Emergenza coronavirus: quali possibili effetti sulla locazione a uso commerciale

di Nicola Crespino e Fulvio Troncone in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la CostituzioneArticolo già pubblicato su il caso.it

Sommario: 1.– Premessa. 2.– Esercizio del diritto di recesso ex art. 27, ultimo comma, della legge n. 392 del 1978. 3.– Autosospensione del pagamento del canone. 4.– Azionabilità della risoluzione per eccessiva onerosità. 5.– Ipotizzabilità della domanda di reductio ad equitatem. 6.– Spunti dal diritto tedesco. 7.– Opportunità di un intervento legislativo.

1.– Premessa.

La pandemia da Covid-19 si manifesta primariamente come emergenza sanitaria, ma, in modo non meno pervasivo, sta producendo e produrrà perniciosi effetti sul ciclo economico.

L’economia italiana è, salvo ridottissime eccezioni, sostanzialmente ferma, essendosi contestualmente congelate sia la domanda, sia l’offerta.

La perdita mensile del Pil, pari a circa 130 miliardi di euro, è quasi totale: palesandosi per certi aspetti una situazione diversa dall’economia di guerra, termine di paragone sempre più evocato dalla retorica ricorrente nei media: non foss’altro perché durante una guerra le aziende nazionali sono comunque impegnate a produrre armi e tutto ciò che serve all’intendenza militare.

Si è facili profeti nel prevedere che le prime ricadute di tale mutamento di scenario si manifesteranno a breve negli uffici giudiziari, specie con riguardo alle azioni intraprese a seguito dell’impossibilità di adempiere all’obbligazione di  pagamento dei canoni locativi pattuiti.

1.1.– D’altro canto la prima risposta normativa a tale situazione emergenziale non si presenta del tutto soddisfacente, atteso che l’art. 65 del decreto-legge n. 18 del 2020 (cd. decreto Cura Italia) si è limitato a prevedere al comma 1, che, per contenere gli effetti negativi derivanti dalle misure di prevenzione e contenimento connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19, ai soggetti esercenti attività d’impresa (non rientranti fra quelle essenziali di cui al d.P.C.m 11 marzo 2020) è riconosciuto, per l’anno 2020, un credito d’imposta, da utilizzare in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241, nella misura del 60 per cento dell’ammontare del canone di locazione, relativo al mese di marzo 2020, di immobili rientranti nella categoria catastale C/1.

Con stretto riferimento ai contratti di locazione relativi a immobili destinati  a uso diverso da quello abitativo, i provvedimenti contenuti nei d.P.C.m., che si sono susseguiti nel corso del mese di marzo, hanno comportato un totale azzeramento del fatturato di molti esercizi commerciali. Ora, accanto agli effetti nel breve periodo della possibile crisi di liquidità che ha potuto attingere alcuni conduttori, superata la fase emergenziale e allentati i vincoli allo spostamento fisico delle persone, è anche possibile che l’importo del canone di locazione originariamente pattuito divenga non più sostenibile in una cornice di complessiva recessione economica.

Vari sono i percorsi giuridici in cui tale evoluzione del sinallagma può concretizzarsi dal punto di vista del conduttore

2.– Esercizio del diritto di recesso ex art. 27, ultimo comma, della legge n. 392 del 1978.

E’ in primo luogo ipotizzabile che la parte conduttrice, in mancanza di un’espressa previsione contrattuale in tal senso, possa far valere il diritto potestativo attribuitole dall’art. 27, ultimo comma, della legge n. 392 del 1978.

Costituisce insegnamento giurisprudenziale che l’ipotesi di recesso legale, invocabile ed esperibile dal conduttore, gli attribuisce la facoltà di svincolarsi dal contratto a prescindere dagli accordi assunti con il locatore, allorquando ricorrano motivi a tal punto gravi da non consentire l’ulteriore prosecuzione della locazione.

La gravità dei motivi deve essere apprezzata tenendo conto di determinati  avvenimenti: a) sopravvenuti rispetto alla costituzione del rapporto locatizio; b) estranei alla volontà del recedente; c) imprevedibili, cioè eccedenti l’ambito della normale alea contrattuale, tali non solo da determinare un sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni originarie non altrimenti rimediabile (Cass. 13 giugno 2017, n. 14623; Cass. 27 marzo 2014, n. 7217), ma anche da incidere significativamente sull’andamento dell’azienda globalmente considerata. Altrimenti detto, i gravi motivi non possono attenere alla soggettiva e unilaterale valutazione effettuata dal conduttore in ordine alla opportunità o meno di continuare a godere dell’immobile locato (Cass. 19 settembre 2019, n. 23345; Cass. 21 aprile 2010, n. 9443; Cass. 8 marzo 2007 n. 5328; Cass. 19 luglio 2005, n. 15215), giacché, in tal caso, si ipotizzerebbe la sussistenza di un recesso ad nutum, contrario alla interpretazione letterale oltre che allo spirito del citato art. 27, ultimo comma, della legge n. 392 del 1978. In effetti, tale recesso, costituendo un’eccezione al principio generale posto dall’art. 1372 cod. civ., ha avuto una rigorosa applicazione al fine di evitare che la scelta di proseguire il rapporto di locazione derivi dalla mera volontà del conduttore. Pertanto, con riguardo all’andamento dell’attività aziendale, può integrare grave motivo, legittimante il recesso del conduttore, un andamento della congiuntura economica, sopravvenuto e oggettivamente imprevedibile (quando fu stipulato il contratto), che lo obblighi ad ampliare o ridurre la struttura aziendale in misura tale da rendergli particolarmente gravosa la persistenza del rapporto locativo (Cass. 28 febbraio 2019, n. 5802; Cass. 4 agosto 2017, n. 19493; Cass. 13 dicembre 2011, n. 26711).

Ovviamente, ricade sul conduttore l’onere di provare la ricorrenza dei gravi motivi secondo la declinazione interpretativa appena indicata avuto riguardo alla sua specifica situazione e il proprio rapporto contrattuale, con l’avvertenza che l’esercizio legittimo del diritto di recesso, implicando, come sopra avvertito, la sola caducazione del rapporto contrattuale, non esonera il conduttore dall’obbligo di versare i canoni maturati durante il semestre di preavviso.

3.– Autosospensione del pagamento del canone.

Quanto precede offre il destro per rilevare che il conduttore non possa autosospendere la prestazione, ancor di più se vi procede senza addurre alcuna giustificazione, né intraprendere nessuna azione giudiziale: l’autosospensione del pagamento del canone così intesa si manifesterebbe, in ultima analisi, in null’altro che in una modalità non tipizzata di autotutela e contraria a buona fede, in quanto tale priva di cittadinanza giuridica. Essa, peraltro, può esporre il medesimo conduttore a un’azione di risoluzione (per inadempimento) da parte del locatore, soprattutto una volta che si sia superato l’ambito applicativo temporale del disposto di cui all’art. 91 del decreto-legge n. 18 del 2020.

4.– Azionabilità della risoluzione per eccessiva onerosità.

E’ altresì ipotizzabile che il conduttore possa azionare il diverso rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità, che risulta decisamente così specifico e calzante da rendere assolutamente recessiva la ipotizzabilità di sussumere la fattispecie nell’ambito della tematica dell’impossibilità sopravvenuta.

Giova avvertire che la fattispecie innanzi esaminata dell’esercizio del diritto di recesso non è sovrapponibile alla risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 cod. civ., in cui è necessario altresì che l’evento sopravvenuto sia eccezionale ed incida sulla sinallagmaticità delle prestazioni (Cass. 11 agosto 1997, n. 7460; Trib. Milano 18 giugno 2013)

4.1.– In effetti, il disposto di cui all’art. 1467 cod. civ. ritaglia un rimedio giudiziale per i contratti a esecuzione continuata, qual è il contratto di locazione, per il caso, quale verosimilmente è quello in atto, in cui avvenimenti straordinari e imprevedibili rendano una prestazione eccessivamente onerosa per una delle parti per effetto del mutamento di valore della prestazione dovuta. Nessun dubbio ricorre sulla ripartizione dell’onere della prova, che chiaramente incombe sul deducente.

E’ poi opinione della Corte regolatrice che la parte che subisce l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione può solo agire in giudizio per la risoluzione del contratto, ex art. 1467, comma 1, cod. civ., purché non abbia già eseguito la propria prestazione, ma non ha diritto di ottenere l’equa rettifica delle condizioni del negozio, la quale può essere invocata soltanto dalla parte convenuta in giudizio con l’azione di risoluzione, ai sensi del comma 3 della medesima norma, in quanto il contraente a carico del quale si verifica l’eccessiva onerosità della prestazione non può pretendere che l’altro contraente accetti l’adempimento a condizioni diverse da quelle pattuite (Cass. 26 gennaio 2018, n. 2047; Cass. 25 marzo 2009, n. 7225; Cass. 5 gennaio 2000, n. 46)

Inoltre, il richiamo espresso all’art. 1458 cod. civ. compiuto dal primo comma dell’art. 1467 cod. civ. non lascia adito a dubbi quanto all’efficacia temporale di una eventuale pronuncia di accoglimento, che, appunto, opererebbe solo ex nunc, lasciando inalterate le debenze medio tempore maturate.

In astratto resta salva l’ipotesi in cui la parte interessata ricorra alla sede cautelare onde ottenere provvedimenti anticipatori della pronuncia finale, sempre che riesca a comprovare la necessità di evitare che, durante il tempo occorrente per far valere la risoluzione per eccessiva onerosità, possa subire danni non altrimenti riparabili.  

4.2.– Peraltro, la più recente traccia giurisprudenziale (a partire da Cass. 8 giugno 1984, n. 3450; Cass. 28 aprile 1986, n. 2926; Cass. 6 aprile 1987, n. 3321; Cass. 22 ottobre 1988, n. 5724; Cass. 30 gennaio 1995, n. 1090) sostiene che l’eccessiva onerosità sopravvenuta possa sorreggere una domanda di risoluzione ex 1467 cod. civ., ma non una eccezione (e quindi, a maggior ragione, nemmeno una mera difesa), posto che anche quando proviene dalla parte convenuta per l’esecuzione del contratto la relativa domanda è diretta al conseguimento di una pronuncia che va oltre il semplice rigetto della domanda principale di adempimento (Cass. 7 novembre 2017, n. 26363), non potendo l’onerosità sopravvenuta essere valutata nei limiti dell’eccezione avverso la domanda principale di adempimento (Cass. 10 febbraio 1990, n. 955). Ne consegue che essa non può essere proposta per la prima volta nel giudizio di appello, ostandovi il divieto di cui all’art. 345 cod. proc. civ. (Cass. 26 ottobre 2004, n. 20744).

4.3.– Tuttavia, risulta anche una risalente opinione giurisprudenziale (Cass. 7 febbraio 1949, n. 190; Cass. 2 agosto 1950, n. 2315; Cass., sez. un., 8 giugno 1951, n. 1469; Cass. 11 aprile 1953, n. 954; Cass. 13 dicembre 1980, n. 6470) che ammetteva la deducibilità in via di eccezione dell’eccessiva onerosità sopravvenuta, così consentendo alla parte convenuta in giudizio per l’adempimento o, nel caso, per il risarcimento del danno da inadempimento di limitarsi a chiedere il rigetto della domanda siccome proposta. L’ammissibilità della deduzione dell’eccezione al fine di contrastare l’altrui richiesta di adempimento implica che si attribuisce effetto retroattivo alla stessa, la quale è così in grado di sterilizzare la domanda attorea in considerazione del difetto assoluto dei suoi presupposti. In tale ottica, l’eccezione di eccessiva onerosità sopravvenuta, ove adeguatamente partecipata, potrebbe allora giustificare la sospensione della prestazione, divenuta, appunto, per il sopraggiungere di eventi imprevedibili, oltremodo onerosa, al pari di quanto avviene allorché l’inadempimento sia stato determinato dall’impossibilità della prestazione. Si aggiunga il richiamo a Cass. 6 ottobre 1952, n. 2939, che assegna, sostanzialmente in un’ottica di buona fede, un particolare valore alla comunicazione stragiudiziale, antecedente alla domanda di adempimento o di danni, con cui si palesano le sopravvenute condizioni di eccessiva onerosità.

5.– Ipotizzabilità della domanda di reductio ad equitatem.

Proseguendo oltre lungo tale linea di ragionamento, e in una prospettiva di conservazione dei rapporti giuridici in essere anche in aderenza con l’attuale declinazione dell’elemento causale – che dà particolarmente valore ai concreti interessi concreti perseguiti dalla singola operazione economica, anche se estranei allo schema tipologico astrattamente prefigurato dalla norma (ex plurimis Cass. 29 settembre 2015, n. 19220; Cass., sez. un., 9 ottobre 2017, n. 23601), occorre interrogarsi se possa avere margini di ammissibilità la domanda di reductio ad equitatem avanzata dalla stessa parte conduttrice.

E’ noto che l’ultimo comma dell’art. 1467 cod. civ.  prevede la facoltà della parte contro cui è domandata la risoluzione di evitarla promuovendo un negozio di tipo processuale idoneo a ridurre a equità le condizioni del contratto.

5.1.– Quel che qui si prospetta ha contorni assai diversi, in quanto la revisione dell’entità del corrispettivo potrebbe essere promossa direttamente dal conduttore e non già dal locatore, ossia colui che verosimilmente potrebbe essere convenuto  a seguito dell’esperimento dell’azione di risoluzione per eccessiva onerosità.

Tale potere processuale trarrebbe linfa da un’applicazione del principio di buona fede di cui all’art. 1375 cod. civ. che regola l’esecuzione dei contratti nell’ottica di un ragionevole bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti contraenti. Tale opzione, oltre a essere coerente con la richiamata prima risposta legislativa sul parziale credito d’imposta, che, appunto, risponde all’orizzonte teleologico di assicurare la piena operatività dei contratti, non si presenterebbe distonica, in relazione all’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà, all’interpretazione costituzionalmente orientata «dei possibili margini di intervento riconoscibili al giudice a fronte di una clausola negoziale che rifletta […] un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte», così come in ultima analisi tratteggiati dal giudice delle leggi nella sentenza  n. 248 del 2013 e nell’ordinanza 77 del 2014. In tal senso il pensiero corre anche a quanto puntualizzato, in tema di riduzione della penale ex art. 1384 cod. civ., da Cass., sez. un., 13 settembre 2005, n. 18128 (e ribadito da Cass. 6 dicembre 2012, n. 21994), laddove ha palesato la necessità «di una rilettura degli istituti codicistici in senso conformativo ai precetti superiori della Costituzione, individuati nel dovere di solidarietà nei rapporti intersoggettivi (art. 2 Cost.), nell’esistenza di un principio di inesigibilità come limite alle pretese creditorie (C. cost. n. 19/94), da valutare insieme ai canoni generali di buona fede oggettiva e di correttezza (artt. 1175, 1337, 1359, 1366 e 1375 cod. civ.)».

Costituisce invero dato acquisito che nel catalogo delle libertà costituzionali l’autonomia privata non ha una rilevanza tale da poter essere esercitata in difformità o in contrasto con i principi costituzionali fra i quali si stagliano il dovere di solidarietà e di eguaglianza, anche sostanziale. Gli strumenti tradizionali del diritto privato, così declinati, si palesano, dunque, di per sé sufficienti ad assicurare la conformazione della manifestazione dell’autonomia privata ai valori fondanti del dato costituzionale senza che per la tutela dei diritti costituzionali nei rapporti privatistici sia indispensabile dar luogo alla Drittwirkung.  D’altro canto, la percezione della Costituzione da parte degli operatori giuridici è evoluta da mera tavola delle regole a «deposito di valori», connotato da un predominio assiologico (Corte cost. sentenza n. 49 del 2015), per cui si è più volte affermato che rientri tra i compiti del giudice quello di ricercare già sul piano della applicazione della legge soluzioni ermeneutiche suscettibili di far penetrare la Costituzione in profondità nell’ordinamento (fra le tante, Cass., sez. un., 15 giugno 2017 n. 14861).

5.2.– Si è sopra fatto riferimento a un ragionevole bilanciamento degli interessi contrapposti. Il che significa che, ove si accedesse a tale possibile opzione in considerazione della situazione davvero eccezionale, il giudice è chiamato a fare uso prudente dei suoi poteri correttivi ex art. 1374 cod. civ. Egli, nel tener conto anche della posizione del locatore, dovrebbe procedere, previamente, a un rigoroso accertamento dell’effettiva incidenza del momento emergenziale sull’andamento dell’azienda conduttrice e, quindi, a un’applicazione ancorata a dati obiettivi del proprio potere riequilibrativo, che, senza accedere al soggettivismo giudiziario, potrebbe avere anche un orizzonte temporale limitato, senza protrarsi per l’intera durata contrattuale, specie per i rapporti contrattuali appena intrapresi.

5.3. – Nel contempo risulta sufficientemente chiaro che la tesi sopra prospettata potrebbe non essere condivisa da chi, legato al dato positivo, assegna al formante giudiziario un ruolo propulsore dell’ordinamento al più solo nei limiti degli spazi interstiziali lasciati aperti dal legislatore. Infatti, già dal dibattito giuridico passato si traggono alcuni argomenti che potrebbero essere addotti in senso ostativo alla configurabilità positiva della divisata azione processuale.

Segnatamente:

(i)     il contratto, ai sensi dell’art. 1372 cod. civ., ha forza di legge fra le parti (pacta sunt servanda) per cui il rischio delle sopravvenienze si ripartisce al momento della stipula secondo il programma contrattuale pattuito in conformità alla disciplina vigente e non può essere sciolto o modificato se non nelle ipotesi espressamente previste dal legislatore;

(ii)    l’art. 1375 cod. civ. potrebbe essere declinato non già come norma imperativa-precettiva, ma unicamente come regola di integrazione del contratto, fonte di obblighi ulteriori rispetto a quelli già individuati nel contratto. Se intesa, in tal senso, risulterebbe  difficile che possa assumere il ruolo di clausola generale di buona fede in una situazione di squilibrio contrattuale dovuto a sopravvenienze, per quanto aventi natura eccezionale;

(iii)    il diritto alla rinegoziazione potrebbe essere letto come un vero e proprio obbligo di contrarre, ossia di ottenere la modifica del contratto per ripristinarne l’equilibrio economico. Se declinato in tal senso, il rifiuto della “parte avvantaggiata” dalla sopravvenienza di rinegoziare consentirebbe alla controparte di attivare, in ultima analisi, il rimedio previsto dall’art. 2932 cod. civ., così introducendo un rimedio giudiziale e affermando un potere del giudice che non trova alcun espresso riscontro normativo. Tanto più che il comb. disp. artt. 1467, 1468 cod. civ. non delinea alcun obbligo di rinegoziare, prevedendo espressamente il potere di reductio ad equitatem a favore della “parte svantaggiata” dall’eccessiva onerosità sopravvenuta nella sola ipotesi di contratto con obbligazioni di una sola parte.

6.– Spunti dal diritto tedesco.

Sotto il profilo comparatistico, va rammentato che il § 242 BGB, nel prevedere che il debitore è obbligato a eseguire la sua prestazione così come la buona fede richiede con riguardo ai costumi del traffico, consente al giudice, a determinate condizioni, di correggere in singoli casi il risultato cui si giungerebbe in applicazione del diritto positivo. Il principio di buona fede può così essere utilizzato anche al fine di conseguire una giustizia del caso concreto. Tuttavia, occorre che l’applicazione e l’esecuzione dei diritti pertinenti al singolo caso conduca a risultati insostenibili e che ciò risponda a un’esigenza di indubbia ed effettiva rilevanza, perché si tratta di un intervento che stride con la certezza del diritto, posto che si esclude che una generale giustizia equitativa possa essere fondata sul § 242. 

Ma ancor più che il § 242 BGB, che dal punto di vista di un giurista tedesco costituisce, per così dire, l’extrema ratio (di qui, la grande prudenza con la quale, come si è appena detto, si fa ad esso ricorso), sempre sotto il profilo comparatistico, vengono in considerazione i §§ 313 e 314 BGB.

Ai sensi del § 313, qualora circostanze che hanno costituito la base del contratto (la Geschäftsgrundlage del contratto, la presupposizione, diremmo noi) risultino dopo la conclusione del contratto sensibilmente cambiate e le parti, qualora le avessero previste, non avrebbero concluso il contratto o lo avrebbero concluso con un diverso contenuto, può essere preteso un adeguamento del contratto, nella misura in cui a una parte, in considerazione di tutte le circostanze del caso concreto, e specialmente della ripartizione del rischio contrattuale o legale, non possa essere imputato il rimanere legata a un contratto immutato.

Mentre, ai sensi del § 314, lì dove si tratti di contratti di durata, ogni parte contrattuale può recedere dai rapporti di durata per una ragione importante senza che sia necessario rispettare un termine di preavviso, e una ragione importante sussiste quando al recedente, in considerazione di tutte le circostanze del caso concreto e in considerazione degli interessi di entrambe le parti, non può essere imposto di proseguire il rapporto fino alla scadenza convenuta o fino alla scadenza di un termine di preavviso (convenzionale o anche legale) per il recesso.

Ed è quest’ultima una disciplina, specificamente dettata per i contratti di durata, qual è anche quello di locazione, che certamente potrebbe consentire di risolvere i problemi con i quali ci si sta confrontando, sempre, naturalmente, che l’emergenza Coronavirus venga riconosciuta come una “ragione importante” in grado di giustificare il recesso.

Ancora una volta naturalmente, non è possibile importare questa disciplina nel nostro ordinamento, nel quale occorrerebbe in qualche modo “tradurla”, ricorrendo alle categorie e agli istituti a noi noti, primo fra tutti quello della risoluzione. Perché è vero che il § 314 BGB attribuisce un diritto di recesso, ma altrettanto vero è che il diritto tedesco a questo istituto ricorre ogni volta che si ponga il problema di risolvere un contratto, anche a fronte di un “normale” inadempimento (v. § 323 BGB).

Traducendo, allora, dal diritto tedesco a quello italiano, una situazione in cui possa essere riconosciuta operare una risoluzione automatica del contratto è ad esempio quella che consegue alla sopravvenuta impossibilità totale di una delle prestazioni, ai sensi dell’art. 1463 cod. civ. Una risoluzione, in altre parole, che libera immediatamente le parti e la eventuale sentenza conseguente alla quale ha valore di semplice accertamento.

Ma come si è sopra anticipato il caso in esame non è certamente qualificabile come un’ipotesi di sopravvenuta impossibilità della prestazione.

In effetti, sempre in quest’opera di traduzione dell’istituto germanico, si potrebbe allora volgere l’attenzione a un istituto “parente” della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta: la risoluzione del contratto per venire meno della presupposizione, evento al quale si ritiene che consegua, appunto, la risoluzione automatica del contratto. Via certamente non facile da percorrere in quanto si tratterebbe, a questo punto, di disegnare, avendo come punto di riferimento la sopravvenuta onerosità di una delle prestazioni, uno spazio di operatività autonomo della presupposizione rispetto a quello della risoluzione per eccessiva onerosità.

7.– Opportunità di un intervento legislativo.

Proprio la controvertibilità di quanto in epigrafe renderebbe in linea generale auspicabile un serio intervento da parte del legislatore che, preso atto della singolare contigenza, provveda a introdurre nuove disposizioni che, a tutela del tessuto commerciale e degli interessi della piccola proprietà,  consentano e rendano conveniente la rimodulazione temporanea dei termini contrattuali, a cominciare dall’estensione anche ai contratti in corso della possibilità di applicare la cedolare secca agli immobili destinati a uso commerciale di categoria catastale C/1 di ampiezza inferiore a 600mq. Medesima facoltà potrebbe essere assicurata anche ai contratti di nuova stipulazione, che ne sono rimasti fuori in ragione della mancata riconferma di tale facoltà nella legge di bilancio per il 2020. Inoltre, tale opzione potrebbe esser anche perseguita per gli immobili di piccole e medie dimensioni destinati a uso professionale.

Accanto a ciò, nel medio-periodo, si sente l’esigenza di una rivisitazione della legge n. 392 del 1978, dando maggiore agio alle parti in sede di redazione del programma contrattuale: ad esempio, consentendo alle parti di modulare a discrezione piena nel corso del rapporto il canone (sì da dar seguito normativo a quanto recentemente statuito da Cass. 26 settembre 2019, n. 23986) o sostituendo le property rules previste nella vigente disciplina con liability rules, predeterminate nell’ammontare massimo l’importo risarcitorio. Il tutto nell’ambito di un più complessivo quadro che, a livello europeo, assicuri il fair trade di fronte allo strapotere delle piattaforme commerciali sovranazionali che agiscono nello spazio telematico spesso in posizione di sostanziale monopolio.

Scarica il pdf