Il danno da nascita indesiderata. Riflessioni sulla sentenza della Cassazione, Sez. U., n. 25767 del 22 dicembre 2015.

di Dario Cavallari

Sommario: 1. Il danno da nascita indesiderata: profili generali. – 2. La sentenza della Cassazione, Sez. U., n. 25767del 22 dicembre 2015.- 3. Considerazioni finali.

1. Il danno da nascita indesiderata: profili generali.

Con l’espressione “danno da nascita indesiderata” si designa nella prassi sia un tipo di danno che una condotta illecita[1].

Da un lato, quindi, si intende la lesione patita dal genitore che veda compromesso il proprio diritto di scegliere se e quando avere figli.

Sul piano del comportamento vietato, la detta espressione indica, invece, l’operato del medico che (a) con una condotta tecnicamente imperita o (b) omettendo di informare la donna, viola il diritto di uno od ambedue i genitori a non avere figli, ovvero a non portare a termine la gestazione di essi.

Nell’ipotesi (a), la nascita di un figlio avviene contro la volontà del genitore, come qualora un aborto od un intervento di sterilizzazione non abbiano successo.

Nel caso (b) detta nascita si verifica secondo la volontà del genitore, ma la volontà stessa si è formata in modo viziato, come nell’eventualità di omessa informazione circa le malformazioni del feto, con conseguente perdita della possibilità di interrompere la gravidanza.

Si tratta di situazioni fra loro prossime, che si differenziano perché nella prima è violato il diritto del genitore a non avere figli, nella seconda il diritto del medesimo genitore di interrompere la gravidanza.

Sia l’affermazione della responsabilità del medico per il caso di omessa informazione della gestante; sia la emersione del concetto di “danno da nascita indesiderata” sono stati il frutto di una elaborazione giurisprudenziale molto lenta, che ha prima negato la risarcibilità del danno in questione, poi l’ha ammessa con restrizioni e, infine, l’ha consentita incondizionatamente.

Varie sono le fattispecie che possono porsi all’attenzione dell’autorità giudiziaria.

Il sanitario può, ad esempio, essere chiamato a rispondere del danno in esame ove abbia tenuto una condotta colposa, la quale:

a) può consistere tanto nell’imperita esecuzione d’un atto medico, quanto nella negligente o inesatta informazione della paziente;

b) va accertata con riferimento alle leges artis generalmente condivise all’epoca dell’intervento o dell’analisi;

c) è sempre presunta, con la conseguenza che non è onere della gestante provare la colpa del medico, ma è onere di quest’ultimo dimostrare di avere tenuto una condotta diligente.

Il danno da nascita indesiderata può essere causato da un medico sia con una condotta commissiva che con una omissione.

Le condotte colpose di tipo commissivo possono essere rappresentate dalla imperita esecuzione di un intervento di sterilizzazione, oppure dall’insuccesso di un intervento di interruzione della gravidanza.

Ben più frequenti, però, sono i casi in cui il danno da nascita indesiderata è causato dal medico con una condotta omissiva, che può consistere:

a) nell’omesso rilevamento di una malformazione o di un difetto genetico oggettivamente rilevabile con l’uso dell’ordinaria diligenza attraverso gli opportuni esami diagnostici;

b) nell’omessa informazione della gestante circa l’esistenza di malformazioni del feto.

Le due condotte possono essere cumulative, e non solo alternative.

La distinzione tra imperita diagnosi e mancata informazione rileva sul piano giuridico ai fini dell’accertamento della colpa, che deve avvenire attraverso una comparazione, confrontando la condotta concretamente tenuta dal sanitario con quella che, nelle medesime circostanze, sarebbe stato lecito attendersi da un “professionista diligente”, ai sensi dell’art. 1176, comma 2, c.c., e cioè dall’homo eiusdem generis et condicionis.

L’imperita diagnosi costituisce una colpa per imperizia, la non informazione un’ipotesi di negligenza, distinzione che rileva perché soltanto nella prima eventualità il medico potrà invocare l’esimente di cui all’art. 2236 c.c. (e cioè l’essere incorso in colpa lieve nell’eseguire una prestazione di speciale difficoltà).

In particolare, “professionista diligente”, secondo il giudice di legittimità, è quello che conosce ed applica con zelo e precisione le regole operative e le tecniche generalmente condivise dalla comunità scientifica contemporanea. Di conseguenza, per stabilire se sia in colpa il medico il quale non abbia rilevato l’esistenza d’una malformazione occorrerà verificare se l’immagine (radiografica, ecografica, genetica) consentiva o meno, con l’uso della exacta diligentia esigibile dal professionista bravo, di accertare l’esistenza della malformazione.

La colpa per imperita diagnosi andrà valutata confrontando la conformità dell’operato del medico con le leges artis elaborate dalla comunità scientifica, mentre la colpa per omessa informazione deve essere verificata esaminando forma, contenuti e modalità dell’informazione fornita alla gestante in rapporto a quelli prescritti dalla deontologia professionale e dalla giurisprudenza.

Quanto all’obbligo di informazione gravante sul medico con riguardo alle diagnosi prenatali occorre ricordare che il consenso libero e consapevole del paziente all’atto medico è considerato oggi un corollario dell’esercizio del fondamentale diritto alla salute e non più presupposto di legittimità dell’operato del medico, in virtù del principio volenti non fit iniuria[2].

Il diritto del paziente di essere informato, ed il correlativo dovere del medico di informare, vengono fondati sugli articoli 2, 13 e 32 Cost. e su varie fonti legislative (ad esempio, l’articolo 33, commi 1 e 5, della legge n. 833 del 23 dicembre 1978, istitutiva del servizio sanitario nazionale o l’articolo 14 della legge n. 194 del 22 maggio 1978, contenente norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza).

Dalla vigente normativa la giurisprudenza ha tratto la conclusione che la volontà del paziente di consentire l’intervento medico si forma liberamente solo se egli sia stato messo concretamente in condizione di valutare ogni rischio ed ogni alternativa, con la conseguenza che l’obbligo di informazione comprende tutti i rischi prevedibili, anche se la loro probabilità è minima, con esclusione di quelli anomali ed ascrivibili al caso fortuito[3].

In tema di danno da nascita indesiderata si è ritenuto che il medico chiamato ad eseguire una diagnosi prenatale debba non solo informare la gestante sui risultati obiettivi dell’esame, ma abbia degli obblighi informativi aggiuntivi.

Innanzitutto, il sanitario che visiti la gestante, sebbene non gli siano richieste indagini diagnostiche sul feto, ove riscontri l’esistenza di patologie della donna tali da nuocere alla salute del nascituro, è tenuto ad informarla della possibilità di sottoporsi ad indagini prenatali, quantunque rischiose per la sopravvivenza del feto[4].

In secondo luogo, il medico ha l’obbligo di avvisare la donna dell’utilità concreta del test prescelto per la diagnosi prenatale e, pertanto, se la gestante opta per eseguire un esame ecografico, deve rappresentarle l’esistenza di accertamenti più efficaci che consentano la verifica dell’esistenza di malformazioni congenite[5].

Inoltre, il professionista deve comunicare alla gestante la possibilità di ricorrere ad un centro di più elevato livello di specializzazione, se l’esame diagnostico compiuto non abbia consentito, senza colpa del medico, una completa ed esaustiva visualizzazione del feto[6].

Il sanitario che prescriva alla gestante farmaci potenzialmente dannosi per il concepito è tenuto, altresì, a renderla partecipe dei rischi derivanti dal loro uso, tanto che, in un caso in cui il medico aveva omesso tale attività, la Suprema Corte l’ha condannato al risarcimento del danno da nascita indesiderata perché il concepito era venuto al mondo con malformazioni congenite, delle quali non era stato possibile stabilire se fossero state causate o meno dai farmaci assunti dalla gestante[7].

Infine, il medico, il quale sia chiamato ad interpretare un’immagine diagnostica prenatale incerta o ambigua, ha l’obbligo di segnalare alla gestante, nelle dovute forme richieste dall’equilibrio psicologico di quest’ultima, l’esistenza di una incertezza o ambiguità diagnostica, con conseguente condanna del professionista che, in presenza di indici diagnostici dei quali non era agevole intuire il significato, abbia taciuto alla paziente i possibili significati di essi.

Una volta acclarato il contenuto dell’obbligo di informazione del medico, occorre esaminare il rapporto fra questo, ove emergano indizi di eventuali malformazioni o patologie del feto, ed il danno da mancato esercizio della facoltà di interrompere la gravidanza.

In tema di danno da nascita indesiderata, l’accertamento sulla causalità demandato al giudice è generalmente inteso in una duplice ottica.

Infatti, occorre stabilire:

a) se nel singolo caso l’aborto sarebbe stato consentito dalla legge;

b) se, pur sussistendo i presupposti di legge per l’interruzione della gravidanza, la gestante, una volta informata delle malformazioni del feto, avrebbe verosimilmente compiuto tale scelta.

In merito al primo di questi aspetti, va ricordato che la possibilità di abortire non è incondizionata, ma è subordinata alla sussistenza di diversi presupposti, a seconda che venga esercitato prima o dopo il novantesimo giorno dall’inizio della gravidanza.

Prima di tale data, l’interruzione volontaria della gravidanza è sempre possibile a condizione che la gestante “accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”.

In questo caso, pertanto, l’aborto costituisce un intervento profilattico nei confronti di un danno temuto per la salute della gestante, intesa in senso molto lato come benessere anche psicologico. Da ciò consegue che, quando la malformazione era oggettivamente rilevabile già nei primi 90 giorni di gestazione, il nesso causale tra omessa informazione alla madre e perdita della possibilità di interrompere la gravidanza è praticamente sempre sussistente.

Dopo i 90 giorni di gravidanza, l’articolo 6 della legge n. 194 del 22 maggio 1978 stabilisce che “l’interruzione volontaria della gravidanza … può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”. A tale regola si fa eccezione ove sussista la possibilità di vita autonoma del feto, nel qual caso l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna (articolo 7 della normativa in questione).

Pertanto, mentre prima del novantesimo giorno dall’inizio della gravidanza l’aborto è consentito se vi è un pericolo “serio” per la salute fisica o psichica della gestante, successivamente è possibile se il pericolo per la vita della madre è “grave”, ovvero se vi è già in atto una malattia del concepito che esponga la salute della madre a pericolo pure “grave”.

L’accertamento della condizione specificata sub a) in genere non dà luogo a difficoltà, mentre è ben più difficile stabilire quando sussistano i presupposti sub b), poiché la norma richiede, affinché sia consentito l’aborto, due condizioni, vale a dire l’esistenza di un processo patologico del concepito e la pericolosità “grave” di tale processo per la salute fisica o psichica della donna.

Nel giudizio di responsabilità a carico del medico, per ottenerne la condanna, in teoria non basta provare l’esistenza della malformazione, ma occorre dimostrare che, se la gestante ne fosse stata informata, avrebbe corso il grave pericolo di ammalarsi, anche a livello psichico.

Tale rigoroso onere della prova tuttavia, solennemente affermato in teoria, nella pratica viene notevolmente attenuato dalla facilità con la quale la giurisprudenza, pure di legittimità[8], in subiecta materia ricorre alla prova presuntiva, sul presupposto che pochi genitori sono disposti a dare alla luce un figlio che corra il rischio di essere gravemente ritardato o costretto a vivere una vita menomata, con la conseguenza che è legittimo ricondurre al difetto di informazione il mancato esercizio della facoltà  di abortire.

Quanto alla pericolosità del processo patologico per la salute fisica o psichica della gestante, anche in questa eventualità l’onere della prova è attenuato dal ricorso alle presunzioni[9]. In particolare, secondo la S.C., non ogni pericolo per la salute fisica o psichica della donna è rilevante, tanto da assimilarlo ad ogni forma di danno biologico, ma solo quello che abbia carattere patologico grave per la salute fisica o psichica della stessa, poiché l’articolo 6 della normativa in questione si riferisce ad un concetto di salute ristretto, espresso in termini negativi, come assenza di malattia[10].

Si aggiunge, però, che, per stabilire se la donna avrebbe interrotto la gravidanza, ove adeguatamente informata sulle condizioni del nascituro, non si deve accertare se in lei si sia instaurato un processo patologico capace di evolvere in grave pericolo per la salute psichica, ma solo stabilire, con un criterio di prognosi postuma, se la dovuta informazione sulle condizioni del feto avrebbe potuto determinare durante la gravidanza l’insorgere di un tale processo patologico[11].

Si ritiene che la prova della possibilità legale di ricorrere all’aborto deve ritenersi sussistente quando, sulla base di dati di comune esperienza evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, possa affermarsi che, se la madre fosse stata informata delle malformazioni del feto, sarebbe insorto uno stato depressivo suscettibile di essere qualificato come grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, anche solo in virtù del criterio del più probabile che non[12].

Il nesso causale tra l’omessa informazione da parte del medico e la lesione del diritto di interrompere la gravidanza è escluso qualora sia accertata la sussistenza di fattori ambientali, culturali, di storia personale, religiosi, idonei a dimostrare in modo certo che, pur informata delle malformazioni, la donna avrebbe accettato la continuazione della gravidanza (ed il relativo onere grava sul convenuto) e quando le malformazioni erroneamente non rilevate o non comunicate alla madre da parte del medico non siano gravi (in caso contrario l’aborto non avrebbe più una funzione terapeutica, ma eugenetica).

Ovviamente è il giudice di merito che, in concreto, deve stabilire quando la malformazione del feto sia così grave da consentire di presumere che, se comunicata alla madre, essa avrebbe avuto una malattia psichica pericolosa per la sua salute.

Il profilo più delicato della vicenda concerne, però, l’accertamento del se, in presenza delle condizioni di legge per abortire, sia ragionevole ritenere che la gestante, ove informata delle malformazioni, avrebbe interrotto la gravidanza.

Sino al 2013 è stato ritenuto possibile stabilire anche in base alla sola gravità delle malformazioni del feto che la gestante, una volta informata, si sarebbe avvalsa della facoltà di abortire poiché rispondeva “ad un criterio di regolarità causale che la donna, ove adeguatamente e tempestivamente informata della presenza di una malformazione atta ad incidere sulla estrinsecazione della personalità del nascituro, preferisca non portare a termine la gravidanza”[13].

Questo orientamento è stato fortemente ridimensionato dalla sentenza della Corte di cassazione n. 7269 del 2013.

In essa la Corte esordisce affermando che il problema del nesso causale in tema di danno da nascita indesiderata va affrontato e risolto “all’infuori degli schematismi e degli stereotipi di soluzioni fortemente condizionate da implicazioni emotive e da opzioni ideologiche”.

In particolare, censura l’orientamento anteriore secondo cui corrisponde a regolarità causale che una donna la quale concepisca un figlio malformato desideri abortire, perché introdurrebbe una presunzione iuris tantum di sussistenza delle condizioni che avrebbero legittimato l’aborto e, quindi, del grave pericolo di danno psichico per la madre.

Infine, afferma che l’onere di provare che, in caso di corretta informazione, sussistevano le condizioni per l’esercizio dell’aborto, grava sulla gestante e che tale prova non può essere fornita semplicemente dimostrando che la donna aveva chiesto di sottoporsi ad un esame diagnostico prenatale in quanto una simile richiesta non è indice univoco della volontà della donna di abortire in caso di malformazioni del feto, ma è solo indizio di ciò, irrilevante se privo dei requisiti di cui all’articolo 2729 c.c., salvo che, al momento della richiesta dell’esame diagnostico prenatale, la paziente non avesse espressamente dichiarato che l’esame era funzionale alla volontà di abortire.

La relativa valutazione, da parte del giudice di merito deve avvenire tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto, tra le quali, in primo luogo, la condotta della madre prima, durante e dopo il parto, le sue credenze religiose, le sue convinzioni etiche ed il suo livello culturale.

Ulteriore questione è se la nascita di un bambino non desiderato possa essere qualificata come danno risarcibile.

Al riguardo, la giurisprudenza ha fornito una risposta positiva[14], sul presupposto che danno risarcibile è il vulnus arrecato ad una qualsivoglia situazione giuridica soggettiva attiva a condizione che:

a) tale situazione giuridica sia direttamente od indirettamente tutelata da una o più norme di legge;

b) dalla lesione del diritto o dell’interesse coinvolti sia derivata, per consequenzialità diretta, la compromissione dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse o il diritto, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega.

Nel caso di omessa diagnosi prenatale di malformazioni del feto, ricorrono ambedue i requisiti appena indicati, in quanto:

a) il diritto ad interrompere la gravidanza costituisce una situazione giuridica soggettiva attiva espressamente riconosciuta e regolata dall’ordinamento;

b) la soppressione del suddetto diritto, derivante da una incompleta informazione, lede il bene della vita rappresentato dall’interesse dell’individuo a pianificare le proprie scelte familiari e godere di un ménage domestico conforme ai propri desideri.

Quello di non avere figli, così come quello di non avere figli costretti ad una vita breve o sventurata, perché affetti da malattie incurabili e devastanti, costituiscono diritti essenziali dell’individuo, che trovano il proprio fondamento negli artt. 2 e 29 Cost., e la cui violazione costituisce pertanto danno ingiusto, ai sensi degli artt. 1218 e 2059 c.c., a seconda che tale pregiudizio derivi da inadempimento o illecito aquiliano.

Dalla nascita di un bimbo malformato, senza che la madre ne fosse stata preventivamente informata, può derivare, quindi, un danno alla salute della genitrice, come una sindrome depressiva.

Anche quando essa non patisca un danno alla salute è, comunque, risarcibile a ciascuno dei genitori il danno non patrimoniale scaturito dalla violazione del diritto costituzionalmente garantito (ex artt. 2 e 29 Cost.) a pianificare la propria vita familiare e, quindi, a decidere se portare a termine o meno la gravidanza.

Seri problemi riguardano, poi, la titolarità del diritto al risarcimento del danno da nascita indesiderata.

Esso spetta di certo alla madre, ma, per costante giurisprudenza, pure al padre perché l’omessa informazione alla gestante, incidendo sul diritto del padre alla pianificazione familiare riconosciuto dagli articoli 29 Cost. e 144 c.c. genera un danno non patrimoniale che, in quanto lesivo di una situazione di rango costituzionale, è risarcibile anche al di fuori delle ipotesi di cui all’articolo 2059 c.c.

Discussa è stata, invece, la spettanza della legittimazione de qua alla persona nata con malformazioni congenite ed ai suoi fratelli.

La giurisprudenza in passato era orientata negativamente, nel primo caso perché l’ordinamento non ammetterebbe un diritto “a non nascere se non sano”, nel secondo in quanto i fratelli della persona nata con malformazioni non vanterebbero alcun diritto alla pianificazione familiare e, dunque, a decidere se interrompere o meno la gravidanza, con la conseguenza che il mancato aborto della madre non costituirebbe per essi lesione di diritto e, quindi, danno.

Tale orientamento è stato, però, superato dalla sentenza della Corte di cassazione n. 16754 del 2 ottobre 2012, la quale ha affermato che il risarcimento del danno cd. da nascita indesiderata spetta sia al soggetto nato malformato[15] che ai suoi genitori e fratelli.

2. La sentenza della Cassazione, Sez.U., n. 25767del 22 dicembre 2015.

La sentenza della Cassazione, Sez.U., n. 25767del 22 dicembre 2015 ha affrontato due fra le tematiche più controverse inerenti al cd. danno da nascita indesiderata, vale a dire quella della ripartizione dell’onere della prova in ordine al fatto che la madre avrebbe abortito ove debitamente informata dell’esistenza di gravi malformazioni del feto e quella della spettanza del relativo risarcimento iure proprio anche al neonato.

Quanto alla prima tematica, la decisione afferma che la legge n. 194 del 22 maggio 1978 ha negato all’interruzione di gravidanza il ruolo di strumento di programmazione familiare o mezzo di controllo delle nascite in funzione eugenica.

La S.C. parla espressamente di “possibilità legale di ricorrere all’aborto” e, con riferimento alla interruzione della gravidanza dopo il novantesimo giorno, di diritto all’autodeterminazione della madre, la quale è titolare di un diritto di scelta. Essa chiarisce come il thema probandum sia un fatto complesso, vale a dire un accadimento composto da molteplici circostanze e comportamenti proiettati nel tempo, quali la rilevante anomalia del nascituro, l’omessa informazione da parte del medico, il grave pericolo per la salute della donna e la scelta abortiva di quest’ultima, precisando che la vicenda presenta aspetti delicati poiché deve essere provato un fatto psichico quale l’intenzione della donna.

L’onere di dimostrare tale thema probandum è posto dalla Corte di cassazione a carico della gestante e, in particolare, la prova del suddetto profilo soggettivo può essere ricavata ricorrendo alla praesumptio hominis in presenza dei requisiti di cui all’articolo 2729 c.c.

E’ interessante notare che il giudice, ad avviso della S.C., può fondare tale praesumptio hominis non solo su correlazioni statisticamente ricorrenti, ma pure su circostanze contingenti atipiche emergenti dai dati istruttori raccolti, quali consulenze mediche disposte per accertare le condizioni di salute del nascituro e della gestante, benché queste perizie non possano condurre ad un’elencazione di anomalie o malformazioni che giustifichino la presunzione di ricorso all’aborto.

Ben più complessa la valutazione, ad opera della Corte di cassazione, della questione del riconoscimento del diritto del figlio, affetto da sindrome down, al risarcimento del danno per l’impossibilità di un’esistenza sana e dignitosa.

La S.C. chiarisce come il figlio sia dotato dell’astratta legittimazione ad agire per ottenere il ristoro della lesione “le cui premesse fattuali siano collocabili in epoca anteriore alla sua stessa nascita”, ben potendo il nascituro essere considerato oggetto di tutela e senza che sia necessario postularne la soggettività giuridica.

Tale affermazione è fondata su varie norme giuridiche, quali, ad esempio, l’articolo 1, comma 1, della legge n.40 del 19 febbraio 2004, che, in tema di procreazione assistita, annovera fra “i soggetti tutelati anche il concepito”, oppure l’articolo 1 della legge n. 194 del 22 maggio 1978, che espressamente stabilisce che “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”.

La Corte di cassazione non reputa di ostacolo alla detta legittimazione neppure il fatto che, nella specie, il medico sarebbe l’autore mediato del danno per avere privato la madre di una facoltà riconosciutale dalla legge tramite una condotta omissiva che si porrebbe in rapporto di causalità con la nascita indesiderata, poiché la situazione sarebbe identica a quella in cui si trova il sanitario verso il nato disabile per omessa comunicazione ai genitori della pericolosità di un farmaco somministrato alla gestante o di una malattia della madre suscettibile di ripercuotersi sulla salute del feto.

Il giudice della legittimità, quindi, superato l’ostacolo dell’astratta riconoscibilità della titolarità di un diritto e della legittimazione attiva del nato con un handicap, si concentra sul contenuto del diritto leso e del rapporto di causalità fra condotta del medico ed evento di danno.

La S.C., ritenuto che non si discuta di un diritto a nascere sani, non essendovi una responsabilità del medico nel danneggiamento del feto, esclude, alla luce del principio di non contraddizione,  l’esistenza del diritto vantato dal nato malato perché l’alternativa alla sua vita da infermo sarebbe stata la non nascita, in seguito all’interruzione della gravidanza; perciò, essa nega che possa parlarsi di un diritto a non nascere, allo stesso modo in cui non sarebbe configurabile un diritto al suicidio, poiché il bene supremo protetto dall’ordinamento è la vita e non la sua negazione. Il diritto alla non vita non troverebbe tutela perché la vita del soggetto è il presupposto di ogni diritto ed in mancanza di essa non potrebbe parlarsi di un danno, “tanto più che di esso si farebbero interpreti unilaterali i genitori nell’attribuire alla volontà del nascituro il rifiuto di una vita segnata dalla malattia; come tale, indegna di essere vissuta (quasi un corollario estremo del cd. diritto alla felicità)”.

La Corte di cassazione afferma che non varrebbe neanche invocare il diritto di autodeterminazione della madre, leso dalla mancata informazione sanitaria, “ai fini della propagazione intersoggettiva dell’effetto pregiudizievole” in quanto, così argomentando, si estenderebbe al nascituro una facoltà concessa dalla legge alla sola gestante, né sarebbe da considerare valido argomento l’apparente antinomia tra l’estensione del credito risarcitorio in favore del padre e dei fratelli germani ed il diniego opposto al figlio, primo interessato dalle patologie, trattandosi di mera constatazione empirica e dovendosi tenere conto che solo “per i predetti soggetti, e non pure per il nato malformato, si può configurare un danno-conseguenza, apprezzabile tramite comparazione tra due situazioni soggettive omogenee: la qualità della vita prima e dopo la nascita del bambino handicappato”.       

Inoltre, sulla base di una ricognizione dell’esperienza maturata in materia in ordinamenti a noi culturalmente vicini, la S.C. conclude che esiste una tendenza “a ritenere compensabile la penosità delle difficoltà cui il nato andrà incontro nel corso della sua esistenza, a cagione di patologie in nessun modo imputabili etiologicamente a colpa medica” con interventi di sostegno affidati alla solidarietà generale, citando, in particolare, a favore della sua ricostruzione, la legge francese n. 2002-303 che, in risposta alla decisione dell’adunanza plenaria della Cour de Cassation del 17 novembre 2000 che, nell’ambito del cd. affaire Perruche, aveva riconosciuto il diritto al risarcimento ex delicto ad un nato affetto da grave malattia non diagnosticata durante la gravidanza, tale diritto ha negato.

Il giudice della legittimità si esprime pure contro la tesi che ricollega il credito risarcitorio ai cd. doveri di protezione di cui sarebbe beneficiario il nascituro, per ipotizzare, poi, che l’affermazione di una responsabilità del medico verso il nato avrebbe aperto la strada, “per coerenza”, ad un’analoga responsabilità della medesima madre che, pur potendo abortire e dopo essere stata correttamente informata dal sanitario, abbia portato a termine la gravidanza.

In pratica, la Corte di cassazione sostiene che, riconoscere il diritto di non nascere malati “comporterebbe…l’obbligo della madre di abortire”, equiparandosi l’errore diagnostico che non abbia evitato la nascita indesiderata, a causa di una malformazione del feto, all’errore medico che detta malformazione abbia direttamente cagionato.

Essa conclude negando vi sia una ragione di danno da valutare “sotto il profilo dell’inserimento del nato in un ambiente familiare nella migliore delle ipotesi non preparato ad accoglierlo”.    

3. Considerazioni finali.

Le questioni in esame hanno dato origine ad accesi dibattiti in dottrina e giurisprudenza.

In primo luogo, la S.C. non ha preso posizione in maniera chiara in ordine alla natura della situazione giuridica di cui la donna sarebbe titolare e del suo atto di scelta.

Non è ancora ben definito se venga in rilievo un diritto soggettivo della donna o, ad esempio, se debba parlarsi di un atto necessitato legislativamente consentito, passandosi dalla teorizzazione di un atto illecito necessitato fino a quella del negozio giuridico potestativo.

D’altronde, la contraddittorietà del sistema vigente si evince dal fatto che, da un lato, si nega che l’aborto abbia una funzione eugenica, dall’altro, si riconosce alla donna l’autodeterminazione procreativa in presenza di informazioni sicure sulle malformazioni del figlio[16].

Peraltro, tali ricostruzioni non possono coesistere, poiché o la donna è titolare di un diritto soggettivo pieno all’autodeterminazione ed alla pianificazione familiare, fondato sugli articoli da 29 a 32 della Costituzione, cui si ricollega un diritto ad abortire, oppure essa gode di una mera aspettativa a che lo Stato le consenta, in presenza di specifici requisiti, di abortire per ragioni che, però, non riguardano l’esplicazione della sua personalità e la tutela della sua libera volontà, ma, al contrario, interessi diversi, come quello alla sua integrità fisica e psichica.

Se, però, si volesse davvero ipotizzare la ricorrenza di un diritto soggettivo pieno della donna, verrebbe da chiedersi come sia possibile che la tutela risarcitoria di detto diritto, qualora, come nell’ipotesi qui esaminata, sia leso dalla condotta non professionale del medico, debba dipendere dalla prova del relativo esercizio ad opera della titolare[17].

Infatti, nell’ordinamento giuridico i diritti soggettivi, soprattutto quelli assoluti, ma lo stesso discorso può farsi con riferimento a quelli relativi, vengono tutelati in presenza del fatto della loro violazione.

Quanto ai diritti assoluti, la loro lesione è sanzionata a prescindere dal relativo impiego (si pensi ai diritti della personalità, ma anche ai classici diritti reali). In ordine ai diritti nascenti da contratto, invece, la semplice allegazione dell’altrui inadempimento è sufficiente a fondare la pretesa risarcitoria.

Ciò induce a ritenere che la S.C. abbia posto a fondamento della sua decisione una ricostruzione della situazione giuridica della donna non riconducibile allo schema del diritto soggettivo, non spiegandosi altrimenti il motivo per cui, pur in presenza di un illecito accertato del sanitario, l’intero onere probatorio (od almeno la parte di gran lunga preponderante) sia stato posto a suo carico, come se essa dovesse dimostrare l’esistenza dei requisiti necessari ad ottenere l’autorizzazione ad abortire.

Questa impostazione lascia perplessi, se si considera che la giurisprudenza ha riconosciuto la legittimazione a chiedere il risarcimento pure al padre ed ai fratelli del nato con anomalie.

Probabilmente, a rendere difficoltosa una soluzione condivisa della vicenda è la particolare struttura dell’illecito de quo.

Presupposto di base è la colpa diagnostica del medico, il quale omette di rilevare un’anomalia del feto e di informarne i genitori.Si tratta, perciò, di un classico illecito omissivo e, quindi, la struttura omissiva dell’illecito si riflette sull’accertamento eziologico, che deve ricorrere al modello ipotetico controfattuale. Pertanto, con riguardo alla ripartizione dell’onere della prova in ordine al fatto che la madre avrebbe abortito, se debitamente informata dell’esistenza di gravi malformazioni del feto, la sequenza causale va ricostruita “come se” il medico avesse eseguito l’accertamento necessario e “come se” avesse informato i genitori dell’alterazione che ne veniva evidenziata.

L’eziologia controfattuale investe l’opzione della gestante per l’interruzione della gravidanza.

Nella giurisprudenza l’onere di dimostrare la sussistenza del nesso causale è tendenzialmente posta a carico della donna e la gravità della malformazione fetale non è ritenuta indizio sufficiente a fare presumere che essa avrebbe optato per l’aborto, giacché si reputa irrazionale gravare il medico della prova di un fatto negativo e vicino alla controparte e si vuole evitare che il giudizio risarcitorio per nascita indesiderata si trasformi in una vicenda indennitaria “para-assicurativa”.

Questo orientamento è, però, non del tutto conforme ai costanti indirizzi di legittimità sulla distribuzione dell’onere della prova e sulla struttura delle presunzioni semplici.

Il criterio di vicinanza della prova non attiene alla circostanza che il factum probandum risieda nella sfera materiale di una parte o dell’altra, ma si ricollega al migliore accesso alla prova che una parte abbia rispetto all’altra. Diviene possibile affermare, allora, che non basta che la salute in pericolo e l’opzione abortiva interessino la donna per sostenere che la relativa prova sia ad essa vicina, poiché onerarla di provare le reazioni che avrebbe avuto e le decisioni che avrebbe preso durante la gestazione equivale a renderle difficile, se non impossibile, l’esercizio dell’azione risarcitoria. Al contrario, è il medico, soggetto tecnicamente qualificato, in grado di dotarsi di appositi protocolli operativi, ad avere migliore accesso alla prova, in quanto può stimare i rischi clinici della gestante nelle diverse eventualità e verbalizzarne le decisioni prospettiche in occasione della manifestazione del consenso informato, fra cui la volontà abortiva.

Quanto alla struttura delle presunzioni semplici, essa non richiede che il fatto ignoto sia legato al fatto noto da un vincolo logico assoluto ed esclusivo, bastando un legame basato su criteri di normalità e massime di esperienza, poiché è presumibile che la donna, tempestivamente informata, avrebbe scelto di interrompere la gravidanza secondo l’id quod plerumque accidit.D’altronde, l’imputazione per nascita indesiderata si fonda sulla colpa professionale e la necessità della prova controfattuale e i rischi impliciti nella prova ipotetica non dovrebbero trasferirsi sulla parte incolpevole, anche perché, altrimenti, l’accertamento causale nella responsabilità medica migrerebbe verso il modello penalistico della prova oltre il ragionevole dubbio, deviando dal modello civilistico del “più probabile che non”[18].

Seguendo questa impostazione pure il figlio avrebbe l’onere di provare la rilevanza eziologica dell’omissione colposa, quale elemento costitutivo della pretesa risarcitoria e. dunque, che la gestante, informata delle rilevanti anomalie del feto, avrebbe subìto un grave pericolo per la salute ed avrebbe fatto ricorso all’aborto terapeutico.

Ne consegue la non pertinenza del richiamo alla vicinanza della prova in favore del medico, considerato che tale richiamo, opinabile quanto alla madre, non potrebbe valere per il figlio, esterno alla sfera psicofisica e volitiva della genitrice.

In base alle regole sulla causalità omissiva, quindi, l’omissione informativa del medico è l’unica causa dell’handicap del nato. L’obbligo diagnostico del sanitario, infatti, sia esso obbligo specifico ex contractu od obbligo generico ex lege Aquilia, è finalizzato ad evitare una tipologia di eventi che include anche la nascita malformata incompatibile con la salute della gestante, cosicché questo evento va imputato all’omissione diagnostica quale «concretizzazione del rischio» che la norma di condotta, specifica o generica, tendeva a prevenire. Più complesso è, invece, considerare concausa giuridica l’originaria patologia fetale, essendo un mero dato di natura che, appunto, rileva esclusivamente per la causalità naturale, mentre la mancata opzione abortiva della gestante non incide sul collegamento eziologico poiché causata dall’omissione informativa del medico (causa causae est causa causati).

Ulteriori dubbi riguardano più nello specifico la posizione del nascituro.

Egli non ha diritto, per la S.C., al risarcimento poiché la vita, seppure malformata, non può essere intesa, a pena di contraddizione, una perdita rispetto alla non vita, che neppure può essere considerata un bene. Il problema non concerne l’affermazione in sé, ma il suo fondamento logico, rinvenuto in primis proprio nel principio di non contraddizione. Infatti, presupposto per riconoscere o negare tutela giuridica è che l’interesse leso abbia un valore o, meglio ancora, che quanto perso a causa di un illecito abbia un valore che superi quello della situazione che ne è conseguita.

Nella specie, l’affermazione che la non vita non è un bene e vale meno della vita malformata sembra più una petizione di principio che una conseguenza dell’analisi del diritto vigente. Da un punto di vista solo logico, infatti, pure la conclusione opposta potrebbe essere accolta, poiché nulla impedisce che un ordinamento privilegi la non vita alla vita malata, dovendosi partire dall’assunto che, sul piano teorico, vita e non vita non hanno in sé un valore o, meglio ancora, che non è possibile ritenere l’una ontologicamente superiore all’altra, in assenza di una norma in tal senso.

  D’altronde, anche in ottica sociologica ed antropologica la tesi seguita dalle Sezioni Unite non gode di unanimità di consensi e l’impostazione favorevole al nascituro è stata riconosciuta in passato dalla giurisprudenza non solo italiana (si pensi, ad esempio, al famoso affaire Perruche, deciso dall’Adunanza plenaria della Corte di cassazione francese il 17 novembre 2000)[19].

In realtà, la scelta qui esaminata della Cassazione italiana avrebbe dovuto fondarsi o sul riconoscimento di un vasto consenso sociale in ordine al maggiore valore della non vita sulla vita malata, oppure sull’individuazione di una scelta normativa del legislatore. Peraltro, la stessa corte di legittimità non esamina in maniera troppo approfondita il primo profilo, nonostante attualmente possa forse ritenersi piuttosto diffusa, nella società, una tendenza a leggere la responsabilità civile in maniera sanzionatoria delle condotte mediche non conformi ai canoni professionali e a riconoscere la necessità che i soggetti deboli, come il nato malformato, venuti ad esistere in conseguenza (benché indiretta) di una condotta colposa del sanitario, ricevano una tutela risarcitoria, se non per ragioni equitative, in conseguenza della diffusa convinzione della assoluta inadeguatezza del sistema di assistenza sociale italiano, correlato alla crisi del nostro welfare.

Altro aspetto che forse è stato sottovalutato concerne il diritto di autodeterminazione della madre che, nella nostra società, è inteso ormai come una posizione soggettiva assoluta, i cui effetti, quando non la titolarità, sono estesi a tutti i membri del gruppo familiare, compreso il figlio malato.

Non si vuole affermare l’esistenza nel nostro ordinamento di un diritto ad essere felici, ma certo l’esigenza che la serenità di un gruppo familiare non sia lesa da un errore medico grave è sentita e la scelta di porne a carico della collettività e non del professionista gli effetti genera perplessità.

Probabilmente la decisione della Suprema Corte risente della lettura della posizione giuridica della donna durante la gravidanza, non intesa forse come un diritto soggettivo pieno.

Il ragionamento della Corte di cassazione trova, poi, poco sostegno nella normativa vigente.

Infatti, non può affermarsi che il legislatore abbia con chiarezza optato per dare la precedenza alla vita rispetto alla non vita, qualora la prima sia pesantemente compromessa, ma, al massimo, che abbia mantenuto un atteggiamento neutrale; non vanno ignorati, poi, gli eventuali futuri sviluppi del nostro ordinamento in tema di assistenza al suicidio e di eutanasia. L’esito giurisprudenziale de quo, che ha negato il diritto del nascituro al risarcimento, non è di per sé, dunque, insostenibile, ma il suo supporto motivazionale è ricollegato, in dottrina, ad una visione non attuale della società italiana[20].

Esso suscita delle perplessità pure sul piano strettamente logico perché la Corte di cassazione ha riconosciuto, comunque, l’astratta legittimazione attiva del nato malformato, per poi, però, negare in radice che egli possa agire contro il medico, il che mal si concilia con l’affermazione che la vita, benché menomata, sia sempre preferibile alla non vita. In pratica, se si è legittimati a fare valere la lesione di un diritto, la domanda può essere rigettata ove infondata, ma non perché tale lesione non può configurarsi in via assoluta, questo esito essendo più coerente con l’affermazione, da subito, della non esistenza tout court del diritto vantato. Perciò, se si sostiene che non esista un diritto a non nascere se non sani, non può prospettarsi una legittimazione del minore.

Diverso sarebbe il discorso ove il diritto azionato fosse, al contrario, quello a nascere sano, coincidendo questo con il diritto alla salute, situazione giuridica certo esistente in capo al nato malformato, che porterebbe in comparazione non la non vita rispetto alla vita non sana, ma la vita non sana in rapporto a quella sana. Così ragionando la dottrina afferma che dal riconoscimento della legittimazione attiva del figlio portatore di handicap conseguirebbero l’esistenza teorica del diritto vantato e il problema del suo accertamento nel merito. Il giudice dovrebbe, allora, verificare se gli antecedenti logici della situazione non sana dell’attore si sono verificati e, nello specifico, se, a causa dell’omissione del sanitario, la madre non ha optato, come avrebbe fatto in caso contrario, per l’aborto. Secondo questa impostazione, fornita la prova certa della volontà della genitrice di interrompere la gravidanza, vi sarebbe la possibilità di riconoscere il risarcimento richiesto[21].

È singolare, peraltro, che la giurisprudenza, nel negare tutela al nato malato, riconosca un risarcimento a suo padre e ai suoi fratelli che possono agire prospettando di essere stati lesi, ad esempio, nel diritto alla paternità responsabile o in quello alla serenità familiare. Infatti, stando così le cose, (pure l’estensore della sentenza in esame fa trasparire, in motivazione, dubbi su questo orientamento, ad oggi seguito dalla S.C.) il padre ed i fratelli sono risarciti per il pregiudizio patito a causa dell’esistenza del portatore di handicap, mentre proprio chi tale pregiudizio ha generato non è tutelato perché la sua situazione sarebbe per principio preferibile alla non vita. 


[1] Per una approfondita disamina della tematica, si rinvia a Rossetti M., Il danno da nascita indesiderata, in Libro dell’anno del Diritto, 2014.

[2] Cass., n. 10014 del 25 novembre 1994, in Foro it., 1995, I, 2913, con nota di Scoditti E., Chirurgia estetica e responsabilità contrattuale, nonché in Nuova giur. civ. comm, 1995, I, 937, con nota di Ferrando G., Chirurgia estetica, «consenso informato» del paziente e responsabilità del medico.

[3] Cass., n. 11316 del 21 luglio 2003.

[4] Cass., n. 2354 del 2 febbraio 2010.

[5] Cass., n. 16754 del 2 ottobre 2012.

[6] Cass., n. 15386 del 13 luglio 2011.

[7] Cass., n. 10741 dell’11 maggio 2009.

[8] Cass., n. 6735 del 10 maggio 2002.

[9] Cass., n. 15386 del 13 luglio 2011.

[10] Cass., n. 12195 del 1° dicembre 1998.

[11] Cass., n. 6735 del 10 maggio 2002.

[12] Cass., n. 22837 del 10 novembre 2010.

[13] Cass., n. 13 del 4 gennaio 2010.

[14] Cass., n. 20320 del 20 ottobre 2005.

[15] Per l’esattezza, secondo tale decisione il nato malformato ha diritto ad essere risarcito da parte del sanitario con riguardo al danno consistente nell’essere nato non sano, avendo egli interesse ad alleviare la propria condizione di vita impeditiva di una libera estrinsecazione della personalità, senza che rilevi né che la sua patologia fosse congenita, né che la madre, ove informata della malformazione, avrebbe verosimilmente scelto di abortire.

[16] Gorgoni M., La sentenza: pioggerella sul danno da nascita indesiderata, in Responsabilità civile e previdenza, 2016, 1, 165 ss.

[17] Bilò G., Nascita e vita indesiderata: i contrasti giurisprudenziali all’esame delle Sezioni Unite, in Il corriere giuridico, 2016, 1, 50-51.

[18] Cass., n. 576 dell’11 gennaio 2008; Cass., n. 16123 dell’8 luglio 2010; Cass., n. 3390 del 20 febbraio 2015.

[19] Bona C., Sul diritto a non nascere e sulla sua lesione, in Foro it., 2016, 507-508.

[20] Bona C., Sul diritto a non nascere e sulla sua lesione, in Foro it., 2016, 509-510.

[21] Russo M., Omessa informativa sulle condizioni per l’interruzione della gravidanza: spunti in materia di legittimazione e prova, in Giur. it., 2016, 1395-1397.