della proporzionalità della misura ablativa, in difetto del quale era configurabile una violazione delle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dell’art. 52 della Carta di Nizza e che l’orientamento prevalente aveva continuato a ritenere che la confisca dei terreni e delle opere potesse essere disposta anche in caso di estinzione del reato, ove fosse stata accertata, nel pieno contraddittorio tra le parti, la sussistenza della lottizzazione abusiva sotto il profilo oggettivo e soggettivo, e verificata l’esistenza di profili quantomeno di colpa, alla stregua dei parametri dell’imprudenza, negligenza e mancata vigilanza da parte dei soggetti nei cui confronti la misura veniva ad incidere.

Grande Chambre, G.I.E.M. srl e altri c. Italia del 28 giugno 2018

Con la più recente pronuncia della Grande Chambre nella causa G.I.E.M. srl e altri c. Italia, i giudici sovranazionali hanno ribadito la riconducibilità della confisca urbanistica nell’ambito della materia penale, secondo i noti criteri Engel e la nozione di “pena”, di cui all’art. 7 CEDU, evidenziandone l’autonomia alla luce dei propri precedenti (tra le altre, Welch c. Regno Unito del1995, §27, Jamil c. Francia dello stesso anno, §30, Varvara del 2013 cit.), e della sentenza 49 del 2015 della Corte Costituzionale (con la quale, va ricordato, si era ritenuta l’erroneità di un’interpretazione della sentenza Varvara in senso affermativo del divieto della c.d. confisca senza condanna).

 Hanno, dunque, riconosciuto la compatibilità della confisca urbanistica con la declaratoria di estinzione per prescrizione di un reato di lottizzazione abusiva accertato nei suoi elementi costitutivi, all’esito di un’istruzione probatoria rispettosa dei principi del giusto processo e della presunzione di non colpevolezza, ossia quando le persone fisiche o giuridiche destinatarie siano state “parti in causa” di tale processo e sempre che la misura ablativa sia proporzionata rispetto alla tutela della potestà pianificatoria pubblica e dell’ambiente.

All’esito, hanno ritenuto violate diverse disposizioni della Convenzione E.D.U. In particolare, hanno: a) a maggioranza (quindici voti a due), ravvisato la violazione dell’articolo 7 (nulla poena sine lege) nei confronti di tutte le società ricorrenti, per non essere intervenute nel procedimento penale conclusosi con il provvedimento ablativo, ma escluso, sempre a maggioranza (dieci voti contro sette), analoga violazione nei confronti del ricorrente GIRONDA (comproprietario dell’appezzamento di terreno in Pellaro di Reggio Calabria, oggetto dell’intervento di lottizzazione), poiché era stata constatata dai tribunali la sussistenza degli elementi costituivi del reato di lottizzazione abusiva dichiarato estinto per prescrizione, constatazione che ha costituito, in sostanza, una dichiarazione di responsabilità del predetto ai sensi del citato art. 7 C.E.D.U.; b) ritenuto violato, all’unanimità, per quanto qui di preminente interesse, l’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione (protezione della proprietà) nei confronti di tutti i ricorrenti per difetto del requisito della proporzionalità, alla stregua di precisi indicatori; c) a maggioranza (quindici voti contro due), ritenuto che non fosse necessario decidere se vi fosse stata una violazione dell’articolo 6 § 1 nei confronti della società G.I.E.M. S.r.l. o dell’articolo 13 nei confronti delle società G.I.E.M. S.r.l. e Falgest S.r.l.; d) sempre a maggioranza (sedici voti contro uno), ritenuto violato l’articolo 6 § 2 (diritto alla presunzione di innocenza) nei confronti del GIRONDA; e) infine, all’unanimità, ritenuto che la questione relativa all’applicazione dell’articolo 41 (equa soddisfazione) non fosse matura per la decisione, rinviandone dunque per intero l’esame in un momento successivo.

La proporzionalità della confisca urbanistica: gli indicatori della sentenza G.I.E.M. srl e altri c. Italia

I giudici di Strasburgo, nell’esaminare la dedotta violazione dell’art. 1 del Protocollo 1 alla Convenzione E.D.U. («Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende.») hanno precisato che l’articolo contiene tre norme distinte (la prima, espressa nella prima frase del primo comma e di carattere generale, enuncia il principio del rispetto della proprietà; la seconda, contenuta nella seconda frase dello stesso comma, riguarda la privazione di proprietà e la subordina a determinate condizioni; quanto alla terza, inserita nel secondo comma, essa riconosce agli Stati il potere, tra altri, di regolamentare l’uso dei beni conformemente all’interesse generale e di assicurare il pagamento delle ammende) tra di loro correlate, poiché la seconda e la terza riguardano particolari esempi di violazione del diritto di proprietà e devono essere interpretate alla luce del principio sancito dalla prima, operando un rinvio alla propria giurisprudenza (tra altre, James e altri c. Regno Unito, 21 febbraio 1986, § 37, serie A n. 98, e Iatridis c. Grecia [GC], n. 31107/96, § 55, CEDU 1999-II).

Pertanto, l’ingerenza dell’autorità pubblica nel godimento del diritto al rispetto dei beni, da un lato, deve avere un fondamento giuridico, poiché la privazione della proprietà è consentita solo alle condizioni previste dalla legge; dall’altro, deve avvenire in modo che sia assicurato un giusto equilibrio tra le esigenze d’interesse generale e quelle del singolo, alla stregua di un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito, secondo alcuni indicatori espressamente elencati al § 301 della decisione (la possibilità di adottare misure meno restrittive, quali la demolizione di opere non conformi alle disposizioni pertinenti o l’annullamento del progetto di lottizzazione; la natura illimitata della sanzione derivante dal fatto che può comprendere indifferentemente aree edificate e non edificate e anche aree appartenenti a terzi; il grado di colpa o di imprudenza dei ricorrenti o, quanto meno, il rapporto tra la loro condotta e il reato in questione). La Corte E.D.U., peraltro, non ha mancato di sottolineare anche l’importanza degli obblighi procedurali di cui all’art. 1 cit., poiché l’ingerenza nei diritti ivi previsti non può essere legittimamente esercitata in assenza di un contraddittorio che rispetti il principio della parità delle armi e consenta di discutere aspetti importanti per l’esito della causa.

Di qui, l’affermazione secondo cui l’applicazione automatica (salvo che per i terzi in buona fede) della confisca, in caso di lottizzazione abusiva, prevista dalla legge italiana si pone in contrasto con tali principi, perché non consente al giudice di valutare, in concreto, gli strumenti più adatti e di bilanciare, in generale, lo scopo legittimo soggiacente e i diritti degli interessati colpiti dalla sanzione.

La rimessione alle Sezioni Unite

La Terza sezione penale si è, dunque, soffermata sulla questione residuale rassegnata al suo vaglio (dedotta con il quarto motivo di ricorso), avente per l’appunto a oggetto la confisca delle aree e degli edifici realizzati e, pur dando atto nell’ordinanza che il ricorrente aveva dedotto solo problematiche relative alla proprietà dei beni confiscati, ha ritenuto che tali questioni s’inserissero nella tematica inerente alla confisca urbanistica disposta con riferimento a un reato prescritto, rispetto alla quale la parte ben poteva dolersi, come in effetti aveva fatto, dell’entità del provvedimento ablatorio conseguente all’accertamento dell’illecita lottizzazione.

Infatti, nella specie, il Tribunale aveva disposto la confisca (e la Corte d’appello aveva confermato la relativa statuizione) senza nulla specificare in ordine all’oggetto della misura ablativa (emergendo peraltro – dal corpus motivazionale delle due sentenze – che la valutazione della illiceità della lottizzazione, da intendersi quale non conformità allo strumento urbanistico, non sembrava neppure estensibile a tutte le opere realizzate), né verificare la proporzionalità di essa al fatto lesivo accertato, posto che l’interpretazione prevalente, all’epoca delle decisioni di primo e secondo grado, riteneva la confisca applicabile in via automatica, quale sanzione amministrativa, sia ai terreni che alle opere.

I giudici di legittimità hanno sottolineato la centralità di un’interpretazione dell’art. 44 co. 2 d.P.R. 380/2001 (secondo cui <<la sentenza definitiva del giudice penale che accerta che vi è stata lottizzazione abusiva, dispone la confisca dei terreni, abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite>>), che sia effettivamente consistent con i principi fissati dai giudici di Strasburgo, e ritenuto la necessità di colmare il riscontrato gap motivazionale, pena la violazione dell’art. 1 del Protocollo 1 della Convenzione E.D.U., rilevando che essa non può essere demandata al giudice di legittimità, poiché involge il merito e potrebbe addirittura rendere necessari accertamenti di fatto (nel caso di specie si trattava dell’illegittima realizzazione di un piano di lottizzazione regolarmente autorizzato, cosicché una parte degli edifici e delle trasformazioni realizzate poteva anche risultare regolare).

Da tale approdo, l’attenzione è dunque virata sulla questione che costituisce l’oggetto della rimessione al Supremo Collegio: i giudici della Terza Sezione penale si sono interrogati sull’esistenza di una disposizione processuale che consenta alla Corte di cassazione, dopo aver rilevato la prescrizione del reato di lottizzazione abusiva, di pronunciare sentenza di annullamento con rinvio al giudice di appello al solo fine di verificare la conformità della confisca al criterio di proporzionalità indicato dalla Corte E.D.U. in G.I.E.M. srl e altri c. Italia.

A tal fine, hanno operato una ricognizione delle decisioni della sezione, successive al deposito della citata sentenza G.I.E.M., in cui si era riconosciuta la possibilità di un annullamento con rinvio per nuovo giudizio sul punto, osservando che in nessun caso si era apertamente affrontata tale questione processuale, essendosi i giudici limitati a un mero rinvio all’art. 578 bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 6, co. 4, d.lgs. 01 marzo 2018, n. 21 (così, in sez. 3 n. 5936 del 8/11/2018, dep. 2019, Basile, Rv. 274860, si era data per scontata l’applicabilità della norma alla confisca urbanistica; parimenti in sez. 3, n. 14005, del 4/12/2018, dep. 2019, PM contro Bagni ed altri, Rv.275356; in sez. 3, n. 14743 del 20/2/2019, Amodio, Rv. 275392, si era disposto l’annullamento con rinvio, limitatamente  alla  disposta  confisca urbanistica, in ordine alla valutazione di proporzionalità, richiamandosi l’art. 578 bis, cod. proc. pen., senza indicare però le ragioni in base alle quali tale norma sarebbe applicabile nei casi di lottizzazione abusiva prescritta, della quale  sia stata accertata la responsabilità in capo al soggetto destinatario del provvedimento ablatorio; in sez. 3, n. 22034 del 11/4/2019, PM contro Pintore, Rv. 275969, si era richiamata la sentenza G.I.E.M. e ravvisata la conferma del principio per cui il giudice del dibattimento avrebbe l’obbligo di effettuare l’accertamento di responsabilità anche a reato prescritto proprio nella introduzione dell’art. 578 bis cod. proc. pen.

Il tema sarebbe stato, invece, ampiamente dibattuto in Sez. 3, n. 31282 del 27/03/2019, Grieco e altri, non massimata e depositata a luglio 2019, successivamente cioè alla rimessione del ricorso alle Sezioni Unite: nella parte motiva di tale arresto, si è precisato che l’art.  578 bis, cod. proc. pen. non comprende  la  confisca  delineata  dall’art.  44, co. 2, d.P.R. 380 del 2001 e si è individuato il fondamento giuridico della possibilità di emettere una pronuncia di annullamento con rinvio limitatamente alla confisca sulla scorta di casi analoghi (la confisca – misura  di  sicurezza patrimoniale  per  illiceità  intrinseca  della  res, la statuizione sulla falsità dei documenti) che, unitamente al trend legislativo che aveva portato all’introduzione dell’art. 578 bis, citato, e a quanto affermato in sez. 3, n. 53692 del 13/7/2017, Martino, Rv.272791, dimostrerebbero “la necessità del proseguimento del processo penale, poiché l’art. 44 cit. rappresenta una deroga all’obbligo dell’immediata declaratoria delle cause estintive del reato (art. 129, c. 2, cod. proc. pen.), che consentirebbe la prosecuzione del processo penale anche in primo grado, nonostante la prescrizione del reato”.

A fronte di tale quadro giurisprudenziale, hanno pertanto rilevato che la questione potrebbe dar luogo a un contrasto giurisprudenziale interno, ritenendo:

1) non applicabile l’art. 578 bis cod. proc. pen., avuto riguardo all’iter legislativo che ha portato alla introduzione della norma, frutto del trasferimento nel codice di rito della confisca c.d. allargata, propria della normativa antimafia;

2) inesistente, a legislazione vigente, una disposizione che consenta alla Corte di Cassazione di annullare con rinvio la sentenza impugnata, limitatamente alla statuizione sulla confisca, in caso di reato di lottizzazione abusiva dichiarato prescritto, poiché le peculiarità della confisca urbanistica ne impedirebbero l’equiparazione a quella allargata di cui all’art. 240 bis cod. pen., a quella di cui all’art. 322 ter cod. pen. e alla misura di sicurezza di cui all’art. 240 cod. pen.;

3) configurabile, per il caso in cui si ritenga applicabile il meccanismo processuale di cui all’art. 578 bis cit., la questione di illegittimità costituzionale della norma per contrasto con l’art. 76 Cost., per eccesso di delega, avendo il legislatore stabilito la riserva di codice per le disposizioni di diritto penale sostanziale, mentre il decreto legislativo delegato avrebbe inserito una norma nel codice di procedura penale, per di più di portata innovativa, non compresa tra i principi e criteri direttivi della legge delega;

4) non applicabile analogicamente l’art. 622 cod. proc. pen., relativo alle statuizioni civili, per giustificare il rispetto del principio di legalità di una statuizione di annullamento con rinvio limitatamente alla proporzionalità della confisca urbanistica, pur in presenza di declaratoria di prescrizione, rinvio neppure imposto alla stregua del principio di proporzionalità contenuto nella sentenza G.I.E.M., essendosi la Corte E.D.U. limitata a consentire la conferma di una confisca nel caso in cui il reato risulti estinto, senza legittimare, tuttavia, un obbligo di esercizio della giurisdizione penale dopo la declaratoria di prescrizione del reato di lottizzazione abusiva ai soli fini della confisca, tenuto anche conto che – nel sistema nazionale – resta ferma la potestà amministrativa di cui all’art. 30 del d.P.R. n. 380 del 2001, utilmente esercitabile.

Ne è conseguita la decisione di rimettere alle Sezioni Unite il seguente quesito: « Se, in caso di declaratoria di estinzione per prescrizione del reato di lottizzazione abusiva, sia consentito l’annullamento con rinvio limitatamente alla statuizione sulla confisca ai fini della valutazione da parte del giudice di rinvio della proporzionalità della misura, secondo il principio indicato nella sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 28 giugno 2018, causa G.I.E.M. s.r.l. e altri c. Italia».