Il linguaggio giuridico femminile

Intervento di Silvia Cecchi al Convegno 9.3.2018, Università di Bergamo

Il principio femminile della giustizia.

 Premessa

1-Il tempo a disposizione mi consente solo alcune riflessioni sul tema, che saranno per necessità concise, scaturite a margine della mia esperienza giudiziaria quotidiana, e non da studi di linguistica o lessicografia o di storia e antropologia del linguaggio. Un ‘balbettio’ che col tempo inizia a farsi ‘discorso’.

Sono tuttavia al corrente del dibattito e degli studi specialistici che da due-tre decenni, ma soprattutto negli anni recenti, sono fioriti sul tema:  in particolare sul tema della femminilizzazione di nomi, e soprattutto dei nomi di mestieri, professioni, titoli (con riferimento in particolare a quelle professioni a cui le donne hanno avuto accesso più recentemente e quindi non rilevate sul piano del linguaggio) e del cosiddetto maschile ‘inclusivo’ (quello plurale, ma anche quello singolare). Studi che attestano la matrice maschile-patriarcale del linguaggio occidentale in generale e che propugnano una sua apertura al femminile sono nati e coltivati in America, in Francia, in Germania, in diversi Paesi europei, anche in Italia[1]. A sostegno di questo movimento culturale è addotta l’esigenza di una visibilità e ‘autonomia’ del femminile anche sul piano simbolico per eccellenza, che è quello del linguaggio.

Sono al corrente anche delle numerose critiche mosse a tale rivendicazione. Fra le critiche più frequenti: operazione forzata, artificiale, inutile, spesso cacofonica, talora ridicola, che guarda alla forma e non alla sostanza dei problemi (‘meglio parificare i salari’, scrive un giornalista in un recente articolo su L’Espresso, affrontando il tema) e altre.

Dato per inteso e condiviso che tutto vuole misura, mi sono posta la questione in termini ‘rovesciati’: perché ancora oggi, se domandiamo a una valente professionista (che faccia professione di avvocato, di commercialista, di magistrato, di ingegnere, architetto od altra) anche sensibile alla causa femminile e sinceramente sostenitrice delle qualità professionali femminili in tutti questi campi, con quale appellativo preferisca essere chiamata, quasi sempre risponderà: io personalmente preferisco che il cliente mi chiami dottore, avvocato, giudice, architetto?.. magari lo ammetterà in privato e non lo dichiarerebbe in pubblico, ma posso assicurare che questa è la risposta più frequente fra le professioniste di età ma anche fra le giovanissime.

E poiché credo che l’essenza delle questioni più indigeribili si lasci cogliere meglio in controprova, devo prendere atto che una donna che voglia sentirsi riconosciuta nel proprio più alto valore professionale, preferisca tutt’oggi sentirsi appellare al maschile. Come se lo stesso titolo, declinato al femminile, perdesse qualcosa, subisse un tanto di diminuzione, una certa degradazione. Il registro più alto, da cui ciascuno ma anche ciascuna di noi si attende il riconoscimento più elevato, resta declinato al maschile.

Ma allora, tornando al dritto del discorso, passati come siamo per il suo rovescio –  comprendiamo meglio che la rivendicazione di una femminilizzazione del (o parte del) linguaggio, assume il significato di disvelare una minorazione che ancora accompagna il femminile come tale. Una lieve ‘zoppìa’ a cui si propone di porre rimedio, educando già sul piano linguistico alla cultura della differenza come valore, al riconoscimento della pari dignità fra professioni esercitate da ambo i generi. In altre parole, un’operazione di ‘ortopedia’ linguistica e culturale. Ed ecco che la futilità espressa in modo più o meno garbato dalle critiche a questo livello di rivendicazione, perde la sua ragion d’essere.[2] 

Sembra che ancora la professionista senta il bisogno di un travestimento, anche solo linguistico, come ai tempi di Porzia de Il mercante di Venezia di Shakespeare[3].

Va da sé che l’operazione ha un senso dove e fin dove possibile e dove significativa. La selezione di ambiti e termini, non potendosi immutare geneticamente una lingua a manifesta matrice e storia maschile-patriarcale, è la prima operazione da compiere, per raggiungere i risultati perseguiti, senza eccessi.

Se questo è vero, ci rendiamo conto come abbia senso parlare anche di una ‘politica del linguaggio’. Ci ricorda Raffaele Simone, dalle pagine di L’Espresso, che recentemente Donald Trump[4] ha disposto che negli atti del CdC (Center for Desease Control, la massima autorità sanitaria del paese) debbano sparire parole come ‘feto’, ‘transgender’, ‘diversità’, ecc..: qualche esempio di cosa dobbiamo intendere per ‘politica’ del linguaggio, che neutro mai dunque è, in nessun ambito, e perché dovrebbe esserlo nel nostro, dietro alle irrisioni di chi volesse sostenere il contrario?

Perché il linguaggio è pensiero, visione del mondo, idea e rappresentazione del mondo al tempo stesso. Sottende un compendio assiologico, rappresenta l’ordito leggibile sul rovescio della tessitura dei rapporti sociali e normativi. Dunque è anche politica, e nel nostro caso, fondamento di identità (come accade per l’idioma dialettale), salvaguardia delle differenze e del valore di esse come tali e del confronto fra loro, arricchimento contro l’omologazione, contro una reductio ad unum. Chi teme l’omologazione dei caratteri sessuali, perché non teme anche l’omologazione dei tratti connotativi linguistici?

Giustamente Adriana Cavarero scrive (scriveva, nel 1999): “La donna non ha ancora un vero linguaggio suo, utilizza il linguaggio dell’altro. Non si autorappresenta nel linguaggio, ma accoglie con esso le rappresentazioni di lei prodotte dal maschile. La donna parla e pensa, si parla e si pensa, ma non a partire da sé”.

Del resto la battaglia legislativa per la conservazione del cognome materno (vinta in buona parte, anche se solo recentissimamente, dopo essersi più volte arenata), affinché la donna madre possa trasmettere (anche) il proprio cognome ai figli da lei nati, significa non accettare che la donna diventi estranea alla propria stessa prole, che lei stessa educa (spesso in modo prevalente, talora esclusivo). Non è rivendicazione idealmente diversa a quella di una declinazione del linguaggio secondo genere, laddove ciò occorra e sia davvero significativo. Giustamente è stato osservato (nel mio caso fu un’osservazione di mio padre) che non vi è grande differenza tra il velo musulmano sul volto femminile e una legge che escluda dall’ordine simbolico del cognome anagrafico la madre rispetto ai proprii figli. Anche in questo caso scende un velo cancellatore sulla donna che viene esclusa simbolicamente dalla continuità genealogica marcata dal cognome. Storia famigliare e genealogia discendono, lo sappiamo, dal cognome e non dal prenome. Così, poco dopo i vent’anni, mia figlia ha aggiunto il mio cognome all’onorato cognome paterno.

Non si tratta neppure in realtà di farne una battaglia, sì invece del legittimo e doveroso riconoscimento di un diritto. Si tratta di prendere coscienza di fatti e della loro portata culturale: la valorizzazione delle specificità e delle differenti identità dei generi; la consapevolezza del contenuto valoriale di cui ciascuno di essi è portatore; la convinzione che la dialettica fra le due polarità distinte e riconosciute anche linguisticamente sia un fattore di civiltà e di arricchimento culturale. Forma e sostanza in questa prospettiva coincidono.

Quanto detto naturalmente ha un senso se crediamo che esista un principio femminile in generale e che esista un principio femminile nella giustizia. Aggiungo per inciso che il ‘diritto’ si presenta oggi come una sorta di ultima filosofia della modernità e ciò aggiunge una speciale rilevanza al tema in discorso.

Quest’ultimo principio è di origine assai antica, certo più antico di Sofocle, con cui noi tuttavia lo identifichiamo generalmente ed elettivamente attraverso la figura di Antigone, facendone una sorta di mito fondatore.

Del o di un ‘principio femminile’ nella giustizia hanno scritto molti pensatori o filosofi (anche) del diritto, da Hegel a Bloch (il Mutterrecht), da Spinoza a Italo Mancini, da Paul Ricoer a Zagrebelsky, da Luce Irigaray a Cristina Campo o ad Adriana Cavarero, e così avanti.

Ne hanno scritto molte giuriste contemporanee, citando o riferendosi a un principio femminile di giustizia nelle pieghe della narrazione della loro esperienza biografica, molte di esse magistrate (accanto al ‘diario di un giudice’ di Troisi, oggi abbiamo per esempio il ‘diario di una giudice’ di Gabriella Lucciòli, il diario autobiografico di Paola de Nicola, gli scritti di Donatella Stasio ecc. ). Vi è dunque una lunga e plurisecolare elaborazione teorica della questione.[5]

Spiegare in che cosa esso consista può dirsi sotto molteplici aspetti, più specifici e meno specifici.

In senso lato e non solo giuridico (ma con accezione assai rilevante nell’esercizio concreto della giurisdizione) può dirsi che i due principii si colgono nella contrapposizione tra l’attenzione all’individuale (concreto, storico, reale, corporeo: ai volti dell’uomo), da un lato, ela presidenza del dettato generale delle leggi, dall’altro; tra relazione-intuizione-empatia-sentimento eastrattezza, settorializzazione, tendenza alla sistematizzazione, alla strutturazione organizzata dei concetti; tra l’ordine ideale del ‘compiere un servizio’ in vista di un risultato concreto positivo el’ordine ideale del potere; tra razionalità concreta erazionalità ideal-astratta; tra la cura dei particolari, ascolto[6]e l’accelerazione, il taglio del narrato, la semplificazione dei processi di acquisizione, valutazione delle prove e del processo decisionale. Schematizzando fino alle implicazioni ultime: nella contrapposizione tra un ideale agonico/oppositivo/binarioe un ideale compositivo-mediativo; tra guerra e pace.

Ma, uscendo dalle schematizzazioni estreme (c’è sempre del femminile e del maschile in ognuno di noi) è stato scientificamente e universalmente accertato che un approccio affettivo-intuitivo giovi alla comprensione più profonda delle persone, all’intelligenza dei fatti, alla conoscenza: per questo tali doti, più vocazionalmente attribuite e riconosciute al femminile, si rivelano di primaria importanza[7], in quanto chiave di comprensione profonda di persone e fatti, soprattutto o anche nell’esercizio della professione giudiziaria.

Questa è la lezione di Antigone: la pietas contro la majestas; il potere delle relazioni, del legame di sangue, del sentimento contro la resa obbedienza alla sovranità delle leggi (fiat iustitia, pereat mundus); il principio di tutela dell’altro, di responsabilità per l’altro, di custodia dei rapporti famigliari e sociali, l’attitudine ad essere garante delle relazioni.  Dove il maschile salva il principio, il femminile salva la persona, l’essere vita. Dove il maschile drasticamente totalizza e sacrifica l’individuale al principio astratto, per il principio femminile l’altro è sempre una totalità: non si dà lo scambio metonimico tra parte e tutto (come accade nella sovrapposizione dell’atto criminale alla persona del suo autore nel momento di applicare una pena totalizzante, com’è la pena carceraria); femminile è la ricerca delle ragioni del salvare contro le ragioni della eliminazione-soppressione. Derivazione del principio femminile è allora anche la scelta costituzionale della finalità rieducativa della pena.

Il fondamento della responsabilità penale si viene sempre più spostando verso la violazione di un dovere di relazione, affrancandosi in grande parte dalle distrette di un dolo inteso in senso endopsichico individuale, passandosi così da un’etica strettamente individuale a un’etica relazionale. Si è così venuta demarcando in modo ancora più evidente la dualità ontologica tra colpa-responsabilità e pena: si è disvelata in tutta la sua evidenza e talora drammaticità il diverso statuto tra il malum culpae (sempre a sfondo etico, e tendenzialmente parziario), e il malum poenae(sempre fisico, prima che morale e sempre totalitario). 

Già nella intuizione di Spinoza non esiste un ‘male in sé’ bensì un male (e un bene) rispetto all’altro(persona, animale, pianta o cosa). Il male dunque non è nelle cose, ma nelle loro relazioni”Nessuna cosa è cattiva in sé stessa, essa non lo diviene se non quando danneggia un altro o lo distrugge”(Etica -Ethica ordine geometrico demonstrata- , IV, Pref.: prefazione).  Male e bene si presentano allora come categorie ontologicamente relazionali, ed etiche nella misura in cui l’etica stessa sia pensata in una sua fondazione relazionale.

E poiché la relazionalità appartiene precipuamente al dominio del femminile (per vocazione, naturalità e cultura), al principio femminile dobbiamo se la categoria della relazionalità sempre di più oggi si viene candidando a colonna portante della responsabilità, con tutto ciò che ne consegue sul piano della costruzione dogmatica del reato  e sul piano della teoria o filosofia della sanzione penale.[8]

La schematizzazione valga dunque e solo a meglio evidenziare come il principio femminile rappresenti una potente mitigazione, un correttivo rispetto ai caratteri di astrattezza e generalità del diritto (di derivazione illuministico- positivistica, razionalistica ma anche di derivazione idealistica), pur concorrenti rispetto al fine di assicurare uguaglianza, universalità, certezza e ritualità nella celebrazione dell’evento processuale.   

Se guardiamo alla evoluzione del diritto positivo- e penso sia al diritto civile (biodiritto; diritto del lavoro, diritto di famiglia; diritto dell’ambiente, tutela degli animali, ecc..) sia al diritto penale (che più appartiene alla mia esperienza) dobbiamo riconoscere che la trasformazione continua della legislazione nell’ultimo secolo si è mossa proprio nella direzione additata da valori idealmente riconducibili al principio femminile.

Una digressione – che digressione non è, ma verifica alla prova dei fatti- : se ci domandiamo come la donna magistrato si sia comportata e si comporti per lo più nell’attività professionale, dal 1963 (anno dell’ammissione della donna in magistratura) fino ad oggi, dobbiamo riconoscere senza timore di smentita che la donna ha dato e continua a dare grande prova di flessibilità, concretezza, versatilità, laboriosità, attenzione, buon senso, concretezza, misura, intuizione, pazienza, empatia. Ha saputo coniugare ammirevolmente ruoli diversi, restando garante dei rapporti famigliari come di quelli di colleganza. Ha dato prova al tempo stesso di un’alta razionalità, nel senso più completo della parola.

Mi sia consentito aggiungere ancora un’annotazione sulla differenza maschile-femminile: sia essa di natura culturale, biologica, antropologia, etologica o ideologico-politica, senza dubbio essa ha una radicazione esperienziale: la donna è richiesta di gestire una pluralità fluida di ruoli, di passare con flessibilità dall’uno all’altro, la donna è soprattutto garante delle relazioni interpersonali, siano esse famigliari, di sangue o ambientali e sociali con cui viene a contatto, che le sono affidate o di cui si fa carico; da questo ruolo di garante delle relazioni discende la sua specifica responsabilità.

Naturalmente ciò vale in linea di tendenza e di principio, là dove la donna ha salvaguardato il principio femminile che è in lei, l’ha riconosciuto e ha scelto di attuarlo e valorizzarlo.

Tutte noi (il processo si va modificando con il passaggio generazionale) siamo transitate da una stagione di ricerca di adeguamento al modello maschile, nell’ansia di dimostrare di saper fare come l’uomo, dall’aspirazione cioè alla parità, alla fase della differenza e della scoperta del suo valore. Laddove lasciavamo fuori dall’esercizio della professione tutto il nostro ‘privato’ di madri, mogli, figlie, persone garanti di rapporti, oggi recuperiamo ciò che può e deve essere recuperato di questa nostra ‘seconda’ vita all’interno della prima.

Purtroppo l’esperienza dimostra anche come tante donne siano cadute nella trappola mimetica, facendo proprie modalità maschili persino sul piano del linguaggio: la questione è tutt’altro che risolta anche nella componente femminile della magistratura. 

2-Una volta presa consapevolezza ed accettata l’esistenza e la portata di un ‘principio giuridico femminile’, possiamo tornare alla questione del linguaggio, e cioè al correlato linguistico di questo principio e della polarità che ad esso corrisponde e così possiamo forse comprendere meglio il senso profondo del nostro discorso.

Ho provato ad articolare più livelli sui quali la differenza maschile-femminile si lascia cogliere ed apprezzare nell’esercizio in concreto della attività giudiziaria:

1)  il piano terminologico, della formulazione della norma, della classificazione e nosografia legislativo-normativa[9];

2)- il piano della interpretazione della norma[10]: dove il linguaggio svolge un ruolo determinante, sia come ermeneutica del dettato normativo sia come nella descrizione verbale del fatto storico che si riconduce alla norma. La norma non è un a-priori immobile ma deve rendersi flessibile nel chinarsi sul fatto.

E’ sul piano del linguaggio che viene attuata l’operazione di incontro tra norma e fatto, tra norma e storia, l’impatto tra norma e realtà vivente.

Ancora una volta il linguaggio è pensiero, visione del mondo, interpretazione, individuazione del senso profondo di un accadimento.

Su questo livello io credo che sia stato e sia grande l’apporto della presenza femminile in magistratura.

Non si può non menzionare a questo proposito, fra gli altri esempi (la considerazione coinvolge tendenzialmente tutti i reati), il particolare approccio ai reati cc.dd. ‘di genere’ e dei reati infra-famigliari.

3) Ascrivo al ‘linguaggio femminile’ anche l’approccio e le modalità di conduzione dell’istruttoria, ove è possibile registrare una propensione femminile a dare più ampio spazio all’istruttoria condotta in prima persona, modalità di ascolto dei protagonisti della vicenda in esame ecc.; la donna magistrato in genere si mette in gioco in relazione diretta, in ‘presa diretta’, come usa dire. Meno propensa del collega uomo a delegare l’istruttoria. Nel rapporto diretto l’oralità si arricchisce della ‘vocalità’ (non sono la stessa cosa, come insegna l’esperienza e come spiegano studiose come Adriana Cavarero). La vocalità è inflessione, tono, timbro, ritmo. Voce e parola non coincidono. Poi c’è il linguaggio non verbale (decisivo nel bambino e nell’adolescente ma anche nell’adulto). La mimica, il linguaggio del corpo, gestuale, i silenzii, le lacrime e la loro eloquenza.

Il femminile si accosta ed esamina la persona offesa come un medico si rapporta al paziente.

Tutto ciò non è riconducibile direttamente o totalmente in una articolazione solo logica del pensiero. La razionalizzazione è uno stadio successivo che deve passare attraverso la percezione integrale (razionale-affettiva) della vicenda e dei suoi protagonisti.

Nel maschile prevale la volontà di chiarezza e di logica. Talora ciò costa una riduzione del fatto, sacrificato a un’eccessiva semplificazione nel nome della logicità formale della motivazione, il taglio tendenziale del narrato personale, il passaggio rapidissimo, precipitato dal dire al detto. La separazione della persona dalla sua storia (che non significa giustificarne la prolissità e avallare o tollerare l’indugio su particolari irrilevanti).

La grammatica del giudizio non può essere solo logico-formale. Anzi l’argomento solo logico comporta quasi sempre una mutilazione del caso, una perdita della sua intelligenza complessiva, talora un tradimento del senso profondo (storico, relazionale) in cui riposa la sua ‘verità’ giuridicamente e giudiziariamente rilevante. In altre parole il ‘giudizio’ non può accontentarsi di un sistema di pensiero logicocentrico (nel senso di esclusivamente concettuale e di organizzato a sistema). Quante volte ci si trova di fronte a sentenze che estraggano dalla narrazione orale solo l’argomento logico: propendo per ritenerle sentenze errate anche in diritto, non solo in fatto.

Sott’altro profilo: non vi è ‘pari opportunità nell’essere creduti’[11]. Un tanto di contraddittorietà insita nella deposizione della persona offesa donna sui fatti subiti viene speso qualificata come inattendibilità della sua testimonianza e minore credibilità soggettiva.

Occorre dare tempoalla narrazione; rispettare il silenzio, non affrettare o eliminare le pause delle risposte della persona offesa.

4) Un altro possibile livello del ‘linguaggio femminile’ è quello dei modelli dell’argomentazione giuridica e cioè dei modelli del ragionamento che conduce alla decisione. Mi sembra uno dei livelli di analisi più fecondi e che meriterebbe di essere approfondito.

Mi riferisco al linguaggio come modello logico-formale dell’argomentazione e del ragionamento.

Sotto quest’ultimo profilo, vale la pena rilevare come la presenza femminile in magistratura abbia sicuramente contribuito a decostruire schemi ritenuti da sempre granitici. Il sillogismo (il sillogismo giuridico: premessa maggiore – la norma-, premessa minore- il fatto- e conclusione – la decisione-), il procedimento deduttivo puro, ma anche il modello sussuntivo puro. Tali modelli sono per verità da anni entrati in crisi e sottoposti a serrata critica dalla dottrina giuridica oltre che nelle prassi giudiziarie. Penso agli studi ormai datati ma sempre illuminanti di Michele Taruffo (risalenti agli ormai lontani anni Settanta).

Oggi si tende (così anche Zagrebelsky), seppure non unanimemente, a superare sia il sillogismo sia la sussunzione a favore di un modello interpretativo ‘misto’ per cui la norma discende dalla sua astrattezza per venire incontro al fatto nella sua concretezza.

Il ‘femminile’, nell’accezione sopra indicata, tende a utilizzare procedimenti misti: induttivi e deduttivi insieme, sussuntivi del fatto nel tipo giuridico senza sacrificare particolari essenziali del fatto.

Spesso anche i modelli logico-giuridici utilizzati nella motivazione di una sentenza si lasciano interpretare secondo ‘genere’. Il ‘pensiero maschile’ predilige e si compiace della motivazione che tiene interamente sotto l’aspetto logico e che si regge su logica interna, che fa apparire la sentenza inattaccabile.

Spesso però tale sentenza tradisce la propria astrattezza dal fatto storico, la propria distanza, la non aderenza alla sostanza del fatto su cui decide.

Alcuni paradigmi logici piacciono molto all’uomo, tanto da ritenere che il diritto possa essere assimilato ad una scienza. L’informatizzazione e la predisposizione di ‘maschere’ o modelli precostituiti di articolazione del discorso e degli argomenti favorisce questa componente di logicità e organizzazione logica di facciata. Possiamo così trovarci di fronte a sentenze di buona fattura e pessimi giudici ( o pessime decisioni).

La donna magistrato propende per un modello argomentativo più induttivo che deduttivo. O meglio combina i due movimenti dalla norma al fatto e dal fatto alla norma con competenza, disinvoltura, naturalezza, pertinenza e sensibilità alla norma e sensibilità al fatto. Fatto e norma vanno ‘sentiti’, palpati da una sapienzialità difficile da formarsi sia nell’uomo che nella donna, ma indispensabili al ben giudicare.

Gioverebbe l’introduzione di esempi concreti tratte da sentenze emesse e dalla analisi della loro parte motiva. Il femminile con teme momenti di (apparente) contraddizione. Non affida la bontà di una decisione alla sola logicità interna e ‘autarchica’ o astratta della sua motivazione. Non è disposta a lasciar fuori dalla sentenzatranche de vie, o di fatti e di accadimenti, o di dichiarazioni. Non ragiona secondo logica, in genere binaria, di opposizione, estrema sintesi, semplificazione. Cerca di conservare e far salvo il più possibile il fatto nella sua vivente interezza.

5) il piano della interpretazione del proprio ruolo, inteso più come servizio che come potere. Ciò non significa che la donna magistrato non sia consapevole della componente autoritativa dell’esercizio della giurisdizione. Solo che sa funzionalizzare il potere-autorità e combinarlo con il senso del ‘servizio’. 

6) il piano (conseguenza del punto precedente) della organizzazione del proprio lavoro: il femminile propende per la disposizione più orizzontale o ‘a rete’ che non per la disposizione piramidal-gerarchico; interpreta l’assetto dell’équipe lavorativa in senso più dialogico che non di trasmissione potestativa di regole di condotta, pur mantenendo il principio di autorità e ferma restando la gerarchia delle funzioni. Lo stesso ampio ricorso ai protocolli sono espressione di un modello di lavoro che privilegia la struttura ‘a rete’ rispetto a quella gerarchica verticistica. Il femminile propende per l’assunzione delle decisioni in forma collegiale.

7) Da ultimo: il piano del linguaggio comune, nel corso del lavoro. Linguaggio come lessico comunicativo quotidiano e interpersonale in senso generico.Aspetto a mio parere molto sintomatico e molto importante, anche ai fini del nostro discorso.

Ancora una volta il linguaggio è pensiero.

Va premesso che all’idea e alla prassi del potere (a cui spesso il magistrato uomo riconduce più spesso l’esercizio della giurisdizione) il maschile associa una forte componente di aumentato prestigio sessuale. Ciò significa che il potere è pensato come attributo di chi lo incarna, a scapito della sua funzionalizzazione finalistica.

L’associazione a simboli sessuali (di sessualità maschile) provoca un feed-back sull’esercizio del potere giudiziario fortemente connotato dalle componenti deteriori della sessualità maschile e del potere.

Di qui un gergo espressivo di sopraffazione, competitività, oppositività, soppressione: “quello mi ha rotto i c…” ; ” Gliel’ho messo in quel posto…” “Il giudice non ti ha accolto la richiesta di misura? Tu fregalo!” “; “se non lo freghi prima tu ti frega lui”… ecc… (espressioni rivolte  a un collega, a un avvocato, a un denunciate, a un indagato..ecc. ). O ancora: “sbattilo dentro”, “è un fetentone”, “è feccia, che cosa te ne frega…” “diamogli una lezione”, “con tutta la fatica fatta per metterlo dentro, teniamolo dentro ancora un po’..” “quell’animale; che c. .. crede di fare? ” [12]

La situazione linguistico-comunicativa si aggrava se riflettiamo che nel nostro mestiere, sempre più manageriale (in cui, come in altri campi di attività, tende a dominare il vocabolo o il sintagma in lingua inglese, mutuati dal mercato e soprattutto dai mercati finanziari) il linguaggio prevalente e ‘gergale’ diventa sempre più quello della competizione dura; le mosse procedurali preferiscono la tattica, il conseguimento di un risultato quale che sia per le vie più brevi; vince chi gioca meglio e con più cinismo. Vince chi gioca duro o basso, non risparmiando colpi sotto la cintura.

I due stili lessicali, quello maschile-sessualizzato e il lessico cinicamente competitivo di derivazione neoliberista dunque e per giunta si coniugano, convergendo su un medesimo risultato.

Si aggiunga che tale lessico, già frequente nella comunicazione ordinaria, avviene in un ambiente fortemente gerarchico (come tutte le istituzioni nate ‘maschili’: esercito, apparati paramilitari o simil-militari ): non a caso viene fatto di definire tale linguaggio assai spesso come ‘linguaggio da caserma’. 

Alla parola, a questa parola ‘maschile’ riduttiva, sopraffattrice, oppositiva, a questi ‘colpi sotto la cintura’, che mira a sottomettere, far fuori, abolire il collocutore, il ‘femminile’ può e sa sostituire una parola unitiva, che collega, che apre uno spazio all’altro. La parola che muove dalla volontà di salvaguardare/salvare anziché eliminare. Un linguaggio concreto, affettivo, relazionale, r-iumanizzatore. L’intelligenza dell’altro: in ogni ambito: penale, civile, famigliare. La ricostruzione della ‘totalità’ dell’altro. La non ossessione del ‘perdere’.

E’ noto del resto come il femminile sia particolarmente capace nella attività di ‘mediazione’, anche in senso tecnico. Nel mettersi dalla parte dell’altro. Nel fare dell’affettività il perno della relazionalità.

L’uso da parte della donna di sintagmi cui sia sottesa una sessualizzazione al maschile del potere (corollario di un irriflesso binomio potere – sessualità) sarebbe ed è profondamente disfunzionale al contributo che il femminile è in grado di apportare alla funzione giudiziaria.

La magistrata che si consegni acriticamente a tale lessico-pensiero maschile, prima o poi si accorge che così perde, oltre alla propria identità culturale più profonda, anche lachancedi dare un contributo prezioso all’amministrazione della giustizia, nel pieno rispetto della legge, e agendo solo sul piano esegetico e modale-metodologico.

Non è il suo linguaggio, femminile. Soprattutto non serve a fare meglio giustizia. Attenzione dunque a non cadere in quella che ho chiamato ‘trappola mimetica’ ed imitazione del maschile: nel potere, nel carrierismo, nei totem della logica astratta, e persino nel gergo o lessico quotidiano (oltretutto l’accezione connotativa di potere che il maschile annette anche alla funzione giudiziaria spinge il linguaggio verso connotazioni sessualizzate o prevaricatorie che configgono profondamente con una retta e lata idea di giustizia). Trovo tutto questo mortificante e abdicatorio, segno di scarsa autostima e valorizzazione della femminile di cui la donna è portatrice potenziale. Inviterei in questo caso ad una ‘ecologia linguistica di genere’ anche nella comunicazione colloquiale ed extraprofessionale. Sotto questo aspetto il linguaggio può considerarsi luogo di elezione per comprendere il rapporto tra donna magistrato e professione.

Perché cadere nella trappola mimetica di un linguaggio non le appartiene, che divide, separa, che non ricuce, che lacera, che nega la donna e la mortifica? Di un lessico che soprattutto non esprime o tradisce la sua visione del mondo?

3-Ai fini della semplice presentazione del ventaglio di articolazioni o piani di lettura o di analisi cui si presta il tema potrei fermarmi qui.

Vorrei però aggiungere almeno due considerazioni conclusive:

La prima. Non è un caso che temi quali quello del rapporto bioetica-biodiritto, il tema immenso e complesso della sanzione penale, il tema della relazione uomo- ambiente e dei reati di genere abbia trovato grande beneficio e carica propulsiva dall’introduzione del ‘principio femminile’ nel diritto anche attraverso un’apertura del pensiero maschile, ma certo come conseguenza della presenza sempre maggiore della donna in magistratura. 

L’ultima: e qui torno alla riflessione generale dalla quale ero partita come premessa alla disamina del ‘femminile giuridico’, ma prendendo le mosse da una riflessione svolta da Donatella Stasio su Il Sole 24 ore del 24.2.2017: una riflessione amara sulle ragioni dell’esodo delle donne dalla magistratura.

L’autrice (magistrata lei stessa) riflette amaramente sul fenomeno dell’esodo delle donne dalla magistratura. E non perché non amino questa professione, che invece hanno amato ed amano molto. Ma perché non si riconoscono più in esso proprio dal momento che hanno riconosciuto l’esistenza e la valenza del ‘principio femminile giuridico’e proprio perché testimoni dirette, come lo sono io, di una tendenziale e  progressiva curvatura della produzione giudiziaria verso valori propri del dominio del femminile).

Contro di esso infatti non solo avvertono la resistenza di una componente maschile prevaricante ma la concomitante azione della aziendalizzazione, ispirata come sopra detto, ai principi neoliberistici della produttività, dell’efficienza espressa in termini statistico-numerici, della organizzazione delle risorse in termini imitativi di quelli di tipo aziendalistico.

Tali fattori, oggi imperanti (e posti a base delle valutazioni di professionalità, talché anche nella magistratura torva ingresso un atteggiamento paragonabile a quello della c.d. ‘medicina difensiva’ esprimibile come ‘giurisdizione difensiva’, esercitata cioè avendo come mète-guida, la carriera, la produttività, il calcolo statistico tra percentuale di impugnazioni – e dunque prova di resistenza di un provvedimento – e numero dei provvedimenti emessi sotto il profilo quantitativo: rapporto carico-scarico delle sopravvenienze, come si trattasse di una macchina la cui efficienza è espressa dal rapporto tra imputs e outputs), sono nemici della giustizia come tale e ne soffrono magistrati uomini quanto magistrati donne. Ma mentre i magistrati-uomini vi si adeguano con maggior rassegnazione e talvolta anche vi si riconoscono con un certo compiacimento, nel nome nelle caratteristiche che abbiamo già rilevato: propensione alla sistematizzazione, alla efficienza, all’organizzazione, alla astrazione in formulari informatizzati, alla velocizzazione dei passaggi (certo l’informatizzazione della giustizia ne ha potenziato tratti ‘maschili’), il femminile giuridico sente il pericolo di una nuova estromissione, della perdita del piccolo fazzoletto di terra che si era così faticosamente conquistato.

Lo si avverte anche sul piano del linguaggio: del resto ad ogni slittamento linguistico corrisponde uno slittamento semantico e dunque ideologico.[13]

Possiamo e dobbiamo riflettere su come il principio femminile sia oggi allora non solo un fattore di arricchimento della giustizia nel senso sopra accennato, ma anche uno zoccolo di resistenza dei valori umanistici, contro la degradazione di ogni settore istituzionale e sociale verso derive antiumanistiche e meramente produttivistiche nell’accezione deteriore del termine.

Ne va dunque del nostro umanesimo giuridico (una giustizia del fatto, delle persone, delle relazioni, dei corpi) nei confronti del quale sono convinta che la presenza femminile nella magistratura abbia un grande ruolo. 

La declinazione secondo genere del linguaggio giova alla soggettività-identità-dignità femminile, alla dialettica fra i generi, all’arricchimento della cultura e della civiltà ma anche alla salvaguardia di quel tanto di umanesimo che dobbiamo salvare a tutti i costi: e qui troviamo tanti colleghi uomini al nostro fianco e d’accordo con noi. Ciò dimostrerebbe la bontà dell’operazione linguistica qui sostenuta, nell’interesse di tutti. Grazie.


[1] Dagli studi di Alma Sabatini ( 1987), a quelli di Cecilia Robustelli ( 2000-2012), dalla Cavarero ( 1987: Costruiamo un linguaggio sessuato al femminile”) alla Malaisi per arrivare al recente scritto di Stefania Cavagnoli (“Linguaggio giuridico e lingua di genere: una simbiosi possibile”, 2013). Ho scoperto la produzione saggistica copiosa delle correlatrici e mi riprometto di leggerla e meditarla. Fiorente anche  la saggistica sul tema in Francia e in altri Paesi.

[2] Del resto anche nella nominazione delle cose comuni, spesso accade che la lingua scelga il femminile quando ‘abbassa il tono’ o il registro della comunicazione, quando scende di uno scalino: gli esempi sono molteplici: le parole più confidenziali o del lessico famigliare sono spesso coniugate al femminile, anche quando ammettano la variante maschile: i nomi proprii maschili non sono preceduti da articolo, salvo in talune prassi lessicali regionali, mentre quelli femminili sono più spesso preceduti dall’articolo femminile ‘la’; quasi sempre, in altre parole, dove si può scegliere la desinenza di genere, si opta per quella femminile quando si vuole parlare al ‘degrée zero’ (al livello della terra, del corpo, del quotidiano minore); anche i dialetti usano il femminile molto spesso dove la lingua ‘alta’ userebbe il maschile. Un tanto di ‘svilimento di status’ accompagna nascostamente la declinazione femminile dei nomi, quasi che il femminile rappresentasse la ‘gradazione abbassata’ del maschile.

[3]Porzia si presenta in Tribunale annunciando che il celebre avvocato nominato ha inviato al posto suo il giovane assistente Baldassarre e, travestita da uomo, tiene la celebre arringa che come noto salverà Antonio da morte contro le pretese di Shylock, oltre al proprio amore per Bassanio.

[4] Politica notoriamente già attuata nel ventennio, incluso anche quello che è stato definito il genocidio dei dialetti, così come può rilevarsi in ogni regime.

[5] Mi permetto di rinviare al mio:” Pena assoluta e giustizia relativa” ,  in cui sono stati dedicati alcuni paragrafi a questo tema.

Ritengo interessante richiamare una suggestiva e quasi misteriosa, nella sua profondità e ‘profeticità’, pagina di Cristina Campo tratta da ” Gli imperdonabili” : “Nei vecchi libri spesso all’uomo giusto è dato il celeste nome di mediatore” (…) Cos’è la mediazione se non una facoltà del tutto libera di attenzione? E’ questa la differenza tra la giustizia passionale di Elettra e la giustizia passionale di Antigone. L’una immagina di poter avanzare colpa per colpa, spostando il peso della forza dall’uno all’altro anello di una catena infrangibile. L’altra si muove in un regno dove la legge di necessità non ha più corso. Al giusto occorre attenzione.  Giustizia è un’attenzione fervente, del tutto non violenta”.

Astrazione (attitudine maschile) è il contrario di ‘attenzione’ intesa come modalità del chinarsi sull’esistente, ascoltarlo, comprenderlo nella sua essenza e nella sua espressione fenomenica, reale, nella sua totalità.

[6] Nella donna contano i particolari, le sfumature (come in arte, in poesia); nell’uomo più spesso la sintesi, la scarnificazione rapida del fatto al nocciolo logico del problema, scartati i particolari ‘superflui’, fattori di dispersione di pensiero o di vana complicazione.

[7] Vorrei richiamare ancora le belle pagine sull’apporto femminile alle cause della giustizia impersonate da figure femminili di sorelle di madri, di figlie, mogli.. – le Antigoni di oggi – tratte dal saggio di Pugiotto-Corleone, “Il delitto della pena” (pensiamo a Stefania Cucchi e a tante altre donne congiunte in rivolta in nome della giustizia e del legame con i propri cari, contro le verità ufficiali) ). Citerei anche l’Antigone riscritta da Valeria Parrella.

[8] La relazione, sede del valore etico inteso in senso sostanziale, direbbe Jung (il benessere-bene dell’uomo in relazione con l’altro). La vita umana è buona ‘ tra’ esseri umani, riteneva già Socrate. E così ritiene Spinoza.

Calamandrei: “L’ideale di un palazzo di giustizia sarebbe ancora quello del buon tempo antico: una quercia, e all’ombra di essa il giudice che ascolta le ragioni dei giudicabili; e intorno il popolo che assiste in circolo, senza schermi e senza sbarre divisorie. Giustizia all’aperto, alla luce del sole, senza porte chiuse e senza corridoi segreti” (Piero Calamandrei. Elogio dei Giudici (1959-2015).

Anche la scienza offre supporto di tale fondamento relazionale della responsabilità, misurata sul metro etico e giuridico: Rovelli, declinando dalle note teorie di Einstein sulla relatività generale: “Non c’è un valore, come non c’è un tempo che siano ‘veri’ in sé. Vero è solo ogni grandezza (o valore) rispetto all’altra. Vi sono innumerevoli tempi. Non ha senso porsi la domanda se esista o cosa sia vero del tempo, bensì chiedersi come evolvano i tempi ‘ l’uno rispetto all’altro’. Diecimila Shiva danzanti”.

[9]Giustamente viene richiamata l’importanza delle conquiste del linguaggio giuridico nella sistematica codicistica e sul piano definitorio normativo. L’esempio antonomastico è quello del reato di violenza sessuale, spostata sotto la categoria dei ‘reati contro la persona’ anziché dei reati contro l’onore; la violenza di genere individuata come categoria specifica: cfr. Sent. Cass. SS.U. Fossati 16.3.2016. L’eliminazione dei reati: atti di libidine violenti, ratto a fine di matrimonio, ecc.. La individuazione degli ‘atti persecutori’ da sempre nella realtà, ma non còlti a livello di previsione legislativa in una specifica concettualizzazione giuridica.

Non posso mancare di richiamare l’evoluzione del linguaggio normativo (di fonte sovranazionale e nazionale) sul tema specifico della violenza di genere a partire dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite sulla eliminazione della violenza contro le donne, 1993, che definisce la nozione di violenza all’art. 1: “Qualsiasi atto di violenza per motivi di genere che provochi o possa verosimilmente provocare danno fisico, sessuale o psicologico, comprese le minacce di violenza, la coercizione o privazione arbitraria della libertà personale, sia nella vita pubblica sia nella vita privata”. Cito ancora la Conferenza di Vienna sui diritti umani; la Risoluzione del Parlamento Europeo del 1997; la Conferenza di Pechino del 1995 (conferenza mondiale sulle donne) e il documento programmatico dell’Assemblea del Millennio ONU del 2000.

La Convenzione di Istanbul del Consiglio di Europa dell’11.5.2011 (ratificata dalla L. 27.6.2013 n° 77 Italia), entrata in vigore l’1.8.2014: sulla prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica), di cui la legge del 2013 è diretta espressione e conseguenza distingue le varie nozioni di:

a) Violenza contro la donna: espressione con cui si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni e sofferenza di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o privazione coatta della libertà, sia nella vita pubblica che nella vita privata (contro la donna in quanto tale).

b) Violenza domestica: designa tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo famigliare o tra attuali o precedentipartners, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima (rapporti di durata e connotati da coordinate spazio-temporali specifici)

c) Violenza di genere: si riferisce ai ruoli comportamenti attività e attributi socialmente costruitiche una determinata società considera appropriati per uomini e donne: profilo eminentemente culturale (può colpire anche gli uomini): art. 3 Costituzione.

d) Violenza contro le donne basata sul genere: qualunque violenza contro la donna in quanto tale e nei suoi ruoli.

L’elaborazione di queste definizioni postula un’approfondita analisi del fenomeno.

Merita richiamo la Direttiva 2012/29/ UE (cui è stata data attuazione con il D. L.vo 212/2015, entrato in vigore il 20.1.2016) chedetta norme minime in materia di diritti alla assistenza, informazione, interpretazione e traduzione, protezione di tutte le vittime dei reati, senza distinzione di tipo di criminalità e qualità delle vittime.

Anche in questa direttiva è presente la definizione di ‘violenza di genere’ così definita: “la violenza diretta contro una persona a causa del suo genere e che colpisce in modo sproporzionato le persone di un determinato genere. Può provocare danni fisici sessuali o psicologici. La violenza di genere è considerata una forma di discriminazione ed una violazione delle libertà fondamentali delle vittime e comprende la violenza nelle relazioni strette, la violenza sessuale (anche molestie), la tratta di esseri umani, la schiavitù e varie forme dannose quali i matrimoni forzati, la mutilazione genitale femminile e i ‘reati d’onore’. Le donne vittime della violenza di genere e i loro figli hanno spesso bisogno di protezioni speciali a motivo dell’elevato rischio di vittimizzazione secondaria, intimidazioni e ritorsioni connesse a tale violenza”.

-Sul piano dei contenuti e delle espressioni della violenza di genere sulla donna: da una chiarezza concettuale, definitoria (nata dalla osservazione ed esperienza del fenomeno) si passa ad allargare grandemente la nozione di maltrattamento, abuso sessuale, altre forme di violenza di genere, prima non riconosciute, perché non còlte nella loro specificità di indole, di movente.

Bene ha fatto la legge nel caso dellostalkinge ora anche in materia di maltrattamenti a prevedere l’ammonimento del Questore come risposta preliminare e una serie di misure preventive, di risposte cautelari mirate e non carcerarie. 

Si ponga mente anche alla riformulazione della norma sulla schiavitù; ai delitti nuovi ex artt. 583 bis (pratiche di mutilazione organi femminili); 600bis-nonies: sottrazione di fattispecie dalla legge 1958 (prostituzione); 734 bis: divieto di divulgazione generalità ed immagine p.o. in caso di violenza su donne; ecc: passi da gigante). Può citarsi anche la – peraltro vaga – proposta di introdurre il reato di ‘cancellazione di identità’, lo sfregio).

Si tratta indubbiamente di fattispecie nuove, che tutelano innanzituttol’autodeterminazionedella donna. Ci accorgiamo allora come il fenomeno venga nei decenni messo a fuoco a piccoli passi, e come l’essenza e il significato più proprio della condotta di abuso cominci a prendere corpo sul piano delle fattispecie normative.

La donna, da individuo confuso in un genere di cui non è soggetto, comincia ad acquistare lentamenteuna soggettività prima privata e poi pubblica.L’evoluzione legislativa attesta questo percorso. 

Con la legge sullostalkingè tutelato non solo il suo diritto sul proprio corpo, ma anche il suo spazio pubblico, libertà di uscire nella città in situazione di sicurezza, per studio, lavoro, svago, relazioni sociali e di amicizia. Lo Stato si assume anche gli oneri della sua difesa: il diritto della donna è protetto nell’interesse suo e dello Stato. Così va letta anche l’importante sentenza Cass. 2008 che riconosce ai Comuni il diritto di costituirsi parte civile, quando la tutela della libertà incolumità della donna sia stata inclusa espressamente nei rispettivi compiti statutari.

Ma le innovazioni maggiori le ha fatte la giurisprudenza, e su di essa l’incidenza della componente femminile appare essere stata decisiva, sia pure con una serie di casi singolarmente contrari (v. infra).

[10] Linguaggio come interpretazione.  Il genere nella verifica della produzione giurisprudenziale. Sul piano del trattamento giudiziario si rileva intanto:

a) la progressiva inclusione di forme di violenza molto ampie e differenziate, cui corrispondono altrettante ‘nominazioni’ ed espressioni linguistiche:

– la violenza psicologica (ricatti e violenza psicologica; umiliazioni fisiche, morali; svalutazioni; tutto ciò che induce perdita di autostima);

-la limitazione della libertà di incontrare persone, di svolgere attività personali, esprimere e coltivare talenti, non solo sport;

-la segregazione di fatto; la rinuncia a lavoro, le svariate forme di controllo.

– Lo stupro coniugale (in passato non accettato).

– La violenza economica (in tale prospettiva assume rilievo accertare a chi sia intestata la casa famigliare, chi provvede alle spese quotidiane e con quale stipendio, se e come viene tutelato il patrimonio di provenienza ereditaria, chi mantiene chi; assumono  rilevanza le  indagini e l’ accertamento sulle forme di rispetto o dis/misconoscimento del lavoro domestico; ecc…

– la violenza nella sopraffazione degli spazii e dei tempi (suddivisione stanze, del tempo libero…: fondamentale) .

– Bilanciamento comparativo dei carichi fra i componenti la coppia coniugale: a chi è demandata la cura anziani, la cura di tutto ciò che deve essere curato…;

 -I’irrilevanza della addotta ‘provocazione verbale’ nelle condotte di aggressione fisica.

-la violenza ‘assistita’

-le forme ‘omissive’ della violenza in famiglia.

[11] Lunga è la storia della valenza probatoria della testimonianza della vittima -donna: oggi viene valorizzata, con le debite cautele, senza bisogno di presidii o riscontri; in linea generale è prova piena ed autosufficiente (non così fino a pochi anni fa, e non diremo in altri paesi: in Iraq occorrono quattro -4- uomini per testimoniare a favore della donna in caso di violenza sessuale); viene tutelata processualmente da supporti psicologici, di riservatezza, mediante audizione protetta; sostenuta dall’ammissione quali parti processuali o terzi partecipanti al processo, di enti collettivi esponenziali.

Oggi dunque basta la sua sola dichiarazione a costituire prova, senza bisogno di riscontri di cui all’art. 192 c.p.p.. E tuttavia la testimonianza femminile continua ad essere guardata e valutata sotto una lente di diffidenza, specialmente se la p.o. si sia costituita parte civile (si avverte allora che la vittima costituitasi parte civile tende a “ricordare quello che le è utile”, avvalendosi anche di studi ‘scientifici’ e specialistici sulla testimonianza).

Qualche esempio di conduzione frequente dell’assunzione della testimonianza:

Domanda: perché signora ha accettato questo specifico comportamento?

Risposta: perché non ero sicura se aveva ragione lui o avevo ragione io. L’ho fatto per la famiglia, diciamo così. Per la famiglia si fa questo ed altro. Per i figli. Per quello che avrebbe detto la gente.

Domanda: ma Lei ha discusso questo comportamento. Ha detto perché Lei non lo riteneva giusto?

Risposta: perché lui rifiutava di parlarne. Mi diceva sempre che se non mi stava bene potevo separarmi o andarmene di casa. E io avevo sempre meno forza di rispondergli e di ridiscutere tutto il nostro rapporto, tutte le ingiustizie della nostra vita famigliare. Lasciavo perdere. Ero stanca.

Domanda: Eppure a un certo punto lei se ne è andata. Perché poi è tornata?

Risposta: perché lui me lo chiedeva tutti i giorni. Diceva che era cambiato. Diceva che stava male. E io mi sentivo in colpa. Mi sentivo come in debito verso di lui. C’era come una catena invisibile che mi teneva legata a lui. Ero confusa.

Domanda: ha mai pensato di parlarne con qualcuno, fare una denuncia, per esempio?

Risposta:ma tanto avrebbero creduto a lui. Lui quando parla, parla bene, si fa credere. Per me non avrebbe parlato nessuno. Hanno paura di lui.

Chiedere in processo a una donna:“Insomma, sia chiara, è stato così sì o no? L’ha penetrata o no? “, non è un approccio vantaggioso per il risultato probatorio e per la decisione finale.. Segue in genere il pianto e il silenzio.

Ricordo quando dissi in una requisitoria, citando Montaigne: “Arrivo fino al fuoco , ma non per bruciarmi”j’arrive jusqu’aux feu, mais non pas pour me bruler) : i giudici mi guardarono stupiti: Occorre capire e interpretare il linguaggio della donna  e dell’uomo nelle sue diverse età.. Occorre comprendere quando e fin dove la donna (specie ragazza) sfidi e osi, ma non per provocare azioni;

Domande all’imputato: lei ha sentito le dichiarazioni . Che cosa può dire in merito?

Risposta: che non è vero niente, io le ho sempre voluto bene, se ero geloso lo ero per amore, magari una volta è capitato perché avevo bevuto un po’ di più; magari una volta è capitato perché sono un po’ materiale, un po’ rozzo; avrò fatto qualcosa che non andrà bene ma lo fanno tutti i padri con i figli e tutti i mariti con le mogli, qualche piccola scappatella, ma poi lo nego, sentivo dire al bar…nei fatti ero tutto per la famiglia, semmai un po’ nervoso perché il lavoro non andava bene; era lei che faceva pesare tutto quello che faceva e non si occupava di me, invece di starmi vicino e sostenermi; mi faceva notare le cose, in casa sempre lo stesso clima tetro; preferiva stare con i suoi genitori o con un’amica che non con me; non le andava mai bene niente, sa la goccia che scava la roccia.

Domanda: Ma queste condotte specifiche, intrusive, abusive?

Risposta:ma io lo facevo per scherzo. Come si scherza sempre.

Domanda: e la sofferenza dei suoi figli come se la spiega?

Risposta: ah non lo so, in casa io non c’ero mai. Sarà stata la madre, l’hanno messa su i miei suoceri. Sarà stata la paura che ci separassimo, le discussioni che cominciava sempre lei, mi provocava… 

Se non si tiene conto della preoccupazione costante, nella vittima dichiarante femminile, di includere il punto di vista degli altri, delle persone cioè di cui si sente garante (figli, genitori, suoceri, dell’aggressore stesso, della cerchia dei parenti e conoscenti) e di non venire meno al ruolo di garante, non si comprende fino in fondo l’apparente contraddittorietà di alcuni passaggi della sua deposizione. Tali aspetti contraddittori non dovrebbero essere letti direttamente come sintomi di incoerenza, inaffidabilità, inattendibilità, scarsa credibilità, ma vagliati attentamente e letti nel contesto complessivo del ruolo concreto della persona offesa.

Il dichiarante maschile – anche l’imputato – si mostra in genere più monolitico, dunque all’apparenza più coerente, proprio perché resta all’interno del suo proprio e solo punto di vista. Anche quando il Giudicante ritiene biasimevoli punto di vista e commenti dell’imputato, tuttavia gli sembrerà nella sua logica ‘convincente’ (ai fini della valutazione del profilo soggettivo), e attribuirà le grossolanità a ignoranza e difetto di cultura, o infine a profili temperamentali. Spesso la dichiarazione che ha la meglio è quindi quella dell’imputato. Inoltre come sappiamo la donna ha timore di ritorsioni, oltre al timore che non sarà, a giudizio finito, riaccolta dall’ambiente.

La donna persona offesa attesta un altro dato molto frequente: che esiste ancora un livello di violenza accettata dalle donne in casa, specie se non hanno confronti ed accettata anche socialmente, culturalmente e persino giudiziariamente.

La maggior parte delle vittime donna dichiarano di avere ritenuto ‘normale’ fino a un certo momento la condotta maltrattante del marito; la soglia altrimenti incomprensibilmente elevata di accettazione di situazioni invivibili…

La maggior parte delle donne pensa che per affetto, amore, abnegazione, sacrifico, per dovere affettivo materno e di moglie si debba accettare quasi tutto. Anche la maggior parte delle persone che circondano la vittima pensa in verità che se la donna fosse rimasta zitta o avesse continuato a dispensare servizii nonostante tutto, il marito sarebbe migliorato o cambiato.

Tuttavia occorre dare atto che a livello giudiziario si è abbassato di molto il livello di sofferenza tollerabile e tollerata .

Il discorso sulla frequenza degli episodi resta pur sempre rilevate ma relativamente rilevante (quando una fatto capita una sola volta, può restare unico, ma si porta dietro o davanti uno sciame di comportamenti, di microepisodi che spesso non salgono al livello della narrazione ma creano stratificazione.

Così scopriamo che vi sono due modi di intendere la vittima: l’uno, più periglioso, che tende a farne un agente primario di giustizia (accezione accolta dal neoliberalismo giuridico) in cui la vittima privata tende a soppiantare lo Stato e il Giudice; l’altro, in cui la vittima è pensata come controparte dialogica, termine di una relazione, destinataria prima della norma penale. L’ipostatizzazione della condizione di vittima è cosa diversa dalla sua tutela e dall’opera di ricostruzione di un vincolo sociale e politico.

[12] Il potere non funzionalizzato porta con sé i suoi simboli fallici e il proprio linguaggio: “cumannari è miegghiu ca futtiri”, come dice un noto detto sisiliano.

[13] Ancora una volta non si sottovaluti il livello linguistico: i viaggiatori sui treni da passengers sono diventanti sempre più customers; i pazienti sempre più clienti (i direttori delle aziende sanitarie ordinano ai medici di base: voi dovete gestire il paziente, non curarlo…; gli studenti diventano sempre più dipendenti, clienti dell’azienda scuola, fattori di produzione; gli utenti della giustizia diventeranno anch’essi clienti dell’azienda giustizia?