Divieto di bis in idem e doppio binario sanzionatorio, a seguito della sentenza Grande Stevens

di Luigi Giordano e Andrea Nocera

Sommario: 1. Il “doppio binario” sanzionatorio: qualche riflesso della sentenza della Corte EDU Grande Stevens nella giurisprudenza della Corte di Cassazione penale. – 2. segue: il presupposto della definitività della sanzione amministrativa. – 3. La sentenza Corte Costituzionale n. 102 del 2016. – 4. La sentenza Corte Costituzionale n. 200 del 2016. – 5. La sentenza della Corte EDU, Grande Camera 15 novembre 2016, c. 24130-11 e 29758-2011, A. e B. contro Norvegia. – 6. Le prime ricadute della nuova sentenza: un’ordinanza del Tribunale di Milano del 6 dicembre 2016

1. Il “doppio binario” sanzionatorio: qualche riflesso della sentenza della Corte EDU  nella giurisprudenza della Corte di Cassazione penale. Con la sentenza del 4 marzo 2014, Grande Stevens ed altri c. Italia, come è noto, la Corte EDU ha affermato che la pendenza del procedimento penale per il reato di manipolazione del mercato secondo la legge italiana, dopo che sia divenuto definitivo il procedimento amministrativo con cui la Consob ha applicato sanzioni amministrative per i medesimi fatti, costituisce violazione del divieto del bis in idem, ai sensi dell’art. 4, Protocollo n. 7, della CEDU. Secondo la Corte, in particolare, ai fini dell’applicazione del divieto del doppio giudizio, «la questione non è quella di stabilire se gli elementi costitutivi degli illeciti previsti siano o meno identici, ma se i fatti ascritti ai ricorrenti dinanzi alla Consob e dinanzi ai giudici penali fossero riconducibili alla stessa condotta», dovendo concludersi in quest’ultimo caso per la violazione del divieto dapprima indicato[1].

Questa pronuncia ha suscitato un ampio dibattito dottrinale, teso a verificarne le possibili ricadute nell’ordinamento interno. Esse, invero, non sono limitate alla materia degli abusi di mercato, poiché sono numerosi gli ambiti in cui convive un doppio binario sanzionatorio, amministrativo e penale.

Nel corso del 2016, anche le Sezioni penali della Suprema Corte si sono confrontate con questa decisione. In particolare, nella sentenza Sez. III, 21 aprile 2016, n. 25815, P.G. in proc. Scagnetti, Rv. 267301, la Suprema Corte ha affrontato una vicenda in cui il giudice di merito aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti dell’imputato del reato di cui all’art. 10-ter del d. lgs. 10 marzo 2000, n. 74 ai sensi dell’art. 529 e 649 cod. proc. pen. per l’intervenuta irrogazione di sanzioni amministrative per gli stessi fatti oggetto del procedimento penale, qualificando «come penale la sanzione amministrativa e come penali i procedimenti sanzionatori relativi alle contestate fattispecie criminose».

In questa decisione è stato rilevato che il principio del ne bis in idem di cui all’art. 4, Protocollo 7, della CEDU, concepito in origine con riguardo esclusivamente agli illeciti penali, è stato applicato nella giurisprudenza della Corte EDU anche con riferimento al rapporto tra procedimento penale ed amministrativo, nei casi in cui la sanzione prevista da quest’ultimo abbia natura sostanzialmente penale. La premessa ineludibile per il ricorso a detto principio, dunque, consiste nell’individuazione della natura penale della sanzione, sulla base dei noti criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte EDU a partire dalla sentenza 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi. Nel caso di specie, tuttavia, la Corte non ha affrontato esplicitamente quest’aspetto perché ha giudicato erronea l’applicazione alla fattispecie concreta del divieto di doppio giudizio di cui all’art. 649 cod. proc. pen. Il tenore letterale di quest’ultima disposizione, unitamente al quadro sistematico in cui si colloca, secondo la pronuncia, «preclude un’interpretazione … che ne estenda l’ambito applicativo a sanzioni irrogate l’una dal giudice penale, l’altra da un autorità amministrativa».

La stessa sentenza, poi, ha rilevato che il rapporto tra il reato di cui all’art. 10-terdel d.lgs. n. 74 del 2000, che incrimina l’omesso versamento IVA per un ammontare superiore a euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d’imposta, e l’illecito amministrativo sanzionato dall’art. 13, comma 1, del d. lgs. n. 471 del 1997, che punisce l’omesso tempestivo versamento dell’IVA, anche in ragione della soglia di punibilità prevista dalla fattispecie delittuosa, è ricostruito dalla giurisprudenza in termini di progressione illecita – e non di specialità – con la conseguenza dell’applicabilità al trasgressore di entrambe le sanzioni (cfr. Sez. un., 28 marzo 2013, n. 37424, Romano, Rv. 255757).

Secondo questa pronuncia, pertanto, in merito alla questione della duplicazione sanzionatoria dell’illecito di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto «l’unica via percorribile per dare attuazione al diritto convenzionale di ne bis in idem è necessariamente quella che passa attraverso una questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost. (in relazione all’art. 4 Prot. 7 CEDU)». Il Giudice di merito, quindi, avrebbe dovuto constatare l’impossibilità di interpretare l’art. 649 cod. proc. pen in senso conforme alla norma convenzionale e sollevare questione di legittimità per violazione del predetto parametro costituzionale, in relazione all’art. 4, Protocollo n. 7, della CEDU nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto, nell’ambito di un procedimento amministrativo che ha portato all’irrogazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale.

  Nel caso concreto, peraltro, la questione di legittimità costituzionale è stata reputata priva di rilevanza, non essendo stata offerta la prova della definitività dell’accertamento tributario. La medesima carenza probatoria non ha permesso neppure di valutare il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea, il quale trae fondamento nel fatto che il principio delne bis in idemtrova riconoscimento pure nell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (e nell’attinenza della specifica questione ad un’imposta che ha rilievo per la normativa euro-unitaria).

2. segue: il presupposto della definitività della sanzione amministrativa.  Nella sentenza dapprima illustrata, dunque, la Suprema Corte ha sottolineato che questione della violazione del divieto del doppio giudizio non può essere affrontata nei casi in cui manca la prova della definitività della sanzione amministrativa. Questa stessa soluzione interpretativa, già manifestata in precedenza (cfr., Sez. III, 11 febbraio 2015, n. 19334, Andreatta, Rv. 264809), è stata espressa, sempre nel corso del 2016, anche in altre decisioni.

Nella pronuncia Sez. III, 12 maggio 2016, n. 27814,  adottata sempre in tema di omesso versamento Iva, ad esempio, la Suprema Corte ha riaffermato che «è preclusa la deducibilità della violazione del divieto di bis in idem in conseguenza della irrogazione, per un fatto corrispondente sotto il profilo storico-naturalistico a quello oggetto di sanzione penale, di una sanzione formalmente amministrativa, ma della quale venga riconosciuta la natura “sostanzialmente penale” secondo l’interpretazione data dalla decisione emessa dalla CEDU nelle cause “Grande Stevens e altri contro Italia” del 4 marzo 2014 e “Nykanen contro Finlandia” del 20 maggio 2014, quando manchi qualsiasi prova della definitività della irrogazione della sanzione amministrativa medesima».

In questa pronuncia, peraltro, la Corte ha ribadito l’ordinamento maggioritario della giurisprudenza secondo cui la questione del ne bis in idem non può essere proposta per la prima volta nel giudizio di legittimità. L’accertamento relativo all’identità del fatto oggetto dei due diversi procedimenti, da intendersi come coincidenza di tutte le componenti della fattispecie concreta, implica un apprezzamento di merito, né è consentito alle parti produrre in sede di legittimità documenti concernenti elementi fattuali (cfr., in precedenza, Sez. III, 15 aprile 2015, n. 20887, Aumenta, Rv. 263407; Sez. III, 15 aprile 2015, n. 20885, Calò, Rv. 264096).

Nella motivazione della sentenza Sez. III, 13 luglio 2016, n. 42470,  inoltre, è stato precisato che la violazione del ne bis in idem può ritenersi sussistente solo «quando i procedimenti (anche se nominalmente non coincidenti) accertino gli stessi fatti, ma siano anche indipendenti tra loro e si sviluppino in successione ovvero in modo che uno dei due prosegua o inizi quando l’atto è divenuto definitivo». Nel caso di specie, in relazione al reato previsto dall’art. 10-terdel d. lgs. n. 74 del 2000, è stata ritenuta insufficiente la mera indicazione da parte del ricorrente dell’intervenuta irrevocabilità della sanzione tributaria in una vicenda complessa nella quale, invero, all’avviso di accertamento nei confronti dell’imputato aveva fatto seguito la conciliazione tra l’amministrazione finanziaria ed il contribuente. Questo accordo aveva riguardato tutti i debiti sussistenti nei confronti dell’Erario e consisteva nel pagamento integrale dell’Iva e delle ritenute alla fonte e nel versamento del 60% dell’Irap e dell’Ires, «con falcidia totale di interessi, sanzioni, interessi moratori e compensi di riscossione».

Nella medesima prospettiva, Sez. III, 2 dicembre 2015, n. 1376/2016,  ha escluso l’efficacia preclusiva del procedimento penale della mera emissione della cartella di pagamento per il recupero dell’Iva non versata, senza alcuna argomentazione specifica in merito alla mancata opposizione a tale atto. Nel senso della preclusione alla deducibilità della violazione del ne bis in idem per la non definitività della irrogazione della sanzione amministrativa, sempre nel 2016, si segnalano anche Sez. III, 13 luglio 2016, n. 38134,   in relazione al reato di cui all’art. 5, del d. lgs. n. 74 del 2000, e Sez. III, 7 gennaio 2016, n. 6114.

In tutti questi casi va osservato che l’analisi della Corte si è posta esclusivamente in un’ottica processuale, relativa ai rapporti tra il procedimento amministrativo e quello penale, individuando nella mancata dimostrazione della sussistenza della definitività del provvedimento irrogativo della sanzione amministrativa il profilo che preclude di affrontare il tema del divieto del doppio giudizio. Queste decisioni, invece, non si sono confrontate con l’altro aspetto, indispensabile perché la questione abbia rilievo, rappresentato dall’apprezzamento dell’effettiva portata afflittiva delle sanzioni tributarie irrogate, cioè la loro natura sostanzialmente “penale” ai sensi dell’art. 7 CEDU.  Sul punto, sovente nei ricorsi, in modo apodittico, si sostiene che «le sanzioni amministrative tributarie sono certamente afflittive e vanno qualificate come vere e proprie pene, in quanto misure aventi carattere sanzionatorio e repressivo» (Sez. III, 13 luglio 2016, n. 42470,  cit.).

Una precisazione significativa, poi, è espressa da Sez. II, 25 febbraio 2016, n. 13901, , Rv. 266669. In questa pronuncia, infatti, è stato affermato che non sussiste la preclusione all’esercizio dell’azione penale di cui all’art. 649 cod. proc. pen., quale conseguenza della già avvenuta irrogazione, per lo stesso fatto, di una sanzione formalmente amministrativa ma avente carattere sostanzialmente “penale”, allorquando non vi sia coincidenza fra la persona chiamata a rispondere in sede penale e quella sanzionata in via amministrativa. In applicazione di questo principio, la Corte ha escluso la violazione del divieto di bis in idem con riferimento all’imputazione a carico di un soggetto per un fatto per il quale era stata inflitta una sanzione amministrativa ad una società a responsabilità limitata di cui egli era socio e procuratore (in senso conforme, sempre nel 2016, Sez. III, 27 maggio 2016, n. 9224  ; in precedenza, tra le altre, Sez. III, 24 ottobre 2014, n. 43809, Rv. 265118).

3. La sentenza Corte Costituzionale n. 102 del 2016. Nella sentenza Sez. III, 21 aprile 2016, n. 25815, P.G. in proc. Scagnetti, rv. 267301 dapprima illustrata, inoltre, la Corte ha dato atto che, nelle more della redazione della motivazione, era intervenuta la decisione della Corte Costituzionale 8 marzo 2016, n. 102, che ha affrontato il tema dell’applicazione del principio delne bis in idem, nell’interpretazione fornita dalla Corte EDU, alle fattispecie che sanzionano l’abuso di mercato.

La Corte Costituzionale, in particolare, è stata investita dall’ordinanza interlocutoria della Sez. V, 16 ottobre 2014, n. 1782, Chiarion Casoni, che ha prospettato il contrasto dell’art. 649 cod. proc. pen. con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 4, Protocollo n. 7, della CEDU, nella parte in cui la disposizione codicistica non prevede «l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l’imputato sia stato giudicato, con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell’ambito di un procedimento amministrativo per l’applicazione di una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale».

E’ poi intervenuta una seconda ordinanza, oggetto della medesima sentenza della Corte Costituzionale, adottata dalla Sezione Tributaria civile in data 21 gennaio 2015, n. 950 (Reg. ord. 52/2015). Il caso che ha determinato questo secondo provvedimento riguardava l’impugnazione delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate, ai sensi dell’art. 187-ter del d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (T.U.F.), all’amministratore di due società per condotte di manipolazione del mercato consistite nell’aver provocato l’anomalo andamento del titolo di una società editoriale di livello nazionale per mezzo di operazioni di mercato speculative e della diffusione di informazioni al pubblico che alimentavano le aspettative di una “scalata ostile”.

Nei confronti del medesimo soggetto, all’esito del parallelo procedimento penale per il reato di cui agli artt. 81 cod. pen. e 185 T.U.F., era stata emessa sentenza di patteggiamento, divenuta definitiva, con cui era stata applicata la pena della reclusione (peraltro, poi dichiarata estinta per l’indulto di cui alla legge n. 241 del 2006). Nel ritenere la medesimezza dei fatti oggetto di sentenza definitiva di patteggiamento (nella specie, la contestazione riguardava la condotta di “diffusione di notizie false concretamente idonee a provocare una sensibile alterazione del prezzo del titolo”) rispetto a quelli che avevano portato all’irrogazione della sanzione amministrativa da parte della Consob, la Sezione Tributaria aveva disposto la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale ritenendo non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 187 terT.U.F., alla luce della giurisprudenza della Corte EDU e dell’applicazione del principio del ne bis in idem  di cui agli artt. 2 e 4, Protocollo n. 7, della CEDU, in ragione del passaggio in giudicato della sentenza emessa dal giudice penale.

La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni formulate con le due ordinanze interlocutorie.

Con riferimento, in particolare, al contrasto dell’art. 649 cod. proc. pen. con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 4, Protocollo n. 7, della CEDU, la Corte ha rilevato che l’eventuale intervento additivo richiesto sulla norma processuale avrebbe avuto unicamente l’effetto di impedire la celebrazione o la conclusione di un secondo procedimento o processo per il medesimo fatto. Non avrebbe, di contro, determinato un ordine di priorità tra sanzione penale e amministrativa, in tale modo affidando la determinazione della concreta risposta sanzionatoria alla circostanza aleatoria della maggior o minor celerità di celebrazione del procedimento sanzionatorio penale o di quello amministrativo.

La soluzione derivante da un ipotetico accoglimento della questione, dunque, avrebbe semplicemente impedito l’irrogazione della seconda sanzione, ma non avrebbe prodotto l’inserimento nell’ordinamento di rimedio strutturale contro la prospettiva di un doppio procedimento per lo stesso fatto. Tale rimedio potrebbe essere assicurato solo da un intervento legislativo di riforma dell’attuale sistema sanzionatorio.

In relazione alla questione posta dall’ordinanza della Sezione Tributaria, invece, la Corte ha evidenziato il carattere “dubitativo e perplesso” della formulazione del quesito, perché non risolveva il nodo della compatibilità del concetto di ne bis in idem,come interpretato dalla Corte EDU, con gli obblighi di repressione degli abusi di mercato imposti dal diritto dell’Unione Europea.

Va segnalato che, prendendo atto della decisione della Corte Costituzionale, al fine di risolvere il quesito pregiudiziale di interpretazione della normativa euro-unitaria, la Sezione Tributaria della Corte, con l’ordinanza interlocutoria Sez. Tributaria, 20 settembre 2016, n. 20675, ha disposto il rinvio degli atti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Tale rinvio è finalizzato a sollecitare un’interpretazione armonica della previsione dell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali della UE con quella di cui all’art. 4, Paragrafo n. 7 della Convenzione EDU e alla conseguente rilevazione del contrasto tra le regole interne e la normativa europea in tema di divieto di secondo giudizio, interpretata nel senso che una condanna penale irrevocabile osterebbe alla irrogazione di una sanzione amministrativa per lo stesso fatto.

La medesima questione è stata sollevata, successivamente, dalla Sezione II civile, con ordinanza interlocutoria del 15 novembre 2016 n. 23232, che ha disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea in merito all’interpretazione dell’art. 50 della Carta di Nizza, avuto riguardo, da un lato, all’ambito operativo del principio del ne bis in idem  in caso di fatti originanti cumulo di sanzioni penali ed amministrative, per i quali sia intervenuto giudicato penale di assoluzione e, dall’altro, alla sufficienza o meno, nella valutazione della violazione del menzionato principio, del richiamo ai limiti di pena posti dalla Direttiva 2014/57/UE.

4. La sentenza Corte Costituzionale n. 200 del 2016. Pochi mesi dopo la sentenza appena illustrata è intervenuta un’altra importante decisione della Consulta che ha affrontato il tema del rapporto tra l’art. 649 cod. proc. pen. e l’art. 4, Protocollo n. 7, della CEDU. Si allude alla sentenza della Corte Costituzionale 31 maggio 2016, n. 200, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, nella parte in cui, secondo il diritto vivente, esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale.  

Dinanzi al Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torino, in particolare, era stata proposta richiesta di rinvio a giudizio dell’imputato, dirigente di stabilimenti della società Eternit, per il delitto di omicidio doloso per la morte da amianto di 258 persone. In relazione alla medesima condotta, la stessa persona, in un precedente giudizio, era già stata prosciolta per prescrizione dai reati previsti dagli artt. 434, co. 2 e 437, co. 2, cod. pen.

Il GUP ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 cod. proc. pen.  con riferimento all’art. 117, co. 1, Cost., in relazione all’art. 4, Protocollo n. 7, della CEDU, sostenendo che, mentre la giurisprudenza della Corte EDU ravvisa l’identità del fatto sulla base della mera identità dell’azione o dell’omissione per la quale la persona è già stata irrevocabilmente giudicata, il diritto vivente interno esige l’identità del fatto giuridico da valutarsi sulla base del confronto tra «condotta – evento – nesso di causa». Nel caso in esame, pertanto, non potrebbe trovare applicazione l’art. 649 cod. proc. pen. perché gli eventi giuridici cagionati dalla condotta omissiva dell’imputato sarebbero «plurimi»; il delitto di omicidio doloso, infatti, appartiene a un “tipo legale” diverso dai reati di disastro doloso e di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, per i quali è già stata dichiarata la prescrizione; questi ultimi sono reati di pericolo, e non di danno; la morte non è elemento costitutivo della fattispecie, come nell’omicidio; è tutelato il bene giuridico dell’incolumità pubblica anziché quello della vita.

Il giudice rimettente, inoltre, ha rilevato che il reato di omicidio si pone in concorso formale con quelli puniti dagli artt. 434 e 437 cod. pen., quando, come è accaduto nel caso di specie, il primo e i secondi sono commessi con un’unica azione od omissione. Tale circostanza, secondo un orientamento consolidato, preclude l’applicazione dell’art. 649 cod. proc. pen.

Quanto alla prima questione, che è quella che qui interessa, la Corte Costituzionale ha ritenuto errata la tesi prospettata. La giurisprudenza di Strasburgo, infatti, nell’interpretare i presupposti del divieto di bis in idem, ha accolto una concezione naturalistica del fatto, ma non restringe quest’ultimo alla sola azione od omissione dell’agente, esigendo invece la valutazione anche dell’identità della condotta e dell’evento, secondo le modalità con cui esso si è concretamente prodotto. la Consulta, pertanto, ha escluso la sussistenza di un contrasto tra l’art. 649 cod. proc. pen. e la normativa interposta convenzionale, perché entrambe recepiscono lo stesso criterio dell’idem factum, non obbligando la giurisprudenza della Corte EDU a escludere l’evento in senso naturalistico dagli elementi che permettono di identificare il medesimo fatto.

Diversa invece la valutazione della Corte in relazione al secondo aspetto di contrasto tra l’art. 649 cod. proc. pen. e l’art. 4, Protocollo n. 7, CEDU, concernente la regola, enucleata dal diritto vivente nazionale, che vieta di applicare il principio del ne bis in idem, ove il reato già giudicato sia stato commesso in concorso formale con quello oggetto di una nuova azione del pubblico ministero.

Al riguardo, la Corte ha rilevato che il diritto vivente ha saldato il profilo sostanziale implicato dal concorso formale dei reati con quello processuale portato dal divieto di bis in idem, esonerando il giudice dall’indagare sull’identità empirica del fatto, ai fini dell’applicazione dell’art. 649 cod. proc. pen. Questa interpretazione rende effettivo il contrasto tra l’art. 649 cod. proc. pen., nella parte in cui esclude la medesimezza del fatto per la sola circostanza che ricorre un concorso formale di reati tra res iudicata e res iudicanda, e l’art. 4, Protocollo n. 7, della CEDU, che vieta invece di procedere nuovamente quando il fatto storico è il medesimo.

Sotto questo profilo, dunque, la questione è stata ritenuta fondata dalla Corte delle leggi.

Per effetto di questa pronuncia di illegittimità costituzionale, di volta in volta, l’Autorità giudiziaria dovrà confrontare il fatto storico, così come descritto all’esito del processo concluso con una pronuncia definitiva, con quello posto dal pubblico ministero a base della nuova imputazione, ravvisando la medesimezza solo se riscontra la coincidenza della condotta, dell’evento e del rapporto di causalità, non precludendo il concorso formale l’applicazione del divieto di bis in idem.

5. La sentenza della Corte EDU, Grande Camera 15 novembre 2016, c. 24130-11 e 29758-2011, A. e B. contro Norvegia.

Nelle more della pronuncia della Corte di Giustizia sul rinvio pregiudiziale disposto dalle Sezioni civili della Corte di Cassazione, è intervenuta una nuova decisione della Corte EDU che ha affrontato questi temi. La Grande Camera, con sentenza del 15 novembre 2016, nelle cause n. 24130/11 e 29758/2011, A. e B. contro Norvegia, infatti, ha fissato i limiti e le condizioni di legittimità del regime del doppio binario sanzionatorio alla luce del divieto di bis in idem sancito dall’art. 4, Protocollo n. 7, della CEDU.

La Corte di Strasburgo è stata investita del ricorso proposto da due cittadini norvegesi, rispettivamente titolari di una società di investimenti registrata a Gibilterra e di un’altra di diritto lussemburghese registrata a Samoa, condannati entrambi, in procedimenti separati, a pene detentive per il reato di frode fiscale aggravata. La condotta illecita si sostanziava nell’acquisto di azioni di un’altra società e nella successiva loro immediata rivendita a terzi ad un prezzo notevolmente più alto. Parte del ricavato delle cessioni veniva trasferito alla società registrata a Gibilterra, di cui A. era unico azionista, con occultamento di redditi per un totale di circa 32,5 milioni di corone norvegesi (circa 3,6 milioni di euro).

Ai ricorrenti, l’Autorità fiscale norvegese notificava un avviso di accertamento per evasione delle imposte con riferimento agli anni 2002-2007 e, in relazione alla riscontrata violazione del Tax Assessment Act del 1980, intimava il pagamento della imposta straordinaria e della sanzione del 30% della tassa dovuta in relazione all’ammontare non dichiarato.

Nella sentenza di condanna per il reato di frode fiscale aggravata il Tribunale penale competente, determinando la pena detentiva da comminare, teneva in esplicito conto che nei confronti di ciascun imputato era già stata irrogata una sanzione tributaria amministrativa di rilevante importo.

Entrambi gli imputati presentavano appello davanti alla Alta Corte contro la procedura seguita dal Tribunale in sede penale, dolendosi di essere stati punti due volte per il medesimo fatto. L’appello, come anche il successivo ricorso davanti alla Corte Suprema norvegese, veniva respinto.

La Grande Camera della Corte EDU, escludendo che nel caso concreto vi fosse stata una duplicazione della pena per lo stesso reato, ha precisato che non costituisce violazione dell’art. 4, Protocollo n. 7, CEDU la previsione di norme interne che consentano di avviare, per la repressione del medesimo fatto-reato, il procedimento penale e quello amministrativo separatamente ed in modo parallelo ovvero di dare priorità nella trattazione al più grave e socialmente riprovevole aspetto concernente illecito penale, con la possibilità di irrogare sanzioni di tipo diverso, tra loro variamente cumulate o combinate.

E’ insito in ciascun sistema processuale, invero, la previsione di separati piani sanzionatori e non può essere suscettibile di sindacato la scelta del legislatore nazionale di prevedere un duplice binario processuale, penale ed amministrativo, per la medesima condotta illecita, intesa nel senso dello “stesso fatto” come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU (cfr., sul punto, CEDU, 27 novembre 2014, Lucky Dev contro Svezia; CEDU, 10 febbraio 2009, Sergey Zolotukin c. Russia).

La previsione di un duplice piano sanzionatorio sul piano ordinamentale interno non costituisce di per sé una violazione del diritto a non essere giudicato o punito due volte per il medesimo reato, in quanto circostanza del tutto prevedibile e conosciuta al contribuente.

Perché un sistema normativo fondato sul doppio binario non contrasti con il divieto di bis in idem, tuttavia, è necessario che ricorrano alcune condizioni.

In particolare, i diversi procedimenti devono perseguire scopi complementari («complementary pourposes»), riguardando, non solo in astratto, ma anche in concreto, diversi aspetti della cattiva condotta sociale. Lo Stato convenuto, poi, deve dimostrare che i due procedimenti sono stati «sufficientemente connessi nella sostanza e nel tempo» in modo da evitare, per quanto possibile duplicazioni nella raccolta e la valutazione delle prove. Della sanzione inflitta nel procedimento che diventa definitivo per primo si deve tener conto in quello successivo, evitando che la persona sia soggetta ad un onere eccessivo («excessive burden»).

La previsione di un doppio binario sanzionatorio, in altri termini,  non viola il divieto di bis in idemdi derivazione convenzionale quando in concreto si realizzi una connessione tra le procedure, sia con riferimento all’identificazione del medesimo fatto, che allo sviluppo cronologico dei procedimenti, tale che le plurime sanzioni irrogate possano essere considerate come facenti parte di un complesso sistema retributivo interno.

Occorre, poi, che sia rispettato il criterio di proporzionalità in relazione alla sanzione complessivamente inflitta. La pena irrogata all’esito del procedimento penale deve tener conto della sanzione amministrativa (e viceversa, la sanzione amministrativa irrogata deve considerare quella penale).

Solo in presenza di queste condizioni, cioè della previsione di un sistema processuale integrato, che consenta all’autorità giudiziaria o amministrativa di tener conto della sanzione già inflitta nel separato procedimento per il medesimo fatto illecito, garantendo il rispetto del criterio di proporzionalità della sanzione complessivamente inflitta, può ritenersi rispettato il principio convenzionale del ne bis in idem.

La Corte EDU, dunque, ha precisato i confini entro i quali possono essere ritenute legittime le scelte normative dei singoli Stati in tema di doppio binario sanzionatorio, dovendosi ravvisare in questo profilo l’elemento di novità di questa decisione.

Con questa sentenza, la Corte di Strasburgo ha fornito la chiave interpretativa per una lettura del divieto di doppio giudizio posto dall’art. 50 della Carta di Nizza che si presenti conforme al principio del ne bis in idem espresso dall’art. 4, Protocollo 7, della Convenzione EDU. Questa soluzione sembra del tutto aderente all’interpretazione della Corte di Giustizia (cfr. CGUE, Sez. III, 23 dicembre 2009, Spector Photo Group N.V. c. CBFA).

Per le specifiche ipotesi degli illeciti di natura tributaria, alla prospettiva esclusivamente processuale in cui sembrano muoversi le decisioni delle Sezioni penali della Corte, che involge il tema della prova della definitività della sanzione amministrativa, potrebbe aggiungersi un altro aspetto derivante dal richiamo al principio di proporzionalità della sanzione complessivamente inflitta, nel senso che potrebbe apparire determinante che, sul piano sostanziale, la sanzione imposta dal primo giudice sia presa in debita considerazione dal secondo giudice per evitare che il destinatario sopporti un onere eccessivo.

6. Le prime ricadute della nuova sentenza: un’ordinanza del Tribunale di Milano del 6 dicembre 2016

Il revirement giurisprudenziale operato dalla Corte EDU è stato raccolto da un recente provvedimento del Tribunale di Milano (Tribunale Milano, Sez. I, 6 dicembre 2016) che ha respinto la richiesta di adozione di una sentenza pre-dibattimentale di improcedibilità ex art. 649 c.p.p. (o, in alternativa, di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia) in un processo per il delitto di manipolazione del mercato (art. 185 T.U.F.) i cui imputati, per i medesimi fatti, erano già stati condannati dalla CONSOB alla sanzione amministrativa pecuniaria ex art. 187-ter, comma 3, lett. a) e b), T.U.F. nonché alla sanzione accessoria ex art. 187-quater, comma, 1 T.U.F.

Il Tribunale, dopo aver illustrato l’evoluzione del quadro normativo euro-unitario dopo l’introduzione della Direttiva 2014/57/UE e del Regolamento UE 596/2014 e dopo aver illustrato la predetta sentenza della Corte EDU, ha affermato che nella disciplina degli abusi di mercato possono operare tanto le sanzioni penali, quanto quelle amministrative. La duplicazione di procedimenti, essendo prevista per legge, infatti, è una conseguenza prevedibile per l’autore della condotta.

Sussiste la connessione tra il procedimento penale e quello amministrativo avente per il medesimo fatto, inoltre, perché gli elementi acquisiti nel procedimento amministrativo per mezzo dei poteri istruttori della CONSOB ex art. 187-octies T.U.F. confluiscono in quello penale, mentre nella fase preliminare dei procedimenti sono previsti scambi di informazioni tra la CONSOB e la Procura della Repubblica. Quando il processo penale raggiunge la fase dibattimentale, poi, le relazioni dei funzionari della Consob sono utilizzabili ai fini di prova quanto al rilevamento dei dati oggettivi sull’andamento delle sedute di borsa ed al contenuto delle registrazioni delle comunicazioni telefoniche degli intermediari. Gli esiti dell’istruttoria dibattimentale, invece, possono essere valorizzati nel corso del procedimento di cui all’art. 187-septies T.U.F.

La sanzione inflitta nel procedimento che per primo giunge a conclusione, infine, rileva nel momento dell’applicazione della seconda. L’art. 187-terdecies T.U.F., infatti, assicura lo scomputo, dalla pena pecuniaria irrogata dal giudice penale, della somma già inflitta a titolo di sanzione amministrativa.


[1] Per un’approfondita disamina di questa pronuncia si rinvia alla relazione di questo Ufficio n. IV/001/2014 «Considerazioni sul principio delne bis in idemnella recente giurisprudenza europea: la sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri contro Italia» del 15 aprile 2014.