Il giudice ragazzino

Quando Rosario Livatino venne ucciso, il 21 settembre 1990, aveva 38 anni.

Dopo oltre un decennio di attività come magistrato aveva ormai una più matura esperienza del lavoro di pubblico ministero e di giudice, della “giustizia”, del rapporto fra le persone e le carte dei fascicoli processuali.

C’è una giustizia che non appare, quella del lavoro fatto giorno per giorno, fra mille ostacoli, difficoltà, carenza di mezzi e di strutture, dove solo la consapevolezza dell’essere Istituzione, il senso del dovere, l’amore per la propria terra, la volontà di contribuire a una giustizia “giusta”, motivano l’andare avanti, nonostante i risultati vengano vanificati da disordinate e improvvide riforme legislative e gli ostacoli sorgano già negli uffici giudiziari.

Livatino così descriveva il suo modello di magistrato: «È importante che egli offra di se stesso l’immagine non di una persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di una persona seria, sì, di persona equilibrata, sì, di persona responsabile pure; potrebbe aggiungersi, di persona comprensiva e umana, capace di condannare ma anche di capire». Ve ne sono di magistrati così, capaci di coniugare l’autonomia e la responsabilità, in grado di trasmettere fiducia al cittadino, rispettandolo e mostrando dell’istituzione il volto autorevole e non solo autoritario.

E Livatino coglieva nel 1984 il pericolo di un magistrato burocratizzato e riferendosi alla responsabilità civile del giudice evidenziava “l’effetto perverso fondamentale che può annidarsi nella proposta di responsabilizzare civilmente il giudice: essa punisce l’azione e premia l’inazione, l’inerzia, l’indifferenza professionale. Chi ne trarrebbe beneficio sono proprio quelle categorie sociali che, avendo fino a pochi anni or sono goduto dell’omertà di un sistema di ricerca e di denuncia del reato che assicurava loro posizioni di netto privilegio, recupererebbero attraverso questa indiretta ma ancor più pesante forma di intimidazione del giudice la sostanziale garanzia della propria impunità”.

Certo al magistrato vengono attribuite le lentezze del processo, l’incomprensibilità delle leggi e della sua applicazione, gli esiti alterni dei giudizi, quasi come se tutte le colpe dovessero addebitarsi a chi deve dare ragione e torto e, dunque, necessariamente scontentare qualcuno.

La legge non può dare ragione a tutti e il magistrato la applica.
Livatino, e con lui tanti altri magistrati, aveva una silenziosa ansia di giustizia motivata e nutrita dal desiderio di restituire dignità e diritti alle persone in una terra dilaniata dalla criminalità organizzata, massacrata dal giogo della pretesa mafiosa sull’economia .

Nonostante tutte le difficoltà operative e le riforme ordinamentali, anche punitive nei confronti della magistratura, la magistratura deve continuare a esercitare il diffuso controllo di legalità che la Costituzione le assegna. I magistrati devono essere ciò che la Costituzione chiede loro di essere: autonomi, indipendenti, soggetti solo alla legge e liberi da condizionamenti, impegnati con serietà e diligenza nel proprio lavoro, che è per lo più ordinario e lontano dalle cronache, senza rinunciare a farlo con spirito e cuore straordinari.

Così vogliamo ricordare Rosario Livatino.

La Presidenza e la segreteria Unicost