Il carcere ai tempi del Coronavirus

di Giovanna Di Rosa  Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Milano in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la Costituzione

L’emergenza da Coronavirus ha rilanciato, ove ve ne fosse bisogno, il tema della responsabilità dello Stato nel custodire le persone presenti nelle carceri italiane. Di queste infatti lo Stato assume il totale carico, mentre la magistratura di sorveglianza è l’organo giurisdizionale preposto a vigilare sull’organizzazione delle stesse carceri, segnalando le disfunzioni rilevate al Ministro della Giustizia, e a garantire il rispetto dei diritti di cui ciascun detenuto non deve essere privato durante la carcerazione. Tra questi primeggia il diritto alla salute.

Nei giorni del Coronavirus il diritto alla salute si declina – per tutti, dunque anche in carcere – come diritto alla distanza, alle precauzioni sanitarie, alle istruzioni igieniche, all’uso di guanti e mascherine che ormai ben conosciamo. Ma il carcere è sovraffollato e tutte queste importanti regole, alle quali ciascuno di noi si deve adeguare, non si possono rispettare.

I detenuti presenti alla data del 29.2.2020 – temporalmente l’ultimo rilievo statistico pubblicato sul sito istituzionale del DAP – sono 61.230, a fronte di una capienza regolamentare di 50.931 che adesso è inferiore, a causa dei danni riportati a vari reparti per le note rivolte del 7-8.3.2020 e per l’esigenza di reperire subito reparti di isolamento per contagiati non ricoverati, senza contare le indicazioni sulla quarantena e l’autoisolamento. Il carcere è del resto una comunità chiusa nella quale il contagio si sviluppa, come un focolaio, secondo quanto del resto avvenuto in alcune comunità religiose. Il carcere è però una comunità chiusa sui generis per l’arrivo dei nuovi arrestati e per gli sfollamenti, che adesso sono praticati nell’ambito dello stesso territorio. E il virus cammina. Il triage all’ingresso e il collocamento in reparti di quarantena per i nuovi giunti, ove possibile, sono fattori positivi, ma non bastano.

Torna dunque, in questa situazione, il tema della responsabilità della magistratura di sorveglianza, frontiera giudiziaria di questa giustizia di prossimità che riguarda migliaia di persone.

Oggi la magistratura di sorveglianza è la più sola, schiacciata com’è tra la conoscenza effettiva della realtà nelle strutture detentive e i suoi doveri di assicurare il rispetto del diritto alla salute.  Così, anche ai giorni del coronavirus, dove la vita è sospesa, questa magistratura lavora senza sosta. A Milano, d’intesa e in piena sintonia con Brescia, ci siamo attrezzati per incentivare e potenziare le istanze, proprio in ragione dei pericoli di diffusione del virus, verificando i problemi dei detenuti anziani e malati, da valutare o rivalutare in relazione alle patologie di cui soffrono. Questi sono infatti a rischio di peggioramento ove contraggano il Covid 19. Abbiamo anche potenziato il ricorso alle misure alternative, come possibile e in sicurezza.

La detenzione per pene basse è consistente (in Lombardia sono presenti 544 detenuti con pene sotto i 6 mesi, 2134 sotto i 2 anni, 3643 sotto i 4 anni). Tanti sono i detenuti privi di domicilio. Abbiamo allora fatto ricorso agli Enti del territorio, al volontariato, alla Diocesi per reperire una qualche situazione alloggiativa che potrà alleggerire la pressione delle presenze per gli autori dei reati di povertà, con i fine-pena bassi, in carcere per il furto di una camicia, un pezzo di parmigiano, un paio di scarpe. Chi non ha casa non può comunque essere valutato positivamente per nessuna misura diversa dal carcere. Per gli altri è partita una corsa contro il tempo.

I nostri uffici, già sguarniti, sono stati colpiti duramente. Abbiamo come tutti selezionato gli affari da accantonare e inventato prassi acceleratorie anche nei rapporti con la Procura e soprattutto con le Direzioni degli Istituti. Ma tutto questo non basta. Servono infatti interventi normativi eccezionali, proporzionati alla quotidianità tragica che stiamo vivendo.

I provvedimenti legislativi emanati per gestire l’emergenza nel settore penitenziario sono stati  limitati: l’ultimo, in ordine cronologico, è il d.l.17.3.2020, n.18. Le sue disposizioni risentono della difficoltà di affrontare in maniera netta il tema dell’emergenza COVID 19 nelle carceri e svelano l’attualità del noto dilemma tra “certezza della pena” e sua funzione rieducativa, ancora una volta posto in termini di contrapposizione, nonostante l’emergenza sanitaria che stiamo tutti vivendo, come del resto la stessa relazione illustrativa al d.l. 18 esplicita con chiarezza.

In particolare, il d.l.18/2020 si è occupato dei colloqui dei detenuti con i parenti, vietando i colloqui visivi e disponendo che avvengano a distanza mediante Skype e attrezzature simili, ovvero per telefono, e ciò sino al 22.3.2020. Il giorno prima di tale scadenza, ossia il 21.3.2020, il Capo del DAP ha adottato la circolare 00960181.U con la quale ha sostanzialmente prorogato la sospensione dei colloqui visivi per la necessità sanitaria di mantenere limitati gli spostamenti sul territorio per le ragioni igienico-sanitarie legate alla diffusione del contagio da COVID 19, inclusi gli spostamenti dei familiari che si recavano in visita dai loro congiunti ristretti presso le carceri. La Circolare affida alle Direzioni l’arduo compito di spiegare il senso della proroga di tali limitazioni alla popolazione detenuta, fondato solo sul permanere dell’esigenza preminente di preservare la salute dei detenuti, dei loro familiari e della collettività. La circolare è senz’altro apprezzabile e condivisibile, la logica del dialogo e dell’ascolto è sempre corretta. Colpisce in verità la fonte normativa di tale proroga, inserita in una circolare rispetto alla previsione contenuta nel decreto legge, che ha invece rango primario, ma tant’è.

Va detto che la Circolare individua impegni precisi che il DAP assume nei confronti dei detenuti per sopperire ai colloqui visivi, quali l’aumento del numero delle telefonate, dell’uso di skype e dei videocolloqui.

Il d.l.18/2020 ha previsto poi la possibilità che la magistratura di sorveglianza sospenda – nel periodo compreso tra il 9.3.2020 e il 31.5.2020 – la concessione dei permessi premio e della  semilibertà; le licenze ai semiliberi possono invece avere durata sino al 30.6.2020.

La relazione illustrativa al d.l.18/2020 esplicita che il prolungamento delle licenze si fonda sulla necessità di contenere le occasioni di contagio che il semilibero può, rientrando la sera, aumentare per effetto della connaturata spola tra domicilio e carcere, al contempo favorendo la riduzione della popolazione carceraria.

Identica essendo la ratio della posizione dei detenuti che si recano in permesso-premio, pur con regime giuridico diverso rispetto a quello dei semiliberi, si sarebbe potuto prevedere un termine più lungo di quello, massimo di 15 giorni,  che è possibile concedere con il permesso premio. Vi sono infatti detenuti che fruiscono di permessi premio con ampia affidabilità di condotta, avendo dato ai loro magistrati di sorveglianza prova, anche negli anni, di tenuta in condizioni di sicurezza sociale.

Infine, la disposizione più significativa sembra riguardare l’introduzione di una detenzione domiciliare speciale “in deroga al disposto dei commi 1,2 e 4 dell’art.1 l.199/2010”.

La ratio dichiarata di questa norma, secondo la relazione illustrativa, è la necessità di introdurre “moderate e accorte soluzioni per attenuare il cronico sovraffollamento,” recuperando il modello operativo offerto dalla L.199/2010.

Invero, la legge n. 199 era stata adottata nell’anno 2010, in corrispondenza del dichiarato stato di emergenza derivante dal sovraffollamento negli istituti penitenziari e nel corso dei suoi 9 anni di applicazione ha portato all’adozione di 27.152 provvedimenti, secondo le statistiche del DAP aggiornate al 29.2.2020. Dunque, una media di 3.000 accoglimenti in un anno.

Essa prevedeva che la pena detentiva non superiore ai 12 mesi, elevati a 18 mediante il d.l.211/2011 conv.in l. n. 9/2012 fosse eseguita presso l’abitazione del condannato o in altro luogo, pubblico o privato, di cura, assistenza e accoglienza.

Si ponevano alcune preclusioni, escludendosi dall’area dell’applicazione della norma i condannati per reati ex art. 4 bis L.354/1975, coloro che sono stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, detenuti già sottoposti al regime di sorveglianza particolare ex art.14 L.354/1975 – salvo che fosse stato accolto il reclamo dal magistrato di sorveglianza.

Occorreva poi escludere che vi fosse concreta possibilità di fuga ovvero specifiche e motivate ragioni per ritenere che il condannato potesse compiere altri delitti, ovvero che il domicilio non fosse effettivo o idoneo, anche in funzione delle esigenze di tutela delle persone offese dal reato.

Il nuovo d.l. 18/2020, nel mantenere queste preclusioni, ne aggiunge di nuove, riguardanti i   condannati per reati di cui agli artt. 572 c.p. (maltrattamenti in famiglia) e 612 bis c.p. (stalking); per i detenuti sanzionati nell’ultimo anno per le infrazioni disciplinari relativa alla partecipazione a disordini o a sommosse, evasione, fatti previsti come reato commessi in danno di compagni, operatori penitenziari e visitatori; per i detenuti nei cui confronti è stato redatto rapporto disciplinare in quanto coinvolti nei disordini e sommosse dal 7.3.2020, per i quali non opera quindi l’utilità del possibile esercizio del diritto di reclamo avanti la Magistratura di Sorveglianza.

Nulla da obiettare sulle esclusioni degli autori delle recenti sommosse.

Osservo però che l’individuazione di nuovi titoli di reato ostativi impedisce che gli autori di reati di maltrattamenti in famiglia e stalking fruiscano della nuova misura anche se indicano domicili lontani e diversi rispetto a quelli delle persone offese.

Rimane dunque, a prescindere dall’istruttoria accelerata – che in sostanza elimina la relazione sulla condotta tenuta in detenzione da parte del carcere e affida alla Direzione del carcere di attestare la posizione giuridica del condannato, mentre la Polizia Penitenziaria (e non più l’Uepe) accerterà il domicilio indicato – un contenuto di premialità nella nuova misura, come del resto ribadito dalla relazione illustrativa al d.l.18/2020.

La detenzione domiciliare speciale così costruita non è cioè di immediata applicazione, a causa della verifica dell’assenza di “gravi motivi ostativi” da parte del Magistrato di Sorveglianza, la cui ricorrenza può condurre al rigetto dell’istanza.

Purtroppo, tali gravi motivi non sono tipizzati e ciò rende la norma di complessa interpretazione, perché se devono escludersi dai gravi motivi ostativi il pericolo di fuga e la possibile reiterazione di reati, in quanto requisiti espressamente abbandonati dal d.l.18/2020, non è di immediata intuizione quali essi possano essere.

Il vero punctum dolens per l’applicazione di questa nuova misura è però l’esistenza di un domicilio, la cui idoneità ed effettività potrà essere accertata dalla Polizia Penitenziaria in maniera non tipizzata e dunque anche mediante verifica telefonica, come del resto spesso avviene, anche in tempo ordinari, a cura delle Forze dell’Ordine, per esigenze di contenimento delle risorse umane.

Il nuovo meccanismo prevede infine che, per le pene anche residue sotto i sei mesi, il magistrato provveda, imponendo per le pene superiori ai sei mesi la procedura di controllo elettronico del braccialetto o altro strumento di controllo. Al di là della tematica relativa alla disponibilità del braccialetto, il cui numero sarà di prossima indicazione, l’impegno legislativo del d..18/2020 si conclude con la descrizione del criterio di graduazione nell’esecuzione delle misure con i braccialetti.

La complessità applicativa della nuova norma ha indotto a interrogarsi sulla sopravvivenza della l.199/2010. Il dubbio appare legittimo, sia in diritto che in fatto.

La verifica in punto di diritto nasce dall’incipit dell’art.123, d.l.18/2010, il quale indica che la nuova misura è prevista “in deroga” ai commi 1,2, e 4 L.199/2010.

Francamente, pare compatibile la coesistenza di entrambi gli istituti normativi, mediante un’interpretazione che dà senso alle parole del legislatore e tiene conto del comma 8 del d.l.18/2020, il quale mantiene ferme le ulteriori disposizioni dell’art.1, L.199/2010.

Pare inoltre irragionevole, oltre che inespresso, l’introduzione di un istituto normativo a dichiarato sostegno dell’effetto di deflazionare le carceri, con effetti potenzialmente deteriori rispetto alle norme previgenti, che invece è ancora possibile applicare, nei loro diversi presupposti.

Anche ulteriormente considerando che la salvezza delle disposizioni dell’art.1, l.199/2010, come da previsione del comma 8 del d.l.18/2020 sia limitata a quanto non espressamente previsto dall’art.123, d.l.18/2020, non pare che se ne possa ricavare la conferma della volontà abrogatrice implicita della norma pregressa, nella sua autonomia.

Sembra quindi corretto continuare a ipotizzare la concessione della detenzione domiciliare ex l.199/2010 senza braccialetti e fino a 18 mesi nell’applicazione della precedente normativa.

Occorre a questo punto domandarsi quali norme siano compatibili con l’art.123, d.l.18/2020 e, in particolare, se si applichi alla nuova misura il regime di cui all’art.58 quater L.354/1975 (ossia il divieto di concessione di nuovi benefici prima dei tre anni successivi alla ripresa della carcerazione), regime ostativo previsto per la l.199/2010.

Ciò aprirebbe la strada ad una possibile, ulteriore preclusione, che però non è indicata espressamente tra gli automatismi del comma 1 né è posta tra le indicazioni che il Direttore dell’istituto deve fornire al magistrato di sorveglianza e, dunque, non sembra richiamabile in malam partem.

Ciò esaurisce le novità normative sul tema, ma non esaurisce gli snodi cruciali da affrontare per gestire un fenomeno che coinvolge una così significativa responsabilità per la vita delle persone ristrette.

Urge allora un intervento normativo ponderoso e mirato per l’alleggerimento della pressione dovuta alle presenze “inutili” nel carcere, extrema ratio nel sistema dell’esecuzione penale.

Altrettanto, nulla è stato previsto a sostegno degli organici del personale amministrativo, in primis, che opera presso gli Uffici di Sorveglianza, quantomeno a Milano, i quali in questi giorni di sospensione dei termini processuali fronteggiano immani quantità di istanze urgenti.

Del resto, è proprio la magistratura di sorveglianza che ha vissuto i giorni delle rivolte, senza tra l’altro preoccuparsi dei pericoli corsi, e attraverso i suoi provvedimenti svolge funzioni non volute nè richieste di contenimento della pressione emotiva nel carcere.

Proprio questa magistratura sottolinea che la stragrande maggioranza dei detenuti (per esempio, a San Vittore la rivolta ha riguardato circa 150, persone su una popolazione detentiva vicina alle 1000, nel carcere di Bollate 227 persone su 1400 circa) nulla ha avuto a che fare con le rivolte e anzi si è adoperata per dissuadere i rivoltosi, esponendosi con documenti scritti e con  impegni personali e collettivi di responsabilità.

I numeri dei rivoltosi non inficiano il valore del trattamento, avendo riguardato le persone arrestate e in attesa di primo giudizio che si trovano presso la Casa Circondariale di San Vittore e i soli “nuovi giunti” per la Casa di Reclusione di Opera.

In conclusione, anche in questa tragica occasione,  è risultato rafforzato il valore del trattamento stesso, proprio perché i reparti nei quali il trattamento è in corso non hanno registrato episodi di violenza ma, anzi, positive azioni di responsabilità, del tutto analoga a quella cui oggi siamo tutti chiamati, ciascuno secondo la propria competenza.  

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