Fino a che punto si può pretendere da Gondrano?

di Andrea Penta

 1.       Premessa.

Sembra corretto partire dal dato normativo e ragionare in termini realistici e pragmatici de iure condito e senza forzare la norma primaria per utilizzare, in maniera non sistematica, la categoria dei carichi esigibili per una valutazione della produttività del magistrato in maniera scoordinata e non corretta sul piano del diritto esistente e della finalità della normativa vigente.

Occorre preliminarmente stabilire da quale angolo prospettico si intende porsi: in una prospettiva di medio-lungo termine la soluzione del numero unico nazionale è quella più corretta e, probabilmente, vincente, perché perseguirebbe lo scopo di adattare le piante organiche dei vari uffici ai carichi sostenibili, e non viceversa. In una prospettiva di breve termine e, forse, più realistica, la soluzione del carico esigibile parametrato alla reale situazione di ciascun ufficio giudiziario garantirebbe una migliore risposta di giustizia, ma accentuerebbe le differenze tra i vari uffici (in particolare, negli uffici maggiormente oberati si assisterebbe ad una mobilità verso l’esterno costante; cd. turn over). Da un’altra visuale, si potrebbe sostenere che, mentre nel primo caso le responsabilità delle eventuali inefficienze del sistema giustizia verrebbero traslate sulla politica (la quale, per l’effetto, sarebbe tenuta a fornire delle adeguate risposte sul piano organizzativo), nel secondo caso le stesse responsabilità verrebbero scaricate sui magistrati. E’ anche vero, però, che l’annualità del programma di gestione (all’interno del quale si inseriscono i carichi esigibili) mal si concilia con una programmazione che, per rendere visibili i risultati, deve riguardare il medio periodo (anche se, in proposito, va tenuto conto che il CSM ha consentito di impostare il programma anche alla luce del DOG triennale).

Il DOG deve, quindi, diventare una “programmazione quadro” triennale, rispetto alla quale i programmi di gestione costituiscono un momento di verifica annuale: tale verifica può eventualmente costituire l’occasione per un ripensamento generale in ordine alla programmazione della mobilità interna ed al riassetto dei settori/sezioni tramite variazioni tabellari.

Sempre de iure condito, l’approccio, da taluno avallato, che mira ad individuare nei carichi esigibili (vedasi postea) la soglia massima di produttività esigibile da un magistrato non sembra coerente con l’attuale formulazione normativa, se solo si considera che nella circolare del CSM del 2012 (condivisa, sul punto, da quella del 23.9.2015) è precisato che l’obiettivo di rendimento dell’ufficio non si esaurisce nella rilevazione della durata media dei procedimenti e, dunque, nella sola produttività. In particolare, nella circolare si precisa che esistono vari aspetti dell’attività di un ufficio che ne caratterizzano la capacità di rispondere alla domanda di giustizia proveniente dal territorio, senza tuttavia tradursi direttamente in termini di durata dei procedimenti civili: si pensi ad esempio, alla ordinata e puntuale gestione delle udienze, alla capacità di elaborare e rendere noti orientamenti giurisprudenziali univoci anche attraverso la creazione di banche dati locali, alla fruttuosa liquidazione dei beni oggetto di procedure esecutive o fallimentari, all’esercizio in maniera penetrante della vigilanza propria del giudice tutelare o dei giudici delegati ai fallimenti. Ovviamente, ciò non esclude la possibilità di far convergere gli sforzi nella direzione di una modifica normativa che consenta di introdurre, attraverso strumenti equipollenti per i diversi fini previsti dal legislatore, un limite di quantità, oltre che inferiore (quantità minima) superiore (quantità massima), al di là del quale la prestazione del magistrato rischia di perdere i livelli di indispensabile qualità.

Peraltro, la stessa circolare, in modo, a dire il vero, contraddittorio, sembra poi operare una sorta di inversione logica nel momento in cui sostiene che dapprima va stabilito quale sia il rendimento che l’ufficio può perseguire, determinando l’ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti pendenti (proprio perché l’obiettivo di rendimento non è un semplice dato numerico, ma è anche un dato di “qualità”, che impone di garantire comunque la trattazione dei procedimenti ritenuti prioritari dallo stesso legislatore), e poi determinato il carico esigibile di lavoro dei magistrati, così come indicato nell’art. 37 d.l. n. 98/2011, secondo i criteri esplicativi della circolare CSM del 2.5.2012.

Parimenti, un passaggio della circolare del 23.9.2015 si presta a fraintendimenti, nella parte in cui, nell’ottica della semplificazione del procedimento per la redazione del piano di gestione, offre ai capi degli uffici l’alternativa tra: a) confermare il carico esigibile individuato l’anno precedente; b) chiedere di fornire specifiche spiegazioni all’ufficio statistico del CSM nel caso in cui gli stessi ritengano di indicare un diverso carico esigibile ovvero laddove il carico esigibile non fosse stato in precedenza specificamente indicato.

2.       La soglia massima di produttività.

Di Gianluigi Morlini.

L’individuazione di carichi massimi esigibili unici sul territorio nazionale comporta almeno due profili problematici.

Il primo profilo riguarda ovviamente l’individuazione del carico, poiché all’evidenza non tutte le controversie hanno eguale peso, ed il processo non può essere ridotto ad una catena di montaggio. Ciò comporta innegabili difficoltà, ma non si tratta a mio avviso di un profilo irrisolvibile, poiché non pare impossibile fare un classamento delle difficoltà delle singole procedure, che possono ad esempio essere ‘pesate’ per materia, importo e numero di parti processuali. 

La seconda problematica è relativa alla struttura che si vuole dare ai carichi, essendo possibili almeno due modelli.

Uno, quello minimale, intende i carichi come una quantità di lavoro superata la quale non possono essere mossi alcuni rilievi disciplinari, quali ad esempio ritardi nel deposito delle motivazioni: in sostanza, si ritiene che, raggiunta la soglia del carico massimo, sia inesigibile richiedere il rispetto dei termini per il deposito di tutti i provvedimenti.

L’altro modello, quello più radicale, muove dal presupposto che non è possibile svolgere, con l’attenzione, la cura e la qualità che sono dovute per l’esercizio della giurisdizione, una quantità di lavoro superiore ad una certa soglia. Pertanto, il carico massimo rappresenta il limite di lavoro che può essere assegnato a ciascun giudice, e nessun giudice può essere chiamato a gestire un carico superiore, proprio perché ciò comporterebbe lo stravolgimento e lo snaturamento della funzione giurisdizionale.

Questa è, come noto, la strada che è già stata prescelta dai giudici amministrativi, con delibera del CPGA.

Personalmente reputo condivisibile tale ultima ricostruzione, che ha anche il pregio di costringere l’istituzione a prendere atto che il sistema, in assenza di interventi legislativi od organizzativi, può fare fronte solo ad un determinato numero di controversie.

Ovviamente, deve essere chiaro che il carico massimo non è un livello aprioristico ed immutabile, potendo e dovendo essere rapportato sia ai mutamenti della legge processuale (è evidente che, ad esempio, ove fosse introdotta la motivazione a richiesta, il carico delle definizioni dovrebbe aumentare); sia ai mutamenti del livello di assistenza organizzativo fornita al magistrato (altrettanto evidente è che, con un vero ufficio del processo a disposizione, la produttività aumenterebbe).

Di Michele Ruvolo.

Il concetto di “carichi esigibili” secondo le circolari del CSM è pericoloso e non costituisce di certo un argine a protezione del sereno e ponderato esercizio delle funzioni giurisdizionali. Si legge nella delibera del CSM del 2 maggio 2012 che i carichi esigibili “rappresentano la capacità di lavoro dei magistrati che fisiologicamente consenta di coniugare qualità e quantità del lavoro in un dato periodo di tempo, da individuarsi alla luce della concreta situazione dell’ufficio presso il quale sono in servizio”. In realtà, i carichi esigibili si determinano (in funzione prognostica) sulla base della produttività accertata nell’ultimo anno (prima era l’ultimo quadriennio). Ciò comporta che se nell’ultimo anno è aumentata la produttività della Sezione, allora è certo che anche il carico esigibile per il successivo anno aumenta. Ma è fin troppo evidente che, visto che i giudici di ogni Sezione cercano di rispettare l’obiettivo indicato nel programma di gestione ex art. 37, allora succede spesso che, anche se di poco, aumenta pure nell’anno seguente la produttività sezionale e, conseguentemente, il carico esigibile per l’anno ancora successivo. Ed è possibile che ciò succeda anno dopo anno (fatta salva qualche rara eccezione, che prescinde comunque da eventuali vuoti di organico, poiché il carico esigibile è determinato dividendo la produttività sezionale per le presenze effettive, e quindi ottenendo la produttività media di ciascun giudice effettivamente presente in Sezione, al netto degli esoneri e delle assenze per malattia, maternità o altra causa).Come attualmente strutturato, quindi, il concetto di carico esigibile non è posto a tutela dei magistrati né, soprattutto, a salvaguardia della qualità delle decisioni giudiziarie e, in ultima analisi, dell’integrità dei diritti fondamentali delle persone. Sono quindi d’accordo con Gianluigi quando afferma che il problema non si pone tanto de iure condito, ma sotto il profilo di ciò che andrebbe introdotto di innovativo nel sistema. E probabilmente l’esigenza che si avverte è quella di un carico effettivamente esigibile (mentre il concetto attualmente vigente ha ben poco di “carico esigibile”), di un “carico massimo ponderato”, ossia di un limite alla produttività, al numero di cause sul ruolo di udienza, al numero dei procedimenti pendenti (di contenzioso ordinario e di cautelari), al numero di udienze annue, ecc. Ciò previa pesatura dei fascicoli, in modo da operare un’equilibrata formazione dei ruoli (il che consentirebbe, peraltro, di ottenere risposte più rapide, nell’interesse dei cittadini).

3.       Standard medi e carichi esigibili: distinzioni.

I concetti di “standard medi di rendimento” e di “carichi esigibili” sono, almeno allo stato dell’arte, differenti, atteso che, mentre il primo identifica un livello quantitativo e qualitativo appunto standard, pur rapportato (oltre che, ovviamente, a ciascuna delle diverse funzioni svolte dai magistrati) agli “specifici settori di attività” (N.B.: il richiamo alla “tipologia degli uffici e alla loro condizione organizzativa e strutturale”, che ha indotto taluno a riferire gli standard ai singoli uffici, in realtà è riferito al parametro della laboriosità), il secondo individua il peso specifico al di là del quale ciascun magistrato non è in grado ragionevolmente di andare.

L’impostazione che si lascia preferire è che, sganciando i carichi dagli standard, i primi si limitino ad individuare (non, almeno direttamente, la produttività massima esigibile da ciascun magistrato, sia pure all’interno di ogni ufficio, bensì) l’entità del ruolo gestibile e, semmai, il peso ponderale che, in occasione di ciascuna udienza, il singolo magistrato può sostenere. In quest’ultima ottica, significativa appare l’esperienza maturata in Cassazione; cfr. par. 31.5, dove, dopo aver individuato i criteri per “pesare” i vari procedimenti, si stabilisce quanto segue: “a ciascun componente del collegio vengono assegnati ricorsi per un valore ponderale complessivo indicativamente non superiore ad 8 per ogni udienza, comunque superabile nel caso di ricorsi inammissibili o seriali, tali da richiedere una motivazione standard, ovvero per ragioni eccezionali”.  E’ chiaro che in primo grado questo criterio potrebbe valere per le cause collegiali (procedimenti da trattare in camera di consiglio, processi di competenza della sezione specializzata agraria, ecc.) e per scadenzare in ciascuna udienza le cause rinviate per la precisazione delle conclusioni o per la discussione orale.

Questa sembra essere l’unica lettura plausibile alla luce di una valutazione sistematica che tenga conto anche del contesto nel quale l’istituto dei carichi è stato inserito.

L’opinione prevalente (almeno per quanto concerne la nozione di carichi esigibili) è, invece, che, mentre gli standard, identificando valori “medi” di rendimento, presuppongano un range all’interno del quale operare la valutazione di professionalità, i carichi si traducano in un numero preciso, identificando la soglia oltre la quale non si può pretendere che il singolo magistrato vada.

Attenzione: da non confondere con gli “standard di rendimento” (co. 2, lett. b, dell’art. 11) sono gli “standard medi di definizione dei procedimenti” (co. 3, lett. e, dello stesso articolo), i quali ultimi (sempre di prerogativa consiliare) si riferiscono non alla qualità e quantità del prodotto giurisdizionale, bensì ai tempi di risposta.

Inoltre, gli “standard di rendimento” rappresentano solo uno dei parametri (“tenuto anche conto”) di cui occorre tener presente ai fini della valutazione sulla laboriosità (e, quindi, produttività) di ciascun magistrato. Al contempo, i “carichi esigibili” rappresentano il principale parametro (“tenuto conto”) sulla cui base i capi degli uffici giudiziari determinano, nell’ambito dei programmi per la gestione dei procedimenti civili, gli obiettivi di rendimento dell’ufficio.

Infine, sia gli standard che i carichi devono essere individuati dal CSM. Peraltro, la Circolare CSM del 2.5.2012 si è limitata a determinare un percorso metodologico e dei parametri generali ai quali i dirigenti degli uffici si sarebbero dovuti attenere nell’individuare i carichi esigibili da porre alla base dei programmi di gestione; tanto è vero che, in base alla menzionata circolare, la predisposizione dei progetti di gestione presuppone l’individuazione, da parte di ciascun dirigente dell’ufficio, del “carico esigibile di lavoro dei magistrati”. Va segnalato, inoltre, che, con Delibera di Plenum in data 25 settembre 2015, il CSM ha nuovamente invitato i Presidenti di tutti gli uffici interessati a predisporre i programmi di gestione ex art. 37 D.L. 98/2011 anche per l’anno 2016 in base delle previsioni della Circolare prot. n. 10356 sulla “Nuova normativa prevista dall’art. 37 D.L. 98/2011”. Ciò appare in contrasto con quanto previsto nella precedente delibera, alla stregua della quale in una seconda fase di applicazione, coincidente con il triennio 2015/2017, si sarebbe dovuto procedere alla comparazione dei dati elaborati dai dirigenti (in maniera affidabile) nel primo triennio (2012-2014), allo scopo di verificare la possibilità di uniformare, nei limiti della compatibilità e delle specificità dei singoli uffici, i carichi esigibili nelle realtà giudiziarie omogenee.

Da ultimo, poiché lo standard nazionale dovrebbe essere rappresentato da un intervallo statistico che si colloca attorno alla mediana della quantità di produzione rilevata nel quadriennio per gruppi omogenei di magistrati (cluster), occorrerebbe un’attività di monitoraggio nei vari uffici orientata sulla base delle funzioni svolte e degli specifici settori di attività.

Per i carichi, invece, è necessario individuare il punto oltre il quale l’aumento della domanda e del carico comporta per il magistrato una situazione di sovraccarico ed una riduzione della stessa capacità di smaltimento. Ciò non esclude che anche il procedimento di individuazione dei carichi esigibili e di definizione dei programmi di gestione presuppone, annualmente, la raccolta dei dati statistici, adeguatamente scomposti quantitativamente e qualitativamente per sezione o settore dell’ufficio, relativi al quadriennio precedente al primo semestre dell’anno in corso, coinvolge i magistrati dell’ufficio e si conclude con la predisposizione del programma, alla quale fa seguito un parere del Consiglio Giudiziario ed una delibera di presa d’atto del Consiglio Superiore, eventualmente corredata da rilievi, da trasmettersi al Ministero della Giustizia, per le valutazioni di competenza ai sensi dei commi 11, 12 e 13 dell’art. 37.

4.       I carichi esigibili.

La fissazione dei carichi esigibili si pone, come si è anticipato, su un diverso piano rispetto all’individuazione degli standard medi di rendimento, poiché i primi hanno la finalità di individuare la produttività possibile dell’ufficio nel suo complesso, mentre i secondi riguardano la valutazione individuale dei singoli magistrati. In prospettiva si tratta di indici che dovranno essere coordinati, ma, al momento, la metodologia degli standard medi di rendimento, pur in fase di progettazione avanzata, non consente ancora che si possa tenere conto di questi.

In entrambi i casi gli interventi vanno accompagnati con un monitoraggio costante, che deve riguardare non solo i flussi, i tassi di opposizione e impugnazione, gli esiti, ma anche l’impatto che ogni singola modifica direttamente ed  indirettamente comporta nel breve e nel medio periodo, anche per consentire correzioni ed aggiustamenti.

Più precisamente, mentre gli standard si possono tradurre in valori medi a rilevanza nazionale (se del caso con percentuali di tolleranza, soprattutto in difetto), i carichi non si possono tradurre in un numero ‘magico’, perché concernono un profilo estremamente più complesso. Semmai si può sostenere che ogni giudice, in qualunque ufficio presti servizio, debba svolgere una quantità di lavoro omogenea a quella di qualunque altro giudice, in qualunque altro settore, in qualunque altro punto del territorio nazionale.

3.1. Occorre partire da una considerazione generale che deriva da una massima di esperienza: a parità di energie profuse, i giudici civili che devono gestire ruoli più ponderosi sono in grado di garantire una produttività minore rispetto ai colleghi chiamati a gestire ruoli di minore entità. Invero, il maggior numero di cause comporta inevitabilmente più istanze di liquidazione di ctu e/o di gratuiti patrocini, più ricorsi cautelari in corso di giudizio, ecc. Ma, soprattutto, nell’ottica che ciascun magistrato deve (tendere ad) osservare il principio di ragionevole durata del processo (anche al fine di non incorrere nella violazione della legge Pinto), essendo costretto ad inserire in ciascuna udienza più procedimenti (perché, ovviamente, a parità di fascicoli, i rinvii, per il giudice maggiormente oberato, sarebbero più a lungo termine), dovrebbe farsi carico di un numero maggiore di fascicoli da studiare, di più testimoni da escutere o parti da interrogare, di più avvocati con i quali interloquire, di un più elevato numero di verbali da scrivere, di un maggior numero di provvedimenti da adottare (sotto forma di decreti o di ordinanze), ecc. Le prime esperienze applicative hanno, inoltre, dimostrato che l’introduzione del PCT ha accentuato, anziché, come era nell’intento del legislatore, diminuito, le difficoltà gestionali dei ruoli.

L’incidenza del ruolo, più o meno ponderoso, sulla produttività scema nei gradi superiori al primo, atteso che, al di là delle sentenze, in appello si provvede sulle istanze di sospensiva e, talvolta, si rinnova l’istruttoria, laddove in cassazione non vi è attività ulteriore rispetto alle sentenze (in quanto, allorquando si rendono necessari ulteriori accertamenti di fatto, si cassa con rinvio al giudice di merito).

Più precisamente, la base di partenza per il ragionamento sui carichi esigibili non può, a mio modo di vedere, non partire dall’analisi dei ruoli pendenti e delle sopravvenienze, tenendo, però, presente che, mentre queste ultime rappresentano dati oggettivi non alterabili, i primi possono essere il frutto (oltre che di problemi strutturali endemici) di pratiche strategiche opinabili. In particolare, occorrerebbe valutare come si sia pervenuti a quel ruolo eccessivo. Se quel magistrato si è posizionato all’interno del range di produttività previsto dagli standard medi di rendimento, in linea di massima nessuna censura gli si potrà muovere, anche se potrebbe aver privilegiato la definizione di cause seriali e/o più recenti; ma se quello stesso giudice ha prodotto al di sotto della soglia minima di quel range, una fetta dell’arretrato che si è accumulato sarà a lui in via esclusiva imputabile. Una volta stabilito se il ruolo esorbitante che gli è stato affidato non è, è in tutto o è in parte a lui ascrivibile, bisogna passare ad analizzare le sopravvenienze.

Va, peraltro, chiarito, a scanso di equivoci, che il numero di cause formanti un ruolo rappresenta un dato di per sé neutro, atteso che il peso specifico dei singoli procedimenti (su cui incide, in special modo, il numero delle parti e la risalenza dell’iscrizione a ruolo) e, nei tribunali in cui i giudici svolgono funzioni promiscue o, comunque, di giudice (civile o penale) a 360°, la tipologia di contenzioso (è notorio, ad esempio, che le cause di divisione o di appalti pubblici sono tendenzialmente più complesse di quelle di separazione e, soprattutto, di divorzio; che queste ultime o quelle possessorie, peraltro, richiedono spesso istruttorie più impegnative; che un appello avverso sentenza del GdP non ha bisogno di alcuna istruttoria, potendo il giudice far precisare le conclusioni già alla prima udienza; ecc.) costituiscono parametri che orientano la valutazione sul peso effettivo complessivo.

Tra i due parametri, in una fase di assestamento iniziale, dovrebbe conferirsi maggiore rilevanza a quello delle pendenze; a regime, invece, una volta ridotte le differenze sostanziali, dovrebbe privilegiarsi quello delle sopravvenienze. E’ chiaro, infatti, che, una volta aggredito e rimosso (o fortemente ridimensionato) l’arretrato, un eventuale aumento dell’organico disposto a tal fine (ovvero una ridistribuzione interna delle risorse umane disponibili) non avrebbe ragion d’essere, qualora la forza lavoro in precedenza impegnata in quel settore fosse sufficiente a far fronte alle sopravvenienze. Da ciò deriva che, qualora la patologia da affrontare fosse individuata in via esclusiva nel rilevante arretrato, dovrebbero privilegiarsi, per quanto possibile, soluzioni che non alterino in modo strutturale e definitivo la ripartizione interna dei magistrati nei vari settori. Potrebbe, ad esempio, pensarsi ad un’applicazione, anche massiccia, di magistrati addetti ad altri settori non al contempo in sofferenza, per un periodo di tempo reputato sufficiente (ad es., un anno) e con obiettivi ben definiti (ad es., 100 sentenzepro capite). Anticipando quanto si dirà di qui a poco, non sono da escludere, in siffatte evenienze, soluzioni che contemplino, da parte del Ministero della Giustizia, oltre che un’equilibrata distribuzione delle risorse umane (l’indispensabile riforma delle piante organiche che tenga conto delle sopravvenienze), l’assegnazione di nuove risorse, quantomeno per far fronte all’arretrato e per restituire funzionalità agli uffici superiori. Ciò potrebbe tradursi in misure anche emergenziali, sulla falsariga di quanto è stato previsto in appello con l’invio di 400 giudici ausiliari proprio per smaltire l’arretrato accumulatosi (cd. task force). L’importante è che poi misure per loro natura provvisorie (si pensi ad un arruolamento straordinario di avvocati) non si trasformino, attraverso proroghe periodiche, in misure consolidate (si pensi all’esperienza dei goa).

Non peregrino, peraltro, appare il rilievo, formulato da taluno, secondo cui la distribuzione degli organici non dovrebbe tener conto delle pendenze, ma solo delle sopravvenienze, non potendo la pianta organica che essere rapportata alla situazione “a regime”, mentre eventuali emergenze dovute a situazioni straordinarie (magari pregresse, ma i cui effetti si riverberano sul presente) dovrebbero essere affrontate con provvedimenti altrettanto straordinari (applicazioni, assegnazione di magistrati distrettuali, etc.).

E’ opportuno ridimensionare il problema dell’arretrato, in tal guisa concentrando le attenzioni, ai nostri fini, soprattutto sulle sopravvenienze. Invero, un’analisi dettagliata delle pendenze e dell’anzianità dei procedimenti dell’intero settore della giustizia civile ha messo a fuoco, attraverso ben 23 indicatori di valutazione, non solo i flussi dei procedimenti e l’anzianità delle iscrizioni di tutti gli affari civili, ma anche lo stato dei 139 uffici giudiziari del Paese. In particolare, dai dati emerge che più del 70% delle pendenze civili (pari, complessivamente, a 5,2 milioni di cause) risulta essere stato iscritto nell’ultimo triennio e soltanto il rimanente 30% in precedenza. Quanto al primo dato (la “giacenza”), costituisce tecnicamente il risultato di un normale ricambio tra sopravvenienze ed esaurimento e la sua ‘anzianità’ fisiologica viene calcolata in tre anni per gli uffici di primo grado e in due anni per quelli di secondo grado. Il rimanente 30% (il vero e proprio “arretrato” in senso stretto) costituisce la patologia che, purtroppo, contribuisce a relegare la giustizia italiana in fondo alle classifiche sull’efficienza dei sistemi giudiziari redatte dalle organizzazioni internazionali. Occorre, quindi, puntare non solo a programmare in maniera più razionale il lavoro degli uffici giudiziari, ma ad abbattere il 30% di vero e proprio arretrato civile. Ma da ciò consegue altresì che, una volta eliminata la “zavorra”, le valutazioni potranno essere espresse esclusivamente con riferimento alle sopravvenienze.

Peraltro, occorre evitare una confusione di piani: le sopravvenienze dell’ufficio o del singolo magistrato non si riflettono direttamente sul carico esigibile, perchè ogni giudice dovrebbe smaltire la stessa quantità di lavoro a prescindere da tale parametro; tuttavia, un più elevato numero di sopravvenienze giustifica un maggior numero di giudici in servizio presso ciascun ufficio o, almeno, un aumento delle risorse umane destinate al settore interessato.

E’ chiaro, poi, che, se l’elevato arretrato di un ufficio non si accompagna ad un basso indice di smaltimento degli ultimi anni ed è, dunque, risalente nel tempo, sarà fondatamente ricollegabile a cause storiche e, quindi, risolvibile esclusivamente con misure contingenti e temporanee. Se al consistente arretrato si accompagna, invece, un perdurante basso indice di smaltimento, dovranno essere ricercate con maggiore attenzione le cause di tale anomalia.

5.       Le priorità (cenni).

Nell’ambito dei carichi esigibili è, poi, possibile valorizzare le priorità , nel senso che in una Procura o in un Tribunale si affrontino prima, nell’ambito di ciascuna macro-categoria, i reati più gravi in concreto (si pensi a violenze sessuali, concussioni o abusi d’ufficio). Per quanto, è bene ricordarlo, l’art. 37 della l. 98/2011 non si applica ai processi penali. Nella pratica, tuttavia, l’attenzione degli uffici si è concentrata prevalentemente sul numero delle definizioni, lasciando quindi in secondo piano il tema della priorità, che costituisce, invece, una scelta di politica giudiziaria rimessa all’ufficio per governare i flussi di lavoro.

Al fine di non incorrere nelle “forche caudine” della Legge Pinto, ad esempio, rappresenterebbe una “buona prassi” di organizzazione quella volta a privilegiare la trattazione degli affari ultratriennali in primo grado (ed ultrabiennali in grado di appello), anche a costo di rallentare quelli di minore vetustà.

L’ “ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti” deve essere individuato, come previsto dalla norma, sulla base di criteri oggettivi ed omogenei e, specificamente, tenendo conto della “durata” complessiva (quindi, anche di eventuali gradi di giudizio precedenti), “nonché della natura e del valore della causa”: tali criteri sono posti allo stesso livello ai fini della scelta dei settori da considerare prioritari.  Va, peraltro, evitato di scegliere solo settori a più alto indice di ricambio (come quelli caratterizzati da materie seriali di rapida definizione), che permettono indubbiamente di raggiungere risultati anche elevati di produttività, a discapito, però, proprio delle cause più rilevanti per la loro natura e valore.

Ovviamente, è necessaria una scelta di priorità nella trattazione solo nel caso in cui l’ufficio non sia in grado di gestire tutto il sopravvenuto.

A titolo meramente esemplificativo, in ambito fallimentare, è previsto uno specifico criterio di priorità nella trattazione delle controversie nelle quali è parte un fallimento, a tal punto che il Presidente del Tribunale deve trasmettere annualmente al Presidente della Corte di Appello i dati relativi al numero di  procedimenti in cui è parte un fallimento e alla loro durata, nonché le disposizioni adottate per assicurarne la priorità di trattazione.

6.       Il valore ponderale di ciascuna causa e dei ruoli.

Date queste premesse, si potrebbe attribuire un voto oscillante tra 1 e 4 alle singole cause, partendo da quelle più semplici fino a pervenire a quelle maggiormente complesse. In particolare, il peso del singolo procedimento potrebbe essere valutato con indici che vanno da “1” (che individuerebbe procedimenti di facile definizione) a “4” (che individuerebbe procedimenti di definizione molto difficoltosa). Perseguibile è altresì la proposta di chi ritiene possibile individuare dei coefficienti di difficoltà delle cause (ad esempio da 1 a 10), applicare i suddetti coefficienti alle cause che pendono sui ruoli e determinare il “punteggio” reale che grava su ciascun ruolo (e su ciascun tribunale).

Esempio: considerandosi un tribunale di media entità, in cui sono presenti tre sezioni civili, composta ciascuna da 7 magistrati, escludendo (per facilità di ragionamento) le materie specialistiche (esecuzioni e fallimentare), potrebbe verificarsi ragionevolmente che: la prima si occupi lato sensu di famiglia (voto “2”, considerata la difficoltà dell’istruttoria), di questioni di competenza del giudice tutelare (voto “1”), di controversie che coinvolgono la PA (ivi compresi gli appalti pubblici; voto “4”), della materia bancaria (voto “3”) e di espropriazioni (voto “2”); la seconda sezione di successioni (voto “4”), di proprietà e diritti reali (voto “3”), di possesso (voto “2”, considerata l’istruttoria della fase cautelare), di condominio (voto “2”), di locazioni (voto “2”) e di vendita (voto “3”); ed alla terza siano riservate le controversie concernenti i contratti diversi dalla vendita (voto “3”) e quelle risarcitorie (voto “2”).

In cassazione, in base al par. 31.4. della circolare organizzativa, i ricorsi sono suddivisi per materia, sulla base delle indicazioni risultanti dallo spoglio, ed a ciascuno di essi viene attribuito un valore ponderale, alla luce dei seguenti criteri: 1) valore ponderale 1: ricorsi aventi ad oggetto questioni di diritto già decise; vizi di motivazione; numero di motivi di ricorso non superiore a tre; 2)  valore ponderale 2: ricorsi che non siano riconducibili all’ipotesi precedente o a quella successiva; 3) valore ponderale 3: ricorsi aventi ad oggetto questioni nuove o con i quali viene proposto un notevole di censure che investono punti autonomi della decisione e/o con notevole numero di parti aventi posizioni non omogenee; 4) valore ponderale 4: ricorsi aventi ad oggetto questioni nuove di particolare difficoltà; 5) valore ponderale 5:  ricorsi di eccezionale difficoltà per la complessità della materia e/o del quadro normativo di riferimento. A ciascun componente del collegio vengono, poi, assegnati ricorsi per un valore ponderale complessivo indicativamente non superiore ad 8 per ogni udienza.

In sede amministrativa, per consentire che il peso degli affari assegnati al singolo magistrato sia uguale per tutti i magistrati della sezione, il presidente deve valutare determinati elementi oggettivi: a) materia trattata; b) numero e complessità dei motivi e delle domande; c) presenza di motivi aggiunti e ricorsi incidentali; d) numero complessivo delle pagine che compongono gli atti del processo.

Questa stima già potrebbe proiettare i suoi effetti sulla distribuzione tra le sezioni delle materie o su una ridistribuzione interna delle risorse umane.

Considerando, poi, una media di 2,5 (perché il valore “0” non è ipotizzabile), un ruolo gestibile, anche in assenza dei meccanismi di compensazione che di qui a poco si individueranno, non dovrebbe superare il valore ponderale di “2.000”; tra questo valore e “3.000” il ruolo è gestibile solo ricorrendo ad uno o più dei predetti meccanismi di compensazione; oltre questa soglia il ruolo non è gestibile e la responsabilità per l’arretrato non può e non deve essere imputata alla magistratura, né giuridicamente né moralmente.

E’ chiaro che l’esemplificazione in precedenza resa non tiene conto di attività che, nell’esercizio di alcune peculiari funzioni, rappresentano variabili costanti che incidono, talvolta anche significativamente, sul carico complessivo. Basti pensare, in ambito penale, agli uffici di Procura, in cui allo studio dei singoli fascicoli si accompagnano le riunioni con la PG per stabilire il tipo di indagini da svolgere. O,  nel settore civile, ai giudici delegati ai fallimenti, i quali gestiscono quasi quotidianamente le istanze provenienti dai curatori.

A seconda del carico di lavoro questa quantità di operazioni aggiuntive può incidere notevolmente sulla quantità reale di tempo che il magistrato deve sottrarre al lavoro principale.

7.       Gli strumenti a disposizione dei capi degli uffici.

Ma se così stanno le cose, i carichi di cui tener conto in sede di redazione del programma per la gestione dei procedimenti civili rappresenteranno, piuttosto che un numero astratto, dei criteri che i capi di ciascun ufficio giudiziario dovranno considerare a livello programmatico ed organizzativo.

Si vuole intendere che giammai il CSM potrà inventarsi dei parametri numerici certi ed inconfutabili. Potrà, però, fare un ragionamento del genere di quello che segue:

1)      il carico sostenibile per un giudice civile che svolge una funzione non promiscua è fino a 800 fascicoli (ma, come visto, sarebbe opportuno far riferimento ai valori ponderali) e 3 cause nuove assegnate per ogni udienza (considerando due udienze istruttorie a settimana, nonchè due sentenze e due altre definizioni per ciascuna udienza);

2)      allorquando il ruolo rientra nella sezione 801-1200 fascicoli e le nuove assegnazioni oscillano tra le 3 e le 5 cause, lo stesso giudice potrà (e dovrà) garantire il medesimo livello di produttività solo delegando le prove ai got, facendosi affiancare da questi ultimi nella stesura dei provvedimenti più semplici e facendosi coadiuvare dai tirocinanti (nelle ricerche giurisprudenziali, nella gestione della consolle del magistrato, ecc.); in definitiva, creando un efficiente ufficio per il processo;

3)      quando il ruolo supera i 1200 fascicoli, il giudice assegnatario dello stesso non è in grado di garantire una produttività adeguata ed allora gli strumenti a disposizione possono essere, nell’ordine:

a)      strumenti interni, quali la perequazione dei ruoli o il congelamento di parte del ruolo eccessivo ovvero la ridistribuzione dei ruoli o delle risorse umane;

b)      strumenti esterni, quali l’applicazione infra o extra-distrettuale;

c)       strumenti esterni allo stesso comparto giustizia, sotto forma di aumento della pianta organica;

d)      politica della mobilità in favore degli uffici che maggiormente hanno necessità.

Quanto, ad esempio, ai got, rileva l’incidenza dei diversi moduli organizzativi che gli uffici possono adottare per il loro utilizzo. Infatti, come è noto, sono previsti tre diversi moduli di utilizzo dei GOT:

1)    affiancamento; 2) assegnazione di un ruolo autonomo in caso di significative vacanze dell’organico; 3) supplenza nei collegi.

L’utilizzo dei GOT secondo i modelli indicati, che in molti uffici giudiziari costituisce una realtà significativa per il funzionamento degli stessi, non può che comportare la necessità di contemplare anche l’attività dei magistrati onorari ai fini della individuazione dei carichi esigibili nell’ambito della produttività fisiologicamente sostenibile dell’intero ufficio in relazione al quale viene redatto il programma di gestione. Quindi il dirigente, rappresentata la situazione relativa all’utilizzo dei GOT, deve dare compiuto conto nella determinazione dei carichi esigibili della incidenza del lavoro (secondo i modelli utilizzati) della magistratura onoraria sulle performance del suo ufficio.

8.       Le piante organiche ed il ruolo del CSM.

Non è da escludere, avuto riguardo alle piante organiche, che le stesse debbano essere ripensate, nel senso di contemplare le assenze assolutamente fisiologiche determinate dalle ferie, dai corsi di aggiornamento, dalle malattie, dalle gravidanze, ecc. A tal fine, si potrebbero prevedere organici con unità di poco superiori alla pianta sufficiente.

Esempio: Tribunale di medie dimensioni costituito da 50 giudici complessivi, tra civile e penale (al netto dei giudici del lavoro), che si assume (per comodità) essere ripartiti equamente, quanto alla pianta organica, tra i due settori – giudici effettivamente in servizio nel settore civile: 20 (con una scopertura di 5 unità e, quindi, del 20%) – cause complessive pendenti: 30.000 (e, dunque, pro capite, 1.500) – provvedimenti del capo dell’ufficio finalizzati a perequare, per quanto possibile, i ruoli assegnati ai vari giudici, sempre che lo stato patologico di alcuni di essi non sia imputabile a negligenze di singoli magistrati – a parità (con margini inevitabili di tolleranza) di ruoli,  rientrandosi nell’ipotesi delineata in precedenza sub 3), si dovrebbe far ricorso agli strumenti di cui alle lettere b), c) e/o d) – in assenza di riscontri positivi in tempi ragionevoli alle segnalazioni operate dai capi degli uffici agli organi competenti, congelamento del ruolo in eccedenza.

Se si aderisce a questa impostazione, il CSM dovrà individuare questi criteri astratti a livello nazionale, e poi i capi dei singoli uffici adotteranno, nell’ambito dei programmi per la gestione dei procedimenti, le misure organizzative idonee per porre i magistrati nelle condizioni di rendere al massimo delle loro possibilità o, in subordine, solleciteranno l’adozione di interventi (se del caso, anche normativi) da parte del CSM o del Governo (dal punto di vista di una perequazione o di un aumento degli organici ovvero, comunque, di un’adeguata redistribuzione delle risorse sul territorio nazionale). La concretezza e la serietà dei programmi di gestione devono, dunque, costituire oggetto di attenta valutazione da parte del C.S.M., giacché essi devono dimostrare la capacità di compiere una rigorosa analisi della situazione esistente con determinazione dei risultati realizzabili sulla base dei carichi di lavoro e delle risorse effettivamente disponibili, nonché della tipologia di contenzioso (anche in relazione al contesto territoriale, economico e sociale).

Il ruolo del Consiglio rispetto ai programmi di gestione è stato contemplato anche in fase di valutazione dei risultati. Invero, nel comma secondo dell’art. 37 in esame si prevede che i programmi siano trasmessi al Consiglio “ai fini della valutazione per la conferma dell’incarico direttivo” ai sensi dell’art. 45 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160. Come specificato nella Parte III, par. 2, del T.U. sulla Dirigenza Giudiziaria, di cui alla delibera del Consiglio Superiore del 30 luglio 2010 e successive modifiche, oggetto di valutazione in sede di conferma è principalmente la capacità organizzativa, di programmazione e di gestione dell’ufficio ovvero dei singoli settori di questo affidati al magistrato, da valutarsi alla luce dei risultati conseguiti e di quelli programmati. La concretezza e la serietà dei programmi di gestione devono, dunque, costituire oggetto di attenta valutazione da parte del C.S.M., giacché essi devono dimostrare la capacità di compiere una rigorosa analisi della situazione esistente con determinazione dei risultati realizzabili sulla base dei carichi di lavoro e delle risorse effettivamente disponibili, nonché della tipologia di contenzioso (anche in relazione al contesto territoriale, economico e sociale).

E’ in quella sede, quindi, che, sia pure ex post, andrà scrutinata la congruità delle scelte organizzative adottate dai capi degli uffici. In tale direzione depone altresì la previsione secondo cui il CSM può sul programma esercitare solo una presa d’atto con rilievi.

Del resto, l’art. 19 della legge 21.7.2000, n. 205 (recante “disposizioni in materia di giustizia amministrativa”), rubricato “Carichi di lavoro dei magistrati”, ha inserito il comma 6 bis, nell’articolo 13 della legge 27 aprile 1982, n. 186 (recante l’ordinamento della giurisdizione amministrativa), il quale ultimo, a sua volta, indica quali sono le attribuzioni del consiglio di presidenza (omologo del nostro CSM). Orbene, con la riforma del 2000 a tale organo è stata attribuita altresì una competenza ulteriore, che è quella di determinare i criteri e le modalità per la fissazione dei carichi di lavoro dei magistrati amministrativi. In attuazione di tale delega, con provvedimento del 18.12.2003, il predetto organo ha stabilito che il numero massimo delle udienze mensili per ogni magistrato è pari a due, il numero minimo e massimo dei procedimenti assegnabili pro capite ogni mese (9 e 12) e, quindi, il numero minimo e massimo delle sentenze mensili pro capite (pari evidentemente al numero dei procedimenti assegnati), con l’indicazione precisa del numero minimo delle sentenze annue (80) e la fissazione di criteri di valutazione ridotta (al 50 %) di alcune decisioni più semplici.

Ovviamente, gli indicati parametri non potrebbero essere applicati tout court in via estensiva nel processo civile, ma confermano indirettamente l’idea che l’organo di autogoverno è deputato unicamente a determinare i criteri e le modalità per la fissazione dei carichi di lavoro dei magistrati ordinari.

9.       Gli obiettivi del programma di gestione.

Va ricordato che gli obiettivi del programma di gestione sono tre:

a) “riduzione della durata dei procedimenti concretamente raggiungibili nell’anno in corso”;

b) “rendimento dell’ufficio”;

c) “ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti”.

Sotto tale profilo, va altresì evidenziato come sia divenuta, nei fatti, secondaria la finalità principale dell’intervento normativo – non a caso inserito in una legge di natura finanziaria – nell’ambito del quale è stato contemplato il programma di gestione creato dall’art. 3, ossia il contenimento della spesa pubblica anche nel campo degli esborsi legati agli indennizzi corrisposti in applicazione della c.d. legge Pinto, 24 marzo 2001 n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo). In altri termini, forse anche per una non chiarissima dizione normativa, la previsione di legge di eliminare o ridurre l’arretrato ultratriennale, per quanto tradotta in uno specifico obiettivo indicato nel format, è spesso passata in secondo piano, come se non si trattasse di una delle principali scelte di politica giudiziaria anche nell’ottica di ridurre la durata complessiva dei procedimenti. E, viceversa, quest’ultimo obiettivo è stato perseguito piuttosto con un tentativo di aumento della produttività, se non con interventi sulle cause seriali di più pronta definizione.

Va, in proposito, peraltro, segnalato che, in base alla recente circolare CSM del 2015, il Dog deve essere articolato come il quadro di riferimento del programma di gestione e che quest’ultimo deve prevedere, tra l’altro, l’indicazione esplicita dell’obiettivo di definizione dell’arretrato ultratriennale o ultrabiennale quale strumento per la riduzione dei tempi del procedimento (alla luce dei principi in tema di ragionevole durata del processo), da considerarsi una sorta di priorità legale, non sovra-ordinata alle altre scelte rimesse al dirigente dell’ufficio, ma certamente da inserire nel catalogo delle priorità degli obiettivi di gestione; obiettivo, questo, che va programmato tenendo ben presente il flusso delle sopravvenienze, dovendosi prevedere un risultato di smaltimento che consente una progressiva riduzione dell’arretrato da legge Pinto, sia per ragioni collegate alla necessaria risposta di giustizia da fornire all’utenza in attesa da più tempo, sia per ragioni di contenimento della spesa pubblica (e conseguente possibilità di ritorno economico per il comparto giustizia)

10.   La produttività .

La produttività diventa, nel quadro delineato, l’effetto indiretto di una corretta politica organizzativa nei singoli uffici, adottata sulla base dei criteri e dei parametri individuati dal CSM. Solo indirettamente, infatti, il singolo magistrato può trovare “tutela” nella disposizione dell’art. 37, nel senso che il CSM non dovrebbe approvare piani che prevedano uno smaltimento di lavoro superiore alla capacità “produttiva” dei magistrati di ciascun ufficio, in assenza dell’adozione degli strumenti “compensativi” in precedenza, a titolo esemplificativo, indicati.

Eliminato questo errore di approccio metodologico, si condividono nella sostanza i corollari che alcuni hanno tratto, secondo cui i carichi esigibili: 1) sono il numero che declina ciò che può essere ragionevolmente fatto dai magistrati per rendere giustizia con serenità e qualità; 2) sono il limite che rende chiara la non responsabilità dei magistrati per i ritardi nella risposta alla domanda di giustizia e che, viceversa, sancisce la responsabilità della politica per questi ritardi e, più in generale, per la crisi sistemica della giustizia;  3) sono il tetto oltre il quale il magistrato deve essere tutelato, soprattutto in sede disciplinare o di valutazione di professionalità; 4) sono lo strumento per distribuire meglio le risorse sul territorio nazionale, evitando disparità tra uffici e territori ed individuando gli organici, appunto, in rapporto a carichi di lavoro fissati a livello nazionale. 

A dirla in altri termini, mentre gli standard di rendimento costituiscono asettici strumenti interni di valutazione della professionalità dei magistrati, i carichi esigibili rappresentano parametri maggiormente flessibili e, soprattutto, dinamici, in grado, per l’eventualità in cui non sia possibile una soluzione interna, di proiettarsi all’esterno.

Va detto che la qualità del prodotto giurisdizionale indirettamente si riflette sui tempi complessivi di definizione del contenzioso, atteso che è ragionevole prevedere che, a fronte di un provvedimento di scadente qualità giuridica, più di frequente le parti saranno indotte a coltivare gli ulteriori gradi di giudizio.

D’altra parte, una deriva produttivistica non esonera da, ma, anzi, espone maggiormente a, rischi di responsabilità civile dei magistrati. Le logiche gestionali vanno coniugate in modo da realizzare una risposta giurisdizionale equilibrata fra quantità e qualità, così da scongiurare il rischio ormai quotidiano di scadere in una produttività senza qualità che finirebbe per danneggiare il cittadino cui è rivolto il servizio giustizia.

11.   Gli strumenti interni a disposizione.

In questo discorso complessivo, non può non tenersi conto che, ai fini di una più rapida definizione delle cause civili sono stati introdotti degli strumenti che, anche a voler prescindere dall’efficacia deflattiva (a dire il vero, dubbia) della mediazione obbligatoria (ivi compresa quella demandata dal giudice) e della negoziazione assistita, potranno, se sistematicamente e con criterio utilizzati, produrre benefici effetti. Il riferimento è, in particolare, a: 1) la proposta di conciliazione del giudice (art. 185 bis c.p.c.); 2) possibilità di motivare la sentenza anche facendo riferimento a precedenti conformi, se del caso interni all’ufficio (art. 118 disp. att. c.p.c.; da qui l’importanza di dotarsi di una banca dati aggiornata sui precedenti dell’ufficio, suddivisi per macroaree); 3) l’incremento del saggio di interesse moratorio durante la pendenza della lite, essendosi previsto che dal momento della proposizione della domanda giudiziale (ovvero dall’atto con il quale si promuove l’arbitrato) il tasso degli interessi legale debba considerarsi pari a quello previsto dalle disposizioni in tema di ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali (art. 17 del d.l. n. 132/2014, come emendato a seguito della legge di conversione n. 162/2014, che ha aggiunto un terzo comma all’art. 1284 c.c., in relazione all’art. 5, co. 3, d.lgs. 9.10.2002, n. 231; basti pensare, in proposito, che tale importo è stato fissato, per il primo semestre di quest’anno, all’8,15% su base annua, atteso che, a decorrere dal 1° gennaio 2013, il tasso degli interessi legali di mora è stato innalzato dal 7% all’8%, ai sensi del d.lgs. 9 novembre 2012, n. 192, che ha recepito la direttiva 2011/7/UE, cui va aggiunto il tasso di riferimento fissato di volta in volta dal Ministero dell’Economia, che per il secondo semestre dell’anno 2014 è pari allo 0,15%.).

Si nutrono, invece, forti dubbi in ordine alla possibilità di realizzare l’obiettivo della ragionevole durata dei giudizi incentivando il ricorso ai mezzi di Alternative Dispute Resolution, in quanto la parte che è consapevole di essere nel torto ha tutto l’interesse ad allungare i tempi del processo (e, quindi, ad evitare accordi con l’avversario) e, di riflesso, a ritardare l’adempimento alle proprie obbligazioni.

Parimenti, scarsa fiducia si ripone sul calendario del processo, di cui all’art. 81bisdisp. att. c.p.c., atteso che le variabili, anche imprevedibili, che possono verificarsi dopo la sua adozione sono innumerevoli e, comunque, è difficile conciliare l’istituto con ruoli ponderosi.

12.   L’ufficio per il processo.

L’ufficio del giudice (meglio noto come “ufficio per il processo”) è contemplato dall’art. 16 octies d.l. 18.10.2012, n. 179, conv. con modificazioni dalla l. 17.12.2012, n. 221, laddove l’ufficio del processo è previsto dall’art. 73 d.l. 21.6.2013, conv. in l. 9.8.2013, n. 98.

La previsione normativa avente ad oggetto la istituzione dell’ “ufficio per il processo” è osservata con molto interesse dagli operatori del settore, in quanto segno di attenzione verso il fondamentale problema di restituire efficienza all’azione giudiziaria, anche grazie all’utilizzo razionale delle risorse. Per contribuire però al raggiungimento di questo obbiettivo è necessario che l’ufficio per il processo venga strutturato in modo da costituire un concreto supporto all’attività giurisdizionale del magistrato, evitando che tale riforma si risolva in una mera “risistemazione” del personale amministrativo, con l’unico effetto di creare una nuova struttura burocratica che, lungi dal rappresentare una svolta in termini di efficienza dell’azione giudiziaria, ne costituirebbe invece un ulteriore appesantimento. Il vero problema oggi è la mancanza totale di un adeguato supporto intellettuale al giudice, che consenta a questi di concentrare al massimo le proprie energie nello specifico dell’attività giurisdizionale, fatta di conoscenza e decisione, senza dispersione in attività delegabili o peggio di mera supplenza.

In quest’ottica, non potrà non prendersi in considerazione il recente d.m. 1.10.2015, in base al quale, per la sua piena realizzazione ed operatività, l’ufficio del processo potrà avvalersi di un afflusso di nuove risorse umane, avviato già con la indizione della procedura per selezionare 1.500 tirocinanti – scelti fra coloro che hanno completato il percorso formativo previsto all’art. 37 comma 11, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111 – che saranno utilizzati per un anno negli uffici giudiziari dove maggiori sono le scoperture di organico di personale amministrativo.

Tutte le energie allo stato dovrebbero essere indirizzate verso un razionale utilizzo dei g.o.t. e dei tirocinanti e la creazione di una banca dati informatica in rete delle pronunce e degli orientamenti dei singoli uffici. A tal riguardo, occorrerà inevitabilmente anche attendere gli esiti del recente disegno di legge n. 1738 in materia di riforma della magistratura onoraria.

Sarebbe auspicabile garantire periodiche relazioni sintetiche degli orientamenti consolidati sorti in seno a ciascun tribunale in determinate materie (es.: bancaria, di liquidazione dei danni alla persona, di famiglia, etc.) per natura suscettibili di trattamento uniforme.

La condivisione e la coltivazione di una tale iniziativa:

• garantirebbe la agevole accessibilità alle decisioni del Tribunale, dando pubblicità agli orientamenti della giurisprudenza locale nelle varie materie del contenzioso;

• favorirebbe il confronto “incrociato” tra le decisioni al fine della garanzia di una sempre maggiore uniformità della giurisprudenza locale nei vari settori del diritto;

• fornendo un agevole strumento per la conoscibilità degli orientamenti del Tribunale in un dato settore, assicurerebbe una sempre maggiore prevedibilità all’esterno delle decisioni, utile per l’esigenza deflattiva del contenzioso giudiziale.

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