Il Corona Virus, il D.L. n. 11/2020 e il dibattimento penale.

di Alessandro De Santis in collaborazione con il Centro Studi Nino Abbate di Unità per la Costituzione

1. Premessa

Il Decreto Legge 8 marzo 2020, n. 11, recante “Misure straordinarie ed urgenti per contrastare lemergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dellattività giudiziaria”, è in vigore da 9 marzo 2020. Il provvedimento contiene misure di restrizione e contenimento relative ai settori della giustizia civile, penale, amministrativa e contabile, destinate a trovare applicazione in tutti gli uffici giudiziari dello Stato.

Volendo esaminare l’impatto di tale decreto sullo svolgimento del dibattimento penale, occorre concentrare l’esame sui primi due articoli.

L’art. 1 prevede sostanzialmente il rinvio d’ufficio di tutte le udienze fissate fino al 22 marzo 2020, fatte salve le eccezioni indicate all’art. 2, comma 2, lett. g), n. 2) ossia:

a) udienze di convalida dell’arresto o del fermo;

b) udienze relative a procedimenti nell’ambito dei quali sono state richieste o applicate misure di sicurezza detentive;

c) udienze relative a procedimenti nell’ambito dei quali i termini di fase delle misure cautelari in atto scadono entro il 22 marzo 2020.

d) quando i detenuti, gli imputati, i proposti o i loro difensori espressamente richiedono che si proceda, udienze relative a procedimenti a carico di persone detenute (salvo i casi di sospensione cautelativa delle misure alternative, ai sensi dell’articolo 51 -ter della legge 26 luglio 1975, n. 354); udienze relative a procedimenti in cui sono state applicate misure cautelari o di sicurezza o nei quali sono state disposte o richieste misure di prevenzione; udienze a carico di imputati minorenni.

Il legislatore accompagna tale regime di contenimento con la sospensione dei termini processuali nel periodo compreso tra l’8.3.2020 ed il 22.3.2020 e, ancora, con la sospensione del corso della prescrizione e dei termini di cui agli articoli 303, 309, comma 9, 311, commi 5 e 5-bis, e 324, comma 7, del codice di procedura penale e agli articoli 24, comma 2, e 27, comma 6, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 per il tempo in cui il procedimento è rinviato e, in ogni caso, non oltre il 31 maggio 2020 (cfr. art. 2, commi 3 e 4).

Ciò posto, con particolare riferimento alla strategia organizzativa ed operativa da adottare nel periodo di sospensione, i Dirigenti degli Uffici Giudiziari si sono dovuti confrontare con alcune problematiche relative alle modalità applicative del “rinvio d’ufficio” richiesto dal legislatore in riferimento alle udienze già fissate per il periodo che intercorre tra l’8.3.2020 ed il 22.3.2020, alla luce della ratio fondante l’intervento normativo, ossia quella sostanziale di evitare pericolosi assembramenti di persone all’interno degli uffici giudiziari.

2. Rinvio d’ufficio in riferimento ai procedimenti con imputato dichiarato assente.

Un primo problema operativo si è posto circa le modalità di rinvio da adottare in riferimento ai procedimenti penali nell’ambito dei quali non è stata applicata o richiesta misura cautelare o di sicurezza e l’imputato è già stato dichiarato assente, ossia la maggior parte dei procedimenti celebrati dinanzi al Tribunale in composizione monocratica e, a ben vedere, del totale complessivo dei procedimenti trattati.

La nozione atecnica di “rinvio d’ufficio” adoperata dal legislatore va interpretata alla luce delle finalità sottese al decreto, ossia come rinvio disposto fuori udienza, in guisa tale da ridurre al minimo le occasioni di incontro ed assembramento all’interno degli uffici giudiziari.

A tal riguardo, la disposizione normativa di riferimento va rintracciata nell’art. 465, comma 2, c.p.p., a tenore del quale “Il presidente del tribunale o della corte di assise … può, con decreto, per giustificati motivi, anticipare l’udienza o differirla non più di una volta”. Da un lato, detta disposizione si colloca specificamente nella fase degli atti preliminari al dibattimento; dall’altro, la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto, con orientamento consolidato, la possibilità di esercitare tale potere di differimento dell’udienza anche a giudizio iniziato, pur non essendo tale eventualità espressamente prevista dal codice di rito, ulteriormente puntualizzando che il relativo decreto “non deve essere notificato personalmente all’imputato già dichiarato contumace, essendo sufficiente la notifica al difensore che lo rappresenta” (Cass. pen., Sez. III, 3 marzo 2009, n. 17218).

Chiaramente, tale orientamento deve oggi confrontarsi con l’introduzione dell’istituto dell’“assenza”, che ha sostituito l’istituto della contumacia attraverso la L. n. 67/2014.

Ebbene, la Corte di Cassazione si è soffermata sul punto con una recente pronuncia, sostanzialmente dando continuità all’orientamento innanzi menzionato (a ben vedere già ribadito da Cass. pen., Sez. III, 16 ottobre 2014, n. 52507).

In particolare, i giudici di legittimità hanno precisato nuovamente che l’art. 465 c.p.p., “è da ritenere applicabile anche nelle ipotesi di rinvio fuori udienza, disposte nel corso del dibattimento”. Ed inoltre, che il decreto di rinvio non va notificato agli imputati già dichiarati assenti, “in forza del principio della rappresentanza da parte del difensore dell’imputato contumace o assente … E’ assolutamente pacifico che del rinvio del dibattimento disposto in udienza venga dato avviso orale a verbale e che quindi il difensore ne prenda atto anche in rappresentanza dell’imputato contumace o assente. Sarebbe, allora, del tutto irragionevole ritenere che del rinvio del dibattimento disposto fuori udienza debba essere dato avviso all’imputato contumace o assente personalmente e non al difensore che lo rappresenta. Siffatta “distinzione” non troverebbe alcuna giustificazione e si porrebbe in aperta antitesi e senza alcuna previsione espressa con il principio della rappresentanza dell’imputato contumace. La correttezza di tale interpretazione è confermata dal fatto che laddove il legislatore ha voluto che l’imputato, benchè contumace (ora assente), sia destinatario diretto di determinati atti compiuti nel corso del dibattimento, lo ha previsto espressamente (si pensi alle nuove contestazioni)” (Cass. pen., Sez. II, 4 marzo 2020, n. 8729).

Alla luce di tale consolidato orientamento teorico, potrà procedersi al (rapido e duttile) rinvio fuori udienza di tutti i procedimenti nei quali è già intervenuta la dichiarazione di assenza dell’imputato, notificando via mail il decreto al difensore e comunicando lo stesso al Pubblico Ministero, nonché fornendo eventuali indicazioni circa il programma istruttorio da seguire per le successive udienze.

Chiaramente, sarà necessario vagliare anche l’eventuale coinvolgimento di persone offese ed altre parti private, fermo restando che, secondo quanto previsto dal comma 2 dell’art. 465 c.p.p., il provvedimento va comunque notificato “alle parti private” e “alla persona offesa”; e che comunque opera, a tal riguardo, la disciplina di cui all’art. 154 c.p.p., a tenore del quale “le notificazioni alla parte civile, al responsabile civile e alla persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria costituiti in giudizio sono eseguite presso i difensori”.

Il tutto, con l’obiettivo specifico di ridurre al minimo anche le attività di notifica non telematiche e, conseguentemente, le occasioni di contatto e contagio.

Per completezza, occorre ulteriormente precisare che il provvedimento di anticipazione o differimento dell’udienza assume, per espressa previsione normativa, le forme del decreto motivato quantomeno con riguardo alle esigenze organizzative che abbiano consigliato lo spostamento della data di udienza. Al riguardo, può considerarsi sufficiente il richiamo alle indicazioni vincolanti contenute all’interno del D.L. n. 11/2020.

Costituisce misura aggiuntiva l’affissione del decreto alla porta dell’aula di udienza, dovendosi piuttosto privilegiare la comunicazione a distanza dello stesso onde evitare assembramenti in Tribunale.

3. Rinvio d’ufficio in riferimento ai procedimenti con imputato non dichiarato assente

Allorquando l’imputato abbia partecipato personalmente all’udienza precedente o, comunque, non sia ancora intervenuta la dichiarazione di assenza dello stesso, secondo quanto previsto dal comma 2 dell’art. 465 c.p.p., sarà necessario notificare personalmente all’imputato il decreto di rinvio.

Ulteriori problematiche si configurano allorquando si tratti di procedimento con imputato detenuto e/o sottoposto a misura cautelare personale o reale o misura di prevenzione.

Ferma restando l’indifferibilità dei procedimenti di cui al precedente par. 1, indicati alle lett. a), b) e c), il differimento si rende necessario anche in riferimento ai procedimenti di cui alla lett. d), previa interlocuzione con il detenuto o con il suo difensore.

Invero, il legislatore prospetta espressamente la possibilità che questi ultimi chiedano espressamente che il procedimento venga trattato.

Emerge quindi la necessità di assicurare una preventiva interlocuzione a distanza quantomeno con il difensore dell’imputato, onde vagliare la volontà di trattazione del procedimento senza richiedere la presenza fisica dello stesso in Tribunale. Sotto questo profilo, è necessario valorizzare il dialogo con gli organismi rappresentativi forensi onde elaborare strategie funzionali al soddisfacimento delle esigenze del foro.

In numerosi uffici giudiziari si è adottato il seguente modus procedendi: anche in riferimento ai procedimenti nell’ambito dei quali è stata applicata una misura cautelare o di prevenzione, l’A.G. procede al rinvio fuori udienza dell’udienza dibattimentale, ferma restando la facoltà del difensore di comunicare alla cancelleria del Giudice (utilizzando la Posta elettronica certificata), l’eventuale volontà di procedere alla trattazione del procedimento almeno 3 giorni prima rispetto alla data originariamente fissata.

Una problematica operativa potrebbe porsi in riferimento ai procedimenti che coinvolgono più imputati sottoposti a misura cautelare (o anche procedimenti in cui solo alcuni degli imputati sono sottoposti a misura cautelare), laddove solo per alcuni di essi venga formulata la richiesta di procedere alla trattazione. È chiaro che, in tal caso, si concretizza un contrasto tra l’esigenza dell’imputato alla trattazione del procedimento (nonché ad evitare la sospensione dei termini di fase della misura cautelare in atto e la conseguente protrazione della compressione della sua libertà personale) e la ratio di tutela della salute collettiva sottesa al decreto.  

La soluzione funzionale ad assicurare un adeguato contemperamento di ambedue le esigenze potrebbe essere quella di separare le relative posizioni processuali, soluzione non praticabile, tuttavia, in riferimento a posizioni tra loro inscindibili o, comunque, ove la trattazione congiunta risulti assolutamente necessaria per l’accertamento dei fatti (cfr. art. 18 c.p.p.).

In tale ultima ipotesi, si impone una lettura delle disposizioni del D.L. fondata sull’adeguato bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti, inquadrati all’interno di una specifica gerarchia costituzionale.

Al riguardo, vale rilevare che l’art. 32 Cost. consacra il diritto alla salute quale diritto fondamentale della persona, sia nella sua dimensione individuale, sia, soprattutto, nella sua dimensione superindividuale, come ricavabile da una più approfondita lettura della norma.

Per i primi due decenni successivi all’entrata in vigore del testo costituzionale, il predetto art. 32 è stato archiviato come norma meramente programmatica, insuscettibile di fondare, di per se stessa, situazioni giuridiche direttamente spendibili dinanzi alla giurisdizione; in tale ottica, la norma si delineava quale strumento di protezione della persona avverso eventuali ingerenze mediche coercitive, e, dunque, quale presidio fondamentale per evitare la degenerazione autoritativa del rapporto medico paziente, portata alla luce dal processo di Norimberga.

Con l’entrata in vigore della L. n. 833/1978 (Legge sul S.S.N.) ed attraverso il lavorio della dottrina e della giurisprudenza di legittimità è progressivamente emersa la preponderante prospettiva pretensiva e superindividuale della norma, non più intesa quale mero strumento di protezione, bensì tale da fondare la pretesa collettiva ad un impegno statale funzionale all’erogazione delle prestazioni necessarie per la salvaguardia della salute pubblica. Basti rilevare che il secondo capoverso del comma 2 della predetta disposizione, parzialmente contraddicendo la funzione protettiva del primo capoverso, ammette la possibilità di trattamenti sanitari obbligatori nei casi espressamente previsti dalla legge, sempre che il provvedimento che li impone sia volto ad impedire che la salute del singolo possa arrecare danno alla salute degli altri e che l’intervento previsto non danneggi, ma sia anzi utile alla cura di chi vi è sottoposto. In tale ottica, la dimensione collettiva del bene salute soverchia la sua dimensione individuale, consentendo al legislatore di contemplare ipotesi di compressione autoritativa dell’integrità psico – fisica del singolo ove funzionali alla salvaguardia della collettività.

Potrebbe quindi prospettarsi l’estensibilità di tali coordinate ermeneutiche in riferimento al rapporto intercorrente tra la salute pubblica e la libertà personale del singolo, reputando opportuno vivificare la ratio di tutela dell’integrità psico-fisica collettiva che si trova condensata nel D.L. n. 11/2020 attraverso il rinvio di quei procedimenti per i quali solo alcuni degli imputati sottoposti a misura cautelare abbiano chiesto la trattazione, una volta verificato di non poter procedere alla separazione delle rispettive posizioni processuali.

A tal proposito, occorre altresì rilevare che tale estensione si giustifica anche sulla scorta delle seguenti considerazioni. Il legislatore costituzionale delimita l’alveo operativo di quello ordinario precisando che i trattamenti sanitari imposti dalla legge non possono mai violare il rispetto dovuto alla persona umana; in altre parole, non possono determinare la soppressione permanente di funzioni organiche, né essere condotti con modalità tali da arrecare offesa alla dignità della persona coinvolta. In tal modo, pur ammettendo compressioni dell’integrità psico – fisica individuale, si pone un limite non valicabile da alcuna volontà esterna, fosse pure quella espressa democraticamente dai cittadini, un limite più incisivo ancora di quello previsto dall’art. 13 Cost. per la libertà personale, che ammette compressioni della stessa attuate con legge o con provvedimento motivato del giudice (che non può considerarsi espressione della volontà popolare in quanto non proveniente da un corpo democraticamente eletto).

E, ancora, non può non considerarsi che l’art. 32 Cost. vive del collegamento osmotico con una disposizione di rango ordinario, quale l’art. 5 c.c., che, nel tratteggiare le modalità di manifestazione dell’autodeterminazione individuale evidenzia ulteriormente l’interesse pubblicistico sotteso alla salvaguardia della salute dei consociati, tale da giustificare una compressione di tale autodeterminazione in una prospettiva anche sociale.

Del resto, tale interpretazione teleologica sembra rinvenire un riscontro (seppur opinabile ed inesorabilmente suscettibile di molteplici interpretazioni) anche nel dato letterale. Invero, l’art. 2, comma 2, lett. g) del D.L. n. 11/2020, nel delineare le ipotesi in cui la trattazione del procedimento è subordinata ad una richiesta di parte, prevede che detta richiesta venga formulata dai “detenuti, gli imputati, i proposti o i loro difensori” e non anche singolarmente da ciascuno di essi, eventualità che avrebbe invece dovuto contemplare espressamente in quanto tale da frustrare gli obiettivi sottesi al decreto.

Ad ogni modo (e pur non volendo e potendo prospettare soluzioni definitive) non può omettersi di considerare che l’intervento normativo è stato partorito in un contesto emergenziale che non ha precedenti nella storia repubblicana, tale da giustificare una lettura interpretativa massimamente orientata alla realizzazione degli obiettivi ad esso sottesi, anche a costo di (tollerabili) sacrifici sul piano squisitamente individuale, destinati comunque ad esaurirsi entro un ben preciso frangente temporale (31 maggio 2020). Una ulteriore conferma in tal senso sembra provenire anche dal successivo comma 5 dell’art. 2 cit., che impone un ulteriore sacrificio prevedendo che “ai fini del computo di cui all’articolo 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, nei procedimenti nei quali le udienze sono rinviate a norma del presente articolo non si tiene conto del periodo decorrente dalla data del provvedimento di rinvio dell’udienza alla data della nuova udienza, sino al limite massimo di tre mesi successivi al 31 maggio 2020”.