Fenomenologia del concorso in magistratura nell’epoca della legalità pos-moderna: itinerari e prospettive di riforma

di Simone Alecci*[1]

Sommario: 1. L’inesauribile querelle sui requisiti d’accesso al concorso. 2. L’aspirante magistrato al crocevia tra invenzione ed interpretazione: i contenuti delle prove scritte. 3. Il futuro delle scuole di specializzazione per le professioni legali e la monade privata di preparazione al concorso.

            1. Il dibattito polarizzato sul crinale dei requisiti di accesso al concorso in magistratura è stato costantemente influenzato, quantomeno in chiave sistemica, dall’ormai ineludibile esigenza di rimpinguare le carenze di organico riscontrabili nei gangli dell’ordine giudiziario (soprattutto con riferimento agli uffici di medie nonché piccole dimensioni)[1].

            In altri termini, non si può fare a meno di constatare che la tentazione di riesumare – come affiora dalla proposta di legge delega varata dalla commissione di studio Vietti – il modello del concorso di primo grado (introdotto nel 1890 e inesorabilmente crollato sotto i colpi di una autentica stratificazione normativa inaugurata dalla L. 127/1997) riflette i lineamenti di un trend nomopoietico inequivocabilmente orientato a contrastare l’endemica penuria di risorse (umane e non) che attanaglia la monade giudiziaria.

            Tuttavia, allorquando (riesumando un adagio di matrice aristotelica) il contingente offre l’occasione di incidere sul necessario, è elevato il rischio – come accaduto nell’ipotesi dell’esperienza rappresentata dalla menzionata Commissione di studio– che il pregevole intento di favorire l’abbassamento dell’età media dei futuri M.O.T. – perseguito mediante un parziale ritorno al passato – sottenda in realtà una spirale di viscosa ipocrisia: sembra proprio, infatti, che il progetto di riforma, nella misura in cui non consente indiscriminatamente a tutti i neolaureati in giurisprudenza di accedere alla trafila concorsuale, finisca paradossalmente per innescare disfunzioni sistemiche ben più incisive di quelle che si prefigge di dissipare.

            Ed invero, sdoganare l’accesso al concorso soltanto a quanti abbiano conseguito un voto di laurea pari o superiore a 108/110 nonché una media di almeno 28/30 negli esami asseritamente reputati più nevralgici (diritto costituzionale, diritto penale, diritto civile, diritto processuale civile, diritto amministrativo, diritto del lavoro, diritto commerciale e diritto processuale penale) rappresenta una scelta che non tiene conto di almeno due fondamentali profili problematici:

            a) in primo luogo, un simile approccio riformatore non si misura con il dato fenomenico pulsante nel momento valutativo racchiuso in ciascun esame universitario, suscettibile di essere influenzato da una sequela imprevedibile di variabili (soprattutto in una realtà disciplinare dove la frequenza dei corsi non è quasi mai obbligatoria) a cui non è certamente equo attribuire un peso talmente dirimente per il futuro dell’aspirante magistrato;

            b) in seconda battuta il paradigma adottato dal progetto di riforma determinerebbe una vera e propria corsa verso gli atenei più indulgenti nell’attribuzione dei voti in sede di esami, con tutto ciò che ne deriverebbe sul versante della qualità del prisma didattico di volta in volta erogato al corpo discente.

            Per quanto, dunque, astrattamente censurabile, il modello cd. ibrido del concorso di primo grado, così come plasmato dalla Commissione Vietti[2], non brilla certamente per coerenza intrinseca, e ciò in quanto lo steccato innalzato nei confronti degli studenti “meno meritevoli” risulta compensato (sulla base della tutt’altro che persuasiva considerazione – cristallizzata a p. 2 della relazione di accompagnamento al Progetto – per cui, travasandosi la selezione meritocratica sui neolaureati ammessi al concorso in via diretta, lo stage giudiziario assurgerebbe a via d’accesso di ripiego al concorso riservata ai laureati meno sfavillanti) dall’apertura incondizionata a coloro i quali abbiano svolto i diciotto mesi di tirocinio presso gli uffici giudiziari.

            Una simile previsione appare, volendo attingere ad un’epressione di consistenza eufemistica, tutt’altro che equilibrata (e, dunque, foriera di surrettizie violazioni del principio di ragionevolezza), se non altro perché è ormai ampiamente appurato nonché metabolizzato dalla maggior parte degli interpreti che si sono misurati con il tema[3] che l’esperienza del tirocinio presso gli uffici giudiziari altro non è – come peraltro affiora tutt’altro che sibilinnamente dalle guidelines ministeriali susseguitesi in materia –  che l’architrave più rilevante dell’ormai famigerato “Ufficio per il Processo”, in quanto tale inevitabilmente carente sul fronte di quell’afflato di formazione teorica (che la previsione dell’obbligatoria partecipazione ad un determinato numero di corsi di formazione decentrata non può chiaramente forgiare) essenziale nella prospettiva della preparazione agli scritti concorsuali[4].

            Ancor più incomprensibile si rivela, inoltre, l’esclusione dalla trafila concorsuale di coloro i quali abbiano conseguito l’abilitazione all’esercizio della professione forsense ed il dottorato di ricerca: ed infatti, come dimostra il trend normativo racchiuso nell’arco temporale tra il 1997 ed il 2006,  l’incoraggiamento rivolto agli avvocati a partecipare al concorso è da sempre attecchito nell’assunto che il professionista del foro, in quanto conoscitore “pratico” delle dinamiche procedimentali munito al contempo di un bagaglio non indifferente di preparazione teorica (se solo si pensa alle energie impiegate per affrontare un esame di abilitazione che, per il numero di partecipanti nonché per le modalità di svolgimento, assume sempre più i tratti di un’esperienza concorsuale in senso stretto), possa rivelarsi un ottimo magistrato allo stesso modo del dottore di ricerca, la cui formazione accademica metodologicamente orientata al buon governo delle categorie giuridiche (come ancora oggi insegnano i classici, tra cui spicca l’imperituro magistero, tra gli altri, di Nicolò Lipari) non può che recare preziosi benefici all’ordine giudiziario, spesso prigioniero della tirannia dei numeri e, dunque, per necessità poco incline alla vivisezione dell’orizzonte problematico (volendo adoperare uno stilema mengoniano) pulsante in ogni fattispecie dedotta in giudizio.

            Le appena evocate incongruenze endogene allo spirito che pervade il progetto di riforma rifrangono evidentemente il limite insito in un intervento normativo che colpevolmente prescinde da una rivisitazione dell’orizzonte didattico proposto dagli atenei italiani, i quali – al netto di sporadiche eccezioni (fiorite paradossalmente in dimensioni accademiche sovente quanto ingiustamente etichettate, in considerazione della loro afferenza a realtà differenti da quella statale, come figlie di un dio minore) – perseverano nel trascurare del tutto l’esercizio della scrittura, relegando i cosiddetti corsi di redazione di pareri e atti alla stregua di attività formative di contesto facoltativamente innestabili nei vari piani di studio.

            Stando così le cose e finché non si metterà organicamente mano al ripensamento della morfologia didattica dei corsi di studio in giurispruenza (magari evitando di scimiottare esperienze maturate oltralpe), la reintroduzione sic et simpliciter del concorso di primo grado (senza i correttivi distorsivi apportati dal progetto di riforma, che potrebbero tradursi al più nell’ipotesi di un punteggio aggiuntivo di consistenza decimale in sede di approvazione della graduatoria finale – e, dunque, soltanto all’esito del superamento del concorso –  a beneficio di coloro i quali abbiano portato a compimento con profitto il tirocino presso gli uffici giudiziari) pare proprio la soluzione meno insidiosa e dannosa[5].

            Ed invero, una simile linea d’azione consentirebbe, per un verso, di selezionare giovani leve in grado di svecchiare le piante organiche ancora irrimediabilmente vetuste dell’ordine giudiziario e, per altro verso, di far comprendere ai neolaureati in tempo utile se il sentiero della magistratura risulti o meno percorribile, evitando a costoro un’odissea di almeno tre anni che inevitabilmente li costringe, al solo scopo di evitare di essere mantenuti negli studi a tempo indefinito, a gettare lo sguardo, senza particolari ambizioni (con tutto quel che ne consegue per l’amministrazione ministeriale che rischia di acquisire forza lavoro già in partenza demotivata), ad altre esperienze lavorative (basti pensare, a mero titolo esemplifcativo e senza per questo indulgere in indebite generalizzazioni, all’esercito di giovani laureati che, appena entrati nel ruolo degli assistenti giudiziari, perseverano negli studi per tentare l’accesso in magistratura).

            Né a ciò varrebbe obiettare – come, d’altronde, ben tenuto presente dalla stessa Commissione Vietti – che una siffatta impostazione determinerebbe intollerabili lungaggini nelle operazioni di correzione degli elaborati (e ciò in considerazione dell’ancor più elevato numero dei partecipanti all’avventura concorsuale), giacché per ovviare a tale inconveniente di ordine logistico (che, proprio per tale sua natura, non dovrebbe in alcun modo influenzare i meccanismi di funzionamento di una selzione volta ad individuare i profili più brillanti) sarebbe sufficiente prevedere commissioni d’esame numericamente più robuste che siano composte da membri realmente motivati nonché scientificamente fertili e non soltanto desiderosi di scampare per un determinato periodo al carico di ruolo dell’ufficio giudiziario di provenienza.

            2. Il progetto di riforma elaborato dalla Commissione Vietti incide altresì sul crinale della triade che compone da tempo ormai immemorabile il prisma concorsuale delle prove scritte, contemplando, al posto di una delle prove di diritto civile, penale o amministrativo, la redazione di una sentenza, che postuli conoscenze di diritto sostanziale e di diritto processuale.

            Va sin da subito rimarcato che la necessità di un intervento riformatore in tale direzione non è mai stata avvertita come impellente da alcuno degli operatori o degli studiosi dell’area del sapere giuridico, se non altro in considerazione del fatto che la qualità degli uditori (oggi M.O.T.) selezionati mediante il tradizionale criterio d’esame ha sempre recato, quantomeno in chiave tendenziale, ottimi frutti.

            Appare poi del tutto improvvida la scelta di obliterare per mano della sorte una delle tre materie oggetto delle prove scritte, anche laddove a cedere il passo dovesse essere il diritto amministrativo: ed infatti, contrariamente a quanto si opina con una buona dose di approssimazione, il settore disciplinare in questione rappresenta, oggi più di ieri, un terreno essenziale dell’attività giurisdizionale, se non altro per via della sempre più frequente ricaduta nello spettro di cognizione del giudice ordinario di fattispecie e meccanismi rimediali scaturenti dall’esercizio del potere autoritativo da parte della pubblica amministrazione.  

            L’introduzione di una prova pratica di redazione di una sentenza a scapito di una prova teorica rischia di apparire l’ennesimo tentativo di replicare su scala domestica il portato di esperienze (quali quella iberica o, nella sua forma più estrema, quella anglosassone) in cui nell’attenzione ai profili pratici della professione riecheggia alla radice una fisionomia del percorso universitario totalmente diversa da quella italiana.

            Peraltro, è appena il caso di osservare che l’addestramento del M.O.T. alla stesura di sentenze e di ordinanze (e, in definitiva, all’utilizzo degli attrezzi del mestiere) dovrebbe innestarsi nella fase nevralgica della formazione cd. iniziale svolta presso la Scuola Superiore della Magistratura (la cui vocazione istituzionale risponde proprio all’esigenza di plasmare sul terreno pratico menti già ampimente forgiate sul fronte teorico-dogmatico, non lesinando ad ogni buon conto di inserire nel percorso formativo il dialogo sempre proficuo con la dimensione accademica) e nel fondamentale sentiero di uditorato presso gli uffici giudiziari (la cui durata di 18 mesi non andrebbe giammai intaccata e che, per coloro i quali abbiano già svolto il tirocinio formativo, potrebbe rappresentare un’occasione di ulteriore e definitivo rafforzamento delle competenze pratiche assaporate in un passato più o meno prossimo).

            L’afflato teorico che permea lo stadio concorsuale delle prove scritte non andrebbe, pertanto, in alcun modo soffocato, e ciò in quanto – come avvedutamente sottolineato a più riprese dal Prof. Vincenzo Barba – il diritto è essenzialmente esercizio del riconoscere più che del conoscere: ciò equivale ad affermare che dal futuro magistrato non deve pretendersi un nozionisimo dilagante che si trasfigura nella corsa all’ultima sortita giurisprudenziale, bensì un sapiente utilizzo delle categorie, da intendersi – rievocando l’insegnamento di Emil Lask – come metodo di indagine e non anche come strumento di razionalizzazione panlogistica del contenuto.

            Soltanto non abbandonando il modello di selezione concorsuale incentrato sulla riflessione teorica sarà possibile continuare a veicolare nei ranghi della magistratura intelletti in grado di mettere a segno nel quotidiano esercizio della giurisdizione quella che icasticamente Paolo Grossi ha definito l’invenzione del diritto, con tale felice sintagma alludendo a quell’attività di mediazione tra l’ordito normativo ed il nuovo che ribolle nel vivo costantemente stratificato del tessuto sociale[6].

            3. Intimamente avvinto alla prospettiva di riforma del concorso per l’accesso alla magistratura ordinaria è il tema del futuro delle Scuole di Specializzazione per le Professioni Legali.

            A tal riguardo, sarebbe quantomai ipocrita non prendere atto del sostanziale naufragio di tale esperimento, quasi sicuramente innescato dalla sostanziale preclusione ai direttori di questi enti di plasmare l’offerta formativa in funzione delle effettive esigenze avvertite dagli neolaureati in giurisprudenza.

            Da questo punto di vista, invero, il progetto di riforma merita incondizionato apprezzamento nella parte in cui finalmente riconosce alle scuole un’ampia autonomia nel confenzionamento del piano di studi (al netto, beninteso, delle materie oggetto delle prove scritte): e, d’altronde, l’erogazione di insegnamenti quali informatica giuridica o diritto ecclesiastico (senza nulla sottrarre alla dignità scientifico-disciplinare dei medesimi) si è tradotta in una sostanziale dispersione di tempo e di energie da parte degli studenti iscritti alle scuole, i quali hanno inevitabilmente dedicato minore attenzione a tematiche più scottanti in chiave concorsuale, ritrovandosi a ripercorrere, sia pur in termini assai più blandi, il sentiero universitario (spesso e volentieri al seguito dei medesimi docenti intercettati nel corso del quinquennio, i quali si limitano nella maggior parte dei casi a propinare al corpo discente né più né meno che estratti delle loro recenti fatiche monografiche).

            Il mancato coordinamento fra la conclusione della scuola di specializzazione ed il momento in cui viene bandito il concorso in magistratura – discrasia che l’intervento di riforma si proporrebbe di sanare mediante, tra l’altro, l’assottigliamento della durata dei corsi – ha rappresentato l’ulteriore pretesto per gettare lo sguardo all’universo dei corsi privati di preparazione: anche in questo caso, nondimeno, appare doveroso sgombrare lo spettro di analisi da equivoci e concettualismi, avendo il coraggio di affermare che non tutte le dimensioni di formazione estranee alla monade pubblica siano da considerare alla stregua di fucine rette da spregiudicati mercenari.

            In altre parole, l’inserimento nell’orizzonte della preparazione all’avventura concorsuale di enti o scuole private non dovrebbe in alcun modo subire preconcette demonizzazioni, soprattutto in un’epoca in cui il neolaureato in giurispruenza non può certamente fare affidamento – come spesso ammesso tra le righe dagli stessi direttori e dai docenti universitari delle Scuole di Specializzazione – su un percorso di formazione pubblica discretamente competitivo.

            Sarebbe semmai il caso di trarre dalla feroce ed ormai sedimentata irruzione nel panorama formativo di queste realtà lo stimolo per addivenire ad una profonda rivisitazione del percorso post lauream allestito dagli atenei italiani che, nella sua attuale morfologia, non risponde minimamente alle istanze  dei neolaureati (e prova ne è il fatto che il numero dei posti messi a concorso per l’accesso alle SSPL è sistematicamente superiore al contingente di candidati che si presenta alla prova di ingresso).

            Considerato, infatti, che il modello del concorso di primo grado sembra sostanzialmente riaffacciarsi alla finestra (ciò comportando che la questione del monopolio pubblico dei titoli di accesso alla trafila concorsuale ha inevitabilmente smarrito il suo smalto d’attualità), la necessità di una poderosa riforma del sistema delle SSPL (introdotte nel panorama ordinamentale ormai quasi vent’anni fa sulla falsariga delle suggestioni promananti dal modello teutonico del Referendariat ), teleologicamente orientata a far cimentare il corpo discente nello studio delle materie oggetto delle prove scritte senza dilapidare mesi preziosi di preparazione nella riedizione di insegnamenti già impartiti nel periodo universitario, non appare davvero più procrastinabile.


[1] Giudice penale presso il Tribunale di Palermo; Dottore di Ricerca in Diritto Privato presso l’Università degli Studi di Palermo.

[2] Per un quadro sinottico della realtà fenomenica adombrata cfr. le proiezioni statistiche delle vacanze di organico degli uffici piccoli e medi, espressamente richiamate dalla delibera adottata dal CSM l’11.7.2018, volta all’individuazione delle sedi da assegnare ai magistrati ordinari in tirocinio nominati con D.M. 7 febbraio 2018.

[3]  Cfr., per un’esaustiva disamina dell’articolato progettuale, l’agile analisi, densa di spunti di riflessione, svolta da D. Mercadante, UNA NUOVA DISCIPLINA DEL CONCORSO IN MAGISTRATURA? UN COMMENTO ALLE PROPOSTE DELLA COMMISSIONE VIETTI PER LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO GIUDIZIARIO, in http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2008/01/mercadante.pdf.

[4] Cfr., sul punto, l’interessante ricostruzione operata da De Rosa- Del Sorbo, Punti di forza e di debolezza del tirocinio ex art. 73 D.L. 69/13, reperibile presso http://www.unicost.eu/centro-studi-nino-abbate/ufficio-del-giudice-tirocini-formativi/punti-di-forza-e-di-debolezza-del-tirocinio-ex-art-73-d-l-6913.aspx.

[5] e volendo comunque tacere del fatto che l’esperienza presso dimensioni giudiziarie altamente specializzate, come ad esempio i Tribunali di Sorveglianza, penalizza significativamente i tirocinanti impegnati presso tali realtà anche in chiave pratica rispetto ai colleghi che, invece, si confrontano quotidinamante con le aree tematiche ricadenti nel fuoco concorsuale

[6] Come, del resto, sommessamente suggerito da Delli Priscoli, Luci ed ombre del nuovo concorso in magistratura, in La Magistratura, Anno LXV, Numero 1-2.

[7] Sia consentito, sul punto, il rinvio ad Alecci, Le Sezioni Unite ed il tramonto dell’usura sopravvenuta, in Diritto civile contemporaneo, Anno IV, Numero IV, ottobre/dicembre 2017. Il riferimento bibliografico racchiuso nel corpo del testo si rintraccia in P. Grossi, L’invenzione del diritto, Roma-Bari, 82. Cfr. anche R. Conti, I giudici e il biodiritto, Roma, 2014, 37.