Nella procedura n. 5537/2016 R.G.

TRIBUNALE ORDINARIO di REGGIO EMILIA

SEZIONE SECONDA CIVILE

VERBALE DELLA CAUSA n. R.G. 5537/2016

tra

XXXXX (avv. XXXX)

ATTORE

e

COMUNE DI YYYYY (avv. ZZZZZZ)

CONVENUTO

Oggi 31/10/2019, innanzi al dott. Gianluigi Morlini, sono comparsi:

Per XXXX, l’avv. XXX con il signor XXXXX personalmente.

Per COMUNE D IYYYYY, l’avv. ZZZZZZ.

Il Giudice invita le parti a precisare le conclusioni.

I procuratori delle parti precisano le conclusioni come da atti introduttivi.

Dopo breve discussione orale, il Giudice si ritira in camera di consiglio e all’esito pronuncia la seguente sentenza ex art. 281 sexies c.p.c., dandone lettura alle parti presenti e depositandola telematicamente.

Il Giudice
Dott. Gianluigi Morlini

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO DI REGGIO EMILIA

SEZIONE SECONDA CIVILE

Il Tribunale, nella persona del Giudice monocratico dott. Gianluigi Morlini, ha pronunciato ex art. 281 sexies c.p.c. la seguente

SENTENZA

nella causa civile di I Grado iscritta al n. R.G. 5537/2016

promossa da:

XXXXX (avv. XXXX)

PARTE ATTRICE

contro

 COMUNE DI YYYYY (avv. ZZZZZ)

PARTE CONVENUTA

CONCLUSIONI

Le parti hanno concluso come da note conclusive.

FATTO E DIRITTO

La controversia trae origine da un sinistro stradale avvenuto il 8/3/2014 che ha visto coinvolto XXXXX, il quale, perdendo il controllo della bicicletta da lui condotta nel tratto di pista ciclabile di via …….di YYYYYY, dopo avere toccato con la ruota anteriore il cordolo esistente a ridosso della linea delimitatrice di carreggiata, è caduto a terra riportando gravissimi danni fisici.

XXXXX ha così evocato in giudizio il Comune di YYYYY, deducendone l’esclusiva responsabilità ex art. 2051 c.c. nella causazione del sinistro, per la pericolosità del rialzo del cordolo e per la sua difficile percettibilità, e chiedendone la condanna a risarcire il danno non patrimoniale subìto.

Costituendosi in giudizio, il Comune di YYYYY ha negato ogni responsabilità, ritenendo inapplicabile l’articolo 2051 c.c. sia in ragione dell’estensione della strada pubblica e della sua utilizzazione diffusa, ciò che renderebbe impossibile la custodia, sia in ragione del fatto che la res avrebbe svolto il ruolo di mera occasione e non già di causa dell’evento; ed ha evidenziato che la strada non presentava insidie, le quali comunque, se esistenti, avrebbero dovuto essere note all’attore in quanto residente nel comune e quindi conoscitore dello stato dei luoghi.

La causa è stata istruita dal giudice allora procedente mediante l’assunzione dei testi indotti dalle parti, nonché con una CTU medico legale affidata alla dottoressa BBBBBB.

Lo stesso giudice allora procedente ha poi formulato alle parti una proposta conciliativa per definire la controversia tramite il pagamento, da parte della convenuta, della complessiva somma di € 200.000, proposta rifiutata da parte convenuta; ed ha poi fissato, con previa concessione di termini per memorie conclusive, la presente udienza di discussione orale, alla quale il fascicolo è per la prima volta pervenuto a questo nuovo Istruttore, che in tale udienza ha deciso la controversia con sentenza contestuale letta in udienza e depositata telematicamente.

DIRITTO

a) Va innanzitutto evidenziato che, diversamente da quanto opinato dalla difesa di parte convenuta, è insegnamento giurisprudenziale pacifico, quantomeno a partire da Cass. n. 15383/2006, quello per cui la natura demaniale del bene, la sua estensione e l’uso diretto da parte dei cittadini, non sono circostanze tali da fare di per sé escludere l’applicabilità dell’art. 2051 c.c., ma circostanze di fatto da apprezzare nel caso concreto da parte del giudice.

Nel caso di specie, non è seriamente revocabile in dubbio la possibilità di custodia, intesa come potere di fatto sulla cosa, da parte della pubblica amministrazione, trattandosi di strada urbana all’interno del centro abitato e nella centralissima piazza Matteotti di un piccolo paese pedecollinare quale CCCCC; e tenuto conto del fatto che la localizzazione della strada all’interno del perimetro urbano, è pacificamente elemento sintomatico della possibilità di custodia (Cass. n. 14635/2015, Cass. n. 21328/2010, Cass. n. 8377/2009, Cass. n. 1691/2009, Cass. n. 12449/2008, Cass. n. 23924/2007, Cass. n. 4962/2007, Cass. n. 20827/2006, Cass. n. 20825/2006, Cass. n. 16770/2006, Cass. n. 15779/2006, Cass. n. 15383/2006).

Ritenuto allora applicabile l’articolo 2051 c.c., si osserva che trattasi di ipotesi di responsabilità oggettiva (giurisprudenza consolidata: tra le più recenti, cfr. Cass. n. 2480/2018, Cass. n. 25837/2017, Cass. n. 12027/2017, Cass. n. 11785/2017), per la cui configurazione in concreto è sufficiente che sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza: la responsabilità è allora esclusa solo dal caso fortuito, fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile, bensì al profilo causale dell’evento, riconducibile non alla cosa ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell’oggettiva imprevedibilità ed inevitabilità.

Tanto premesso in linea di diritto, si osserva in fatto come non vi sia dubbio che parte attrice abbia dato prova dell’esistenza di un nesso causale tra la cosa in custodia (id est la strada comunale) ed il danno arrecato a terzi (id est il sinistro intercorso). Tale prova emerge in tutta evidenza dal fatto che, a conferma di quanto dedotto dall’attore, il sinistro è stato cagionato dalla presenza sulla carreggiata di un “cordolo di circa tre centimetri che delimita il marciapiede” (cfr. verbale di servizio dei Carabinieri intervenuti in loco nell’immediatezza dei fatti, che hanno ricostruito la dinamica del sinistro anche sulla base delle dichiarazioni del teste oculare Giovanni Carpi: all. 1 fascicolo attoreo).

Alla luce di ciò, spettava a parte convenuta, per disattendere la domanda e resistere ad un’ipotesi di responsabilità oggettiva, provare l’esistenza del caso fortuito, ciò che invece parte convenuta non ha fatto.

Anzi, l’istruttoria esperita ha comprovato addirittura un rilevante grado di colpa in capo alla convenuta, atteso che:

  • come segnalato dall’Ispettore capo della Polizia Municipale, i rialzi che hanno cagionato la caduta dell’attore, “sono pericolosi in quanto troppo bassi e dello stesso materiale e colore della pavimentazione stradale” (cfr. all. 1 fascicolo attoreo);
  • già meno di un anno prima del sinistro di causa, ed in particolare il 12/6/2013, era stata effettuata al comune altra analoga segnalazione “in seguito al sinistro in cui rimase coinvolto un ciclista con conseguenze serie, con dinamica analoga a quella del sig. XXXXX” (cfr. all. 1 fascicolo attoreo);
  • il fatto che la criticità ambientale fosse nota al Comune è ulteriormente confermato dalla circostanza per cui, ben prima del sinistro di causa, con determina del 6/6/2013 era stato disposto l’affidamento di lavori per la messa in sicurezza della pavimentazione stradale, sul presupposto che essa fosse in “cattivo stato di manutenzione” e costituisse un “pericolo per gli utenti della strada” (cfr. all. 17 fascicolo attoreo); e con successiva determina 10/2/2014 era stato disposto di procedere all’acquisto di paletti dissuasori impiegati per evidenziare la separazione tra pista ciclabile e marciapiede pedonale anche nei luoghi di causa (cfr. all. 18 e 20 fascicolo attoreo);
  • tuttavia, solo una settimana dopo il sinistro e ragionevolmente a seguito di esso, con l’ordinanza 19/3/2014 è stato effettivamente dato impulso operativo ai lavori (cfr. all. 19 fascicolo attoreo), poi realmente effettuati evidenziando bene la separazione tra pista ciclabile e piano di calpestio pedonale, operando una distinzione cromatica tra carreggiata veicolare e pista ciclabile ed eliminando il cordolo (cfr. pag. 14 perizia).

L’oggettiva cronologia dei fatti conferma quindi la consapevolezza in capo al Comune della situazione di pericolo, e l’inerzia nel provvedere fino al momento del sinistro per cui è causa.

La manifesta pericolosità della situazione che ha cagionato il sinistro è poi bene esplicitata anche dalla perizia stragiudiziale depositata da parte attrice (cfr. all. 15), redatta da un noto ed apprezzato tecnico iscritto all’albo dei CTU del tribunale e che può essere posta a fondamento della decisione, in quanto perizia svolta con motivazione convincente e pienamente condivisibile, dalla quale il Giudicante non ha motivo di discostarsi in quanto frutto di un iter logico ineccepibile e privo di vizi, condotto in modo accurato ed in continua aderenza ai documenti ed allo stato di fatto analizzato, non oggetto di specifica e motivata contestazione da parte della convenuta (per il valore di prova atipica della perizia stragiudiziale e della sua utilizzabilità ai fini della decisione, quantomeno come argomento di prova ex art. 116 comma 2 c.p.c., cfr. Cass. n. 9551/2009, Cass. n. 4186/2004, Cass. n. 1902/2002, Cass. n. 12411/2001, Cass. n. 5544/1999, Cass. n. 4437/1997, Cass. n. 2574/1992, Cass. n. 1416/1987, Cass. n. 1325/1984, Cass. n. 5286/1980).

Infatti, ha segnalato il perito, che ha poi confermato le proprie osservazioni in una deposizione testimoniale, una serie di peculiarità atipiche del contesto ambientale ove si è verificato il sinistro, presenti all’epoca dei fatti e risolte solo con i successivi lavori, quali (cfr. in particolare pag. 15 perizia):

  • mancanza di segnaletica ‘strettoia’ nel tratto che precede l’imbocco nella piazza in cui si è verificato il sinistro;
  • mancanza di segnaletica dell’ostacolo costituito dall’inizio del gradino in improvvida posizione mediana della pista ciclabile;
  • orientamento del gradino con angolazione negativa tale, rispetto all’asse viario, da precluderne la percettibilità nella direzione di arrivo del ciclista;
  • disallineamento tra l’asse della pista presente sulla tratta asfaltata e quella della tratta lastricata, in modo tale da rendere l’angolo del gradino improvvidamente esposto alla traiettoria ottimale tenuta dai ciclisti in avvicinamento.

Deriva, in conclusione sul punto, che non solo parte convenuta, cui spettava l’onere della prova, non ha provato l’esistenza del caso fortuito per escludere la responsabilità oggettiva ex articolo 2051 c.c.; ma anzi, è parte attrice ad avere dato prova del fatto che il sinistro si è verificato per un’insidia imprevedibile e non percettibile con l’ordinaria diligenza.

b) Detto della evidente e marcata responsabilità del Comune nella causazione del sinistro, può ritenersi esistente un minoritario concorso di colpa del danneggiato ex art. 1227 comma 1 c.c.

Invero, come dedotto dalla difesa di parte convenuta, XXXXXX, pur lavorando a Treviso, era residente nel Comune di YYYYYY e continuava a frequentare la propria abitazione, e quindi era ragionevolmente a conoscenza dei luoghi, della conformazione della sede stradale e della pista ciclabile.

Pertanto, anche se il ciclista procedeva “a velocità moderata”, così come indicato dal rapporto dei carabinieri sulla base delle sommarie informazioni rese da G.C. (cfr. all. 1 fascicolo attoreo), era da lui esigibile un ulteriore comportamento di particolare prudenza proprio in ragione del fatto che, ragionevolmente, egli conosceva la pericolosità dei luoghi.

Pertanto, ad avviso del Giudice deve ritenersi che la causa principale del sinistro sia da addebitarsi alla responsabilità custodiale del Comune per la pericolosità dei luoghi; e che purtuttavia residui comunque un concorso di colpa, da intendersi come minoritario, del ciclista, che avrebbe potuto prestare ulteriore attenzione in ragione della conoscenza dei luoghi stessi.

Pertanto, sulla base di quanto sopra, stimasi equo indicare nel 80% la responsabilità del Comune nella causazione del sinistro, residuando il rimanente 20% di responsabilità in capo all’attore.

c) Venendo ora alla quantificazione del danno, lo stesso può essere quantificato sulla base della CTU, svolta con motivazione pienamente condivisibile ed alla quale hanno aderito anche i CTP, dalla quale il Giudicante non ha motivo di discostarsi, la quale ha spiegato che le rilevanti lesioni subite dall’attore consistono nel 40% di danno biologico permanente, in 7 giorni di ITT, in 60 giorni di ITP al 75%, in 90 giorni di ITP al 50%, ed hanno comportato spese mediche per € 1.708 (cfr. in particolare pag. 7 perizia).

Pertanto, sulla base dei parametri liquidatori cd. del Tribunale di Milano aggiornati all’attualità secondo l’ultima tabella proposta nel 2018 – che qui si intendono applicare in quanto condivisibili ed adeguati, e comunque ritenuti dalla stessa Suprema Corte il metro della corretta liquidazione del danno non patrimoniale (in questi termini Cass. n. 12408/2011, nella sostanza confermata e ribadita dalle successive Cass. n. 14402/2011, Cass. n. 17789/2011, Cass. n. 2228/2012, Cass. n. 12464/2012, Cass. n. 19376/2012, Cass. n. 134/2013, Cass. n. 10263/2015, Cass. n. 2167/2016, Cass. n. 9950/2017, Cass. n. 12470/2017, Cass. n. 17018/2018) – tenuto conto di un’età di 46 anni al momento del sinistro, il complessivo danno subìto dall’attore ammonta ad € 259.159 (ed in particolare, € 244.841 per danno biologico permanente; sulla base teorica di euro 130 giornaliere per ITT, somma più vicina al massimo di 147 piuttosto che al minimo di 98, in ragione dell’entità del danno biologico sofferto, € 910 per ITT, € 5.850 per ITP al 75%, € 5.850 per ITP al 50%; € 1.708 per spese mediche ritenute congrue e documentate).

Tale quantificazione già tiene conto delle sofferenze biologiche, morali ed esistenziali, e non necessita di ulteriore personalizzazione, atteso che i pur significativi e gravi disagi dedotti da parte attrice (interruzione dell’attività sportiva, limitazioni nel muovere le braccia, difficoltà a dormire), già sono stati valorizzati nella valutazione del danno biologico, e non possono essere ulteriormente considerati al fine di evitare duplicazioni risarcitorie.

Pertanto, tenuto conto del concorso di colpa del 20% del danneggiato nella causazione del sinistro, parte convenuta deve essere condannata a risarcire all’attore l’80% del danno sofferto, pari per tale percentuale ad € di 207.327,2.

Su tale cifra capitale, che integra all’evidenza un debito di valore in quanto posta risarcitoria, così come da domanda ed in base ai principi generali, vanno riconosciuti, secondo la pacifica giurisprudenza, rivalutazione ed interessi sulla somma stessa via via rivalutata, dalla data del fatto, id est il 8/3/2014, al saldo. Tuttavia, essendo la somma capitale già calcolata all’attualità ed in ragione della difficoltà di procedere alla devalutazione, in piena aderenza all’insegnamento dalla Suprema Corte, gli interessi possono essere calcolati sulla somma integralmente rivalutata, ma da un momento intermedio tra il fatto e la sentenza, id est il 1/1/2017.

d) Non vi sono motivi per derogare ai principi generali codificati dall’art. 91 c.p.c. in tema di spese di lite, che, liquidate come da dispositivo con riferimento al D.M. n. 55/2014, sono quindi poste a carico della soccombente parte convenuta (che ha altresì immotivatamente rifiutato la proposta conciliativa formulata dal Giudice: cfr. verbale 24/10/2018) ed a favore della vittoriosa parte attrice, tenendo a mente un valore prossimo a quelli medi per ciascuna delle quattro fasi di studio, di introduzione, istruttoria e decisoria, nell’ambito dello scaglione entro il quale è racchiuso il decisum di causa.

Per gli stessi princìpi di soccombenza, anche le spese di CTU, già liquidate in corso di causa con il separato decreto di cui a dispositivo, sono definitivamente poste a carico di parte convenuta.

P.Q.M.

il Tribunale di Reggio Emilia in composizione monocratica

definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza disattesa

  • accerta che il sinistro avvenuto il 8/3/2014 è ascrivibile alla concorrente responsabilità delle parti, ed in particolare per l’80% al Comune di YYYYYY e per il 20% a XXXXXX;
  • condanna il Comune di YYYYY a risarcire l’80% del danno subìto da XXXXXX, con il pagamento di € 207.327,2, oltre rivalutazione ed interessi dal 1/1/2017 al saldo;
  • condanna il Comune di YYYYYY a rifondere a XXXXX le spese di lite del presente giudizio, che liquida in € 13.430, € 1.269,15 per esborsi, oltre IVA, CPA e rimborso spese forfettarie;
  • pone le spese di CTU, già liquidate in corso di causa con separato decreto 28/6/2018, definitivamente a carico del Comune di YYYYYY

Reggio Emilia, 31/10/2019

Il Giudice

Dott. Gianluigi Morlini

Tribunale di Reggio Emilia, Giud. Morlini; sentenza 31/10/2019, n. 1470/2019; XXXXX (avv. ……) c. Comune di YYYYYY (avv. ……)

Responsabilità custodiale ex art. 2051 c.c. pubblica amministrazione – sinistro stradale – bene demaniale – possibilità esercizio custodia – posizionamento strada in perimetro urbano – elemento sintomatico possibilità custodia.

Perizia stragiudiziale – prova atipica – valore argomento di prova.

Artt. 2051 c.c., 116 c.p.c.

Posto che la presunzione di responsabilità per danni da cose in custodia di cui all’art. 2051 c.c. non si applica agli enti pubblici per danni subiti dagli utenti di beni demaniali ogni qual volta sul bene demaniale, per le sue caratteristiche, non sia possibile esercitare la custodia intesa quale potere di fatto sulla stessa, elemento sintomatico della possibilità di custodia è il posizionamento della strada nel perimetro urbano.

La perizia stragiudiziale integra una prova atipica, la quale è utilizzabile ai fini della decisione come argomento di prova ex art. 116 comma 2 c.p.c.

di Michele Ruvolo

In materia di famiglia, tutelata dall’art. 8 della CEDU, anche una relazione de facto può integrare un “rapporto familiare” e, conseguentemente, avere rilevanza giuridica, nell’interesse preminente del fanciullo, come accade nel caso in cui, oltre all’affetto generico, sussistano altri indici di stabilità, attuale o potenziale, quale potrebbe essere quello di una progettualità genitoriale comune (per i partners) e di una convivenza avutasi per un tempo significativo, anche se poi cessata. Invero, in questa prospettiva, la determinazione del carattere familiare delle relazioni di fatto deve tener conto di un certo numero di elementi, quali il tempo vissuto insieme, la qualità delle relazioni, così come il ruolo assunto dall’adulto nei confronti del bambino e la percezione che quest’ultimo ha dell’adulto. Al cospetto di questi elementi, la relazione “di fatto”, nonostante l’assenza di un rapporto giuridico di parentela, può rientrare nella nozione di vita familiare ai sensi dell’articolo 8 CEDU.

E, peraltro, valorizzando il criterio guida del superiore interesse del fanciullo, il profilo della discendenza genetica non va più considerato determinante ai fini dell’attribuzione al minore del diritto di mantenere stabili relazioni con chi ha comunque rivestito nel tempo il ruolo sostanziale di genitore, pur non essendo legato da rapporti di appartenenza genetica o di adozione con il minore stesso (cd. genitore sociale).

Quando il rapporto instauratosi tra il minore e il genitore sociale è tale da fondare l’identità personale e familiare del bambino stesso, questo rapporto deve essere salvaguardato, alla pari di quanto riconosce oggi l’art. 337 ter ai figli nei confronti dei genitori biologici. Questa interpretazione evolutiva si impone a maggior ragione nell’ipotesi della separazione personale della coppia omosessuale che abbia convissuto con i figli minori di uno dei due, instaurando un rapporto di genitorialità sociale con l’altro. Invero, in tali circostanze l’unico rapporto riconosciuto e tutelato dalla legge è quello con il genitore biologico, mentre il rapporto con il genitore sociale – sebbene avvertito e vissuto dal minore alla stregua dell’ “altra figura genitoriale” – non riceve alcun riconoscimento o tutela, con conseguente privazione del minore della doppia figura genitoriale, in spregio al principio fondante in ambito di crisi coniugale o della coppia di fatto del mantenimento di rapporti costanti con ambedue le figure genitoriali.  ( Michele Ruvolo)………Trib. Palermo, sez. I, decreto 6 aprile 2015 (Pres. C. Grimaldi di Terresena, est. M. Ruvolo)
FAMIGLIA NON FONDATA SUL MATRIMONIO – PARTNER (CONVIVENTE) DI PERSONA CHE SIA GENITORE DI UN MINORE – RELAZIONE AFFETTIVA DURATURA (ETEROAFFETTIVA O OMOAFFETTIVA) – INTERRUZIONE DELLA RELAZIONE – EFFETTI – DIRITTO DEL MINORE A INTRATTENERE RAPPORTI CON IL GENITORE CD. SOCIALE – SUSSISTE (art. 337-ter c.c.; 38 disp. att. c.c.)

In materia di famiglia, tutelata dall’art. 8 della CEDU, anche una relazione de facto può integrare un “rapporto familiare” e, conseguentemente, avere rilevanza giuridica, nell’interesse preminente del fanciullo, come accade nel caso in cui, oltre all’affetto generico, sussistano altri indici di stabilità, attuale o potenziale, quale potrebbe essere quello di una progettualità genitoriale comune (per i partners) e di una convivenza avutasi per un tempo significativo, anchese poi cessata. Invero, in questa prospettiva, la determinazione del carattere familiare delle relazioni di fatto deve tener conto di un certo numero di elementi, quali il tempo vissuto insieme, la qualità delle relazioni, così come il ruolo assunto dall’adulto nei confronti del bambino e la percezione che quest’ultimo ha dell’adulto. Al cospetto di questi elementi, la relazione “di fatto”, nonostante l’assenza di un rapporto giuridico di parentela, può rientrare nella nozione di vita familiare ai sensi dell’articolo 8 CEDU. E, peraltro, valorizzando il criterio guida del superiore interesse del fanciullo, il profilo della discendenza genetica non va più considerato determinante ai fini dell’attribuzione al minore del diritto di mantenere stabili relazioni con chi ha comunque rivestito nel tempo il ruolo sostanziale di genitore, pur non essendo legato da rapporti di appartenenza genetica o di adozione con il minore stesso (cd. genitore sociale). Quando il rapporto instauratosi tra il minore e il genitore sociale è tale da fondare l’identità personale e familiare del bambino stesso, questo rapporto deve essere salvaguardato, alla pari di quanto riconosce oggi l’art. 337 ter ai figli nei confronti dei genitori biologici. Questa interpretazione evolutiva si impone a maggior ragione nell’ipotesi della separazione personale della coppia omosessuale che abbia convissuto con i figli minori di uno dei due, instaurando un rapporto di genitorialità sociale con l’altro. Invero, in tali circostanze l’unico rapporto riconosciuto e tutelato dalla legge è quello con il genitore biologico, mentre il rapporto con il genitore sociale – sebbene avvertito e vissuto dal minore alla stregua dell’ “altra figura genitoriale” – non riceve alcun riconoscimento o tutela, con conseguente privazione del minore della doppia figura genitoriale, in spregio al principio fondante in ambito di crisi coniugale o della coppia di fatto del mantenimento di rapporti costanti con ambedue le figure genitoriali.
1. I fatti della causa e lo svolgimento del processo
 
Con ricorso ex art. 737 c.p.c. depositato in data 5 maggio 2014 e regolarmente notificato,_________ ____________ chiedeva pronunziarsi – nell’interesse superiore dei minori ________ e ________ – un provvedimento volto a statuire tempi e modalità di frequentazione tra lei e i due bambini, figli della ex compagna ___________ ___________.Più precisamente, la ricorrente deduceva:- che nel corso della loro relazione sentimentale, durata circa otto anni, la ___________, manifestato il desiderio di divenire madre, aveva avviato – con il sostegno morale ed economico della ___________ – un processo di procreazione assistita di tipo eterologo, conclusosi con la gravidanza e la nascita dei due gemelli, ________ e ________;- che i bambini, sin da subito, erano stati accuditi ed accompagnati nella loro crescita da entrambe le donne e le stesse, nella prospettiva di realizzare un progetto di vita idoneo a garantire alla prole una crescita serena ed armoniosa e la costituzione di un vero e proprio nucleo familiare,avevano deciso di adire, nel settembre del 2011, il Tribunale per i Minorenni di Palermo al fine di ottenere il riconoscimento in capo alla ___________ di una potestà analoga a quella genitoriale;- che tale iniziativa si era, tuttavia, rivelata infruttuosa per l’intervenuto rigetto della domanda sia da parte del Tribunale dei Minori sia, in sede di reclamo, da parte della Corte di Appello di Palermo;- che l’odierna ricorrente si era sempre fatta carico, quasi in via esclusiva, delle spese familiari e che nel maggio 2012 aveva donato alla ___________ un fondo (sito in __________) al fine di avviare un’attività agrituristica, stabilendo che, una volta venuti meno i previsti vincoli fiscali, la nuda proprietà passasse ai figli ________ e ________, onde garantire loro una base economica iniziale;- che, a causa di dissensi e contrasti insorti -sia sul piano economico sia sotto il profilo delle scelte educative dei minori – la relazione affettiva tra le due donne si era incrinata sino a dissolversi completamente nel febbraio del 2014, rendendo così assai difficoltosa l’assidua frequentazione della ricorrente con i minori, ormai conviventi con la madre presso un’altra residenza.Chiedeva, pertanto, l’emanazione di un provvedimento diretto a regolare – nel supremo interesse dei bambini – i rapporti tra questi e la stessa ricorrente, richiedendo a tal fine che venisse disposta una CTU al fine di verificare l’esistenza di una significativa relazione affettiva con i minori. Inoltre chiedeva sollevarsi questione di legittimità costituzionale dell’art. 337 ter in relazione agli artt. 2 e 30 Cost., e in combinato disposto con gli artt. 317, 317 bis, 336 e 337 bis c.c., nella parte in cui non prevede il diritto al mantenimento di un rapporto equilibrato, continuativo e significativo del minore con il genitore sociale nel caso di separazione della coppia omosessuale.In data 10.7.2014 si costituiva in giudizio ___________ ___________ eccependo:- in via preliminare l’incompetenza territoriale di questo Tribunale in favore del Tribunale di Termini Imerese, luogo in cui i minori vivevano al momento della proposizione del ricorso;- l’inesistenza di una famiglia di fatto composta dalla stessa, i di lei figli e la ricorrente, pur ammettendo di avere avuto una relazione sentimentale con quest’ultima;- nel merito, l’infondatezza giuridica e l’inammissibilità della domanda in considerazione dell’assenza nel nostro ordinamento di diritti del convivente del genitore di mantenere i rapporti con i figli dell’ex partner una volta cessata la convivenza.Chiedeva, pertanto, una declaratoria di incompetenza territoriale e, in subordine, il rigetto del ricorso nel difetto di un diritto azionabile.La proposizione del giudizio veniva comunicata ai sensi degli artt. 70 e 71 cod. proc. civ. – per le determinazioni di sua competenza in merito alla tutela dei minori – al Pubblico Ministero, il quale,intervenuto nel procedimento con atto del 17.11.2014, assumeva in proprio e nell’interesse pubblico le richieste formulate dalla ricorrente.Ritenuta la necessità di espletare una consulenza tecnica d’ufficio psicologica al fine di procedere all’audizione dei minori, questo Tribunale nominava due consulenti al fine di accertare: “1. le modalità attuali di svolgimento delle dinamiche relative ai rapporti interpersonali tra le parti e tra queste ultime e i minori; 2. l’eventuale esistenza di una consolidata relazione affettiva tra i minori e la ricorrente; 3. la considerazione che i minori hanno della ricorrente e del ruolo della stessa nella loro vita quotidiana; 4. le eventuali conseguenze derivanti dalla possibile interruzione dei rapporti tra i minori e la ricorrente; 5. le opportune soluzioni in merito alle migliori modalità di incontro tra la ricorrente e i minori”.Espletata la consulenza tecnica d’ufficio (dopo una rimodulazione, su richiesta di parte resistente, del calendario delle operazioni peritali, giusta ordinanza del 18.12.2014) e in assenza di ulteriori atti di istruzione probatoria, le parti discutevano la causa all’udienza del 16.3.2015, dopo avere depositato note conclusive autorizzate.La ricorrente insisteva per l’accoglimento delle conclusioni di cui all’atto introduttivo.In seno alle note conclusive, la resistente chiedeva dichiararsi: l’incompetenza per materia del Tribunale adito in favore del Tribunale per i Minorenn, la mancanza di legitimatio ad causam della ___________ nonché l’improcedibilità del giudizio per il principio del ne bis in idem ai sensi dell’art. 39 c.p.c.. In subordine, nel merito, disconosceva ogni valore probatorio all’elaborato peritale – poiché redatto in violazione del principio del contraddittorio nonchè per i discutibili metodi di indagine psicologica e neuropsichiatrica utilizzati dai consulenti d’ufficio – ed, in ogni caso, pervenuto, nel merito, a conclusioni non condivisibili. Chiedeva, altresì, disporsi ulteriori mezzi istruttori volti a dimostrare l’insussistenza di una famiglia di fatto e, in ogni caso, insisteva per il rigetto del ricorso.Il Pubblico Ministero concludeva per l’accoglimento del ricorso, facendo proprie le conclusioni cui erano pervenuti i consulenti d’ufficio.

* * *

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Sulla competenza funzionale del Tribunale Ordinario.
 
Fatta questa premessa sui fatti di causa e sullo svolgimento del processo, deve in via preliminare esaminarsi l’eccezione sollevata da parte resistente in sede di note conclusive relativa al difetto di competenza per materia del del Tribunale ordinario di Palermo.Essa si fonda sul rlievo che, vertendosi in materia di provvedimenti da emettere nell’interesse dei minori, giudice naturale, ex art. 38 disp. att. c.c., sarebbe il Tribunale per i Minorenni di Palermo.Orbene, a parte ogni considerazione circa la tardività dell’eccezione proposta, stante la rigida disciplina dettata al riguardo dall’art. 38 c.p.c. estensibile anche ai procedimenti di tipo camerale quale è quello pendente (cfr. in generale sul punto dell’integrazione delle norme del rito camerale in quelle del rito ordinario, nei limiti della compatibilità Cass. SS.UU, n. 5629/1996; Cass., sez. 1, 15100/2005), l’eccezione è nel merito infondata.L’analisi della questione deve necessariamente muovere dall’esegesi dell’art. 38 disp. att. c.c. che – come noto – costituisce la norma generale sulla competenza del giudice specializzato.È opportuno premettere che all’esito delle recenti riforme (L.n. 219/2012 e D.Lgs. 154/2013) il quadro normativo sul riparto di competenze tra tribunale per i minorenni e tribunale ordinario è radicalmente mutato, essendo state drasticamente ridimensionate le competenze civili del primo: oggi, infatti, esso è competente, per i provvedimenti di cui agli artt. 84, 90, 330, 332, 333, 334, 335, 371, ult. comma, c.c., oltre che i provvedimenti contemplati dagli artt. 251 e 317 bis c.c.. Specifica poi la norma che: “per i procedimenti di cui all’art. 333 resta esclusa la competenza del tribunale per i minorenni nell’ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell’art. 316 del codice civile; in tale ipotesi per tutta la durata del processo la competenza, anche per i provvedimenti contemplati dalle disposizioni richiamate nel primo periodo, spetta al giudice ordinario”.Infine, viene mantenuta la clausola che prevede la competenza residuale del tribunale ordinario ove non sia espressamente indicata la competenza di altra autorità giudiziaria.È appena il caso di accennare che sono note a questo Collegio le numerose questioni interpretative che la nuova formulazione dell’art. 38 disp. att. c.c. ha sin da subito sollevato (cfr. da ultimo Cass. ord. n. 1349/2015). Tuttavia tali problematiche, concernendo soprattutto la corretta delimitazione delle competenze del Tribunale ordinario nel caso in cui sia in corso un giudizio di separazione, divorzio o giudizi comunque involgenti la responsabilità genitoriale ex art. 316 c.c., esulano del tutto dall’oggetto del presente procedimento.È, infatti, indispensabile precisare che nel caso che ci occupa non viene in rilievo nessuna delle ipotesi di competenza del giudice minorile come nominativamente individuate dall’art. 38 disp. att. c.c.; in particolare non sono richiesti nel presente giudizio provvedimenti volti a pronunciare la decadenza dalla responsabilità genitoriale o comunque diretti a sanzionare condotte pregiudizievoli della ___________ nei confronti dei figli, ciò che indubbiamente radicherebbe la competenza in capo al Tribunale per i minorenni.Posto che ai fini della competenza deve aversi riguardo alle domande formulate, va infatti rilevato che ciò che è stato chiesto dalla ___________ è l’adozione dei “provvedimenti ritenuti più idonei ad assicurare il superiore interesse di ________ e ________ e per l’effetto stabilire tempi e modalità di frequentazione con la sig.ra ___________”. Nel ricorso si parla di “diritti fondamentali” di ________ e ________ (pag. 11), del fattoche “non vi è dubbio, nella fattispecie in esame, che la presenza della sig.ra ___________ abbia rappresentato – e continui a rappresentare – una risorsa per ________ e________” (pag. 15) e di un diritto dei minori che si fonda anche sull’art. 337 ter c.c. (pag. 16).E nel suo atto di intervento il P.M. ha chiaramente affermato “che lo strumento giudiziario dell’art. 333 c.c., se pure in astratto in grado di provocare una ripresa di rapporti quale quello in contestazione, esige in concreto un elemento supplementare del tutto alieno al caso in esame: la norma prevede una tutela dell’interesse del minore – nella specie potenzialmente coincidente con l’armonica ripresa dei rapporti con l’ex partner della madre – solo a fronte di un esercizio pregiudizievole da parte della madre della propria potestà genitoriale e con un tasso di lesività tale da comportare un ridimensionamento di gamma variavile di quella potestà, fino a poter giungere all’estremo della sua decadenza. Ciò che si chiede invece – in questo come in altri casi analoghi – è soltanto garantire una più completa armonizzazione nello sviluppo psichico del minore scongiurando interruzioni traumatiche di relazioni affettive di tipo familiare, piuttosto che una limitazione dell’ambito della potestà della madre biologica”.Non è stata quindi avanzata una domanda diretta ad ottenere la declaratoria di decadenza o la limitazione della potestà dei genitori, ma una domanda finalizzata al riconoscimento di diritti fondamentali dei minori ex art. 337 ter c.c.Il fatto, poi, che come effetto indiretto del riconoscimento di un diritto fondamentale dei minori ex art. 337 ter c.c. si possa in concreto produrre una qualche compressione delle scelte genitoriali non comporta che oggetto del giudizio diventino condotte pregiudizievoli del genitore che meritano la limitazione o l’ablazione della sua potestà.Né, sotto altro profilo, è possibile ricondurre in via analogica il caso in esame, come la resistente mostra invece di ritenere, nell’alveo della fattispecie contemplata dall’art. 317 bis (relativo al diritto degli ascendenti a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni), anch’esso ricadente nell’ambito di competenza del giudice specializzato.Ed infatti, nel presente giudizio la ___________ non ha fatto valere il proprio diritto di visita ma il diritto dei minori a mantenere con lei una relazione affettiva, formulando una domanda ex art. 337 ter c.c., poi fatta propria dal P.M.Va poi ulteriormente precisato che la norma di cui all’art. 38 disp. att. c.c., essendo una disposizione volta ad individuare un criterio di competenza funzionale, non è suscettibile di estensione analogica, imponendosi, di contro, un’interpretazione restrittiva della stessa, pena la vanificazione del principio della garanzia del giudice naturale precostituito per legge oltre che per ovvie esigenze di certezza connaturate al processo.In conclusione, questo Tribunale ritiene che il caso in esame vada ricondotto nell’alveo della clausola residuale posta dall’art. 38 disp. att. c.c. a tenore del quale “sono emessi dal tribunale ordinario i provvedimenti relativi ai minori per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità giudiziaria”, sicchè deve affermarsi la competenza funzionale del Tribunale ordinario.
2. Sulla competenza territoriale del Tribunale di Palermo.
 
Ritenuta sussistente la competenza funzionale di questo Tribunale, occorre adesso esaminare l’ulteriore eccezione di incompetenza territoriale di questo Tribunale sollevata dalla parte resistente.Invero, la ___________ ha osservato che al momento della proposizione del ricorso risiedeva, insieme ai bambini, a __________________________, con la conseguenza che la competenza territoriale si radicava presso il Tribunale di Termini Imerese (nel cui circondario ricade il predetto Comune di _____________). Ciò sulla scorta del rilievo che, in relazione ai provvedimenti diretti ad intervenire sulle modalità di esercizio della responsabilità genitoriale, ai fini dell’individuazione del giudice territorialmente competente occorre avere riguardo al luogo in ciu il minore vive o si trova di fatto al tempo in cui è proposto il ricorso.Orbene, è incontestabile che, vertendosi in materia di provvedimenti tendenti all’interesse del minore e alla protezione della sua persona, il criterio applicabile nel caso di specie – ai fini dell’individuazione del giudice territorialmente competente – sia quello della residenza abituale del minore al momento della introduzione del giudizio.Tuttavia, la concreta determinazione di tale parametro – alla luce della costante interpretazione fornitane dalla giurisprudenza di legittimità nonché dei dati fattuali offerti dalle parti in causa – porta a ritenere sussistente la competenza territoriale in capo a questo Tribunale e non già, come ritenuto dall’odierna resistente, in capo al Tribunale di Termini Imerese.Ed infatti, nella motivazione della ordinanza n. 21750 del 4.12.2012 la S.C. di Cassazione ha chiarito che “in tema di affidamento del figlio naturale, è competente il tribunale per i minorenni del luogo dove si trova la dimora abituale del minore nel momento in cui è stato proposto il ricorso, senza che assuma rilievo la mera residenza anagrafica o eventuali trasferimenti contingenti o temporanei; invero, nella individuazione in concreto del luogo di abituale dimora non può farsi riferimento ad un dato meramente quantitativo, rappresentato dalla prossimità temporale del trasferimento di residenza e dalla maggiore durata del soggiorno in altra città, essendo, invece, necessaria una prognosi sulla probabilità che la “nuova” dimora diventi l’effettivo e stabile centro d’interessi del minore ovvero resti su un piano di verosimile precarietà o sia un mero espediente per sottrarsi alla disciplina della competenza territoriale” (cfr. in tal senso anche le più recenti pronunce: Sez. 6 Ordinanza n. 17746 del 19/07/2013; Sez. Un., sentenza 28 maggio 2014 n. 11915, la quale afferma sostanzialmente gli stessi principi al fine di individuare l’autorità giudiziaria competente in caso di doppia cittadinanza del minore).Tali principi, riferiti al criterio dell’effettiva dimora del minore, sebbene statuiti con riferimento alla competenza territoriale del Tribunale per i Minorenni, ben possono essere applicati anche nel caso in esame, trattandosi di materie e di ipotesi sostanzialmente analoghe, per quanto attribuite al Tribunale ordinario.Ora, la ricostruzione fornita dalla ___________ dà esclusiva rilevanza all’avvenuto trasferimento di residenza della stessa e dei minori nel Comune di __________________________, facendo così riferimento al dato meramente formale di tipo anagrafico-amministrativo, senza invece tenere in debito conto ulteriori e rilevanti elementi di fatto (emersi nel corso del procedimento) che è, invece, necessario valutare al fine dell’accertamento concreto del luogo in cui è radicato territorialmente il minore.Infatti, già alla prima udienza tenutasi in data 11.7.2014 la ricorrente ha dato prova della circostanza che, sebbene il formale cambio di residenza della ___________ e dei bambini, gli stessi vivevano abitualmente a Palermo presso l’abitazione della nonna e continuavano a frequentare quotidianamente la scuola in cui erano iscritti già da prima del trasferimento anagrafico, ossia l’Istituto _____________ sito a Palermo (cfr. copia sms prodotto dalla difesa della ricorrente e copia dei bonifici bancari eseguiti dalla ___________ a favore della scuola _____________).Inoltre, all’udienza del 24.10.2014 la stessa ___________ ha dichiarato che, pur mantenendo la residenza a __________________________, vive stabilmente insieme ai figli a _________ in via __________dal 1° settembre 2014.Orbene, una corretta interpretazione del criterio della residenza abituale del minore, da individuare quale luogo in cui il minore svolge in modo continuativo la propria vita personale e familiare e da condurre alla luce dei dati di fatto testè elencati e dei principi giurisprudenziali sopra richiamati, porta a radicare la competenza territoriale in capo a questo Tribunale, essendosi accertato che la nuova residenza anagrafica dei minori non corrisponde affatto al luogo di stabile dimora degli stessi.Non sarebbe peraltro finalizzata al soddisfacimento del superiore interesse dei minori una soluzione che privilegiasse la competenza di un’Autorità giudiziaria sita nel luogo dove gli stessi minori hanno solo la residenza anagrafica e non vivono rispetto a quella dell’Autorità giudiziaria sita nel luogo dove si svolge abitualmente la vita dei minori.L’eccezione di incompetenza territoriale è quindi infondata.
3. Sull’asserita violazione del principio del ne bis in idem.
 
Ciò detto in merito alla sussistenza della competenza funzionale e territoriale di questo Tribunale, deve ora analizzarsi l’ulteriore questione prospettata da parte resistente relativamente alla presunta violazione della fondamentale regola del ne bis in idem, che, ove ritenuta fondata, determinerebbe l’improcedibilità dell’azione.Più precisamente, la difesa della ___________ ha sostenuto che le domande di cui al ricorso proposto dalla ___________ex art. 737 c.p.c. ed introduttivo del presente giudizio sarebbero sostanzialmente identiche alle domande già formulate dinanzi al Tribunale per i Minorenni il 5.7.2011 e poi in sede di reclamo avanti alla Corte di Appello sez. Minori il 21.11.2011 volte ad ottenere il riconoscimento in capo alla ___________ del ruolo di genitore sociale, con la consequenziale attribuzione di responsabilità genitoriale e l’attribuzione di un diritto di frequentazione stabile con i minori ________ e ________, richieste respinte in entrambi i gradi di giudizio (cfr. ricorso e pronunce in atti).Il principio del ne bis in idem processuale impone – come è noto – il divieto a qualsiasi eventuale altro giudice di pronunciarsi ulteriormente sulla materia che è già stata oggetto di una pronuncia passata in giudicato. Tuttavia, perché possa dirsi in concreto violato il suddetto canone occorre che l’azione proposta sia la stessa di quella su cui si è formato il giudicato, dovendosi all’uopo procedere all’esatta individuazione degli elementi soggettivi ed oggettivi delle due azioni.In altri termini, devono necessariamente essere identici tutti i requisiti identificativi dell’azione, vale a dire i soggetti (attivi e passivi del rapporto sostanziale dedotto in processo), il petitum, ovvero ciò che si chiede con la domanda, e la causa petendi, ossia il titolo giuridico su cui la domanda si fonda. Se anche uno solo di tali elementi risulta differente non può dirsi integrata la violazione del ne bis in idem.Ora, nel caso in esame, è indubbio che le azioni proposte innanzi al Tribunale dei Minori e poi alla Corte d’Appello siano differenti in tutti e tre gli elementi sopra individuati dall’azione intrapresa dinanzi a questo Tribunale.Ed infatti, con riferimento all’elemento soggetivo va evidenziato che il ricorso del 2011 al Tribunale dei Minori è stato congiuntamente proposto da entrambe le donne, all’epoca conviventi, ed era volto ad ottenere il riconoscimento in capo alla ___________ nei confronti dei minori di doveri e poteri analoghi a quelli inerenti la potestà genitoriale. Per contro, il ricorso introduttivo del presente giudizio è stato presentato dalla sola ___________ nei confronti della ___________ al fine di ottenere, come detto, il riconoscimento di un diritto dei minori e l’adozione dei “provvedimenti ritenuti più idonei ad assicurare il superiore interesse di ________ e ________ e per l’effetto stabilire tempi e modalità di frequentazione con la sig.ra ___________” (v. la domanda di pag. 17 del ricorso della ___________ fatta propria dal PM nel suo atto di intervento a tutela dei minori).Ne deriva l’impossibilità di identificazione degli elementi soggettivi ed oggettivi delle due azioni sopra indicate e l’infondatezza dell’eccezione relativa allaviolazione del principio del ne bis in idem.
 
4. Sulla legittimazione ad agire della ricorrente ___________ e sulla partecipazione del P.M. al procedimento e sull’assunzione in proprio e nell’interesse pubblico del petitum della ricorrente.Ulteriore aspetto da esaminare in via preliminare concerne la legittimazione ad agire dell’odierna ricorrente, il cui difetto determinerebbe la c.d. carenza di azione, rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio.Come è noto, la legitimatio ad causam costituisce, unitamente all’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.) ed all’esistenza del diritto (c.d. possibilità giuridica), una delle condizioni dell’azione che il giudice ha l’onere di accertare prima di procedere all’esame del merito.Essa si risolve nella titolarità del potere e del dovere, rispettivamente per la legittimazione attiva e per quella passiva, di promuovere o di subire un giudizio in ordine al rapporto dedotto in causa, indipendentemente dalla questione sull’effettiva titolarità dal lato attivo o passivo del rapporto controverso, che è invece questione di merito della cui prova è onerata la parte attrice, pena il rigetto della domanda (cfr. in generale sulla legittimazione ad agire, tra le altre, Cass. n. 13756 del 14/06/2006, Rv. 592155; Cass. n. 2326 del 06/02/2004, Rv. 569951).Nel caso in esame la ricorrente non è titolare del diritto potestativo di ottenere una decisione nel merito, non potendo ella (che non è né genitore biologico né genitore adottivo) fare valere diritti dei minori (tra cui quello azionato nel presente giudizio del diritto dei minori ad incontrare persone con cui esistono relazioni affettive stabili).Va al riguardo considerato che il vigente sistema legislativo non detta alcuna disciplina con riferimento ai diritti che l’ex convivente (etero o omosessuale che sia) del genitore biologico di figli minori potrebbe vantare nei confronti di questi ultimi né conferisce alcuna legittimazione ad agire per conto e nell’interesse di soggetti minori con cui appunto non sussiste un rapporto genitoriale.Infatti, non v’è allo stato attuale nel nostro ordinamento alcuna previsione che riconosca potestà e responsabilità genitoriali al c.d. “genitore sociale”.È indubbio che l’evoluzione della società ha fatto emergere modelli familiari e sociali differenti da quelli tradizionali (si pensi in via esemplificativa al fenomeno delle c.d. famiglie ricomposte, etero e omosessuali, alle famiglie mogenitoriali, alle famiglie composte da persone dello stesso sesso e dai figli nati da precedenti relazioni o attraverso tecniche di fecondazione assistita, etc.).Ancora, è oltremodo verosimile che il legislatore italiano dovrà necessariamente confrontarsi con l’evoluzione della fenomenologia delle relazioni interpersonali in atto e che delle aperture in tal senso sono già state mostrate (il riferimento è al disegno di legge 1320 – XVII Leg. – presentato nel febbraio 2014 dai senatori Manconi, Palermo e Lo Giudice e non ancora esaminato – che intende introdurre l’istituto della delega dell’esercizio della responsabilità genitoriale, così consentendo di dare sicurezza e validi punti di riferimento ai bambini che crescono all’interno di nuclei familiari atipici).Tutto ciò considerato, è tuttavia altrettando indubbio che allo stato attuale non è prevista alcuna responsabilità genitoriale in capo all’ex convivente (omosessuale o eterosessuale) del genitore nei confronti dei figli del precedente compagno.Va quindi dichiarato il difetto di legittimazione attiva della ricorrente con riferimento alle domande formulate nel ricorso.Ciò nonostante, deve proseguirsi nell’esame del merito della questione sulla scorta della partecipazione al presente procedimento del PMquale interveniente necessario in base al disposto dell’art. 70 nel testo risultante all’esito della sentenza della Corte Costituzionale n. 214 del 1996 (che ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale “nella parte in cui non prescrive l’intervento obbligatorio del pubblico ministero nei giudizi tra genitori naturali che comportino “provvedimenti relativi ai figli”, nei sensi di cui agli artt. 9 della legge n.898 del 1970 e 710 del codice di procedura civile come risulta a seguito della sentenza n. 416 del 1992″). Peraltro, è noto che il P.M. può intervenire in ogni causa in cui ravvisa un pubblico interesse ex art. 70, comma tre, c.p.c.Il Pubblico Ministero, con atto depositato il 17 novembre 2014, nel superiore interesse dei minori, ha fatto propria la domanda della ricorrente, chiedendo, quale mezzo al fine dell’accoglimento della pretesa spiegata con il ricorso, di disporsi una consulenza tecnica d’ufficio al fine di accertare se, nell’esclusivo interesse morale e materiale dei minori, fosse o meno opportuno riconoscere alla ___________ la possibilità di frequentare i bambini, ________ e ________.
5. Sulla questione di legittimità costituzionale proposta dalla ricorrente.
 
La ricorrente ha sollevato, con l’atto introduttivo del presente procedimento, questione di legittimità costituzionale dell’art. 337 ter in relazione agli artt. 2 e 30 Cost., e in combinato dispoto con gli artt. 317, 317 bis, 336, 337 bis c.c., nella parte in cui non prevede il diritto al mantenimento di un rapporto equilibrato, continuativo e significativo del minore con il genitore sociale nel caso di separazione della coppia omosessuale.Come è noto, in ragione del carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, il giudice a quo deve in primo luogo verificare che il giudizio alla sua attenzione non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale (c.d. “rilevanza”), vale a dire che la disposizione della cui costituzionalità si dubita dovrà essere applicata nel giudizio in corso e quindi che quel medesimo giudizio non potrà essere definito se prima non viene risolto il dubbio di legittimità costituzionale che ha investito la relativa disposizione.Inoltre, per la Corte costituzionale va dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dal rimettente quando questi trascuri di sperimentare la possibilità di dare alla disposizione censurata un’interpretazione costituzionalmente orientata e di spiegare le ragioni che impediscono di pervenire ad un risultato idoneo a superare i dubbi di costituzionalità (cfr. per tutte Corte cost. 230/2010; 192/2010; 190/2010; 189/2010; 154/2010; 110/2010).Orbene, nella fattispecie concreta sottoposta all’attenzione del Collegio difetta il carattere della rilevanza della questione sollevata e della necessaria strumentalità rispetto alla decisione da adottare per quanto concerne l’art. 317 bis. c.c., e ciò considerato che, come già osservato, nel presente giudizio è stato fatto valere il diritto dei minori ad incontrare persone con cui essi hanno una relazione affettiva stabile e non è stata invece chiesta la tutela del diritto di visita dell’ex convivente del genitore.E per quanto concerne l’art. 337 ter c.c. la questione è inammissibile alla luce dell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata che viene adottata con il presente provvedimento (v. infra).
6. Sulle osservazioni di parte resistente in merito alle modalità di svolgimento della consulenza tecnicna d’ufficio: il mancato rispetto del principio del contraddittorio.
 
La difesa della ___________ ha sollevato molteplici eccezioni in sede di memoria conclusiva che attengono alla presunta irregolarità di svolgimento delle operazioni peritali da ravvisarsi nel mancato rispetto del principio del contraddittorio, che avrebbe impedito ai consulenti di parte di intervenire e svolgere in modo compiuto il mandato loro conferito.In particolare, si contesta ai consulenti tecnici di ufficio di non aver garantito ai consulenti di parte un’adeguata e diretta partecipazione alle operazioni peritali, avendo essi scelto di adottare la metodica della videoregistrazione piuttosto che quella – suggerita dagli stessi consulenti di parte – dello specchio unidirezionale o della videoproduzione a circuito chiuso.Il sistema prescelto dai periti d’ufficio avrebbe, nell’ottica della difesa della ___________, consentito solo in parte di esercitare il diritto alla partecipazione dei consulenti tecnici di parte, con la conseguenza che i consulenti d’ufficio avrebbero interpretato a loro modo le richieste di approfondimenti ai minori, senza possibilità di interloquire e di avere con loro un contraddittorio sul metodo. Ad esempio, si contesta ai consulenti d’ufficio di non avere riportatato le domande aperte negli stessi termini suggeriti dai consulenti di parte, ma predisponendo una tabella contenente alcuni disegni che avrebbero in tal modo limitato le risposte dei bambini o, ancora, di non aver ascoltato i minori anche in modo separato l’uno dall’altra.Ed ancora, un ulteriore addebito viene mosso ai periti d’ufficio per non avere allegato – nel depositare l’elaborato peritale conclusivo e gli atti dagli stessi compiuti nel corso dello svolgimento dell’incarico – atti provenienti dai consulenti di parte.Orbene, tutte le doglianze testè elencate vanno rigettate.Ed infatti, un’attenta disamina dell’elaborato peritale, delle osservazioni dei consulenti tecnici di parte e della relativa valutazione operata dai consulenti d’ufficio porta a concludere che, nel caso in esame, non si è verificata in concreto alcuna violazione del fondamentale principio del contraddittorio.In primo luogo, va rimarcata la scelta del Tribunale di conferire l’incarico – per la particolare delicatezza dell’oggetto dell’indagine – a ben due esperti, la dott.ssa ….,psicologa clinica, ed il dott.…, neuropsichiatra dell’età evolutiva e psicoterapeuta che – sebbene non iscritto all’albo dei CTU di questo Tribunale – è stato nominato per la peculiare specializzazione e competenza in materia.Va poi osservato che, a fronte della richiesta dei consulenti tecnici di parte che le operazioni peritali si svolgessero con una modalità tale da rendere più neutra e meno invasiva l’audizione dei minori, i periti nominati da questo Tribunale hanno ritenuto – nell’esercizio della discrezionalità che loro compete – di optare per la videoregistrazione dei colloqui con i minori, consentendo poi ai consulenti di parte di visionare in tempo utile il materiale prodotto al fine di potere eventualmente formulare domande e sollecitazioni ai consulenti d’ufficio.In ultima analisi, non sussiste l’asserita violazione del diritto della parte resistente di partecipare all’indagine peritale, avendo ella partecipato con i propri consulenti tecnici alle operazioni, presentato (per iscritto, dopo la concessione di appositi termini) osservazioni ai risultati della CTU e depositato note conclusive. Non è stata, pertanto, arrecata alcuna lesione in concreto al principio del contradditorio.D’altra parte, per pacifica giurisprudenza di legittimità eventuali irritualità dell’espletamento della CTU ne determinano la nullità solo ove procurino una violazione in concreto del diritto di difesa, riducendosi ad ipotesi emblematiche quali, ad esempio, la mancata comunicazione alle parti della data di inizio delle operazioni peritali o l’epletamento di compiti esorbitanti dai quesiti posti dal giudice ovvero non consentiti dai poteri che la legge conferisce al consulente (cfr. sul punto, tra le altre, Cass. 9231/2001; Cass. n. 13428/2997; Cass. 15874/2010; Cass. 1744/2013).Per quanto concerne poi le osservazioni critiche relative alla mancata proposizione da parte dei consulenti d’ufficio delle domande suggerite dai consulenti della ___________ ovvero all’inidoneità dell’impianto metodologico e al quadro teorico utilizzato, è appena il caso di osservare che secondo il costante orientamento della Corte di Cassazione il c.t.u. non è tenuto ad eseguire gli accertamenti sollecitati dal consulente di parte, in quanto egli è vincolato unicamente ai quesiti postigli dal Giudice (Cass., sez. II, 1981 n. 3401). Peraltro, nel caso in esame i dottori Vitrano e Lo Torto hanno accolto le domande e le considerazioni proposte dai consulenti di parte, seppure sottoponendole ad un legittimo vaglio critico e riformulandole secondo le modalità da loro ritenute più opportune.Del pari priva di fondamento è l’eccezione relativa alla mancata allegazione da parte dei consulenti d’ufficio del materiale prodotto dai consulenti di parte, in quanto, avendo tale documentazione lo stesso valore di un’allegazione difensiva, ben può essere prodotta direttamente dalla parte, come in effetti avvenuto nel caso in esame con l’allegazione alle note conclusive. Peraltro, ciò che viene censurato è soltanto il dato formale della mancata allegazione delle istanze dei consulenti di parte e non già il loro esame e la relativa valutazione da parte dei consulenti di ufficio, attività che sono state compiutamente espletate da questi ultimi pervenendo al rigetto o alla riformulazione delle richieste dei consulenti di parte (come ammesso dalla stessa resistente nelle note conclusive).L’indagine peritale non è, dunque, viziata da alcun profilo di nullità.Deve quindi ora procedersi all’esame del merito.
7. L’esame del merito della questione: necessità di salvaguardare il superiore interesse dei minori.Venendo al merito della controversia, si deve in primo luogo osservare in punto di fatto che, diversamente da quanto sostenuto dalla resistente in comparsa di risposta e ribadito nelle note conclusive, questo Tribunale ritiene idoneamente provato, alla luce degli elementi acquisiti nel corso del procedimento, il dato-rilevante ai fini della decisione- della pregressa sussistenza di un nucleo familiare di fatto tra le odierne parti,_________ ____________ e ___________ ___________ e i di lei figli, ________ e ________.Al riguardo è sufficiente osservare che, tra gli atti allegati al presente procedimento, si rinviene copia del ricorso presentato congiuntamente dalle odierne partial Tribunale per i Minorenni di Palermo nel 2011 (momento in cui era ancora in atto la relazione amorosa tra le due donne) al fine di ottenere il riconoscimento in capo alla ___________ di poteri e doveri corrispondenti alla potestà genitorialenei confronti dei minori ________ e ________.In tale atto, sottoscritto – è bene ribadirlo – non solo dalla ___________ ma anche dalla ___________, le ricorrenti danno atto di essere unite dal 2004 da una stabile relazione affettiva, di avere deciso nel 2007 di attuare un comune progetto genitoriale consapevole e di avere abitualmente vissuto insieme con la prole “condividendo ogni decisione inerente la vita, la salute e l’educazione dei bambini dando vita ad un nucleo familiare che ha scelto quale dimora abituale l’abitazione di _____________” (cfr. ricorso al Tribunale per i Minorenni, pag. 2 allegato in atti).Nel ricorso le donne lamentavano che, malgrado la ___________ di fatto svolgesse il ruolo di genitore e avesse a carico l’intero nucleo familiare, provvedendo a gran parte dei bisogni familiari, in concreto non aveva alcun riconoscimento giuridico da parte dell’ordinamento come figura genitoriale e, in ragione di ciò, chiedevano al Tribunale per i minorenni l’attribuzione della potestà genitoriale in capo alla stessa.Ora, è evidente che la sottoscrizione da parte della ___________ di tale atto giudiziario volto al riconoscimento legale della genitorialità della ___________ e, a fronte del decreto di rigetto del Tribunale per i Minorenni, il successivo insistere in tale richiesta col reclamo proposto alla Corte di Appello, fornisce adeguata prova della sussistenza di una stabile unione affettiva e, per quel che qui rileva, di un reale nucleo familiare costituito dalle due donne e dai bambini, ________ e ________, oltre che dell’esercizio di fatto da parte della ___________ del ruolo di genitore.Peraltro, nel corso del presente procedimento, fase in cui la convivenza era già ampiamente cessata, le parti hanno inizialmente raggiunto (su impulso del giudice)degli accordi (poi non rispettati in ragione dell’inasprirsi della conflittualità tra le stesse) con riguardo alle frequentazioni tra i minori e la ___________, il che testimonia ancora una volta l’esistenza di uno schema tipicamente familiare (cfr.verbale udienza dell’11.7.2014).Lo stato di fatto appena delineato ha ricevuto altresì conferma da quanto è emerso nel corso delle operazioni peritali svolte dai consulenti d’ufficio, i quali hanno attestato che “non vi è dubbio alcuno che, al di là degli eventi concreti, ad entrambi i bambini deve essere stata prospettata una visione di identità familiare e una storia della loro generatività che deve aver compreso in qualche modo sia la signora ___________ che la signora ___________. È prova evidente di ciò che i bambini nel rappresentare la loro costellazione affettiva di riferimento hanno disegnato quattro personaggi: loro stessi, mamma …. (…) In questa direzione risulta ancora più significativo l’inizio della prima osservazione fatta con i bambini, quando ________ per presentarsi propone ai consulenti un indovinello – “indovinate se abbiamo due mamme o due papà oppure una mamma e un papà?”(cfr. consulenza tecnica d’ufficio, pag. 57 allegata in atti).Ed ancora, osservano che “il percorso peritale ha permesso di evidenziare come i piccoli ________ e ________si riconoscono nel sistema familiare composto da loro due e da mamma ______, ______ e le loro famiglied’origine (…)” (cfr. CTU pag. 59).Viene poi precisato che “la significatività di una relazione affettiva con un bambino va ricondotta, secondo la prospettiva del minore, al suo vissuto, alla possibilità che egli abbia costruito una immagine di quell’adulto e del legame che ad esso lo unisce, tale che lo renda significativo, continuativo, fondante nel suo processo di crescita. Orbene perché ciò si realizzi quell’adulto deve aver espresso nei confronti del bambino una fase di accudimento in qualche modo significativa, una pregnanza di ruolo educativo, una sintonizzazione sull’ascolto dei suoi bisogni e sulla possibilità di rispondere ad essi con modalità adeguate, una capacità di incidere nella costruzione del suo sistema di attribuzione dei significati esperienziali, la possibilità di sostenere il bambino anche solo in alcune delle sue fasi di sviluppo“(cfr. CTU pag. 59).Nel rispondere ai quesiti formulati da questo Tribunale, i consulenti d’ufficio evidenziano, per quanto qui di interesse, che “è apparsa evidente una profonda significatività affettiva tra ________, ________ e la signora ___________, tale che, benché i bambini non la identifichino specificamente in una funzione genitoriale de facto, la riconoscono però come appartenente al loro sistema familiare nucleare in una posizione di seconda mamma.In considerazione di quanto sopra espresso si considera significativamente pericoloso per i bambini una interruzione o una discontinuità del legame tra loro e la signora ___________. Tale decisione per altro non incontra il volere dei bambini. Si considera, altresì, pericoloso una evoluzione che possa stravolgere la storia familiare e di generatività che questi bambini hanno introiettatto. Tale interruzione potrebbe avere effetti nefasti sulla loro continuità affettiva e narrativa determinando profonde ripercussioni sulla evoluzione della loro identità psichica. Non risponderebbe, quindi, all’interesse superiore dei minori. Si ritiene altresì che la signora ___________ possa costituire con la sua affettività una risorsa positiva per i bambini”.Assodata l’esistenza di una famiglia di fatto all’epoca in cui la relazione tra le due ricorrenti era ancora in atto e di un permanente rapporto affettivo significativotra la ___________ e i due bambini, in adesione a quanto ritenuto dai consulenti d’ufficio – da cui non v’è motivo per discostarsi – circa la necessità di mantenere tale rapporto, pena la produzione sui bambini di effetti gravemente pregiudizievoli e “nefasti sulla loro continuità affettiva e narrativa” con “profonde ripercussioni sulla evoluzione della loro identità psichica”, questo Tribunale ritiene che vada assolutamente preservato – in funzione del preminente interesse dei minori -il solido rapporto esistente tra loro e la persona che, sin dalla loro nascita, ha svolto il ruolo sostanziale di genitore (c.d. genitore sociale).Privare ________ e ________ di un simile legame significherebbe – come ben sottolineano i consulenti d’ufficio – precludere loro di poter fare affidamento su una figura positiva fondamentale e di riferimento per la loro esistenza.Occorre, dunque, porsi in una dimensione sostanziale che salvaguardi il superiore interesse dei minori e valorizzi il rapporto che in concreto si è instaurato negli anni tra la ___________ e i bambini.Nel caso in esame, non si può, infatti,ignorare l’esistenza di situazioni consolidate e cristallizzate da tempo: i bambini hanno convissuto con entrambe le ricorrenti dal momento della loro nascita (24 maggio 2008) sino alla rottura della relazione sentimentale tra le due donne, avvenuta definitivamente nei primi mesi del 2014. Nel corso di questi sei anni i bambini hanno instaurato – come sopra evidenziato – un legame forte e significativo con la ___________ che, a prescindere dall’inquadramento giuridico, nulla ha di diverso rispetto ad un vero e proprio vincolo genitoriale.Sul punto va precisato che, sebbene l’elaborato peritale – rispondendo al quesito posto dal Tribunale relativamente alla considerazione che i minori hanno della ricorrente e del ruolo della stessa nella loro vita quotidiana – affermino che i bambini “non la identifichino specificamente in una funzione genitoriale de facto”, tuttavia subito dopo precisano che gli stessi comunque “la riconoscono però come appartenente al loro sistema familiare nucleare in una posizione di seconda mamma”.Ne deriva, pertanto, che al di là delle espressioni adoperate dai consulenti per inquadrare il ruolo svolto dalla ___________ nei confronti dei bambini, è indubbio che questi ultimi la percepiscono sostanzialmente come una figura significativa appartenente al loro sistema familiare, alla stregua di una seconda madre.Ed ancora, va al riguardo ulteriormente sottolineato che l’esclusione, da parte dei periti, della possibilità di una condivisione con la ___________ della funzione genitoriale, esercitata oggi in via esclusiva dalla ___________, viene motivata non tanto sulla base di un’inidoneità della prima a svolgere tale funzione ovvero inopportunità che le venga attribuito tale ruolo, quanto per la forte conflittualità allo stato esistente tra le due donne, che non renderebbe possibile tale condivisione (cfr. pagg. 60-61 C.T.U. in cui si afferma che “la signora ___________ esercita in atto una piena funzione genitoriale nei confronti dei minori, non vi sono in atto elementi per poter ipotizzare che tale funzione vada condivisa con la signora ___________ stante la relazione interpersonale tra le due; …i contatti tra i minori e la signora ___________ sono apparsi discontinui e comunque regolati dalla esclusiva decisione della signora ___________. Di questo i bambini si sono lamentati).Alla luce delle considerazioni sopra esposte, negare ai bambini i diritti ed i vantaggi che derivano dal loro rapporto con la ___________costituirebbe di certo una scelta non corrispondente all’interesse dei minori, principio fondante in ambito di provvedimenti concernenti minori e indicato, quale parametro di riferimento, anche in ambito europeo.Deve infatti a questo punto svolgersi qualche considerazione in punto di diritto prendendo le mosse dalle norme esistenti in materia in ambito sovranazionale, cui il nostro ordinamento si conforma ai sensi degli artt. 11 e 117 comma 1 della Costituzione, e dalla relativa evoluzione giurisprudenziale che, proprio in ambito sovranazionale, ha portato alla compiuta elaborazione del principio noto come “best interest of the child”.Tale principio viene per la prima volta sancito nella Dichiarazione Universale dei diritti del fanciullo del 1959, ove si dice che “il fanciullo, a causa della sua immaturità fisica e intellettuale, ha bisogno di una particolare protezione e di cure speciali, compresa una adeguata protezione giuridica sia prima che dopo la nascita”, ponendo “il superiore interesse del fanciullo” come criterio guida da applicare ad ogni decisione che lo possa riguardare direttamente o indirettamente.Più di recente, il principio in esame ha trovato riconoscimento nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza) ove l’art. 24, in materia di “Diritti del bambino”, stabilisce, per quanto qui di interesse, che ” …in tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente” ed aggiunge che”ogni bambino ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse”.In una recente pronuncia la Corte di Giustizia, nell’esaminare il quadro dei diritti fondamentali riferibili ai minori, ha precisato che l’art. 7 della Carta di Nizza, che contiene diritti corrispondenti a quelli garantiti dall’art. 8, paragrafo 1 della Cedu (id est il diritto di ogni individuo al rispetto dellavita privata e familiare) va letto in combinato disposto con l’obbligo di prendere in considerazione l’interesse superiore del bambino, sancito dal sopra citato art. 24, paragrafo 2, tenendo conto del pari della necessità per il bambino di intrattenere regolarmente rapporti personali con i due genitori (Corte giust. 6 dicembre 2012, causa C-356/11 e C-357/11).Al contrario, il concetto di superiore interesse del minore è estraneo all’esperienza normativa della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che all’art. 8, nel garantire ad ogni individuo il “rispetto della propria vita familiare e personale”, non ne fa alcun cenno.Tuttavia, tale lacuna è stata via via colmata dalla giurisprudenza della Corte EDU che ha lodevolmente recuperato il principio in questione facendo diretto riferimento agli strumenti internazionali di protezione dell’infanzia che, come visto, al loro interno contengono un esplicito riferimento al concetto di interesse superiore del minore.Per quel che rileva ai nostri fini, va infatti evidenziato che la Corte di Strasburgo ha, in più occasioni, affermato che il rispetto della propria vita familiare e personale contempla anche il diritto dei genitori e dei figli – ma anche di altri soggetti uniti da relazioni familiari de facto– a mantenere stabili relazioni, soprattutto in caso di crisi della coppia, precisando al riguardo che occorre assicurare prevalenza al superiore interesse dei minori, anche a rischio di pregiudicare il diritto di uno dei genitori (cfr. sul puntoCorte eur. dir.uomo 13 giugno 1979, caso Marckx c. Belgium, in cui la Corte ha esteso la nozione di vita familiare di cui all’art. 8 anche alla famiglia non legittima che, nel caso di specie, era costituita da una madre e dalla figlia nata fuori dal matrimonio; Corte eur. dir. uomo, 26 maggio 1994, caso Keegan c. Irlanda, in cui ha affermato che la nozione di famiglia di cui all’art. 8 non è limitata alle relazioni fondate sul matrimonio e può oltrepassare di fatto i legami familiari quando le parti convivono fuori dal matrimonio).E ancora, preminente interesse ai fini del caso che ci occupa, riveste una decisione della Corte di Strasburgo in cui è stato ribadito che la nozione di vita familiare non è limitata alle coppie sposate, sottolineando che i criteri rilevanti per la definizione sono la convivenza della coppia, la lunghezza della relazione, la presenza di figli: occorre, dunque, accertare l’esistenza di una relazione effettiva.Nel caso di specie, la Corte ha riconosciuto valore giuridico a rapporti familiari di fatto, in particolare tra un partner e i figli dell’altro, valorizzando argomenti a favore dell’esistenzadegli aspetti tipici di un regime familiare in presenza di un’effettiva cura e assistenza dei minori da parte degli adulti con essi conviventi (Corte eur. dir.uomo 22 aprile 1997, X., Y. e Z. c. Regno Unito).Del pari nel caso Moretti e Benedetti c. Italia, la Corte, con sentenza del27 aprile 2010, ha ancora una volta ribadito che l’art. 8 trova applicazione anche rispetto a relazioni familiari di fatto, basate su rapporti affettivi significativi. Nella specie, i ricorrenti si erano visti rigettare la domanda di adozione di un neonato che, subito dopo la nascita, era stato collocato provvisoriamente presso di loro, in quanto la madre aveva rifiutato di riconoscerlo. La Corte europea ha sancito l’applicabilità dell’art. 8 CEDU anchenei confronti dei ricorrenti, benché gli stessi non avessero potestà genitoriale sul bambino, statuendo il principio secondo cui tale disposizione va applicata anche ai legami familiari di fatto, in presenza di vincoli di natura affettiva. La Corte, valorizzando il dato della condivisione dei ricorrenti di tappe importanti nella vita del bambino (in particolare, tutti gli stadi di sviluppo nei primi 19 mesi) e che questo appariva ben integrato nella famiglia, ha ravvisato una violazione dell’art. 8 nel rigetto della domanda di adozione e nel collocamento del minore presso un altro nucleo familiare.È quindi possibile affermare che, nell’ottica della giurisprudenza della Corte EDU, l’art. 8 della Convenzione non assegna un diritto a costituire una famiglia ma è volto a tutelare una famiglia, lato sensu intesa, già esistente.L’esistenza di una “vita familiare” ex articolo 8 CEDU è una questione che va vagliata ed accertata in fatto, in quanto essa non si limita ai rapporti fondati sul matrimonio e sulla filiazione legittima ma può comprendere altre relazioni familiari de facto, purché – oltre all’affetto generico – sussistano altri indici di stabilità, attuale o potenziale, quale potrebbe essere quello di una filiazione naturale o di una convivenza avutasi per un tempo significativo e poi cessata. Invero, in questa prospettiva, la determinazione del carattere familiare delle relazioni di fatto deve tener conto di un certo numero di elementi, quali il tempo vissuto insieme, la qualità delle relazioni, così come il ruolo assunto dall’adulto nei confronti del bambino e la percezione che quest’ultimo ha dell’adulto.Proprio in considerazione del forte legame stabilitosi, la Corte è giunta a statuire – nelle pronunce sopra citate – che, nonostante l’assenza di un rapporto giuridico di parentela, esso potesse rientrare nella nozione di vita familiare ai sensi dell’articolo 8 CEDU.Orbene, è proprio alla luce degli articoli sinora citati (art. 8 Cedu, artt. 7 e 24 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e dell’interpretazione che di essi ne hanno dato le Corti sovranazionali di riferimento, che vanno interpretate ed applicate al caso che ci occupa le norme dell’ordinamento interno rilevanti in subiecta materia.È appena il caso di rammentare che, con riferimento alle norme della CEDU, è noto che, secondo il costante orientamento della Corte Costituzionale, per i giudici nazionali vige il dovere di interpretare la norma interna in modo conforme alle norme convenzionali, nell’esegesi offertane dalla Corte Europea dei diritti dell’uomoe solo in caso di impossibilità di interpretazione conforme hanno l’onere di sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna per contrasto con la norma convenzionale interposta, per violazione dell’art. 117 comma 1 Cost.; con l’ulteriore conseguenza che l’interpretazione data dalla Corte Europea vincola, anche se non in modo incondizionato, detti giudici e costituisce il diritto vivente della Convenzione (cfr. Corte Cost. n. 348 e 349/ 2007; n. 80/2011; n. 15/2012).Per contro, quando si tratta di norme derivanti dall’Unione Europea direttamente applicabili nel nostro ordinamento (quali, tra l’altro, possono ritenersi le disposizioni della Carta di Nizza, stante il disposto dell’art. 6 del Trattato sull’UE che ha attribuito alla Carta dei diritti lo stesso valore giuridico dei trattati), in caso di insanabile contrasto tra esse e la norma interna, il giudice nazionale ricorre allo strumento della disapplicazione.Ciò posto, la cornice giuridica interna – da interpretare alla luce delle norme sovranazionali sopra richiamate, nell’interpretazione datane dai giudici di Strasburgo – è costituita dagli articoli 337 bis e 337 ter c.c., introdotti dall’art. 55 comma 1 del D.Lgs. 154/2013, che costituiscono oggi il riferimento normativo comune per i rapporti fra genitori e i figli in modo da diventare il solo riferimento per le controversie genitoriali, di separazione, divorzio o interruzione di convivenza tra persone anche non sposate.Più precisamente, dal combinato disposto degli artt. 337 bis e 337 ter si desume, per quel che qui rileva, che “nei procedimenti relativi ai figli nati fuori dal matrimonio” (art. 337 bis c.c.) “il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale” (art. 337 ter c.c.).Stabilisce poi il secondo comma dell’art. 337 ter c.c. che “per realizzare la finalità indicata dal primo comma, nei procedimenti di cui all’articolo 337bis, il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa” ed è altresì legittimato ad adottare, sempre nell’ottica di salvaguardia del superiore interesse dei minori, “ogni altro provvedimento relativo alla prole”.Tali disposizioni si ispirano, dunque, al principio, di derivazione sovranazionale, della prevalenza dell’interesse del figlio, specie se minore, su ogni altro interesse giuridicamente rilevante che vi si ponga in contrasto.La ratio della norma di cui all’art. 337ter è, invero, quella di dare preminenza all’interesse morale e materiale della prole, anche attraverso una restrizione, se ritenuto necessario, dei diritti e libertà degli altri soggetti coinvolti e in tale ottica attribuisce al giudice l’ampio potere di adottare provvedimenti idonei, senza ricorrere a tipizzazioni, al fine di assicurare flessibilità e capacità di conformazione alle esigenze di volta in volta concretamente da soddisfare.Ora, è oltremodo evidente che la norma limita expressis verbis il suo ambito di operatività aldiritto del minore a mantenere un rapporto equilibrato e continuativocon ciascuno dei genitori, indipendentemente dall’esistenza di un rapporto di coniugio tra questi ultimi.Tuttavia, la necessità di garantire il superiore interesse dei minori, posto alla base della norma di cui all’art. 337ter e di interpretare la norma in conformità all’elaborazione giurisprudenziale che di tale principio ha fornito la Corte Europea nell’applicazione dell’art. 8 della CEDU sopra riportata, impone di procedere ad un’interpretazione certamente evolutiva ma costituzionalmente e convenzionalmente conforme dell’art. 337ter c.c. volta ad estendere l’ambito applicativo della stessa sino a delineare un concetto allargato di bigenitorialità e di famiglia, ricomprendendo per tale via anche la figura del genitore sociale, ossia di quel soggetto che ha instaurato con il minore un legame familiare de factosignificativo e duraturo.Come già sopra visto, la Corte Europea nelle sue pronunce è pervenuta ad inquadrare nell’ambito dell’art. 8 della CEDU anche il diritto di soggetti, diversi dal genitore biologico o legale, uniti da relazioni familiari effettive, a mantenere uno stabile rapporto, soprattutto in ipotesi di separazione della coppia, precisando al riguardo che occorre assicurare prevalenza al superiore interesse dei minori.Ed è proprio in questa prospettiva che si impone una lettura dell’art. 337 ter conforme a tali parametri, che possa cioè assicurare il preminente interesse dei minori ________ e ________ di frequentare stabilmente l’odierna ricorrente, come riconosciuto dalla consulenza tecnica espletata.Valorizzando il criterio guida del superiore interesse della prole minorile alla luce di quanto appena enunciato, è possibile ritenere che il profilo della discendenza genetica non va più considerato determinante ai fini dell’attribuzione al minore del diritto di mantenere stabili relazioni con chi ha comunque rivestito nel tempo il ruolo sostanziale di genitore, pur non essendo legato da rapporti di appartenenza genetica o di adozione con il minore stesso.Per contro, ciò che assume rilievo determinante è la circostanza che un nucleo familiare esiste con riguardo alla posizione del figlio e della sua tutela, non dovendosi invece dare risalto alla circostanza che sia venuto meno il vincolo affettivo che legava il genitore sociale a quello biologico.Quando il rapporto instauratosi tra il minore e il genitore sociale è tale da fondare l’identità personale e familiare del bambino stesso, questo rapporto deve essere salvaguardato, alla pari di quanto riconosce oggi l’art. 337ter ai figli nei confronti dei genitori biologici.Una lettura della norma che escludesse dal suo ambito di operatività rapporti genitoriali di fatto sarebbe violativa delle disposizioni della Carta di Nizza e della Cedu: significherebbe, in altri termini, privare di qualsiasi tutela i minori, il cui interesse, invece, va sempre perseguito nelle ipotesi di separazione, compresa quella tra il genitore biologico e il partner con cui di fatto è stata condivisa la responsabilità genitoriale.Tale interpretazione evolutiva, ad avviso di questo Tribunale, si impone proprio nell’ipotesi sottoposta al nostro esame, ossia il caso della separazione personale della coppia omosessuale che ha convissuto con i figli minori di uno dei due, instaurando un rapporto di genitorialità sociale con l’altro. Invero, in tali circostanze l’unico rapporto riconosciuto e tutelato dalla legge è quello con il genitore biologico, mentre il rapporto con il genitore sociale – sebbene avvertito e vissuto dal minore alla stregua dell’ “altra figura genitoriale” – non riceve alcun riconoscimento o tutela, con conseguente privazione del minore della doppia figura genitoriale, in spregio al principio fondante in ambito di crisi coniugale o della coppia di fatto del mantenimento di rapporti costanti con ambedue le figure genitoriali (concetto che, ad avviso di questo Collegio, va accolto nella sua accezione “allargata”, comprendente sia i genitori biologici che sociali).Né coglierebbe nel segno un’eventuale obiezione circa l’inidoneità di un individuo omosessuale allo svolgimento di compiti genitoriali. Le acquisizioni delle scienze di settore, principalmente la neuropsichiatria infantile e la psicologia dell’età evolutiva, hanno evidenziato che la qualità dell’attaccamento dei figli e del loro sviluppo cognitivo e relazionale non dipende dalla compresenza di genitori di sesso diverso ma dalla pregnanza della relazione affettivo-genitoriale.Anche la S.C. di Cassazione nella motivazione della sentenza n. 601 del 2013 ha chiarito che in assenza di certezze scientifiche o dati di esperienza costituisce un mero pregiudizio l’asserzione che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale, poiché in tal modo si dà per scontato ciò che invece è da dimostrare, ossia la dannosità di quel contesto familiare per la crescita e lo sviluppo dei figli.Ed in tal senso si pongono purediverse pronunce dei giudici di Strasburgo, i quali, non solo hanno ricondotto le coppie di fatto omosessuali nell’alveo della nozione di “vita familiare” da tutelare ai sensi dell’art. 8 della CEDU, ma hanno altresì ricompreso in tale nozione anche il legame verticale che si stabilisce tra i conviventi omosessuali e la prole di uno di essi, pronunciandosi da ultimo in favore della c.d. second-parent adoption, ossia l’adozione, da parte del partner omosessuale, dei figli dell’altro partner, così da aprire direttamente la strada al riconoscimento delle funzioni genitoriali svolte dall’adulto non genitore omosessuale nella famiglia ricomposta.Ciò posto, alla luce delle considerazioni sin qui enunciate e in applicazione del combinato disposto degli artt. 337bis e 337ter c.c. nell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme agli artt. 7 e 24 della Carta di Nizza ed all’art. 8 della Cedu (come interpretato dalla Corte di Strasburgo), ritiene questo Tribunale che vada garantito il diritto dei minori, ________ e ________, di mantenere un rapporto stabile e significativo con la ___________.Essendo possibile un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata nel senso sopra descritto della normativa interna, non occorre quindi neppure procedere ad un’applicazione diretta dell’art. 7 della Carta di Nizza (che, come detto, ha, per effetto del Trattato di Lisbona, lo stesso valore giuridico dei Trattati – art. 6 TUE) o, non ravvisandosi alcuna lacuna normativa in forza dell’interpretazione sopra indicata, dell’art. 8 della CEDU (che non può essere applicato direttamente in caso di contrasto insanabile in via interpretativa con una norma interna – essendo invece necessario in questo caso sollevare questione di legittimità costituzionale – ma può trovare applicazione diretta in caso di lacuna normativa, essendo stata tale convenzione internazionale recepita da legge ordinaria).E peraltro, anche qualora si volesse ricorrere a tale percorso giuridico, pur astrattamente ipotizzabile, si perverrebbe di fatto, seppure sulla base di parametri normativi in parte diversi, al medesimo risultato del riconoscimento del diritto dei minori al mantenimento dei rapporti significativi con la ricorrente.Va ora precisato che non si tratta di riconoscere un diritto ex novo in capo ai minori ma solo garantire una tutela giuridica ad uno stato di fatto già esistente da anni, nel superiore interesse dei bambini, i quali hanno trascorso i primi anni della loro vita all’interno di un contesto familiare che vedeva insieme la madre biologica con la ___________, figura che essi percepiscono come riferimento affettivo primario al punto tale da rivolgersi spesso a lei con il termine “mamma” (come già ampiamente detto sopra).Ne deriva che, in accoglimento a quanto suggerito dai consulenti d’ufficio, il Tribunale ritiene opportuno prevedere un calendario di incontri tra la ___________ e i bambini che sia così articolato: un pomeriggio alla settimana da definirsi in base agli impegni dei bambini e, in mancanza di un’intesa tra le parti, da individuare nella giornata del mercoledì dalle 15.00 alle 20.00 e due fine settimana al mese a scelta delle parti e, in mancanza di accordo, da stabilirsi nel primo e nel quarto, decorrente dalla fine dell’orario scolastico del sabato fino alle 19 della domenica.Appare, altresì, opportuno delineare un regime di frequentazione relativo alle festività civili e religiose ed al periodo estivo, anche in questo caso nella prospettiva di salvaguardare l’interesse dei minori al mantenimento di un equilibrato rapporto affettivo con la ricorrente.Segnatamente, va stabilito che la ricorrente possa incontrare e tenere con sé i minori ________ e ________:- durante le festività natalizie di ciascun anno per tre giorni consecutivi (comprendenti, ad anni alterni ed a decorrere dall’anno 2015, il 24 ed il 25 dicembre ovvero il 31 dicembre e l’1 gennaio);- nel bimestre luglio-agosto per un periodo di sette giorni consecutivi (da concordare tra le parti entro il mese di giugno di ciascun anno e da individuarsi, in difetto di accordo, nel periodo compreso tra l’1 ed il 7 agosto), con sospensione, nel mese prescelto, dell’ordinario regime di frequentazione infrasettimanale.Per quanto concerne le spese del presente procedimento, deve rilevarsi che questa vanno compensate in considerazione della particolarità e dell’originalità della questione, fattuale e giuridica, di cui al presente giudizio.Le spese di CTU vengono poste a carico della ricorrente.

P.Q.M.

disattesa ogni diversa istanza, eccezione e difesa, così provvede:1) dichiara il difetto di legittimazione attiva di _________ ____________;2) accoglie la domanda formulata dal PM nell’interesse dei minori e – in applicazione del combinato disposto degli artt. 337 bis e 337 ter c.c. nell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme agli artt. 7 e 24 della Carta di Nizza ed all’art. 8 della Cedu (come interpretato dalla Corte di Strasburgo) – a garanzia del diritto dei minori ________ e ________ di mantenere un rapporto stabile e significativo con _________ ____________, dispone che la ricorrente abbia facoltà di incontrare e tenere con sé i predetti minori secondo le modalità specificate in parte motiva;3) compensa le spese processuali;4) pone a carico di _________ ____________le spese di CTU, liquidate come da separato decreto in atti.Così deciso nella camera di consiglio della prima sezione civile del Tribunale di Palermo in data 6.4.2015.

Il giudice rel.

Michele Ruvolo

Il Presidente

Caterina Grimaldi di Terresena

Trib. Milano, sez. X civ., sentenza 10 luglio 2015 n. 8537 (Pres. est. Nadia Dell’Arciprete)

Danno non patrimoniale – Danno non patrimoniale da lesione del diritto costituzionalmente garantito ad un giudizio reso da un giudice imparziale – Quantificazione – Criteri di Calcolo – Parametri CEDU per il procedimento irragionevole – Sussiste(art. 2059 c.c.)

La lesione del diritto costituzionalmente garantito ad un giudizio reso da un giudice imparziale è suscettibile di risarcimento del danno non patrimoniale, ai sensi dell’art. 2059 c.c., facendo necessariamente riferimento alla valutazione  equitativa di cui all’art. 1226 c.c. L’utilizzo dell’ equità deve, tuttavia, evitare di tradursi in ingiustificate disparità di trattamento e deve tendere ad assumere, come riferimento liquidatorio, parametri oggettivi e, se possibile, di portata generale per una serie indeterminata e astratta di casi. Procedendo in questa traccia interpretativa, va rilevato che un giudizio reso da un giudice imparziale costituisce una lesione del più ampio diritto al “giusto processo” che si sostanzia, per l’appunto, nel principio del giudice imparziale. Si tratta, cioè, di una lesione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali e dell’art. 111 Cost.  Ebbene, in linea con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ,  la Legge n. 89/2001, come risultante per effetto delle modifiche introdotte dal D.L. n.35/ 2013, n. 35, convertito con modificazioni nella Legge n. 64/ 2013 e  dal D.L. n.83/ 2012, convertito con modificazioni nella Legge n.134/ 2012, n. 134, prevede espressamente un criterio di “ristoro” del danno da “processo ingiusto”. A tale titolo, infatti, il giudice può liquidare una somma di denaro non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro annuale (art. 2-bis, l. 89 del 2001).  Nel caso in esame può, quindi,  stimarsi utilizzabile, come metro di misura neutro cui riferirsi nel calcolo del danno, l’importo base  di € 1.500,00 (Nel caso di specie, partendo dalla base di euro 1500, il Tribunale ha liquidato, alla fine, euro 75.000 pari ad euro 246.000 a seguito di rivalutazione monetaria e interessi. In merito ai fatti valutati, ha così giudicato: Su detto  importo, devono poi essere applicati dei correttivi nel senso della personalizzazione e della aderenza al caso concreto. In primo luogo, nella ipotesi di specie, il processo è risultato ingiusto per la commissione di un reato: il giudice è stato oggetto di scambio corruttivo al fine di manipolare la propria funzione pubblica in aderenza agli interessi egoistici di una delle parti. Ne consegue un primo adattamento, tenendo presente la  fattispecie illecita che ha dato origine al  danno,  sorretta da un coefficiente di partecipazione soggettiva di  ampia intensità quale il dolo: si stima necessario pervenire alla somma base di € 15.000,00. Invero la percezione dell’altrui intenzionalità amplifica la sofferenza del danneggiato, il quale apprende che la lesione ai suoi diritti è stata arrecata con il precipuo fine di danneggiarlo; o, comunque, il danno è la conseguenza indiretta che il danneggiante accettava si verificasse. Deve, poi, considerarsi l’ efficacia offensiva del delitto: nel caso di specie, per effetto della corruzione, il “giudice parziale” ha  rovesciato la “decisione giusta” e offerto un risultato  opposto a quello che spettava, secondo Giustizia.  Indicativa della situazione di sofferenza  del danneggiato  è la decisione di non coltivare il giudizio in Cassazione ed accettare la transazione che, come noto, ha provocato  un ingente danno patrimoniale: la “fuga” dal sistema pubblico di risoluzione delle controversie, in coincidenza con la sentenza frutto di dolo, mette  in risalto la condizione soggettiva della CIR.  Un altro elemento che merita positivo apprezzamento è quello relativo alla collocazione storica della vicenda, nel suo complesso. In questo caso, infatti, la sofferenza è stata  amplificata dall’ ampia risonanza nazionale (e non solo) che la notizia ha avuto a mezzo di tutti i più importanti canali di informazione:  il singolo accadimento, diventato fatto di cronaca in cima ad ogni rassegna di stampa, ha assunto una dimensione estesa ed allargata e la  visibilità della vicenda a mezzo degli organi di informazione ha funzionato, in un certo senso, come cassa di risonanza dell’illecito,  analizzato  nei dettagli e nelle sue dinamiche storiche.  Ne discende,  a parere del Tribunale,  un ulteriore adeguamento che porta la somma ad € 75.000,00,  somma considerata già equa alla data del fatto illecito).

EXCURSUS STORICO

L’odierna controversia si colloca sullo sfondo di accadimenti storici accertati con efficacia di giudicato, di cui è opportuno dare atto al fine di offrire sostegno motivazionale alla decisione assunta in questa sede: si tratta, infatti, di vicende rilevanti. In primo luogo – e per la primaria importanza – occorre muovere dalla vicenda civilistica già definita dal Tribunale di Milano, con sentenza 3 ottobre 2009, seguita in secondo grado dalla decisione della Corte di Appello, sez. II civ., 4 marzo 2011, con conclusione dell’ultimo grado del giudizio, a seguito della decisione della Cassazione, sez. III civ., 17 settembre 2013 n. 21255. In secondo luogo, occorre ripercorrere il giudizio penale, sfociato nella decisione della Suprema Corte di Cassazione n. 35616 del 2007, dopo una prima pronuncia di rinvio al giudice del merito.

La vicenda civile

Gli antefatti traggono origine dalla ipotizzata ristrutturazione degli assetti societari del gruppo Mondadori, che comprendeva, nel 1988, la capogruppo AME – controllata, con partecipazione del 50%, dalla AMEF -, alcune società controllate interamente o con partecipazione maggioritaria dalla capogruppo, altre società possedute al 50% dalla capogruppo stessa, fra cui “La Repubblica”, la “Finegil” e la “Elemond”, detentrice del pacchetto di maggioranza Einaudi. L’ipotesi di ristrutturazione aveva avuto una sua prima definizione con l’accordo Formenton – Cir del 21.12.1988, che avrebbe consentito alla Cir il controllo del gruppo, riconoscendo a De Benedetti Carlo “il ruolo di imprenditore di riferimento” (così la clausola 1 dell’accordo), per effetto dei collegamenti esistenti con il gruppo “L’Espresso” (a sua volta titolare del 50% di Repubblica e di Finegil): pochi mesi dopo la stipula della convenzione (e cioè nella primavera del 1989), difatti, i proprietari del gruppo L’Espresso lo avevano ceduto alla Mondadori, in previsione della creazione di un unico, grande gruppo editoriale. Il capitale della holding di controllo AMEF (tra i cui soci era stato stipulato, nel gennaio del 1986, un patto di sindacato, sia di voto che di blocco, per la durata di 5 anni) era così composto: – 25, 75%: famiglia Formenton; – 24,59%: famiglia Mondadori; – 27,71%: ing. De Benedetti; – 8,28%: Fininvest del dott. Berlusconi; – Quote minori restanti: altre società. L’accordo aveva ad oggetto un trasferimento azionario incrociato – e cioè una permuta tra azioni ordinarie AME ed AMEF -, da perfezionarsi entro il 30 novembre 1991, che avrebbe consentito alla CIR l’acquisizione della maggioranza assoluta della holding di controllo AMEF, ed ai Formenton (tramite alcune previsioni costituenti un sostanziale patto di sindacato) una posizione di controllo della AME che andasse al di là del valore della loro nuova ed effettiva partecipazione azionaria. Veniva convenuto, inoltre, che la eventuale risoluzione delle controversie insorte nella interpretazione ed esecuzione della convenzione di permuta sarebbe stata devoluta ad un arbitrato di equità. Nel novembre del 1989 i Formenton trasferirono,  invece,  alla Fininvest lo stesso numero di azioni AMEF promesse precedentemente in permuta alla CIR, a fronte di una somma – secondo quanto opinato dalla stessa CIR in base ad indagini della G.d.F. – pari o superiore ai 200 miliardi di lire.

A cagione del susseguirsi di continue iniziative giudiziarie cautelarihic et indeproposte, la CIR, nel gennaio del 1990, decise di azionare la clausola compromissoria, affinché il costituendo collegio arbitrale accertasse l’obbligo dei Formenton di dare esecuzione all’accordo 21.12.1988, emettendo se del caso un lodo che, ai sensi dell’art. 2932 c.c., tenesse luogo del contratto non concluso. I Formenton, dal loro canto, chiesero che il collegio pronunciasse la risoluzione dell’accordo per fatto e colpa della CIR.

Il lodo Pratis/Irti/Rescigno, depositato il 20 giugno 1990: – Accertò l’obbligo dei Formenton di stipulare il contratto definitivo di trasferimento delle azioni; – Rigettò la domanda di pronuncia costitutiva di trasferimento azionario, ritenendo non ancora spirato il relativo termine di adempimento; – Rigettò la domanda di risoluzione proposta dai Formenton per insussistenza/scarsa importanza degli inadempimenti imputati a controparte.

I Formenton impugnarono la pronuncia degli arbitri dinanzi alla Corte di appello di Roma. La Corte di appello di Roma, definì il procedimento di impugnazione, con decisione redatta dal dott. Vittorio Metta, del 24 gennaio 1991: il Collegio dichiarò, in sede rescindente, la nullità del lodo per inosservanza di principi di ordine pubblico in tema di governo societario; rigettò le domande proposte dalla CIR in conseguenza della ritenuta nullità dei patti di sindacato contenuti nell’accordo del 1988, nullità da estendersi – a giudizio della corte – anche alle ulteriori pattuizioni relative alla permuta azionaria convenuta tra le parti, a cagione della ritenuta inscindibilità delle complesse ed articolate convenzioni endo-negoziali convenute tra le parti. Dopo aver presentato ricorso per Cassazione, la CIR vi rinunciò avendo, nelle more, raggiunto un accordo transattivo compositivo della lite

La vicenda penale.

Successivamente, si accertò che la decisione della corte romana era stata il frutto di atti corruttivi che avevano coinvolto (tra l’altro) il giudice relatore, Vittorio Metta. Per quanto qui interessa, a seguito di varie pronunce del Tribunale, della Corte d’Appello e della Cassazione, intervenne  la Corte d’Appello di Milano, con sentenza  del 23.2.2007 determinando la pena della reclusione per  Metta Vittorio, Previti Cesare, Pacifico Attilio ed Acampora Giovanni e condannando i predetti in solido al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, cagionati alla parte civile costituita, C.I.R., da liquidarsi in separato giudizio civile, nonché a rifondere, in solido, le spese di  rappresentanza ed assistenza.

Investita nuovamente di impugnazione, la Corte di Cassazione, con sentenza 27 settembre 2007 n. 35616 (sez. II pen.), respinse i ricorsi degli imputati.

L’azione risarcitoria di CIR

Appurato che la sentenza della Corte di Appello di Roma era stata il frutto di dolo del giudice, poiché corrotto, la CIR citò in giudizio la Fininvest dinanzi al Tribunale di Milano, per sentirla condannare al danno  subito. Nell’introdurre dinanzi al Tribunale di Milano la propria domanda risarcitoria, la CIR osservò in fatto: – che la pronuncia della Corte di appello di Roma aveva illegittimamente determinato un capovolgimento radicale nei rapporti di forza tra le parti contrattuali; – che, parallelamente alla vertenza giudiziaria ed alla luce tanto della sostanziale ingovernabilità dell’intero gruppo Mondadori, era in corso tra le parti una trattativa per la composizione transattiva della vicenda già in epoca precedente il lodo Pratis, la quale aveva subito un arresto nel periodo intercorso tra il lodo e la sentenza della Corte di Appello; che essa era  poi ripresa dopo la pubblicazione di quest’ultima e  le parti erano alla fine addivenute alla stipula di un accordo transattivo, sottoscritto il 29.4.1991, all’esito del quale alla CIR veniva conferito il gruppo “L’Espresso-Repubblica-Finegil”, ed alla Fininvest il gruppo “Mondadori classica” (libri riviste e grafica); – che in epoca precedente al deposito della sentenza della Corte di appello di Roma, a fronte di una pretesa Cir di un conguaglio di circa 500 miliardi in suo favore, Fininvest ne aveva in un primo tempo contro-proposto un altro oscillante tra i 100 e i 150 miliardi, aumentando poi l’offerta, nei giorni immediatamente precedenti il lodo Pratis, a 400 miliardi, ma  all’indomani della sentenza della Corte di appello capitolina, era stata invece la Cir a dover versare a controparte, a titolo di conguaglio, la somma di 365 miliardi di lire, in conseguenza dell’irredimibile indebolimento della propria posizione contrattuale dovuto proprio a quella pronuncia giudiziaria; – che tale indebolimento era stato, peraltro, conseguenza della corruzione del relatore ed estensore della sentenza, il dott. Vittorio Metta, corruzione da ritenersi a sua volta ideata, predisposta e consumata, nei rispettivi ruoli, da Previti Cesare, Attilio Pacifico, Giovanni Acampora, Silvio Berlusconi; – che, in particolare, quanto al dott. Berlusconi, la Corte d’Appello di Milano, nel giugno 2001, dopo aver disposto il rinvio a giudizio degli altri imputati per il reato di corruzione (rubricato come consumato “in atti giudiziari” per il solo Metta), lo aveva a sua volta ritenuto imputabile del delitto di cui agli artt. 319 e 321 c.p. (corruzione semplice), prosciogliendolo per intervenuta prescrizione previa concessione delle attenuanti generiche; – che, quanto agli altri imputati, all’esito di articolati e complessi passaggi giudiziari, la Corte di appello di Milano, con sentenza del 23.3.2007 n. 737, aveva reso definitivo – a seguito del rinvio operato dalla S.C. con sentenza 4.5.2006 – l’accertamento delle rispettive responsabilità penale in relazione alla vicenda corruttiva che aveva vulnerato la legittimità della sentenza sul lodo Mondadori; – che, dalla emanazione di quella sentenza – frutto di corruzione -, era derivato ad essa esponente un danno ingiusto consistente: 1) nella perdita del diritto a non subire l’annullamento del lodo, con conseguente indebolimento della posizione contrattuale spendibile in sede di trattative transattive; 2) nella perdita del diritto a beneficiare dell’acquisto delle azioni AMEF sì come stabilito nell’accordo CIR – Formenton, con i conseguenti vantaggi economici; 3) nella perdita del diritto a non vedere lesa l’immagine imprenditoriale della società; – che il danno patrimoniale andava calcolato, in particolare, nella differenza tra le condizioni effettive della divisione dei gruppi editoriali (c.d. “spartizione corrotta”) e le possibili condizioni di una divisione scevra dal condizionamento della sentenza Metta (c.d. “spartizione pulita”), differenza deducibile per tabulas dalle precedenti proposte contrattuali provenienti dalla stessa controparte Fininvest; – che il danno non patrimoniale, da ritenersi parimenti configurabile nella specie, appariva legittimamente predicabile con riferimento alla lesione del diritto inviolabile, costituzionalmente tutelato, di essere giudicati da un giudice imparziale, ed a quello, parimenti vulnerato  alla immagine ed alla reputazione dell’ente; – che, in via subordinata, ed a prescindere dalla intrinseca ingiustizia della sentenza Metta, essa attrice aveva comunque subito un danno da perdita di chance, essendo stata privata della possibilità di ottenere un risultato (id est, una sentenza) favorevole; – che il risarcimento del danno  doveva essere quantificato nella misura di Euro 468.882.841 oltre rivalutazione e interessi, mentre dei danni non patrimoniali si chiedeva un accertamento limitato nell’an, con riserva di quantificazione in un successivo giudizio.

Nel costituirsi dinanzi al Tribunale di Milano, la società convenuta eccepì: – che l’accordo Cir – Formenton del 1988 doveva ritenersi illecito per contrarietà ad una precedente Convenzione Amef, del 6 gennaio 1986, che vietava ai soci partecipanti al sindacato di alienare a terzi le azioni vincolate al sindacato stesso e imponeva il consenso scritto di tutti gli aderenti al patto di sindacato in caso di alienazione di azioni AMEF);  – che, nonostante gli accordi, la CIR aveva, agli inizi del 1988, dato inizio ad un vero e proprio rastrellamento di azioni sul mercato al fine di aggirare il contenuto della predetta convenzione; – che il successivo accordo del 21.12.1988 era stato stipulato a seguito di alcune garanzie pretese dalla famiglia Formenton, garanzie destinate a realizzarsi, tra l’altro, attraverso il deposito di oltre 8 milioni di azioni privilegiate AME, di proprietà CIR, presso la società Pasfid – deposito cui la CIR non aveva, in realtà, mai provveduto; – che la nullità dei patti di sindacato contenuti nell’accordo in discorso era stata sostenuta, sia pur in altra vicenda giudiziaria, addirittura dalla stessa CIR, e la relativa questione di diritto era risultata a tal punto controversa da condurre ad una decisione del lodo soltanto a maggioranza; – che la sentenza Metta conteneva, diversamente da quanto opinato dalla controparte, affermazioni e considerazioni del tutto fondate, in fatto come in diritto ed  il ritenuto vizio radicale di motivazione del lodo era a sua volta pronuncia del tutto conforme a diritto, poiché il lodo stesso, in parte qua, non consentiva di ricostruirne in alcun modo la ratio decidendi; – che la Cir, dopo aver depositato rituale impugnazione dinanzi alla Corte di legittimità invocando la cassazione della sentenza, vi aveva poi rinunciato, determinandosi ad una transazione che aveva definitivamente ed inoppugnabilmente chiuso ogni questione e le domande dell’attrice non potevano, in ogni caso, che ritenersi precluse dal giudicato formatosi sulla sentenza 24.1.1991 della Corte d’Appello romana a seguito di rinuncia al ricorso per cassazione da parte della stessa CIR; – che il diritto così come azionato era, per altro verso,  prescritto, vertendosi in tema di responsabilità aquiliana; – che la sentenza Metta, asseritamente frutto della corruzione di quest’ultimo, era comunque una pronuncia collegiale, onde la necessità della prova rigorosa della condotta di  coartazione/condizionamento esercitata dal membro corrotto sulla volontà degli altri componenti del collegio, così da orientarli ad operare nel senso ed in funzione dell’illecito intervento (in tal senso si erano espresse le stesse sezioni unite penali della Corte di legittimità con la sentenza n. 22327/ 2003): tale prova, nella specie, doveva dirsi del tutto inesistente, alla luce delle deposizioni rese in sede penale dagli altri due magistrati che avevano pronunciato la sentenza di riforma del lodo; – che, infine, quanto alla pretesa perdita di chance lamentata da controparte, nessuna reale possibilità di una sentenza favorevole poteva in concreto vantare la CIR, che, comunque, aveva essa stessa rinunciato a tale chance abbandonando il ricorso che pur avrebbe potuto opportunamente continuare a coltivare in cassazione.

Con sentenza n. 11786 del 3 ottobre 2009, il Tribunale di Milano condannò la Fininvest al pagamento, in favore dell’attrice, della somma di 749.955.611 di Euro a titolo di danno patrimoniale da perdita di chance di un giudizio imparziale, riconoscendo altresì come dovuti i danni non patrimoniali richiesti (la cui liquidazione venne peraltro rinviata ad altro giudizio). In motivazione, il giudice di primo grado: – escluse la improponibilità della domanda attorea per preclusione da precedente transazione, attesa 1) la diversità di petitum tra la domanda giudiziale di risarcimento (di natura extracontrattuale) e l’oggetto della transazione (di natura contrattuale); 2) l’assenza di qualsivoglia rimedio contrattuale a fronte dell’illecito lamentato (potendo la transazione stessa venir annullata per errore, violenza o dolo, rimedi impraticabili nella specie); 3) la “vicinanza” non sovrapponibile della causa petendi azionata ex art. 2043 c.c. e l’ipotesi di cui all’art. 1440 c.c.; – escluse la improponibilità della domanda medesima per preclusione da precedente giudicato poiché (pur prescindendo dalla circostanza dell’essere stato il giudicato stesso superato dall’atto transattivo), l’oggetto della lite non si identificava con quello della controversia risolta dalla corte di appello di Roma, la cui sentenza era, viceversa, uno degli elementi costitutivi dell’illecito lamentato dall’attrice; – escluse la improponibilità della domanda per preclusione da compiuta prescrizione (come eccepito della Fininvest); – esaminò nel merito il tema dei rapporti tra il giudicato penale di condanna degli imputati Metta, Previti, Pacifico e Acampora, il giudicato penale di proscioglimento per intervenuta prescrizione, previa concessione delle attenuanti generiche, dal reato di corruzione semplice per Silvio Berlusconi e il tema del giudizio civile instaurato dinanzi a sè, per concludere che l’affermazione di responsabilità penale di cui alla sentenza 737/2007 della corte di appello di Milano non potesse fare stato nei confronti di Fininvest (art. 651 c.p.p.), non intervenuta ne’ citata come responsabile civile in quel giudizio; – ritenne conseguentemente necessario procedere ad una autonoma ricostruzione dell’intera vicenda di corruzione che, alla luce delle numerose anomalie caratterizzanti l’iter deliberativo della sentenza Metta, non poteva che condurre ad una valutazione di “ingiustizia” di quella pronuncia: tra i suoi tanti vizi, essa ne celava uno particolarmente grave in diritto, quello, cioè di aver affermato che la motivazione del lodo (caratterizzantesi, ictu oculi, per semplicità, linearità, chiarezza, congruità, immediata comprensibilità) fosse illogica al punto da non consentire di comprenderne la stessa ratio decidendi, inficiata da un vizio di non- senso logico/giuridico: a tutto concedere, invece, la questione controversa si iscriveva tout court nell’orbita dell’interpretazione della volontà negoziale, onde la natura di quaestio facti il cui esame era del tutto precluso in sede di impugnazione di un lodo di equità; – osservò come altra grave anomalia oggettivamente riscontrabile fosse costituita dai tempi di stesura e dattilo scrittura della sentenza (composta da 167 pagine di 27 righe ciascuna), decisa nella camera di consiglio del 14.1.1991, consegnata in minuta addirittura il giorno successivo, 15.1.1991, e depositata il 24.1.1991, con inusuale tempestività, attesa la “fama di ritardatario” nel deposito delle sentenze che accompagnava il Metta; – esaminò, in via incidentale, il ruolo del dott. Berlusconi nella vicenda corruttiva, concludendo, sulla base di un ragionamento di tipo sillogistico, per la affermazione della sua corresponsabilità e per la conseguente estensione di tale responsabilità alla Fininvest – alla luce del principio che vuole predicabile la responsabilità civile delle società di capitali per il fatto illecito del legale rappresentante o dell’amministratore commesso nel corso dell’attività gestoria; – esaminò, agli stessi fini, e sempre incidenter tantum, la posizione dell’avv. Previti, al quale venne attribuito un rapporto con la società non già di ordinaria collaborazione professionale, ma di vera e propria preposizione gestoria, inquadrata nell’ambito del mandato generale; – esaminò la questione della rilevanza della corruzione di un componente di un organo collegiale ai fini della predicabilità di una oggettiva “ingiustizia” della decisione, concludendo nel senso del concreto condizionamento esercitato dal relatore Metta sulla volontà degli altri magistrati, orientatisi verso la soluzione poi adottata proprio in conseguenza di quell’illecito agire (veniva all’uopo nuovamente citata Cass. penale SS UU n. 22327/2003), e ciò in applicazione del criterio della c.d. probabilità relativa vigente in sede civile (Cass. 21619/07- Cass. SSUU n.577/08); – ritenne, in conformità al principio  di cui alla sentenza della Cassazione Penale n. 35525/2007 ( rectius n. 35325/2007)  che la presenza di un componente dell’organo giurisdizionale privato del requisito dell’imparzialità perché partecipe di un accordo corruttivo invalidasse, per difetto di legittimazione, l’atto giudiziario, e che, in sede civile, l’ingiustizia della sentenza, se passata in giudicato, potesse essere autonomamente rilevata ed affermata dal giudice civile; – ritenne integrata, all’esito della dimostrata ingiustizia della sentenza della corte di appello conseguente alla corruzione del giudice Metta, la fattispecie del danno da perdita di chance in capo all’attrice – avendo la detta corruzione privato la CIR della possibilità di ottenere una sentenza favorevole – sotto un triplice profilo: 1) di danno patrimoniale da indebolimento della propria posizione contrattuale; 2) di danno patrimoniale da lesione alla sua immagine imprenditoriale; 3) di danno da spese legali del giudizio arbitrale e del successivo giudizio di appello ingiustamente sostenute; – quantificò nella misura complessiva di Euro 937.444.514 la somma dovuta a titolo risarcitorio, ridotta del 20% per essere stata quantificata la chance perduta nella misura dell’80%, individuando tale somma come il risultato dalla differenza tra l’offerta Fininvest del 19.6.1990 e quanto invece versato alla medesima all’esito della transazione, con la aggiunta di una ulteriore posta di danno (riconosciuta a titolo equitativo) da ascriversi alle mutate (e più favorevoli) condizioni in cui versava la CIR all’indomani del deposito del lodo: considerato ancora quanto dovuto dalla convenuta per spese legali e lesione di immagine, il quantum risarcitorio venne  definitivamente determinato in Euro 749.955.611;- riconobbe infine all’attrice il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, da liquidarsi in separato giudizio, sotto il duplice aspetto della lesione del diritto (costituzionale) ad un giudizio reso da un giudice imparziale e di quella del diritto alla propria integrità, onorabilità e reputazione di persona giuridica.

La Corte d’Appello di Milano, investita delle impugnazioni proposte dalle parti,  accolse, per quanto di ragione sia l’appello principale che quello incidentale e per l’effetto, in parziale riforma della sentenza 11786/2009 , determinò in Euro 540.141.059  l’importo dovuto dalla convenuta alla data del 3.10.2009, quale risarcimento di danno immediato e diretto, e pertanto condannò Fininvest s.p.a. a pagare in favore di Cir s.p.a. tale somma, oltre agli interessi legali da detta data al saldo; dichiarò compensate per un quarto tra le parti le spese processuali di entrambi i gradi di giudizio; pose definitivamente  a carico di ciascuna parte per la metà i già liquidati costi della CTU; confermò nel resto la sentenza impugnata.

Per quanto qui interessa, la corte di appello confermò la legittimità della richiesta “frazionata” di risarcimento non patrimoniale (in applicazione del principio di diritto espresso da Cass. n. 2869 del 2003), nonché la statuizione di primo grado in relazione alla sola violazione degli artt. 24 e 111 Cost., ritenendo leso, nella specie, il diritto costituzionalmente garantito ad un giudizio reso da un giudice imparziale, ed escludendo, per converso, la lesione all’onore e alla reputazione della persona giuridica Cir, poiché la sentenza Metta non appariva in alcun modo riconducibile a canoni espressivi infamanti nei suoi argomenti e nelle sue statuizioni, trattando di questioni societarie squisitamente tecniche. La decisione del Collegio di appello venne sottoposta ad impugnazione dinanzi al giudice di legittimità che definì il ricorso con la sentenza n. 21255 del 17 settembre 2013 (decisione della sezione III civile, Pres. Trifone, est. Travaglino). La Suprema Corte accolse il solo il tredicesimo motivo di ricorso e rigettò i restanti motivi. In conseguenza dell’accoglimento del tredicesimo motivo, cassò senza rinvio il capo della sentenza di appello contenente la liquidazione del danno in via equitativa come stimata nella misura del 15% del danno patrimoniale già liquidato. Confermò nel resto l’impugnata sentenza.

 FATTO E DIRITTO

Con atto di citazione ritualmente notificato  la CIR, in questa sede,  ha chiesto  la liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., accertato, con pronuncia di condanna generica, nelle pregresse fasi giudiziali, con statuizioni passate in giudicato: invoca, una quantificazione del danno pari ad euro 32.000.000,00 oltre interessi e rivalutazione monetaria dall’evento dannoso (24 gennaio 1991).

La Fininvest si è costituita contestando le pretese attoree e, in via riconvenzionale, ha svolto istanza per la  condanna della CIR al pagamento del maggior  danno ex art. 1224 c.c., nonché  alla restituzione  di importi pagati a titolo di IVA, qualora la Cir non dimostrasse  la non detrazione della stessa ( domanda poi abbandonata dalla convenuta). 

Questioni preliminari

All’udienza ex art. 183 comma VII c.p.c. del 3 ottobre 2014  entrambe le parti hanno richiesto fissarsi udienza di precisazione delle conclusioni. Con ordinanza emessa in pari data il giudice ha  fissato l’udienza per la precisazione e, successivamente, trattenuto la causa in decisione.

Precisando le conclusioni esse  non hanno reiterato le eventuali istanze istruttorie: ne consegue che tali istanze sono da intendersi definitivamente abbandonate, come pure abbandonata è da ritenersi ogni domanda che non sia stata riprodotta nelle conclusioni.

Viene così circoscritto  ex art.112 cpc l’ambito del decidere.

Con la memoria di replica, parte attrice ha prodotto nuova documentazione: in particolare, una decisione del Tribunale di Bologna, del 10 ottobre 2014. La produzione è manifestamente inammissibile poiché versata in atti oltre ogni sbarramento decadenziale e senza alcuno spiraglio difensivo per la controparte, che non ha potuto svolgere alcun rilievo in merito alla produzione. La stessa deve, quindi, essere espunta dalla piattaforma probatoria.

Oggetto del giudizio e frazionamento del credito risarcitorio

Il codice civile, pur disciplinando il caso dell’adempimento parziale da parte del debitore non regola  il caso opposto, in cui sia il creditore ad esigere un adempimento frazionato. A livello strutturale, nel primo caso è l’adempimento ad essere scomposto in diversi momenti esecutivi; nel secondo caso, è lo stesso rapporto obbligatorio ad essere disarticolato perché il creditore mette in esecuzione distinte porzioni del credito, con comportamenti distinti. La questione giuridica è, allora, se sia consentito al creditore chiedere giudizialmente l’adempimento frazionato di una prestazione originariamente unica, perché fondata sullo stesso rapporto.

Sul tema si sono registrate due tesi opposte, ma con sentenza a  Sezioni Unite ( n. 23726/2007)  la Corte di Cassazione  ha considerato vietata la parcellizzazione del credito unitario.  Con la predetta  decisione la Corte  ha rimeditato la soluzione alla luce di in un quadro normativo evolutosi nella duplice direzione sia di una sempre più accentuata e pervasiva valorizzazione della regola di correttezza e buona fede – con riferimento ,  nel  contesto del rapporto obbligatorio,  ” al dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art.2 della Costituzione”, risolvendosi  in un abuso del processo – sia in relazione al canone del “giusto processo”, di cui al novellato art. 111 della Costituzione.

Secondo le Sezioni Unite in tal senso < si  impone una lettura “adeguata” della normativa di riferimento (in particolare dell’art. 88 c.p.c.), nel senso del suo allineamento al duplice obiettivo della “ragionevolezza della durata” del procedimento e della “giustezza” del “processo”, inteso “come risultato finale (della risposta cioè alla domanda della parte), che “giusto” non potrebbe essere ove frutto di abuso, appunto, del processo, per esercizio dell’azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell’interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione dell’attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi >.

E’ ancora intervenuta la Cassazione  con sentenza n.28286/2011, affermando che ”  In tema di risarcimento dei danni da responsabilità civile, non è consentito al danneggiato, in presenza di un danno derivante da un unico fatto illecito, riferito alle cose ed alla persona, già verificatosi nella sua completezza, di frazionare la tutela giurisdizionale mediante la proposizione di distinte domande, parcellizzando l’azione extracontrattuale ………… e ciò neppure mediante riserva di far valere ulteriori e diverse voci di danno in altro procedimento, in quanto tale disarticolazione dell’unitario rapporto sostanziale nascente dallo stesso fatto illecito, oltre ad essere lesiva del generale dovere di correttezza e buona fede, per l’aggravamento della posizione del danneggiante-debitore, si risolve anche in un abuso dello strumento processuale”; e tale  divieto di frazionamento  è stato esteso alla tutela giurisdizionale, nel processo esecutivo: “è illegittima la condotta del creditore che abbia inteso azionare, in base ad un titolo esecutivo in origine indiscutibilmente unitario, ben tre distinti processi esecutivi ossia uno per la sorta capitale, uno per gli accessori ed altro per le spese” (Cass. 8576/2013).

Le Sezioni Unite del 2007 non hanno detto quali conseguenze pratico-applicative si ricolleghino alla condotta del creditore che agisca a tutela del proprio credito unitario frazionando la domanda.

Nel silenzio delle SS.UU., è possibile rintracciare almeno due tesi giurisprudenziali, l’una che sancisce la improponibilità, ovvero inammissibilità, delle domande aventi ad oggetto una frazione soltanto dell’unico credito, l’altra che  postula la riunificazione delle domande stesse e la decisione sulle spese che tenga conto del comportamento scorretto. Quest’ultima tesi  è stata ribadita in tempi recenti dalla Suprema Corte, la quale , con  sentenza n. 5491/2015,  ha ribadito che la scissione strumentale del contenuto dell’obbligazione si pone il contrasto con il principio di buona fede e con il principio di ragionevole durata del processo,  ha disatteso gli  indirizzi espressi in Cassazione di improponibilità ed  inammissibilità)  ritenendo che “essendo illegittimo non lo strumento adottato ma la modalità della sua utilizzazione” debba operarsi su un altro piano, in particolare quello della liquidazione delle spese di lite; da riguardarsi come se il procedimento fosse stato unito fin dall’origine (così anche Cass. 9488/2014).  Questua soluzione non è, tuttavia, applicabile nel caso di “porzione del credito” già oggetto di pronuncia passata in giudicato. In simile  ipotesi il tema della infrazionabilità del credito unitario richiama l’attenzione  sull’oggetto del processo e apre la strada all’affermazione dell’ autorevole teorizzazione di una minima unità strutturale azionabile nel procedimento: la c.d. «minima unità strutturale» costituisce sostanzialmente l’oggetto del processo ed, alla luce dell’interpretazione degli artt. 24 Cost., 99 c.p.c. e 2907 c.c., è costituito dal diritto soggettivo nella sua integrità sostanziale, con la conseguenza che la decisione deve necessariamente investire la situazione sostanziale nella sua interezza, anche per rispetto del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Tale tesi si fonda essenzialmente su due argomenti: 1) l’interpretazione restrittiva del principio dispositivo, secondo cui quest’ultimo contempla la possibilità di scelta se adire o meno l’autorità giudiziaria, ma non la capacità di configurare ad libitum l’oggetto del giudizio, frazionando l’unitario diritto soggettivo in più parti processualmente distinte; 2) l’unicità della situazione soggettiva nel senso che l’attore, anche quando agisce per una frazione del suo credito, traduce tutto il suo diritto e non limita oggettivamente la sua domanda, bensì compie un’ allegazione incompleta che circoscrive in pari misura l’entità della condanna. Vale a dire, l’attore sottopone sempre a tutela processuale il diritto nella sua integralità e provoca una sentenza che sul diritto fa stato. La conseguenza di tale tesi è che il giudicato impedisce all’attore di agire per il residuo, atteso che il nuovo giudizio ha ad oggetto un rapporto già definito, e ciò in base al fatto che il giudicato investe comunque tutto il rapporto, implicitamente dedotto con la domanda giudiziale – pur se questa ha avuto per oggetto solo una parte del credito. Applicando la teoria della minima unità strutturale del processo, alla luce di una interpretazione che contrasti l’abuso del processo, si perviene ad una razionale giustificazione della falcidia in rito a fronte della domanda frazionata: è l’infrangersi della domanda giudiziale contro il giudicato che comporta la sua paralisi in rito senza accesso al merito.

E si arriva, così, alla questione oggetto dell’odierna lite: quid juris in caso di azione del creditore/danneggiato che, a fronte di un medesimo fatto illecito generatore di danno, richieda, quanto al pregiudizio patrimoniale, la sentenza di accertamento e condanna e quanto al nocumento non patrimoniale, la condanna generica per avere la liquidazione in separato giudizio?  E’ convincimento di questo Tribunale, che a questa domanda debba rispondere, con efficacia di giudicato, il giudice dell’ “an” del risarcimento al quale compete, nel momento genetico di disarticolazione del credito, di intervenire per sanzionare il frazionamento o, invece, legittimarlo.

Nel caso di specie, è pacifico  che nel giudizio di prime cure originario l’attrice aveva chiesto  il risarcimento dei danni nella somma di euro 468.882.841,02 oltre rivalutazione monetaria ed interessi dalla data della produzione del danno, svolgendo  domanda generica per i danni non patrimoniali sofferti a causa della corruzione, con riserva di quantificarli in separato giudizio. A fronte di  tale domanda – invero presentata in epoca anteriore alla pronuncia delle Sezioni Unite del 2007- , il giudice adito non aveva sollevato  alcuna questione d’ufficio (art. 101 c.p.c.) e, anzi, aveva provveduto in conformità. In particolare il giudice di prime cure, ritenuto che detta domanda di accertamento del danno non patrimoniale soltanto sull’an fosse nella fattispecie ammissibile, nonostante il  principio della non frazionabilità dei danni risarcibili derivati da un unico fatto illecito e  richiamando la sentenza della Cassazione   n. 2869/ 2003, aveva, con motivazione espressa, rigettato l’eccezione relativa alla non frazionabilità dei danni risarcibili derivati da un unico fatto illecito (v. sentenza di primo grado, pag. 139).

La Corte di Appello di Milano, investita della questione con il nono motivo di appello, aveva confermato la statuizione  ed aveva riconosciuto alla CIR il danno non patrimoniale da lesione del diritto costituzionalmente garantito ad un giudizio reso da un giudice imparziale e ciò in violazione dei principi costituzionali di cui agli articoli 24 e 111. La Corte, nel contempo, aveva respinto  la richiesta afferente al danno non patrimoniale da lesione all’onore ed alla reputazione della persona giuridica.

All’esito del giudizio di legittimità, la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 21255 del 2013, aveva statuito da un lato, il diritto della CIR di ottenere il risarcimento del danno da lesione del diritto a un giudicato imparziale, dall’altro il diritto della medesima CIR di ottenere la liquidazione del pregiudizio, in separato giudizio civile.

Il giudicato, pertanto, impone di prendere atto che è accertato in modo incontrovertibile 1)  che la CIR ha subito un danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. (an debeatur),  2)  che il citato pregiudizio deve  essere risarcito a seguito di autonoma azione civile (ora qui sub iudice).

Ogni questione ulteriore è, dunque, inammissibile in questa sede. Al riguardo, questo giudice non può, dunque, esaminare la sussistenza di eventuali profili di rito ostativi alla liquidazione del pregiudizio che dovevano trovare spazio (ed eventualmente riconoscimento) nel giudizio definito dalla Suprema Corte di Cassazione. In particolare, non è possibile affrontare la legittimità (rectius:ammissibilità) della domanda di condanna generica che provochi il frazionamento del credito risarcitorio unitario. Sul punto, come si è già detto, il giudicato formatosi a seguito dell’intervento dei giudici dell’an è di segno favorevole.

Danno non patrimoniale

Va precisato, così respingendosi ogni diversa richiesta della parte attrice, che si è formato il giudicato sul tipo di danno che è ammesso a ristoro nell’odierno processo. Infatti, non ogni lesione è stata stimata esistente dal giudice della pregressa fase di cognizione. In particolare, nell’ottica della condanna generica, il giudice di merito ha enucleato (art. 2059 c.c. e art. 185 c.p.), <da un fatto di corruzione in atti giudiziari una potenzialità dannosa non eccentrica, ma perfettamente consonante, sul piano del danno non patrimoniale, rispetto all’uso abnorme del processo conseguente alla consumazione di un delitto che, dal punto di vista della persona offesa, era idoneo ad integrare “in modo emblematico” (e dunque, sul piano della presunzione semplice) la lesione dell’interesse costituzionale al giusto processo (e, prima ancora, alla tutela effettiva dei propri diritti). Non era, di converso, compito del giudice dell’an l’accertamento in concreto del danno nella sua definitiva determinazione, essendo tale compito (…) successivamente riservato al giudice del quantum debeatur> (Cass. civ. già cit). In particolare, quel procedimento di merito ha accertato “il danno non patrimoniale da lesione del diritto costituzionalmente garantito ad un giudizio reso da un giudice imparziale”.

E’ questa (e solo questa) la lesione che deve trovare ristoro monetario nella presente  sede. Nemmeno può tenersi conto di altre voci di danno “in via indiretta” (ciò costituirebbe elusione di giudicato): coglie nel segno l’eccezione della Fininvest là dove contesta il fatto che la CIR chieda che si tenga conto delle ricadute negative sulla immagine della danneggiata (voce di pregiudizio espressamente esclusa nel giudizio sull’an, come si è già detto). Identica considerazione valga  per la presunta lesione dell’onore e della reputazione, come pure per tutti i  riferimenti a fatti o circostanze del tutto estranei al terreno risarcitorio oggetto dell’odierno procedimento, come la presunta caduta del titolo CIR in borsa (  pure esclusi nel giudizio sull’an) .

Il Tribunale stima  risarcibile il danno non patrimoniale in parola. Come è noto, nelle prime interpretazioni che sono state fornite dell’art. 2059 cod. civ. – nella parte in cui prevede tale forma di risarcimento soltanto nei casi previsti dalla legge – si riteneva che la legge richiamata fosse esclusivamente quella penale. In questa prospettiva, diretta a valorizzare il profilo sanzionatorio del danno non patrimoniale – inteso come danno morale soggettivo (sentenza n. 184 del 1986) – era, pertanto, necessario che la condotta posta in essere integrasse gli estremi di un fatto penalmente illecito.  La successiva giurisprudenza della Consulta (sentenza n. 233 del 2003) e anche della Corte di cassazione (Cass. SSUU n. 26972/2008) – dopo avere spostato il centro dell’analisi sul danneggiato, e dunque sui profili restitutori, e dopo avere identificato l’esatta natura del danno non patrimoniale come avulsa da qualunque forma di rigidità dommatica legata all’impiego di etichette o fuorvianti qualificazioni – ha allargato le maglie del risarcimento del danno non patrimoniale, affermando che esso deve essere riconosciuto, fermo restando la sussistenza di tutti gli altri requisiti richiesti ai fini del perfezionamento della fattispecie illecita, oltre che nei casi specificamente previsti dal legislatore, quando viene leso un diritto della persona costituzionalmente tutelato. In definitiva, l’attuale sistema della responsabilità civile per danni alla persona, fondandosi sulla risarcibilità del danno patrimoniale ex art. 2043 cod. civ. e non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ., è, pertanto, essenzialmente un sistema bipolare. La Corte di Cassazione, riconducendo ad organicità tale sistema, ha, inoltre, elaborato taluni criteri, legati alla gravità della lesione, idonei a selezionare l’area dei danni effettivamente risarcibili (citata sentenza n. 26972 del 2008). Di significativo rilievo, in particolare, sono le considerazioni che le Sezioni Unite hanno espresso in ordine al fatto: 1) che la lesione debba riguardare un interesse di rilievo costituzionale; 2) che l’offesa sia  grave, nel senso che debba superare una soglia minima di tollerabilità; 3) che  il danno debba essere risarcito quando non sia futile, vale a dire riconducibile a mero disagio o fastidio. Questi principi trovano applicazione anche in favore del danneggiato che non sia persona fisica bensì Ente (v. Corte Costituzionale n. 355/2010; Cass. n. 4542/2012;  Cass. n.18082/2013). Orbene, nel caso in esame, il pregiudizio discende non solo dalla commissione di un delitto (accertata in concreto), ma anche dalla lesione di un diritto costituzionalmente tutelato.

Può, dunque, procedersi alla quantificazione del danno non patrimoniale, premettendo, tuttavia, quanto segue.

Nel caso di specie, deve farsi necessariamente riferimento alla valutazione  equitativa di cui all’art. 1226 c.c.. Ma  nell’attuale assetto  l’equità cd. pura, scollata da ogni parametro o riferimento, non appare più in sintonia con i principi costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza. Come hanno avuto modo di precisare i giudici di legittimità, nel settore del danno alla salute (che pure è un danno ex art. 2059 c.c.), l’equità assolve anche alla fondamentale funzione di “garantire l’intima coerenza dell’ordinamento, assicurando che casi uguali non siano trattati in modo diseguale”, con eliminazione delle “disparità di trattamento” e delle “ingiustizie”, a tale stregua venendo ad assumere il significato di “adeguatezza” e di “proporzione” (Cass. n. 14402/ 2011; Cass. n. 12408/2011).

L’utilizzo dell’ equità deve, quindi, evitare di tradursi in ingiustificate disparità di trattamento e deve tendere ad assumere, come riferimento liquidatorio, parametri oggettivi e, se possibile, di portata generale per una serie indeterminata e astratta di casi.

Procedendo in questa traccia interpretativa, stima questo Tribunale che, oggi, l’Ordinamento preveda espressamente dei criteri risarcitori “base” per il processo che sia ingiusto, come lo è quello viziato dal dolo del giudizio. Infatti, la lesione del diritto costituzionalmente garantito ad un giudizio reso da un giudice imparziale costituisce una lesione del più ampio diritto al “giusto processo” che si sostanzia, per l’appunto, nel principio del giudice imparziale. Si tratta, cioè, di una lesione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali e dell’art. 111 Cost.

Ebbene, in linea con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ,  la Legge n. 89/2001, come risultante per effetto delle modifiche introdotte dal D.L. n.35/ 2013, n. 35, convertito con modificazioni nella Legge n. 64/ 2013 e  dal D.L. n.83/ 2012, convertito con modificazioni nella Legge n.134/ 2012, n. 134, prevede espressamente un criterio di “ristoro” del danno da “processo ingiusto”. A tale titolo, infatti, il giudice può liquidare una somma di denaro non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro annuale (art. 2-bis, l. 89 del 2001).

Nel caso in esame può, quindi,  stimarsi utilizzabile, come metro di misura neutro cui riferirsi nel calcolo del danno, l’importo base  di € 1.500,00. Questa somma è quella che, secondo un indice di riferimento autorevole come quello offerto dalla giurisprudenza dei diritti fondamentali (v. Cass. n. 1630/ 2006 che richiama la CEDU), mira a coprire la sofferenza che un individuo abbia accusato per avere subito un procedimento ingiusto.

Su detto  importo, devono poi essere applicati dei correttivi nel senso della personalizzazione e della aderenza al caso concreto. In primo luogo, nella ipotesi di specie, il processo è risultato ingiusto per la commissione di un reato: il giudice è stato oggetto di scambio corruttivo al fine di manipolare la propria funzione pubblica in aderenza agli interessi egoistici di una delle parti. Ne consegue un primo adattamento, tenendo presente la  fattispecie illecita che ha dato origine al  danno,  sorretta da un coefficiente di partecipazione soggettiva di  ampia intensità quale il dolo: si stima necessario pervenire alla somma base di € 15.000,00. Invero la percezione dell’altrui intenzionalità amplifica la sofferenza del danneggiato, il quale apprende che la lesione ai suoi diritti è stata arrecata con il precipuo fine di danneggiarlo; o, comunque, il danno è la conseguenza indiretta che il danneggiante accettava si verificasse. Deve, poi, considerarsi l’ efficacia offensiva del delitto: nel caso di specie, per effetto della corruzione, il “giudice parziale” ha  rovesciato la “decisione giusta” e offerto un risultato  opposto a quello che spettava, secondo Giustizia.

Indicativa della situazione di sofferenza  del danneggiato  è la decisione di non coltivare il giudizio in Cassazione ed accettare la transazione che, come noto, ha provocato  un ingente danno patrimoniale: la “fuga” dal sistema pubblico di risoluzione delle controversie, in coincidenza con la sentenza frutto di dolo, mette  in risalto la condizione soggettiva della CIR.

Un altro elemento che merita positivo apprezzamento è quello relativo alla collocazione storica della vicenda, nel suo complesso. In questo caso, infatti, la sofferenza è stata  amplificata dall’ ampia risonanza nazionale (e non solo) che la notizia ha avuto a mezzo di tutti i più importanti canali di informazione:  il singolo accadimento, diventato fatto di cronaca in cima ad ogni rassegna di stampa, ha assunto una dimensione estesa ed allargata e la  visibilità della vicenda a mezzo degli organi di informazione ha funzionato, in un certo senso, come cassa di risonanza dell’illecito,  analizzato  nei dettagli e nelle sue dinamiche storiche.

Ne discende,  a parere del Tribunale,  un ulteriore adeguamento che porta la somma ad € 75.000,00,  somma considerata già equa alla data del fatto illecito. Ad essa devono essere aggiunti gli interessi e la rivalutazione monetaria. Costituendo l’obbligazione di risarcimento del danno un’obbligazione di valore sottratta al principio nominalistico, la rivalutazione monetaria è dovuta a prescindere dalla prova della svalutazione monetaria da parte dell’investitore danneggiato ed è quantificabile dal giudice, anche d’ufficio, tenendo conto della svalutazione sopravvenuta fino alla data della liquidazione. È altresì risarcibile il nocumento finanziario (lucro cessante) subito a causa del ritardato conseguimento della somma riconosciuta a titolo di risarcimento del danno, con la tecnica degli interessi computati non sulla somma originaria né su quella rivalutata al momento della liquidazione, ma sulla somma originaria rivalutata anno per anno (v. SS.UU. sent. n. 1712/95). All’esito del calcolo, il pregiudizio alla attualità è pari ad € 246.000,00.

Non si stima riconoscibile una somma maggiore, se non frustrando la funzione stessa della responsabilità civile o modellandola non già in base alla lesione effettiva, ma in ragione della “qualità del danneggiato”, quasi ad affermare che una parte con maggior patrimonio possa soffrire di più. Invero il risarcimento del danno si colloca, sistematicamente, nell’ambito delle sanzioni civili riparatorie. Si tratta di una tutela rimediale con carattere compensativo (e non punitivo) in quanto tende a reintegrare il danno provocato dalla violazione della situazione giuridica soggettiva: conseguentemente, per la vittima è “pecuniariamente” indifferente non patire il danno, ovvero patire il danno ma intascare il risarcimento (cd. principio di indifferenza). La matrice squisitamente compensativa della tutela rimediale esclude che il danneggiato possa trarre vantaggio dal fatto illecito essendogli precluso di incamerare più di quanto sia necessario per ricondurlo allo status quo ante (ossia la situazione precedente l’illecito). Taluni sostengono che, accanto alla tipica funzione reintegratrice, la tutela risarcitoria avrebbe anche una funzione di general deterrence con ricadute pratico-applicative in punto di quantificazione della somma riparatoria: ma non è questa la funzione del risarcimento del danno. Ma  gli studi più recenti e la giurisprudenza costante assegnano  alla tutela del risarcimento una vocazione reintegratrice ritenendo che il danno abbia lo scopo di sostituire un’ utilità perduta con un equivalente pecuniario equitativamente scelto. Questo procedimento di «monetizzazione delle perdite» non può essere  parametrato a dati che si collochino fuori dalla lesione: peraltro un ente soffre, in genere, il danno morale a causa di un fatto delittuoso diversamente da come lo soffrirebbe una persona fisica, cioè con minore impatto lesivo.

[6]. Domande riconvenzionali della Fininvest

La domanda della Fininvest, di restituzione del maggior danno ex art. 1224 c.c., a seguito della riforma del quantum del risarcimento del danno patrimoniale, ad opera della Suprema Corte di Cassazione, sarebbe inammissibile per incompetenza funzionale: la convenuta, infatti, avrebbe dovuto presentare le proprie richieste davanti al giudice che ha pronunciato la sentenza cassata, ex art. 389 c.p.c.

Tuttavia, la domanda non merita accoglimento “nel merito” e il rigetto consente il superamento di tutte le altre questioni, anche di  rito ( Cass. SSUU n. 9936/2014), in applicazione del principio  della cd. ragione più liquida, in base al quale la domanda può essere respinta sulla base della soluzione di una questione assorbente già pronta, senza che sia necessario esaminare previamente tutte le altre.

Ebbene l’art. 1224 c.c. presuppone che il debitore abbia ritardato l’adempimento ed, in presenza di taluni presupposti, riconosce al creditore anche un pregiudizio da svalutazione. La Fininvest sostiene che il danno derivi dalla mancata disponibilità della somma oggetto di restituzione, ma, in tal  modo, propone una domanda che esula completamente dall’orbita dell’art. 1224 c.c.:  infatti  il “titolo” per ottenere la restituzione della somma di circa euro 72 milioni è da individuare  nella sentenza della Corte di Cassazione e, dopo la decisione, la CIR ha restituito l’importo,  in esecuzione della stessa, né avrebbe dovuto farlo se non dal momento successivo al deposito della pronuncia di Cassazione. La domanda è, quindi, infondata.

Spese del processo

A fronte della somma richiesta da parte attrice, si rileva che la riduzione operata in sentenza, pur non integrando gli estremi della soccombenza reciproca, ugualmente può giustificare la compensazione totale o parziale delle spese (Cass. n. 22388/2012).

Tenuto conto della eccedente domanda della  Cir e della  soccombenza della  Fininvest sulla domanda riconvenzionale, si stima equo compensare tra le parti le spese processuali nella misura di un terzo, ponendo a carico  della convenuta il residuo.

Si rimanda la liquidazione in dispositivo,  rilevando la  mancanza della fase istruttoria.

Va, però, fatta una precisazione: il principio di adeguatezza e proporzionalità impone una costante ed effettiva relazione tra la materia del dibattito processuale e l’entità degli onorari per l’attività professionale svolta. Il decisum prevale, quindi, sul disputatum (Cass. SSUU n. 19014/2007),  salvo il caso in cui vi sia rigetto integrale della domanda attorea ove consegue che il valore della controversia sia quello corrispondente alla somma domandata dall’attore (Cass. n. 5381/2006). Nel caso in esame, dunque, il valore della controversia, su cui calcolare le spese di lite, è di € 246.000,00; gli importi vengono liquidati nel valore intermedio tra i medi e i massimi.

P.Q.M.

il Tribunale definitivamente pronunciando, contrariis reiectis,

  • dichiara l’inutilizzabilità del documento prodotto dalla parte attrice con la memoria di replica (sentenza del Tribunale di Bologna, del 10 ottobre 2014);
  • condanna la Fininvest  al risarcimento del danno non patrimoniale in favore di CIR  liquidato in complessivi € 246.000,00 oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo;
  • respinge la domanda riconvenzionale  proposta dalla Fininvest ex art. 1224 c.c.;
  • dichiara la compensazione delle spese processuali tra le parti nella misura di un terzo e condanna la Fininvest alla rifusione in favore di Cir del residuo, che si liquida in  € 8.000,00  per compensi ed € 983,00 per spese, oltre 15% per rimborso forfettario, IVA e CPA.

Così deciso in Milano il 9.7.2015

Il Giudice

Dott. Nadia Dell’Arciprete

Nell’ambito dei giudizi di separazione, di divorzio congiunto e dei procedimenti camerali in materia di mantenimento di figli naturali, sono preclusi i trasferimenti immobiliari, poiché: non vi è la possibilità di individuare un soggetto che sia tenuto ad effettuare quei controlli che, negli atti tra vivi, è chiamato ad eseguire il notaio; il provvedimento giurisdizionale che dovesse contenere il trasferimento del diritto reale, non può essere equiparato all’atto pubblico redatto da un notaio ai sensi della legge notarile. Inoltre: il legislatore – art. 29 comma 1 bis della legge 52/1985 (aggiunto dal d.l. 78/2010, convertito in legge 122/2010) – ha espressamente assegnato al notaio il compito della individuazione e della verifica catastale, nella fase di stesura degli atti traslativi; i trasferimenti immobiliari non possono avvenire in favore di soggetti (figli) estranei al procedimento giudiziario e che non possono sottoscrivere l’atto; possono configurarsi elusioni al regime fiscale per il differente regime di tassazione degli atti pubblici, rispetto agli esigui importi dovuti a titolo di contributo unificato.

N. 2239/2011 R.G.  

N. …….. Sent. Civ. Anno 2016

Tribunale di Torre Annunziata

Prima sezione civile

………………………………………………..

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Torre Annunziata, riunito in camera di consiglio nelle persone dei seguenti magistrati

dott. Stefano Chiappetta – presidente

dott. Francesco Coppola – giudice relatore

dott.ssa Luisa Zicari – giudice

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio civile di 1° grado iscritto al n. 2239/2011 R.G., vertente

TRA

TIZIO, elettivamente domiciliato in —, presso lo studio dell’avvocato -, che lo rappresenta e difende in virtù di procura apposta a margine del ricorso introduttivo.

RICORRENTE

E

CAIA, elettivamente domiciliata in —, presso lo studio dell’avvocato -, che la rappresenta e difende in virtù di procura apposta a margine della memoria difensiva depositata il 22-6-2012.

RESISTENTE

NONCHÈ

Il P.M. presso il Tribunale di Torre Annunziata

INTERVENTORE EX LEGE

Oggetto: divorzio

Conclusioni:

Ricorrente e resistente: cessazione degli effetti civili del matrimonio e recepirsi i patti oggi sottoscritti.

PM: cessazione degli effetti civili del matrimonio e ratifica degli accordi raggiunti dalle parti.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con ricorso depositato il 4-8-2011, Tizio chie­deva a que­sto tribunale che fosse pronunciata la cessazione degli effetti civili del matri­mo­nio­, da lui contratto il 6-3-1972 con Caia.

A sostegno della domanda deduceva che il Tribu­nale di Torre Annunziata, con decreto del 29-11-2001 (rectius, 11-12-2001) aveva omologato la separazione dei coniugi (di cui al verbale di comparizione del 29-11-2001), e che da quella data essi non avevano più ripreso la convivenza coniugale, nè si erano riconciliati.

Inoltre, deduceva che in sede di separazione era stato posto a suo carico il pagamento di un assegno mensile di mantenimento per la moglie di lire 1.000.000 e per la figlia di lire 1.500.000 ma che la sua situazione economica era notevolmente cambiata essendo venute meno diverse entrate ed essendo gravato da debiti per circa euro 300.000 ed avendo subito un’espropriazione immobiliare; per cui chiedeva che fosse determinato l’assegno di mantenimento per la moglie e la figlia maggiorenne nella misura di euro 500,00.

Caia non si opponeva alla richiesta di divorzio, ma contestava quella relativa alla riduzione dell’assegno dovuto dal ricorrente e chiedeva che fosse posto a suo carico l’assegno di euro 1.500,00, in favore di lei e della figlia, e che il ricorrente contribuisse alla metà delle spese straordinarie effettuate in favore della figlia.

2. Preliminarmente deve rilevarsi che, ferma la possibilità di trasformare la separazione giudiziale in consensuale alla udienza presidenziale, per la quale trasformazione non vi è nessun ostacolo né normativo né di ricostruzione interpretativa, il problema si pone per la trasformazione dell’udienza presidenziale di divorzio e per il procedimento di separazione e divorzio in fase istruttoria. Sul punto deve darsi atto di prassi, assolutamente divaricate in materia, che spaziano fra chi ritiene che la trasformazione di rito non possa mai essere disposta, e procede pronunciando sentenza sulle conclusioni conformi (previa rinuncia ai termini e comunque con il potere decisorio integro del collegio), ovvero con l’estinzione del procedimento contenzioso, e la riproposizione del nuovo ricorso, e chi ritiene, invece, che il giudizio contenzioso sia sempre trasformabile.

Sulla base di tali premesse, ritiene il Collegio che, in mancanza di una espressa previsione legislativa, non possa procedersi alla trasformazione del rito. Ciononostante, le esigenze di ragionevole durata del processo inducono a ritenere ammissibile una pronuncia sulle conclusioni conformi rese dalle parti.

3. Ritiene pertanto il Collegio, investito della domanda che la stessa sia fondata e vada, pertanto, accolta.

Invero si è realizzata la ipotesi di cui all’art. 3 n. 2 lettera b) L. 898/1970, così come modificata dall’art. 1 della legge 6 maggio 2015 n. 55, essendo decorsi oltre sei mesi dalla data di comparizione dei coniugi in­nanzi al Presidente del Tri­bunale di Torre Annunziata nel procedimento di separazione consensuale, ove erano stati determinati anche i rela­tivi patti, e da quella da­ta è per­du­rato lo stato di separa­zione che, in man­can­za di ecce­zione, deve presumersi inin­ter­rotta. Pertanto, attese le risultanze degli atti di causa, si deve ritenere che la comu­nione spirituale e mate­riale fra i co­niugi sia definitivamente ve­nuta meno e non possa dunque ricostituirsi.

In ordine all’assegno divorzile richiesto dalla resistente, le parti sono addivenute ad un accordo consensuale – da essi sottoscritto all’udienza del 3-2-2016 -, i cui termini, come precisati in dispositivo, ad avviso del collegio, appaiono condivisibili.

Le parti, inoltre, hanno anche precisato che i figli maggiorenni, mevia (nata in —-) e sempronio (nato in —-), sono economicamente autosufficienti, per cui risulta del tutto legittima la mancata previsione di un obbligo economico dei genitori nei confronti di questi.

Non può, invece, essere recepito in sentenza l’accordo che le parti hanno previsto nella menzionata scrittura da loro sottoscritta relativo al trasferimento, in favore di Caia, da parte di Tizio, della quota di sua proprietà degli immobili siti in — alla via — – ovvero il fabbricato-villa denunziato all’UTE di — con scheda registrata il 12-12-1979 prot. N. 2170 e il terreno pertinenziale di cui al f.7, p.lle 102, 510 e 362.

Ritiene, infatti, il collegio – come costantemente affermato da anni anche in giurisprudenza: cfr. ex multis trib. Milano, decreto 21-5-2013,Il Sole 24 Ore, Mass. Repertorio Lex24; trib. Milano, sentenza 21-5-2014, Il Sole 24 OreVentiquattrore Avvocato2014, Monogr. 2, pg. 64- che i trasferimenti immobiliari siano preclusi nell’ambito dei giudizi di separazione, di divorzio congiunto e dei procedimenti camerali in materia di mantenimento di figli naturali.

Nei giudizi indicati, invero, non vi è la possibilità di individuare un soggetto che sia tenuto ad effettuare quei controlli che, negli atti tra vivi, è chiamato ad eseguire il notaio. Non appare discutibile, in sostanza, che il provvedimento giurisdizionale (decreto di omologazione in caso di separazione consensuale, sentenza in caso di divorzio congiunto e decreto nel caso di provvedimenti camerali in materia di figli naturali) che dovesse contenere il trasferimento del diritto reale, non può essere equiparato all’atto pubblico redatto da un notaio ai sensi della legge notarile, dal quale differisce profondamente.

Nel compimento di un atto pubblico le parti sono assistite da un professionista in grado di assicurare l’effettiva ricognizione della consistenza del bene e dei suoi confini, la legittimità urbanistica dello stesso (ricomprendendo in tale concetto non solo la sussistenza di certificati di regolarità urbanistica strictu sensu intesi, ma anche la esistenza delle certificazioni energetiche, delle dichiarazioni relative agli impianti ed agli allineamenti catastali), la sua libertà da trascrizioni pregiudizievoli al momento dell’atto, la capacità delle parti e, infine, la possibilità di evitare l’ inserimento di clausole nulle.

Il legislatore, poi, ha espressamente assegnato al notaio il compito della individuazione e della verifica catastale, nella fase di stesura degli atti traslativi, in tal guisa concentrando, nell’alveo naturale del rogito notarile, il controllo indiretto statale a presidio degli interessi pubblici coinvolti. Stabilisce, infatti, l’art. 29 comma 1 bis della legge 52/1985 (aggiunto dal d.l. 78/2010, convertito in legge 122/2010): “Gli atti pubblici e le scritture private autenticate tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento, la costituzione o lo scioglimento di comunione di diritti reali su fabbricati già esistenti, ad esclusione dei diritti reali di garanzia, devono contenere, per le unità immobiliari urbane, a pena di nullità, oltre all’identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie, sulla base delle disposizioni vigenti in materia catastale. La predetta dichiarazione può essere sostituita da un’attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale. Prima della stipula dei predetti atti il notaio individua gli intestatari catastali e verifica la loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari”.

Consegue, inevitabilmente, da quanto evidenziato che il controllo del notaio non possa certo essere sostituito da quello del giudice, ostandovi l’evidente, quanto pacifica, diversità di ruolo e funzioni.

A parere del collegio, i trasferimenti immobiliari sono inammissibili in questi giudizi, anche perché risulta impossibile procedervi in favore di soggetti tecnicamente non “parti” dei procedimenti di separazione, divorzio o camerali in tema di figli naturali, quantunque si tratti di figli maggiorenni, inammissibile apparendo il trasferimento in favore di soggetti estranei al procedimento giudiziario e che, perciò, non possono sottoscrivere contestualmente il relativo atto di trasferimento.

Inoltre, si osserva che accedendo alla tesi della trasferibilità, potrebbero configurarsi elusioni al regime fiscale per il differente regime di tassazione degli atti pubblici, rispetto agli esigui importi dovuti a titolo di contributo unificato per l’iscrizione a ruolo dei procedimenti giudiziali di cui si discorre: anzi questi, nel caso di procedimenti camerali in tema di figli naturali, sono totalmente azzerati essendo tali giudizi esenti da contributo.

Alla stregua delle esposte considerazioni giuridiche, il Collegio, alla luce del potere decisorio che allo stesso compete, risultando il descritto trasferimento immobiliare in questa sede inammissibile, nulla dispone in ordine al descritto accordo.

Devono essere eseguite le formalità prescritte dalla legge.

4. Le spese processuali, tenuto conto che lo scioglimento viene dichiarato sulla base di condizioni condivise dalle parti, vanno compensate.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando sul ricorso proposto da Tizio nei confronti di Caia, sentito il P.M., ogni altra istanza, eccezione, deduzione disattesa, così provvede:

A) accoglie la domanda e, per l’effetto, dichiara la cessazione degli effetti civili del matrimo­nio del —-, con­tratto in Torre del Greco da Tizio, nato in —-, e da Caia, nata in —- (atto n. — – P. II, S. A, reg. at­ti matri­monio anno —);

B) ordina che la presente sentenza sia trasmessa, a cura della cancelleria in copia autentica all’Ufficiale dello stato Civile del Comune predetto per la trascrizione, l’annotazione e le ulteriori incombenze di cui agli artt. 10 legge 1-12-70 n. 898, 134 r.d. 9-7-1939 n. 1238 e 49 lettera g), 69 lettera d) d.p.r. 3.11.2010 n. 396 (Ordinamento Stato Civile);

C) dispone che Tizio corrisponda ad Caia, entro il giorno 5 del mese un assegno divorzile di euro 500,00, con adeguamento annuale secondo l’indice Istat di variazione dei prezzi al consumo per le famiglie di impiegati ed operai a decorrere dal 1°-3-2017;

D) compensa le spese di lite tra le parti.

Torre Annunziata, 29 febbraio 2016

Il Giudice estensore

dott. Francesco Coppola

il Presidente

dott. Stefano Chiappetta

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(Trib. Nocera Inferiore; est. R. Cappiello)

Il Tribunale di Nocera Inferiore – I Sezione Civile – in persona del  Giudice Unico dott.ssa Raffaella Cappiello, ha emesso la seguente

ORDINANZA EX ART.702 bis cpc

nella causa civile iscritta al n. 3254 del ruolo generale degli affari contenziosi dell’anno 2014 avente ad oggetto: usura bancaria

TRA

XXXXXXX ed YYYYYYY entrambi rappresentati e difesi dall’ avv. Rosa Mosca presso il cui studio elettivamente domicilia in Scafati, alla via Terze n.10

ricorrente

E

ZZZZZZZ., in persona del legale rapp.te p.t., rappresentata e difesa, in virtù di procura in calce alla comparsa di costituzione e risposta, dall’avv. Luca Cirillo, con il quale elettivamente domicilia in Nocera Inferiore, alla via Tramontano n. 5 presso lo studio dell’avv. Antonio Avitabile

resistente

Letto il ricorso ex art.702 bis cpc depositato il 6.06.2014, con il quale XXXXXXX ed YYYYYYY, premesso di aver stipulato con l’istituto di credito resistente contratto di mutuo per l’importo complessivo di € 129.500,00 da restituirsi in trenta anni mediante 360 rate mensili, hanno chiesto condannarsi la ZZZZZZZ. alla restituzione di tutte le somme pagate a titolo di interesse, nonché scorporarsi dalle rate a scadere la quota di interessi dovuta sino all’ultima rata, deducendo il carattere usurario dei tassi applicati;

ritualmente instaurato il contraddittorio ed udite le difese della resistente;

osserva

I ricorrenti lamentavano l’usurarietà del tasso di interesse applicato al rapporto di mutuo dagli stessi intrattenuto con la banca resistente, deducendo che nel calcolo del TAEG si sarebbe dovuto tener conto anche degli interessi di mora, pattuiti al tasso del 8.95%.

Ciò in base alle più recenti pronunce della Suprema Corte, con le quali si è sancita la necessità di calcolare il tasso usurario sulla scorta anche di quanto convenuto a titolo di interessi moratori.

 Tanto premesso, chiedevano condannarsi la resistente alla restituzione di tutto quanto versato a titolo di interessi, nonché di scorporare dalle rate future l’importo dovuto a titolo di interesse.

Costituitasi, la resistente deduceva, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso proposto, per carenza di interesse non avendo di fatto le parti mai corrisposto gli interessi di mora, per essere stati i pagamenti sempre puntualmente effettuati e , nel merito, la infondatezza dell’avverso assunto, stante la non cumulabilità, ai fini del calcolo della soglia di usurarietà, degli interessi corrispettivi e deli interessi moratori.

La domanda è infondata e pertanto non merita accoglimento.

Occorre, infatti, rilevare che ai fini del calcolo della soglia del tasso usura non è possibile cumulare i tassi convenuti a titolo di interessi corrispettivi ed interessi moratori e ciò in ragione del fatto che interessi corrispettivi ed interessi moratori sono destinati a non concorrere mai atteso che, sopravvenuto l’inadempimento, l’interesse moratorio sarà destinato a sostituirsi all’interesse corrispettivo.

Del resto, in tal senso sono anche le direttive della Banca d’Italia la quale ha ritenuto che il calcolo del TEG, da cui si determina l’interesse come usurario, non comprende anche l’interesse moratorio.

A tale conclusione non osta la nota pronuncia della Suprema Corte n. 350 del 9.01.2013, la quale ha ribadito il principio che, del resto, già era stato ampiamente condiviso in dottrina ed in giurisprudenza, secondo cui l’usurarietà concerne gli interessi a qualunque titolo pattuiti ( e dunque anche a titolo di interessi moratori), senza in alcun modo voler affermare il principio della cumulabilità ai fini del superamento del tasso soglia.

La pronuncia, invero, si inserisce in quel dibattito, ancora vivo in dottrina e giurisprudenza, in ordina alla applicabilità del tasso soglia anche agli interessi moratori; ciò in ragione del carattere sanzionatorio degli stessi, come tale sottratto all’applicazione del tetto del tasso soglia.

Se, tuttavia, la Cassazione nell’affermare il principio della soggezione al limite del tasso soglia anche degli interessi moratori ha, per tale verso, equiparato il regime di questi ultimi a quello degli interessi corrispettivi, va rilevato che un eguale ragionamento non può essere fatto con riferimento alle conseguenze legate al superamento del tasso soglia, atteso che vivo è il dibattito in dottrina ed in giurisprudenza in ordine alla applicabilità dell’art  1814, comma secondo, c.c. anche agli interessi moratori il cui tasso sia riconosciuto usurario.

Invero, deve al riguardo osservarsi che la norma in parola ha carattere eccezionale ( come tale non applicabile in via analogica), costituendo una deroga al principio generale di cui all’art 1419 c.c. con finalità eminentemente sanzionatorie, tanto da configurarsi come una sorta di “sanzione privata” non prevista in via generale dal nostro ordinamento civile.

Orbene, è a ritenersi che la norma in oggetto abbia ad oggetto i soli interessi corrispettivi, in quanto questi ultimi concernono la fisiologia del rapporto, mentre gli interessi moratori, concernendo la patologia dello stesso, ossia la gestione del danno derivante dall’inadempimento del debitore, sarebbero sottratti a tale disciplina.

Viceversa, nel caso della pattuizioni di interessi moratori usurari, la nullità colpirebbe la sola clausola in oggetto, con la conseguenza che saranno dovuti i soli interessi corrispettivi ( in tal senso Trib. di Venezia 15 ottobre 2014, Trib. Napoli 15 settembre 2014)

Sul punto occorre, infatti,  muovere dal differente inquadramento giuridico degli interessicompensativi e degli interessi moratori, avendo essi autonoma e distinta funzione: primi rappresentano infatti il corrispettivo del mutuo, mentre i secondi assolvono ad una funzione risarcitoria, preventiva e forfettizzata, del danno da ritardo nell’adempimento. Dalla distinzione ontologica e funzionale tra gli istituti, discende la necessità di isolare le singole clausole dal corpo del regolamento contrattuale ai fini della declaratoria di nullità, o meglio, di riconoscere che l’unico contratto di finanziamento contiene due distinti cd autonomi paradigmi negoziali destinati ed applicarsi in alternativa tra loro in presenza di differenti condizioni: l’uno fisiologico e finalizzato alla regolamentazione della restituzione rateale delle somme mutate; l’altro solo eventuale ed in ipotesi di patologia del rapporto, nel caso di inadempimento del mutuatario, evenienza al verificarsi della quale è ragionevole ritenere che diversamente si atteggi la volontà delle parti.

Da ciò discende che l’eventuale nullità della seconda pattuizione, relativa al caso di inadempimento ed alla patologia del rapporto;. non pregiudica la validità della prima pattuizione, relativa alla fisiologia del rapporto.

Se dunque gli interessi corrispettivi, convenuti entro il tasso soglia, continuano ad essere dovuti nel rispetto del piano di ammortamento rateale, l’invalidità della clausola contrattuale concernente la mora, in rigorosa applicazione della sanzione posta dal combinato disposto dagli artt. 1815 comma 2 c.c. e 1419 c.c., determina la non debenza degli interessi moratori, ma solo di tali interessi, senza che ciò comporti la conversione in mutuo gratuito di un mutuo contenente interessi moratori usurari; tanto più che, ex art. 1224 comma 1’c.c., in mancanza di tasso di mora, s’applica comunque quello corrispettivo o legale.

Pertanto, gli interessi corrispettivi, ove contenuti entro il tasso soglia, continueranno ad incrementare la sorte capitale finché il rimborso rateale prosegua nel rispetto del piano di ammortamento; mentre al verificarsi dell’inadempimento, non saranno dovuti ma, in ragione della decadenza dal beneficio del termine ove prevista e fatta valere, risulterà esigibile per intero ed immediatamente la sorte capitale, maggiorata dagli interessi corrispettivi ex art. 1224 comma 1 c.c. Così facendo, la clausola che prevede gli interessi moratori, in quanto nulla, è e resta tamquam non esser; mentre viene rispettata una regola, quella degli interessi corrispettivi, che sarebbe destinata ad operare anche se la clausola nulla non fosse mai stata prevista.

Il principio di diritto che può allora essere enucleato è quello in base al quale, se il superamento del tasso soglia in concreto riguarda solo gli interessi moratori, la nullità ex art. 1815 comma 2 c.c. colpisce unicamente la clausola concernente i medesimi interessi moratori, senza intaccare l’obbligo di corresponsione degli interessi corrispettivi convenzionalmente fissati al di sotto della soglia.

Tali conclusioni, in assenza di giurisprudenza di legittimità sul punto, sono coerenti con la maggioritaria giurisprudenza di merito edita, alla quale qui si intende dare continuità (cfr. Trib. Palermo 12/12/2014 Trib. Treviso 9/12/2014 e 11/4/2014, Trib. Brescia 24/11/2014, Trib. Cremona ord. 30/10/2014, Trib. Taranto ord. 17/10/2014, Trib. Venezia 15/10/2014, Trib. Roma 16/9/2014, Trib. Milano 22/5/2014, e ord. 28/1/2014 Trib. Verona 30/4/2014, Trib. Trani 10/3/2014, Trib. Napoli 28/1/2014. Contra e nel senso invocato dagli opponenti, cfr. però App. Venezia n. 342/2013, Trib. Udine 26/9/2014, Trib. Parma ord. 25/7/2014, Trib. Padova 8/5/2014).

Tanto premesso, va osservato che i ricorrenti hanno formulato domanda di condanna della banca resistente alla restituzione di tutti gli importi corrisposti a titolo di interessi, oltre allo scomputo della quota di interessi prevista nel debito residuo, in ragione della pattuizione di interessi moratori usurari.

Ebbene, va rilevato che nell’ambito del rapporto in oggetto i ricorrenti non si sono mai resi inadempienti all’obbligo di pagamento delle rate di mutuo, sicchè – di fatto – non hanno mai corrisposto gli interessi moratori pattuiti.

Ne consegue che, all’evidenza, gli stessi non potrebbero ottenere la restituzione di quanto corrisposto a titolo di interessi, in quanto l’art 1815, comma secondo c.c., trova esclusiva applicazione al caso in cui siano convenuti interessi corrispettivi usurari mentre, ove i soli interessi moratori superino il tasso soglia, si verificherebbe al più la nullità della relativa clausola.

Né, per i motivi sopra ricordati, può ritenersi l’usurarietà del tasso pattuito, atteso che non è ammissibile, ai fini del relativo calcolo, la sommatoria fra l’interesse corrispettivo e l’interesse moratorio contrattualmente previsto.

Ne consegue che, in relazione alla domanda come formulata nell’atto introduttivo, deve dichiararsi la inammissibilità dell’azione proposta per difetto di interesse, atteso che quand’anche si dimostri in corso di giudizio il superamento del tasso soglia degli interessi moratori convenuti, in ogni caso i ricorrenti non potrebbero  chiederne la restituzione, non avendo mai corrisposto interessi di mora.

E’ ben vero che il rapporto di mutuo è tuttora in corso di svolgimento e, tuttavia, tale circostanza avrebbe al più legittimato la proposizione di un’azione di accertamento mero, per la quale senz’altro sussiste l’interesse ad agire dei ricorrenti, ma non anche ad un’azione di condanna, quale quella esercitata in questa sede.

La novità e complessità delle questioni trattate, in uno ai divergenti orientamenti giurisprudenziali formatisi sul punto, legittimano la compensazione fra le parti delle spese di lite.

P.Q.M.

  1. rigetta il ricorso;
  2. compensa interamente fra le parti le spese della presente fase di giudizio.

Nocera Inferiore, 14 luglio 2015

Il G.I.

Dott.ssa Raffaella Cappiello

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Fabio Di Lorenzo

TRIBUNALE DI TORRE ANNUNZIATA

RGV. 1964/16

Il dott. Fabio Di Lorenzo;

letto il ricorso del 28.12.2016, con il quale XXXXXXX e YYYYYYY hanno proposto un piane del consumatore ai sensi della legge sulle procedure di sovraindebitamento;

letta l’integrazione documentale effettuata in data 7.2.2017 sulla base di invito del Giudice;

ritenuto che il presupposto per l’ammissione alla procedura incardinata, cioè l’omologa del piano del consumatore, è la qualifica di consumatore, da intendersi, ai sensi dell’art. 6 c. 2 lett. B, come il soggetto che abbia assunto obbligazioni esclusivamente per scopi estranei all’attività professionale o imprenditoriale eventualmente svolta;

rilevato che parte ricorrente in data 8.2.2017, come da verbale che si allega al presente provvedimento, è comparsa dinanzi al Giudice al fine di consegnare copia di cortesia della produzione telematica, e ha dichiarato che il debito scaturisce da mutuo bancario, concesso per ripianare l’esposizione debitoria di altro mutuo, contratto per estinguere i debiti dell’Agenzia di Assicurazione gestita da XXXXXXX;

ritenuto che il contratto di mutuo da cui nasce il debito attuale è collegato inscindibilmente con il precedente mutuo contratto per ripianare i debiti dell’attività imprenditoriale svolta da XXXXXXX: i due contratti di mutuo sono infatti funzionalmente collegati, per cui unica è la causa in concreto, e unica è l’esigenza che li ha originati, cioè ripianare la debitoria dell’attività di impresa di XXXXXXX, a nulla rilevando che il secondo mutuo sia stato contratto anche dalla moglie YYYYYYY in comunione dei beni, evidentemente al solo scopo di assicurare l’ipoteca sulla casa familiare in comproprietà dei coniugi;

ritenuto quindi che, in forza del collegamento dei due mutui, il debito origina dallo svolgimento dell’attività di impresa di XXXXXXX, per cui difetta la qualità di consumatore nel senso sopra chiarito;

ritenuto quindi che erroneamente parte ricorrente ha proposto un piano del consumatore, difettando la qualità soggettiva di consumatore;

PQM

dichiara inammissibile il ricorso.

Manda alla Cancelleria per gli avvisi.

T.A., li 8.2.2017.

Il Giudice

Dott. Fabio Di Lorenzo


Fabio Di Lorenzo

TRIBUNALE DI TORRE ANNUNZIATA

RG 587/16 VG

Il dott. Fabio Di Lorenzo;

a scioglimento della riserva formulata;

letti gli atti della  procedura  di  composizione  della crisi da sovraindebitamento;

OSSERVA

1. XXXXXXX ha proposto un piano del consumatore ai sensi dell’art. 12 bis L. 3/2012.

Disposta in via cautelare la sospensione della procedura esecutiva immobiliare pendente nei confronti del debitore, nel corso dell’udienza fissata con decreto, il maggior creditore – la banca BNL – si è opposto all’omologa, prospettando la scarsa convenienza del piano.

XXXXXX ha allegato numerose pendenze debitorie, confermate anche dalla relazione del professionista gestore della crisi nominato ai sensi dell’art. 15 c. 9 L. 3/2012. In primo luogo, nel 2004 XXXXXX ha prestato fideiussione all’atto della stipula del mutuo fondiario, erogato dalla BNL al marito in separazione dei beni per l’importo di euro 130.000, e garantito da ipoteca sull’immobile di esclusiva proprietà del marito mutuatario e su due immobili di esclusiva proprietà di XXXXXX; tale mutuo è stato contratto per esigenze personali del mutuatario. L’importo residuo del mutuo, secondo la ricorrente, ammonta a euro 127.374,00, ma va condiviso il conteggio effettuato dalla BNL, secondo cui il debito residuo ammonta a euro 175.451,12, dovendosi computare anche gli interessi moratori; vanno poi aggiunte alla debitoria le spese della procedura esecutiva per euro 6.640,97. Nelle more del presente giudizio, nella procedura esecutiva immobiliare è stato aggiudicato l’immobile di esclusiva proprietà del marito di XXXXXX, su cui grava ipoteca di primo grado iscritta da BNL; il prezzo di aggiudicazione, pari a euro 125.000,00, è stato integralmente versato dall’aggiudicatario. Dato che BNL vanta su tale immobile ipoteca di primo grado, è evidente che la somma in questione diminuisce notevolmente il credito residuo della banca.  

XXXXXX è debitrice anche per altri importi: debito verso Comune di YYYYYY per imposte pari a euro 2.601,88; debito verso l’avv. ZZZZZZ per euro 4.106,40 a titolo di compensi professionali; debito tributario per omesso pagamento della tassa annuale di registrazione del contratto di locazione, pari a euro 50 all’anno a partire dal 2012.  

Sul piano della capacità patrimoniale, va evidenziato che XXXXXX è casalinga, madre di tre figli senza reddito, coniugata in separazione dei beni con BBBBBB, pubblico dipendente delle dogane; unica entrata  personale del consumatore è rappresentata dall’esiguo canone mensile di euro 70,00 derivante da locazione di un proprio immobile. La ricorrente è proprietaria esclusiva di due immobili siti in YYYYYY, via ……., entrambi ipotecati da BNL per l’importo di euro 260.000,00, e oggetto di procedura esecutiva; secondo la stima effettuata nell’ambito della procedura esecutiva, tali immobili hanno rispettivamente il valore di euro 43.056 e di euro 35.012,25.

2. Non vi è dubbio che sussista il requisito soggettivo della qualità di consumatore, in quanto tutti i debiti sono stati contratti per scopi estranei ad attività professionale; anche il debito derivante da fideiussione nasce per scopi prettamente personali e non professionali.

Al fine di accedere alla procedura ex art. 12 bis L. 3/2012, presupposto subbiettivo è la qualità di soggetto non fallibile o di debitore non esercente attività imprenditoriali o professionali, mentre presupposto oggettivo è il persistente stato di sovraindebitamento.

Tra i debitori che possono accedere al procedimento, vi è il consumatore, che l’art. 6 c. 2 lett. b) definisce come “persona fisica che ha assunto obbligazioni esclusivamente per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”. Tale definizione ricalca quella contenuta nell’art. 3 del Codice del Consumo. Ciò che rileva, dunque, è lo scopo per cui è stato contratto il debito, che non può riferirsi ad attività commerciale, imprenditoriale o professionale.

La qualifica di consumatore è collegata, quindi, al tipo di obbligazioni dalle quali è sorto il sovraindebitamento. Con la conseguenza che anche l’imprenditore, il commerciante o il professionista possono essere qualificati come consumatori nell’ambito della disciplina esaminata, purché l’indebitamento derivi da consumi personali propri, che non siano in nessun modo riconducibili all’attività imprenditoriale, commerciale e/o professionale espletata.

Nel caso in esame, i debiti sono sorti per scopi estranei ad attività professionale, la quale comunque non è svolta dalla ricorrente, casalinga, e dal marito debitore principale garantito, un pubblico dipendente.

3. Nella composizione della crisi da sovraindebitamento, la cui disciplina appare essere in controtendenza rispetto alle scelte operate dal legislatore in tema di concordato preventivo, il Tribunale è chiamato a più riprese e sotto diversi profili a verificare la meritevolezza del soggetto sovraindebitato (Trib. Milano, sez. II, 18 novembre 2016, in Dejure).

La ratio ottesa alla normativa è quella di porre rimedio alle situazioni di sovraindebitamento nelle quali può incorrere un soggetto a causa di eventi che prescindono dalla propria volontà, quali: malattie, perdite di lavoro, crisi familiari con conseguenti incrementi di oneri finanziari.

La procedura dovrebbe garantire al debitore di recuperare la propria situazione patrimoniale e di consentirgli un nuovo inizio, senza che il proprio patrimonio stesso rimanga ancorato ad una situazione divenuta ingestibile e non risolvibile con l’ausilio dei tradizionali strumenti dell’autonomia privata.

A seguito del deposito del ricorso per sovraindebitamento, il Tribunale deve verificare la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi sopra specificati, e riservare alla successiva fase del contraddittorio la verifica del requisito della meritevolezza del debitore (consistente nell’assenza di iniziative o di atti in frode ai creditori).

Nelle prime pronunce giurisprudenziali sul punto è stato rilevato che il giudice prima di omologare il piano deve escludere che il consumatore abbia assunto obbligazioni senza la ragionevole prospettiva di poterle adempiere ovvero che abbia colposamente determinato il sovraindebitamento, anche per mezzo di un ricorso al credito non proporzionato alle proprie capacità patrimoniali (cfr Trib. Ascoli Piceno, 3 aprile 2014, in www.ilcaso.it). Più recentemente, è stato evidenziato che difetta il requisito di meritevolezza (nonostante il mancato accertamento dell’OCC) qualora il debitore abbia assunto le proprie obbligazioni senza la necessaria diligenza, o abbia compiuto atti in frode ai creditori (Trib. Larino, 24 maggio 2016, in Dejure). Analogamente, è stato sostenuto che l’assunzione di ulteriori obbligazioni finanziarie mediante cessione volontaria del quinto dello stipendio, nonché mediante rateazioni commisurate al reddito mensile disponibile, complessivamente valutate in relazione a quelle pregresse e alla incidenza crescente delle passività rispetto al reddito disponibile non elevato, non consente il ricorso al piano del consumatore perché tale condotta vìola la norma dell’art. 12 bis L. n. 3 del 2012 (Trib. Torino, 30 settembre 2015, in Dejure).

La normativa sul sovraindebitamento, proprio per gli effetti che derivano dalla sua applicazione, presuppone, dunque, un attento vaglio da parte del giudice sul grado di accortezza con cui il debitore ha fatto ricorso al credito e ne ha fatto impiego. Ne discende che anche la mera accumulazione ingiustificata di prestiti – pur in assenza di accertati intenti fraudolenti o abusivi o di volontà preordinata a non rispettare i propri impegni contrattuali – è idonea a essere considerata elemento ostativo all’accesso alla procedura.

Nel caso in esame, nel momento in cui ha assunto l’obbligazione, il debitore non poteva avere la ragionevole prospettiva di poter adempiere. Infatti, la ricorrente è priva di redditi di lavoro in quanto casalinga, e nel 2004, data di stipula del mutuo fondiario garantito da XXXXXXX quale fideiussore, non era neppure locato l’immobile per l’importo sia pur esiguo di euro 70,00 al mese. Nel 2004 la ricorrente aveva già in carico tre figli, non produttivi di reddito, e l’unico sostentamento familiare è da sempre rappresentato dal reddito del marito in separazione dei beni, il quale è un pubblico dipendente delle dogane. Dal ricorso del consumatore e dalla relazione del gestore della crisi emerge che il mutuo è stato contratto per non meglio specificate spese personali, non risultando altro scopo dell’operazione, quale ad esempio l’acquisto di prima casa, o il pagamento di cure mediche costose ecc. Ebbene, il mutuo contratto si presenta notevolmente oneroso, di gran lunga più gravoso di quanto XXXXXXX possa garantire di adempiere quale fideiussore, pur considerando lo stipendio di pubblico dipendente del marito. Infatti la somma mutuata di euro 130.000 deve essere restituita in 20 anni, con scadenza nel 2024; l’importo delle rate è crescente di mese in mese così come emerge dal piano di ammortamento, a partire dalla prima rata di euro 1.149,06, già eccessiva per una famiglia di 5 persone che si sostenta con l’unico reddito di un pubblico dipendente delle dogane, fino alla rata intermedia di euro 2.631,32 del giugno 2012, e per concludere con la rata mensile finale pari addirittura a euro 5.669,53; e non a caso la restituzione è stata quasi fin da subito non onorata. Il mutuo è sproporzionato alle fonti di reddito anche se si aggiunge la pensione del padre del consumatore, pari alla somma annua di euro 19.648,20, in quanto detraendo quanto necessario per vivere al nucleo familiare del consumatore e a suo padre, ugualmente non è prospettabile la ragionevole possibilità di onorare rate di mutuo ventennale di importo crescente di tale ammontare. Dunque, nel 2004 XXXXXXX ha prestato fideiussione in favore del marito mutuatario senza la ragionevole prospettiva di poter adempiere in caso di (ragionevolmente prevedibile) inadempimento del marito.

Non è dirimente che nel 2008 il marito di XXXXXXX sia stato condannato dalla Corte dei Conti per danno erariale alla cifra di quasi 3 milioni di euro, per associazione a delinquere diretta al contrabbando di T.L.E. (tabacco lavorato estero): la crisi di sovraindebitamento di XXXXXXX nasce non già da questo evento a sé non imputabile ma imputabile al marito, ma origina dalla scelta di prestare fideiussione al mutuo contratto del marito per importi chiaramente sproporzionati alle proprie sostanze.

Alla luce di ciò, difetta il requisito di meritevolezza in capo al consumatore XXXXXXX, e va pertanto pronunciato il diniego dell’omologazione del piano.

4. Dovendosi pronunciare il diniego dell’omologazione, occorre liquidare il compenso finale spettante al gestore della crisi.

Tenuto conto che, in mancanza di omologa, non vi è attivo realizzato, e che il passivo (secondo quanto emerso dagli atti) ammonta ad euro 189.000,37 (partendo dalla quantificazione del proprio credito effettuata dalla banca e senza tener conto degli esiti della vendita del cespite del debitore principale a favore del quale XXXXXXX ha prestato fideiussione, in quanto allo stato la somma pagata dall’aggiudicatario non risulta ancora versata alla banca pignorante), applicando il decreto ministeriale 202/2014 (articolo 16) si ha che il compenso minimo liquidabile è pari ad € 218,87, il medio a € 738,85, e il massimo a € 1.258,83.

Occorre tuttavia tenere conto del comma 5 di tale articolo[1], applicabile anche nella presente fattispecie (posto che al gestore della crisi che cessa dalle funzioni per revoca del decreto di apertura non può essere attribuito un compenso maggiore di quello che sarebbe spettato in sede di completa esecuzione della stessa).

Pertanto, tenuto conto dell’ammontare che sarebbe stato attribuito ai creditori in caso di omologa del piano (euro 106.908,28) ai fini della delimitazione del tetto massimo del compenso ai sensi del citato art. 16 c. 5, e tenuto della qualità dell’opera svolta dal professionista gestore della crisi nominato dal Giudice delegato dal Presidente del Tribunale, è congrua la liquidazione nella misura base di € 1.258,83, a cui applicare la decurtazione del compenso nella misura del 40% prevista dall’art. 15 c. 9 L. 3/2012, così che il compenso ammonta a euro 755,29 oltre accessori di legge, oltre spese vive anticipate pari a euro 150,00.

A norma dell’articolo 14, terzo comma, ultimo periodo del decreto ministeriale 202/2014 (a mente del quale “i costi degli ausiliari incaricati sono ricompresi tra le spese”) gli onorari della stima degli immobili sono compresi nelle spese attribuite al gestore della crisi.

PQM

  1. non omologa il piano del consumatore;
  2. revoca il decreto emesso ai sensi dell’art. 12 bis c. 2 L. n. 3 del 2012, e ordina la cessazione di ogni trascrizione e di ogni forma di pubblicità disposta;
  3. liquida al gestore della crisi nominato, avv. Vincenzo Vitale, il compenso finale nella misura di euro 755,29 oltre accessori di legge, e oltre spese vive nella misura di euro 150,00.

Manda alla Cancelleria per gli avvisi.

T.A., li 12 dicembre 2016.

Il Giudice

Dott. Fabio Di Lorenzo

[1] «L’ammontare complessivo dei compensi e delle spese generali non può comunque essere superiore al 5% dell’ammontare complessivo di quanto è attribuito ai creditori per le procedure aventi un passivo superiore a 1.000.000 di euro, e al 10% sul medesimo ammontare per le procedure con passivo inferiore. Le disposizioni di cui al periodo precedente non si applicano quando l’ammontare complessivo di quanto è attribuito ai creditori è inferiore ad euro 20.000»

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di NOCERA INFERIORE

Seconda Civile

Il Tribunale, in composizione monocratica, nella persona del Giudice dott. Emanuela Musi ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta al n. r.g.1873/2006 promossa da:

…………………… del Comune di Angri, con sede legale in Angri piazza Doria 1, in persona del Direttore Generale e legale rappresentante p.t. rapp.ta e difesa in virtù di procura a margine dell’atto di opposizione dall’avv. Gianpiero Longobardi con il quale elett.te domicilia in Angri via Messina 13

OPPONENTE

contro

……….., elett.te domiciliato in ………….presso lo studio dell’avv. Salvatore Dalia che lo rappresenta e difende in virtù di procura a margine della comparsa di costituzione e risposta

OPPOSTO

Oggetto: opposizione a decreto ingiuntivo n. 154/06; contratto d’opera professionale; corrispettivo; domanda di ingiustificato arricchimento.

Conclusioni: in atti.

Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione

Il dott. ………. chiedeva ed otteneva l’emissione di un decreto ingiuntivo per il pagamento della somma di Euro 31.553,66 da parte della ………….. quale corrispettivo per la prestazione d’opera professionale fornita su incarico della stessa ed inerente alla partecipazione al bando relativo al piano di insediamento produttivo comprensoriale denominato Taurana. Proponeva opposizione la ……………. eccependo l’inesistenza di un rapporto contrattuale tra le parti in ragione della natura pubblica del soggetto e dell’assenza di contratto scritto. Si costituiva il dott. ………..eccependo che, nel caso di specie, non si trattava di un contratto stipulato con una PA e che, pertanto, non abbisognava della forma scritta ad substantiam; in via subordinata, proponeva azione ex art. 2041 c.c. per vedersi riconoscere un corrispettivo in ragione dell’indiscutibile utilitas per l’azienda.  Nella prima memoria di cui all’art. 183 VI co. c.p.c., la difesa dell’opponente contestava la novità della domanda e, quindi, la relativa inammissibilità. La causa veniva istruita con prova orale e CTU ed, all’esito, assegnata a sentenza.

L’opposizione è fondata e va accolta per quanto di ragione, dovendosi pertanto revocare il D.I. n. 154/06.

La domanda ex art. 2041 c.c., formulata in via riconvenzionale dall’……., è fondata e merita accoglimento per quanto di ragione.

Questioni preliminari.

1.     inquadramento del thema decidendum ed inammissibilità della domanda ex art. 2041 c.c.

Preliminarmente, occorre evidenziare che il contenzioso in oggetto verte in ordine alla sussistenza di una pretesa creditoria dell’……….nei confronti della ………….fondata o su di un contratto d’opera professionale ovvero sulla clausola generale di cui all’art. 2041 c.c. con i relativi presupposti.

All’uopo, la difesa dell’opponente contesta la mutatio libelli operata dalla difesa del dott. ………….nella comparsa di costituzione e risposta, ritenendola non ammissibile. L’eccezione non è fondata. Ed invero, premesso che l’opposto ha formulato la domanda ex art. 2041 c.c. solo in via subordinata, ovvero per l’ipotesi in cui si ritenesse sussistente l’obbligo della forma ad substantiamper il contratto stipulato con la ………. (sul presupposto che la stessa abbia natura pubblica, per cui v. infra), in ogni caso la giurisprudenza di legittimità più recente sembrerebbe aver superato l’orientamento precedente in forza del quale “la domanda di arricchimento senza causa è inammissibile, ove proposta dall’opposto nel giudizio incardinato ai sensi dell’art. 645 cod. proc. civ. avverso il decreto ingiuntivo dallo stesso conseguito per il pagamento di prestazioni professionali, non potendo egli far valere in tale sede domande nuove rispetto a quella di adempimento contrattuale posta alla base della richiesta di provvedimento monitorio, salvo quelle conseguenti alla domande ed alle eccezioni in senso stretto proposte dall’opponente, determinanti un ampliamento dell’originario “thema decidendum” fissato dal ricorso ex art. 633 cod. proc. civ.” (così v. Cass. civ. 8582/13). Ed invero, le S.U. della S.C., con sentenza n. 12310/15, hanno affermato che “la modificazione della domanda ammessa ex art. 183 cod. proc. civ. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa (“petitum” e “causa petendi”)sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l’allungamento dei tempi processuali“: applicando il detto principio al caso di specie, ove la modificazione è avvenuta in sede di deposito della comparsa di costituzione e risposta, è fuor di dubbio che la domanda modificata (il 2041 in luogo della domanda di adempimento) affondi le proprie radici nella medesima vicenda sostanziale (quella, cioè, della prestazione d’opera fornita dall’……… in favore della …………) della domanda di adempimento sottostante la richiesta di decreto ingiuntivo, ed analogamente indubbia è la circostanza che il diritto di difesa dell’opponente non sia stato, in alcun modo compromesso (anzi, l’avvenuta proposizione della domanda nella comparsa di costituzione ha permesso all’opponente di fruire di tutti gli strumenti processuali a disposizione per poter allegare e provare le circostanze impeditive dell’insorgenza dei presupposti dell’azione ex art. 2041 c.c.). Ne consegue una valutazione di piena ammissibilità della domanda exart. 2041 c.c. formulata dall’……………

2.     Natura giuridica della ……………..

L’…………. è un’azienda speciale e, come tale, un ente strumentale dell’ente locale dotato di personalità giuridica, di autonomia imprenditoriale e di proprio statuto, approvato dal consiglio comunale o provinciale ovvero dall’organo legislativo di una regione o provincia autonoma. Costituisce consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, cui questo Giudice intende dare continuità, quello secondo cui l’azienda speciale: a) è definita ente pubblico strumentale dell’ente locale che lo costituisce (nella specie il Comune di Trento), dovendo istituzionalmente perseguire non finalità proprie ma dell’ente locale che le conferisce il capitale di dotazione, ovvero i beni che vengono assegnati al momento della costituzione dell’azienda; b) è sottoposta al controllo dell’ente locale il quale fra l’altro approva i bilanci annuale e pluriennale e quello di esercizio, verifica i risultati della gestione e provvede alla copertura dei costi sociali preventivamente determinati (Cass. civ. 9219/2014, Cass. civ. 1606/2007; Cass. civ. 1702/2006; Cass. civ. 14524/2002).

Merito.

1.     La nullità del contratto per difetto di forma.

Da quanto testé affermato, in punto di natura giuridica dell’azienda speciale, discende che, alla stregua di una qualsiasi P.A., anche l’azienda speciale soggiace, quanto alla contrattazione, all’obbligo della forma scritta ad substantiam:  il rilievo che l’organizzazione e l’attività sono regolate dal codice civile e che l’ente ha capacità di diritto privato sta a significare che l’azienda speciale agisce iure privatorum, ma ciò non esclude la forma scritta prescritta ad substantiam per i contratti delle Pubbliche Amministrazioni, tenuto conto che, anche quando la P.A. agisca “iure privatorum“, è richiesta, ai sensi del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, artt. 16 e 17, come per ogni altro contratto stipulato dalla P.A., la forma scritta “ad substantiam“, che è strumento di garanzia del regolare svolgimento dell’attività amministrativa nell’interesse del cittadino e della collettività, costituendo remora ad arbitri e agevolando l’espletamento della funzione di controllo, e quindi espressione dei principi d’imparzialità e buon andamento della P.A. ex art. 97 Cost. (v. così Cass. civ. 9219/14). Ne consegue che, nel caso di specie, in assenza di forma scritta del contratto, la domanda di adempimento va rigettata, conseguendone l’accoglimento dell’opposizione sotto tale profilo e la revoca del decreto ingiuntivo.

2.     La domanda di ingiustificato arricchimento.

Venendo alla disamina della sussistenza dei presupposti dell’azione esperita in via riconvenzionale dall’………..si osserva quanto segue.

Risulta documentato in atti che l’………. abbia redatto in favore della ……… il cd.business plan ed emerge dalla CTU, a firma del dott. Vicidomini, che il detto piano fosse indispensabile per la partecipazione al bando Taurana. Ad avviso di questo Giudice, può dunque affermarsi innanzitutto che sia stata fornita la prova della prestazione resa (ben vero, non risulta contestata la circostanza che il business plan sia stato effettivamente realizzato dall’……… in favore della ………….), nonché dell’utilitas conseguita dalla odierna opponente. Al riguardo, è appena il caso di sottolineare che, con sentenza n. 10798/15, le Sezioni Unite della S.C. si sono pronunciate in ordine alla necessità del requisito dell’avvenuto riconoscimento dell’utilitas da parte dell’amministrazione, negandone la rilevanza. In particolare, la S.C. si esprime in questi termini: “la regola generale secondo cui non sono ammessi arricchimenti ingiustificati né spostamenti patrimoniali ingiustificabili trova applicazione paritaria nei confronti del soggetto privato come dell’ente pubblico; e poiché il riconoscimento dell’utilità non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, il privato attore ex art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A. deve provare – e il giudice accertare – il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’amministrazione possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, potendo essa piuttosto eccepire e dimostrare che l’arricchimento non fu voluto o non fu consapevole”. Nel caso di specie, posto che il business planera necessario per la partecipazione della …………. al bando Taurana e che non è stata fornita prova da parte della opponente che “l’arricchimento non fu voluto o non fu consapevole” deve ritenersi senz’altro fondata, sotto tale profilo, la domanda di ingiustificato arricchimento proposta dall’………

Venendo alla quantificazione dell’indennizzo, giova evidenziare che, di recente, la S.C. ha avuto modo di precisare un orientamento già affermatosi secondo il quale “l’ indennizzo per ingiustificato arricchimento dovuto al professionista che abbia svolto la propria attività a favore della P.A., ma in difetto di un contratto scritto, non può essere determinato in base alla tariffa professionale che avrebbe potuto ottenere se avesse svolto la sua opera a favore di un privato, né in base all’onorario che la P.A. avrebbe dovuto pagare se la prestazione ricevuta avesse formato oggetto d’un contratto valido” (v. Cass. civ. 19886/2015). I criteri con i quali deve essere calcolato l’indennizzo dovuto all’impoverito, ai sensi dell’art. 2041 c.c., per lunghi anni avevano dato adito a contrasti giurisprudenziali. Per dirimere tali contrasti sono intervenute le Sezioni Unite della S.C. con sentenza n 23385 del 11/09/2008, affermando come l’interpretazione corretta sia quella “che esclude dal calcolo dell’indennità richiesta per la “diminuzione patrimoniale” subita dall’esecutore di una prestazione in virtù di un contratto invalido, quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace”.

Dall’affermazione secondo cui l’indennizzo dovuto all’impoverito, ai sensi dell’art. 2041 c.c., non possa comprendere il lucro che questi avrebbe realizzato se il contratto stipulato con la P.A. fosse stato valido ed efficace, la giurisprudenza successiva ha tratto il necessario corollario secondo cui l’impoverimento non può essere determinato sulla base della tariffa professionale applicabile alle prestazioni eseguite dall’impoverito. Applicare quella tariffa, infatti, significherebbe accordargli un indennizzo esattamente pari a quanto avrebbe avuto diritto di pretendere dalla p.a. nell’ipotesi di stipula con essa d’un contratto valido (così si sono pronunciate Cass. civ. Sez. U, 1875/2009; nello stesso senso, Cass. civ. 3905/2010; Cass. civ. 23780/2014).

Va, pertanto, escluso che l’indennizzo spettante all’…….. possa essere commisurato, puramente e semplicemente, al compenso che avrebbe lucrato in caso di esistenza del contratto scritto: ritiene, invece, questo Giudice che, ai fini della quantificazione, possa farsi riferimento agli elementi di valutazione forniti dallo stesso impoverito (e non confutati dalla parte opponente), in punto di rilevanza dell’incarico espletato, di esistenza di un’organizzazione di studio, con i connessi oneri e spese accessorie anche per collaborazioni, in virtù dei quali, in base all’ id quod plerumque accidit, risulta facilmente immaginabile un dispendio di tempo ed energie che, ove non finalizzati all’espletamento dell’incarico in oggetto, il professionista avrebbe ben potuto indirizzare al compimento di altre attività professionali. In ragione di tanto, va senz’altro riconosciuto un indennizzo in favore dell’Alfano determinato come segue.

Il CTU nominato dal Giudice ha descritto le attività poste in essere dal professionista nella redazione del business plan, evidenziando come l’……… abbia effettuato delle analisi di tipo tecnico sul ciclo produttivo e sulle caratteristiche tecniche degli impianti oggetto di investimento, una ricerca di modelli di business dei concorrenti da prendere quale riferimento per l’effettuazione degli investimenti, la suddivisione degli investimenti da porre in essere per differenti modalità di finanziamento degli stessi; attività tra loro eterogenee che, tuttavia, il CTU, dott. Vicidomini, correttamente ha ricondotto all’art. 53 della Tariffa del 2010 (che si riferisce alla redazione del business plan). Questo Giudice ritiene di poter condividere il parametro di valutazione prescelto dal CTU, in quanto se è vero che la tariffa non è applicabile nella sua interezza in mancanza di un incarico scritto, ciò in virtù di quanto sopra argomentato, è altrettanto vero che, occorrendo una base di calcolo ai fini della quantificazione dell’indennizzo, sebbene con i correttivi che appresso si diranno, la tariffa dei commercialisti ed esperti contabili di cui al D.M. 169/10 si profila come il parametro oggettivo di partenza più idoneo (in ragione dell’appartenenza dell’…….. al detto ordine) per evitare che la detta quantificazione si appalesi puramente arbitraria. A fronte di detta opzione suggerita dal CTU, la difesa dell’opponente ha mosso contestazioni rispetto alle quali il dott. Vicidomini ha fornito puntuale risposta che, in questa sede, si ritiene di poter condividere in quanto congruamente motivate (in particolare, la tariffa del 2004 non è stata presa a riferimento dal CTU in quanto avrebbe comportato la necessità di calcolare gli interessi maturandi, calcolo impossibile in mancanza di individuazione di una data certa quale dies a quo del computo; peraltro, il CTU ha evidenziato come l’applicazione della detta tariffa avrebbe portato al medesimo risultato numerico). In base all’art. 53 della Tariffa, “al professionista spettano onorari determinati tra lo 0,50% ed il 2% del valore dei capitali oggetto di ciascuna delle prestazioni, tenendo conto del tempo impiegato e delle specifiche prestazioni relative alla struttura finanziaria delle aziende quali per esempio: …(omissis)… d) attività di valutazione tecnica dell’iniziativa di impresa e di predisposizione dei business plan per l’accesso a finanziamenti. …(omissis)…”: il calcolo del compenso spettante al dott. ………..è stato, quindi, effettuato applicando la percentuale minima dello 0,50% al valore dei capitali oggetto della predisposizione del business plan, che, nella fattispecie, coincidono con Euro 4.860.827,60, pari al valore degli investimenti che la società voleva porre in essere, rinvenibile alla tabella di cui a pag. 46 della scheda tecnica allegata, in cui vengono suddivise e descritte le tipologie di investimento con le modalità di acquisto. Parte opponente ha contestato l’utilizzo del valore degli investimenti indicato dal CTU quale parametro per la liquidazione, evidenziando la mancanza di “qualsiasi documento da cui possano desumersi specifiche indicazioni rivolte da ………. al preteso consulente circa il limite massimo degli investimenti medesimi, per cui ben potrebbe ipotizzarsi che egli abbia volutamente “gonfiato” il valore degli stessi allo scopo di poter contare su una base di calcolo più conveniente per la determinazione del proprio compenso professionale”.In particolare, la difesa dell’opponente suggeriva l’applicazione del disposto di cui all’art. 4 co. 2 D.M. 169/2010 a tenore del quale “ove il valore della pratica non sia determinato o determinabile, si assume a riferimento il valore massimo del terzo scaglione di cui all’art. 26”.  Correttamente il CTU, in risposta alla detta osservazione, sottolinea come “l’importo di Euro 4.860.827,60, pari al valore degli investimenti che la Società voleva porre in essere, risulti di pacifica individuazione, in quanto rinvenibile alla tabella di cui a pag. 46 della scheda tecnica allegata, controfirmata dalla legale rappresentante pro-tempore della Società ……………….“. Inoltre, il CTU ha giustamente applicato la percentuale minima in mancanza di elementi probatori che possano consentire l’applicazione di una tariffa più elevata, quali ad esempio richieste di urgenza, richieste specifiche di particolari calcoli da effettuare, ovvero il raggiungimento dell’obiettivo per cui lo stesso lavoro veniva effettuato, che non è rinvenibile all’interno della documentazione presente agli atti. Altresì valido il riconoscimento dell’importo di Euro 2.500,00 a titolo di rimborso spese (somma che identifica quel damnum emergens cui va in primis parametrato l’indennizzo spettante all’impoverito).

Ciò posto, il compenso spettante all’…….. sarebbe pari ad Euro 24.304,14 ma, in ragione di quanto in precedenza osservato in punto di non riconoscibilità sub specie di indennizzo dello stesso importo che sarebbe stato corrisposto al professionista in caso di incarico scritto, ritenendo che la quota di utile da detrarre – in quanto non indennizzabile – possa essere ravvisata in quel margine di guadagno in più che, un incarico di tal fatta, avrebbe procurato al professionista rispetto a quelli che, secondo criteri di normalità e prevedibilità, avrebbe potuto ricavare dalla sua ordinaria attività professionale, e che pare equo stimare in misura non superiore al 40% dei compensi calcolati in base alla tariffa. Sicché, all’importo di Euro 24.304,14 va detratto il 40% per un totale di Euro 14.582,49.

Pertanto, in accoglimento della domandaexart. 2041 c.c. la …………. va condannata al pagamento in favore di …………… della somma di Euro 17.082,49, importo sul quale vanno computati gli interessi e la rivalutazione dalla data del deposito della CTU (posto che la determinazione del compenso nella consulenza già li contemplava) e fino al soddisfo.

Le spese del decreto ingiuntivo restano a carico dell’………. in ragione dell’accoglimento dell’opposizione. L’accoglimento della domanda riconvenzionaleexart. 2041 c.c. giustifica la compensazione delle spese di lite nella misura della metà, con la condanna della opponente alla rifusione della restante parte, come da liquidazione in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

  1. in accoglimento dell’opposizione revoca il decreto ingiuntivo n. 154/06;
  2. in accoglimento della domanda riconvenzionale ex art. 2041 c.c. condanna la ……………… al pagamento in favore di ………… della somma complessiva di Euro 17.082,49 oltre interessi e rivalutazione monetaria dal 23.2.2016 al soddisfo;
  3. pone le spese di cui al ricorso monitorio a carico dell’……………;
  4. compensa le spese del giudizio di opposizione nella misura della metà condannando la ………… alla rifusione della restante parte in favore dell’…………., liquidate in complessivi Euro 1.750,00 per compensi oltre rimborso forfettario spese generali, Iva e Cassa come per legge;
  5. pone le spese di CTU a carico definitivo della ………………

Nocera Inferiore, 29 settembre 2017

Il Giudice

dott. Emanuela Musi

N. R.G. 1646/2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di NOCERA INFERIORE

Seconda Civile

Il Tribunale, in composizione monocratica, nella persona del Giudice dott. Emanuela Musi ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta al n. r.g. 1646/2008 promossa da:

………. e ………….., rapp.te e difese in virtù di procura in calce all’atto di citazione dagli avv.ti Giuseppe Maria De Lalla e Danilo Lioi con i quali elett.te domicilia in Nocera Inferiore piazza D’Amora 3 presso lo studio dell’avv. Filippo Castaldi

ATTRICI

contro

……………., elett.te domiciliato in Nocera Inferiore via Pucci 13 presso lo studio dell’avv. Gaetano Battipaglia che lo rappresenta e difende in virtù di procura a margine della comparsa di costituzione e risposta

CONVENUTO

e

……………, residente in …………………..

CONVENUTO contumace

Oggetto:infortunio sul lavoro; danno non patrimoniale ai prossimi congiunti.

Conclusioni: il procuratore delle attrici concludeva chiedendo il risarcimento di tutti i danni non patrimoniali subiti dalle attrici per la perdita del congiunto quantificati in Euro 177.967,50 ovvero nella somma maggiore minore che sarà quantificata in corso di causa. Con vittoria di spese.

Il procuratore del convenuto concludeva chiedendo dichiararsi la carenza di legittimazione passiva, e nel merito rigettarsi la domanda perché infondata; con vittoria di spese da distrarsi.

Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione

………… e ……………. convenivano in giudizio ………….. e ……………….. per sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti a causa delle gravissimi lesioni patite dal proprio congiunto …………… in un incidente avvenuto per colpa degli stessi. Esponevano, in fatto, che: 1) in data 24.11.2000, …………….. – all’epoca nemmeno venticinquenne – rimaneva vittima di un gravissimo incidente sul lavoro che si verificava su un lastrico solare, situato a circa dodici metri di altezza, ove lo stesso era intento a svolgere la propria attività lavorativa alle dipendenze della Ditta ……………..; 2) a causa dell’errato ancoraggio di un argano installato su tale lastrico, il giovane carpentiere veniva travolto e precipitava violentemente al suolo: in particolare, l’incidente si verificava per il rovesciamento del cavalletto di sostegno dell’argano, che precipitava dal lastrico solare, trascinando con sé il povero …………….; 3) a seguito del rovinoso incidente il Nobile riportava lesioni gravissime e totalmente invalidanti quali…trauma cranico con otoragia sx, contusione toraco addominale, contusioni multiple, stato di shock, stato di coma… con lesioni encefaliche multiple, all’esito delle quali versava in uno stato comatoso con una invalidità del 100%; 4) in data 31.01.2002 l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli infortuni sul lavoro riconosceva al …………… una invalidità del 100% quale paziente in coma vegetativo con perdita totale delle funzioni motorie ai 4 arti, del tronco, danno genitosfinterico, portatore di catetere venoso e vescicole a permanenza e tracheotomia opacamente totale cornea sin…con la conseguente approvazione di una rendita mensile pari ad € 3.182,00; 5) in esito ai postumi il giovane – stabilizzatosi – riportava una invalidità del 95-100% quale esito di una tetraplegia che lo immobilizzava (e lo immobilizza) permanentemente a letto, incapace di attendere alle più semplici attività del vivere quotidiano, bisognoso di assistenza totale 24 H al giorno e pressoché totalmente privo della favella con una inabilità temporanea assoluta di sei-sette mesi necessitando di un’assistenza in tutte le attività quotidiane da parte di familiari e di operatori sanitari idonei; 7) in sede penale, venivano imputati ……………. ed …………, il primo quale responsabile della sicurezza, il secondo quale titolare della ditta impegnata nell’esecuzione dei lavori di ristrutturazione; 8) il Garda patteggiava la sua pena, il ………….. veniva condannato in primo grado (la sentenza veniva confermata in appello e pende, tuttora, ricorso per cassazione); 8) a seguito dei dolorosissimi accadimenti, la sorella e la madre di Nobile subivano rilevantissimi danni non patrimoniali in conseguenza delle terribili sofferenze psicologiche scaturite dal calvario senza fine di ……….. Pertanto, convenivano dinanzi al Tribunale i soggetti responsabili. Si costituiva il solo …………… il quale eccepiva la propria carenza di legittimazione passiva e chiedeva, in ogni caso, il rigetto della domanda.

La domanda attorea è fondata e va accolta per quanto di ragione.

Vale precisare, sin d’ora, che le attrici agiscono unicamenteiure proprio, ovverosia per ottenere il risarcimento dei danni patiti personalmente in conseguenza dell’illecito che ha provocato le lesioni permanenti al figlio e fratello …………….

Sulla ammissibilità di un tal tipo di azione e sulla relativa qualificazione si rimanda alle articolate motivazioni di Cass. civ. 22909/12 nonché di Cass. civ. 20667/10, anche al fine di superare le eccezioni sollevate dalla difesa del Garda che vorrebbe escludere la risarcibilità dei danni richiesti dalle attrici sulla scorta della circostanza che il solo ………….. sarebbe stato legittimato a pretenderli: invero, è pacifica la giurisprudenza di legittimità nel riconoscere ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa di fatto illecito costituente reato, lesioni personali, il risarcimento del danno non patrimoniale concretamente accertato in relazione ad una particolare situazione affettiva con la vittima, non essendo ostativo il disposto dell’art. 1223 cod. civ., in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso, con conseguente legittimazione del congiunto ad agire “iure proprio” contro il responsabile.

In punto di affermazione della responsabilità dei soggetti convenuti, si osserva quanto segue.

Rilevante, con riferimento alla posizione del ……….., è quanto accertato dal giudice in sede penale che, per quanto non faccia stato nel presente processo (atteso che le attrici non erano costituite parti civili ed in quanto la sentenza non è ancora divenuta irrevocabile, stante la dichiarata pendenza del ricorso per cassazione), fornisce spunti valevoli ai fini della formazione del convincimento di questo giudicante in ragione dell’attenta e lucida analisi del nesso eziologico tra comportamento omissivo dell’imputato ed infortunio del ……….. Il …………. era il responsabile della sicurezza ed avrebbe dovuto predisporre misure idonee per prevenire l’infortunio che ha causato le gravissime lesioni al ………., rispondendo ex art. 2087 c.c. proprio in ragione della omessa predisposizione delle dette cautele (alla pag. 4 della sentenza di primo grado si legge che fu constatata dall’ispettore dell’ASL la “assoluta inidoneità del parapetto montato sul lastrico solare del fabbricato, composto, all’altezza del punto di manovra dell’operatore dell’argano, da mezzanelle del tutto inadeguate a prevenire il rischio di cadute e comunque priva del prescritto fermapiede. Altrettanto inefficace era la zavorra utilizzata per l’ancoraggio del cavalletto di sostegno che avrebbe dovuto avere un peso almeno doppio rispetto alla portata massima dell’argano che nella specie era di 300 kg ed in ogni caso non doveva essere composta da sostanze soggetto ad evaporazione inevitabilmente destinate ad un calo ponderale”).

Analogamente, ………….., in qualità di datore di lavoro del ………., è chiamato a rispondere dell’illecito ex art. 2087 c.c.: il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l’imprenditore, all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare, invece, l’esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, necessariamente riferiti al procedimento lavorativo “tipico” ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento (così v. Cass. civ. 19559/06). Sul datore di lavoro – sia in generaleexart. 2087 sia in particolare ex art. 169 DPR 547/55 e ex ‘art. 16 DPR 164/56 – gravava il dovere di rispettare e far rispettare ogni norma atta a garantire la sicurezza di coloro i quali erano impegnati alle sue dipendenze.

Risulta documentato in atti che: a) il ………. era alle dipendenze dell’omonima ditta di costruzioni di cui era titolare ………….; b) il giovane – al momento dell’incidente – era impegnato a svolgere le mansioni tipiche alle quali, per contratto, era addetto;  c) l’argano predisposto operante nel cantiere approntato per i lavori commissionati alla ditta …………… era installato in maniera non corretta; inoltre la postazione del manovratore dell’argano – postazione occupata dal …………… – risultava del tutto sprovvista dell’idonea protezione atta ad impedire la caduta dell’operatore in caso di ribaltamento del macchinario.

Ciò posto, va senz’altro affermata la responsabilità dei convenuti ……….. e ………….. per l’illecito che ha causato le lesioni a …………. ed i danni, come di seguito individuati, alle due odierne attrici.

Vale premettere, ai fini della delimitazione dei danni risarcibili, che, nel caso di specie, non si è al cospetto della fattispecie di risarcimento del danno per morte del congiunto, bensì della diversa ipotesi in cui il congiunto sia sopravvissuto, ma le patologie dallo stesso riportate ed il conseguente cambiamento delle abitudini di vita dei familiari abbiano avuto ripercussioni in termini di danno biologico, danno morale ed esistenziale su questi ultimi.

Afferma la S.C. che la prova del danno non patrimoniale, patito dai prossimi congiunti di persona resa invalida dall’altrui illecito può essere desunta anche soltanto dalla gravità delle lesioni, sempre che l’esistenza del danno non patrimoniale sia stata debitamente allegata nell’atto introduttivo del giudizio (v. sul punto Cass. civ. 2228/12). Ne consegue che, in presenza dell’allegazione del fatto-base delle gravi lesioni subite dal figlio convivente, il giudice dovrà ritenere provata la sofferenza inferiore (o patema d’animo) e lo sconvolgimento dell’esistenza che (anche) per la madre e per altri congiunti conviventi ne derivano, dovendo, nella liquidazione del relativo ristoro, tenere conto di entrambi i suddetti profili. Va, in ogni caso, evidenziato che, in virtù del principio della “omnicomprensività” della liquidazione del danno non patrimoniale, non è possibile procedere a duplicazioni risarcitorie del medesimo pregiudizio, ma non è esclusa, in caso di illecito plurioffensivo, la liquidazione di tanti danni quanti sono i beni oggetto di autonoma lesione, seppure facenti capo al medesimo soggetto (v. in tal senso Cass. civ. 9320/15; v. anche Cass. civ. 20292/12).

Ciò premesso, nel caso che ci occupa sussistono diversi elementi per poter affermare che le attrici, rispettivamente madre e sorella del Nobile Capuano, abbiano patito, in conseguenza dell’illecito ascrivibile ai convenuti, diversi danni tutti riconducibili alla unitaria categoria del danno non patrimoniale ma, come di seguito, analiticamente individuabili ed individuati.

a.     ……………..

Si può affidare alle presunzioni la prova del danno morale ed esistenziale patito dalla signora ……….., madre dello sfortunato ……., a causa delle condizioni in cui versa il figlio a far data dall’anno 2000: uno strazio che si rinnova, giorno per giorno, nel vedere il figlio privato della minima autonomia e di ogni aspettativa di vita, che consiste altresì nell’aver perduto quella normale quotidianità nel rapporto col figlio a causa del cambiamento (indubitabile e presumibile) di quest’ultimo (descritto dalla madre con un carattere solare, vivace, impegnato in tante attività); una sofferenza alimentata dalla continua assistenza prestata in prima persona al figlio durante la degenza in ospedale e, poi, a casa, dalla successiva perdita del marito (intervenuta nell’anno 2002 allorché Nobile era ricoverato presso l’Istituto Sant’Anna di Crotone). Importanti ai fini di quella che si chiama personalizzazione del danno si rivelano le informazioni contenute nella relazione della dott.ssa Antonacchio: “……….. nega di avere interessi né di poter mai più fare qualcosa di piacevole fosse solo perché a suo dire non è giusto, viste le condizioni del figlio e poi non lo desidera proprio…riferisce che dal giorno dell’incidente non riesce a pensare ad altro che alle condizioni di ………….. e sentirsi sempre in allerta come se qualcosa di brutto potesse ancora accadere, inoltre dal giorno dell’incidente vive in una condizione di pressochè totale ritiro sociale trascorrendo infatti tutta la giornata in casa dovendo provvedere alla gestione quotidiana della disabilità dei figlio“.

In riferimento, poi, all’allegato danno biologico, ovverosia alla degenerazione patologica della sofferenza causata dall’evento traumatico che ha colpito la sua famiglia, la CTU ha accertato l’esistenza di un disturbo dell’adattamento con umore depresso e ansia, ovverosia una vera e propria patologia psichica (descritta compiutamente, in maniera logica e non contraddittoria alle pagg. 11- 12 dell’elaborato peritale cui in questa sede si rimanda) quantificando l’invalidità permanente in 6-7 punti percentuali 180 giorni di ITP al 50% e 180 al 25%.

Questo Giudice ritiene di poter dunque recepire le conclusioni del CTU e di poter utilizzare le tabelle del Tribunale di Milano ai fini della liquidazione (non operando le diverse tabelle delle micropermanenti relative al solo settore della infortunistica stradale), dovendosi tenere conto di quanto sopra riportato ai fini dell’adeguata personalizzazione del danno (con aumento per il danno morale e per il danno cd. esistenziale sulla scorta delle allegazioni e presunzioni dianzi menzionate).  In particolare, si ritiene di poter applicare la personalizzazione massima consentita in ragione di quanto sopra detto in punto di ripercussioni dello stato in cui versa il figlio sulla esistenza intera della sig.ra …………..

Pertanto, in favore di …………, di anni 54 all’epoca del fatto, va riconosciuta la somma complessiva di Euro 29.867,00, oltre interessi da computarsi sull’importo devalutato alla data del sinistro e di anno in anno rivalutato fino al soddisfo, come di seguito determinato.

Età del danneggiato alla data del sinistro54 anni
Percentuale di invalidità permanente7%
Punto base danno non patrimoniale€ 2.190,70
Punto base I.T.T.€ 96,00
  
  
Giorni di invalidità temporanea parziale al 50%180
Giorni di invalidità temporanea parziale al 25%180
Danno risarcibile€ 11.271,00
Aumento personalizzato (max 50%)€ 16.907,00
  
  
Invalidità temporanea parziale al 50%€ 8.640,00
Invalidità temporanea parziale al 25%€ 4.320,00
Totale danno biologico temporaneo€ 12.960,00
  
  
TOTALE GENERALE:€ 24.231,00
Totale con personalizzazione massima€ 29.867,00

b.     ………………

Conseguenze ugualmente gravi pativa la sorella a seguito dell’incidente del …………… La stessa, al rientro del fratello a casa, si è trasferita a ……….. per poter aiutare la madre nell’assistenza al fratello (circostanza allegata ed incontestata): ……… viveva a Milano con la sua famiglia quando si verificò l’incidente di ………, ricorda a tal proposito il viaggio fatto da Milano insieme alla madre dopo aver appreso la tragica notizia e l’angoscia di trovare il fratello ormai privo di vita; la stessa angoscia, per quanto riporta la dott. Antonacchio in sede di elaborato peritale, l’ha accompagnata per tutto il primo anno dopo il triste evento, tanto da riviverla spesso come incubo notturno. ……… considera come il periodo peggiore della sua vita quello trascorso a ………… negli anni 2001 – 2002: racconta che aveva la tendenza ad isolarsi dalle persone compreso il marito al punto di mettere a rischio il rapporto, racconta dei disagi manifestati dai figli a causa delle sue lunghe assenze (dovute alla necessità, sentita come impellente, di occuparsi del fratello). Il trascorrere del tempo non attenuava tale stato di profondissima prostrazione tanto che la ……….. riferiva al consulente di non riuscire più a sentirsi serena (…) di non provare più interessi o piacere per situazioni un tempo gradite  di sentirsi distaccata ed indifferente alle amicizie di vivere in costante tensione, come se fosse sempre sotto esame e di provare disagio a fronte delle sue responsabilità nei confronti del fratello e della madre, che si appoggia a lei in ogni circostanza(…in famiglia ormai mi chiamano “la dottoressa”, mamma mi cerca sempre quando lui ha delle crisi e in qualche occasione ho dovuto anche chiudere i bambini in casa per accorrere”…).Ad oggi, l’attrice lamenta ancora un’alterazione delle normali attività quotidiane, soprattutto nell’ambito familiare, della socialità, del lavoro e delle capacità di svago, con compromissione della qualità della sua vita e della cosiddetta “gioia di vivere”. 

La degenerazione della sofferenza interiore patita a causa dell’evento drammatico occorso al fratello ……. ha prodotto in …….. l’insorgenza di un disturbo psichico che la CTU qualifica come disturbo dell’adattamento di tipo misto, durato, tuttavia, soltanto 12 mesi e tale da non consentire ad oggi il riscontro di un’invalidità permanente. Questo Giudice ritiene di poter condividere le conclusioni rassegnate dal CTU e, pertanto, di dover riconoscere soltanto la ITP al 25% in favore della …………, in uno al danno morale ed esistenziale equitativamente determinati come segue.

Considerando la somma di Euro 96,00 quale punto base della ITP al 25% in rapporto alla misura di incidenza della patologia temporanea calcolata dalla CTU, l’importo complessivo per la ITP è pari ad Euro 8760,00. A titolo di ulteriore danno non patrimoniale (morale ed esistenziale) ritiene questo Giudice che in ragione della gravità delle lesioni riportate dal fratello e delle circostanze allegate che dimostrano uno stravolgimento del vivere quotidiano di Angela (sfociato sinanche nella rottura del legame matrimoniale), anche nel rapporto con i figli (vedansi colloquio con la dott.ssa Antonacchio nonché risultanze della CT di parte dott. Garberini) possa essere riconosciuta equitativamente la somma di Euro 50.000,00.

Pertanto ……….. e ……….. vanno condannati in solido tra loro al pagamento in favore di ……….. della complessiva somma di Euro 29.867,00 oltre interessi sull’importo devalutato alla data del sinistro e di anno in anno rivalutato fino al soddisfo e di ……………. della complessiva somma di Euro 58.760,00 oltre interessi sull’importo devalutato alla data del sinistro e di anno in anno rivalutato fino al soddisfo.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

1)      in accoglimento della domanda attorea condanna …………. e …………… in solido tra loro al pagamento in favore di ……………. della complessiva somma di Euro 29.867,00 oltre interessi sull’importo devalutato alla data del sinistro e di anno in anno rivalutato fino al soddisfo e di …………. della complessiva somma di Euro 58.760,00 oltre interessi sull’importo devalutato alla data del sinistro e di anno in anno rivalutato fino al soddisfo.

2)      condanna ………….. e …………. in solido tra loro alla rifusione delle spese di lite in favore delle attrici liquidate in complessivi Euro 600,00 per spese vive ed Euro 13430,00 per compensi oltre rimborso forfettario spese generali, Iva e Cassa come per legge;

3)      pone definitivamente a carico delle parti soccombenti in solido le spese di CTU come liquidate con decreto del 18.1.2013.

Nocera Inferiore, 29 settembre 2017

Il Giudice

dott. Emanuela Musi

N. R.G. 1225/2012

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di NOCERA INFERIORE

Seconda Civile

Il Tribunale, in composizione monocratica, nella persona del Giudice dott. Emanuela Musi

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta al n. r.g. 1225/2012 promossa da:

……………………………….., ………………………….. e …………………………, tutti residenti in Giugliano in Campania presso il campo nomadi, rapp.ti e difesi dagli avv.ti Roberto Nannolo ed Annalisa Giannolo elett.te domiciliati presso il loro studio in Napoli via Pessina 56

ATTORI

contro

…………………………………

CONVENUTO contumace

………………………, in persona del Procuratore speciale e rapp.te legale, rapp.ta e difesa in virtù di procura in calce alla copia notificata dell’atto di citazione dagli avv.ti Ignazio e Francesco Lembo con i quali elett.te domicilia in Salerno via SS. Martiri Salernitani 24

CONVENUTA

Oggetto:sinistro stradale; risarcimento danni.

Conclusioni:in atti.

Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione

I sigg.ri ……………, come in epigrafe identificati, convenivano dinanzi al Tribunale ……………. e la ……. Assicurazioni per sentirli condannare in solido tra loro al risarcimento dei danni subiti iure proprio ed iure hereditario in conseguenza del decesso del proprio figlio e fratello ………………….. Esponevano in fatto che ……….. in data 2.4.2007 si trovava alle ore 21,45 presso il casello autostradale di Nocera Inferiore della A3, allorché veniva investito dal veicolo Fiat Panda condotto da …………. Restava contumace il ………… Si costituiva la ……… Assicurazioni la quale imputava la responsabilità del sinistro al solo ………….. e, per questo, chiedeva il rigetto della domanda. Acquisiti i documenti relativi alle indagini espletate ed al procedimento penale la causa veniva rinviata per la precisazione delle conclusioni.

La domanda attorea è in parte fondata e, come tale, merita accoglimento per quanto di ragione.

In via preliminare si evidenzia che risultano assolti gli obblighi di preventiva messa in mora della compagnia di assicurazione e conseguenziale decorso dello spatium deliberandi (cfr. produzione parte attrice).

Passando all’inquadramento della fattispecie oggetto di causa, vale evidenziare che l’art. 2054 c.c. prevede che il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno. Il criterio di imputazione della responsabilità del conducente è tuttora oggetto di acceso dibattito sia dottrinale che giurisprudenziale. Vi è chi ritiene che la previsione in esame abbia la mera funzione di estendere lo standard di diligenza imposta al conducente fino al limite della colpa lievissima; l’elemento umano sarebbe, in tale fattispecie, prevalente sulla semplice custodia della res e, pertanto, sarebbe corretto ritenere che nel codice si sia dato spazio ad una colpa presunta e non ad una responsabilità oggettiva.

Altri autori circoscrivono la portata della norma alla sola sfera processuale con la predisposizione dell’inversione dell’onere della prova. Secondo la più recente dottrina il danno è imputato al conducente in forza di un criterio oggettivo derivante dal collegamento tra l’attività del danneggiante e la circolazione del veicolo; la prova liberatoria ha come oggetto l’esistenza di un fatto idoneo ad interrompere il nesso causale tra la circolazione ed il danno, per cui l’aver fatto tutto il possibile per evitare il danno significa che quest’ultimo si è prodotto indipendentemente dal comportamento dell’agente, come nel caso in cui il conducente sia in grado di dimostrare la colpa esclusiva dell’altro conducente o il caso fortuito. Questa ricostruzione è sposata dalla prevalente giurisprudenza che individua il contenuto della prova liberatoria nella inevitabilità del fatto dannoso (tra le molte Cass. civ. 14064/10; Cass. civ. 4370/87 e Cass. civ. 1214/84). Tale prova comprende anche quella di aver fatto ricorso, sussistendone le condizioni a manovre di fortuna, che si presentino le più opportune ed efficaci nel caso concreto ad evitare l’evento lesivo (Cass. civ. 5671/2000). Si ritiene che possa fondare la responsabilità anche la mancata previsione dell’altrui imprudenza (v. Cass. civ. 7748/86 con riguardo all’ipotesi dell’investimento di pedone).

Altre pronunce sono maggiormente orientate nella valutazione in concreto della colpa del conducente per cui l’oggetto della prova liberatoria sarebbe il fatto di aver impiegato la massima diligenza, quella cioè tale da escludere qualsiasi colpa (Cass. civ. 4737/84). Giova sottolineare che l’incapacità del danneggiante di vincere la presunzione di responsabilità posta a suo carico non preclude l’indagine circa il concorso di colpa del danneggiato (v. Cass. civ. 10352/2000).

Può ritenersi caso fortuito l’avvenimento improvviso ed esorbitante dalla normalità dei comportamenti umani, che non consenta alcuna manovra per evitare il danno e che, nella determinazione dell’accadimento, venga a costituire l’unica causa cui sia ricollegabile il verificarsi dell’evento: ad esso si attribuiscono i caratteri dell’eccezionalità, dell’imprevedibilità e della inevitabilità ed il relativo onere probatorio ricade sul convenuto.

Con particolare riferimento al caso che ci occupa, significativi sono i casi di attraversamento del pedone: si è ritenuto che il conducente di un veicolo deve prestare, ai fini di una prudente condotta di guida, attenzione ad ogni segnaletica esistente nell’ambito stradale; in particolare, nel caso di investimento di un pedone che abbia attraversato la strada senza rispettare il segnale del semaforo il conducente del veicolo non può limitarsi a provare che il pedone abbia attraversato col semaforo rosso, mentre il veicolo giungeva da una distanza che non consentiva manovre di emergenza, ma deve anche dimostrare che il pedone, benché avvistato, non aveva tenuto un comportamento che denunciasse il suo intento di attraversare la strada nonostante il divieto, o in altri termini che il pedone abbia iniziato l’attraversamento in modo così repentino che anche la dovuta sorveglianza da parte del conducente del veicolo non sarebbe servita ad evitare l’incidente, atteso che tale attraversamento non è del tutto imprevedibile essendo astrattamente possibile che il pedone sia disattento o privo dei riflessi adeguati (v. Cass. civ. 6395/94). In sostanza la prova liberatoria si può raggiungere solo ove si dimostri che il pedone compia un attraversamento della strada immettendosi così repentinamente da costituire un ostacolo improvviso ed inevitabile, sì da non consentire al conducente di evitare l’investimento (v. Cass. civ. 8451/93) tenuto conto della breve distanza di avvistamento, insufficiente ad operare una idonea manovra di fortuna, ma non quando il pedone avrebbe potuto e dovuto essere percepito ove il conducente avesse usato l’ordinaria prudenza ed accortezza senza lanciare il suo veicolo ad una velocità che, avuto riguardo alle condizioni di tempo e di luogo, doveva considerarsi eccessiva (v. Cass. civ. 14064/10 nonché Cass. civ. 6707/93).

Venendo alla disamina del caso concreto, ritiene questo Giudice che vada affermata la concorrente responsabilità nella causazione del sinistro del conducente del veicolo e dello sfortunato giovane deceduto con prevalente apporto causale di quest’ultimo e ciò per le ragioni che di seguito si vanno ad esporre.

Dai verbali della polizia stradale in atti si evince che il ………… stava attraversando la sede autostradale, dopo aver scavalcato il guard rail  quando veniva impattato dall’autovettura Fiat Panda condotta dal ………….. nella carreggiata sud per poi finire sulla pista Telepass dal lato opposto (all’uopo appare utile al fine di focalizzare al meglio la dinamica del fatto la visione dello schizzo planimetrico del campo del sinistro nonché la disamina delle foto del luogo del sinistro allegate al rapporto della Polstrada); si evince, altresì, che il limite di velocità, stante la prossimità del casello autostradale, era di km 80/h. Il …………. nel fornire informazioni sommarie nell’immediatezza del fatto riferiva che la sua velocità era di 100-110 km/h (del resto, la distanza dall’autoveicolo del punto esatto ove è stato ritrovato il corpo dello ………… è tale che solo un impatto ad una velocità non limitata può, in base alla comune esperienza, giustificarla). È indubbio che non rappresenti la normalità che un pedone attraversi la sede autostradale, di notte, dopo aver scavalcato il guard rail; è altrettanto indubbio che la velocità tenuta dal ……..fosse superiore a quella imposta nel tratto di strada interessato dal sinistro; non può escludersi, in base ad una ragionevole probabilità desumibile da massime di esperienza, che un impatto tra lo ………….. e la fiat Panda a velocità conforme a quella prevista (km 80) avrebbe avuto conseguenze lesive minori.

Del resto, la prevalente giurisprudenza di legittimità afferma che in caso di investimento di pedone, la responsabilità del conducente prevista dall’art. 2054 cod. civ. è esclusa quando risulti provato che non vi era, da parte di quest’ultimo, alcuna possibilità di prevenire l’evento; tale situazione ricorre allorché il pedone abbia tenuto una condotta imprevedibile e anormale, sicché l’automobilista si sia trovato nell’oggettiva impossibilità di avvistarlo e comunque di osservarne tempestivamente i movimenti. Tanto si verifica quando il pedone appare all’improvviso sulla traiettoria del veicolo che procede regolarmente sulla strada, rispettando tutte le norme della circolazione stradale e quelle di comune prudenza e diligenza incidenti con nesso di causalità sul sinistro (sul punto v. Cass. civ. 24472/14).

Nondimeno, appare piuttosto evidente che il carattere anomalo ed imprevedibile della condotta del pedone renda l’apporto causale del comportamento del conducente della fiat Panda assolutamente risibile rispetto all’imprudenza dello sfortunato …………., tale che il concorso colposo dello stesso deve quantificarsi nel 90%, dovendosi attribuire il solo 10% della responsabilità al ……………

Venendo alla delimitazione dei danni risarcibili, la morte pressochè immediata dello …………. (risulta che il decesso avvenne a bordo dell’ambulanza che lo trasportava in ospedale dal luogo del sinistro) impedisce di configurare quel lasso di tempo apprezzabile necessario per il riconoscimento di un danno non patrimoniale risarcibile iure hereditario. Va, invece, senz’altro riconosciuto il danno per la perdita del legame parentale, da liquidarsi secondo le Tabelle del Tribunale di Milano senza operare alcuna personalizzazione in assenza di specifici profili da allegarsi a carico dei danneggiati. Pertanto, tenuto conto del concorso di colpa del defunto nella misura del 90%, va riconosciuto in favore dei genitori di …… l’importo di Euro 30.096,00 ciascuno e per la sorella ……….. l’importo di Euro 31.977,00 (già comprensivi di rivalutazione monetaria).

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo (applicandosi lo scaglione di riferimento di cui al D.M. 55/14 avuto riguardo agli importi riconosciuti a titolo risarcitorio).

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:

1)      in parziale accoglimento della domanda attorea dichiara la responsabilità del sinistro in capo a ………… nella misura del 10% condannandolo in solido con la ……….Assicurazioni s.p.a. al pagamento in favore di …………… e ………….. della somma di Euro 30.096,00 ciascuno, e di …………… della somma di Euro 31.977,00 oltre interessi da calcolarsi sugli importi devalutati alla data del sinistro e di anno in anno rivalutati fino al soddisfo;

2)      condanna …………… e la…………. Assicurazioni s.p.a. alla rifusione delle spese di lite in favore degli attori liquidate in complessivi Euro 8780,00 di cui Euro 8030,00 per compensi ed Euro 750,00 per spese vive, oltre rimborso forfettario spese generali, Iva e Cassa come per legge.

Nocera Inferiore, 29 settembre 2017

Il Giudice

dott. Emanuela Musi