Il magistrato dirigente: burocrate, delatore o leader responsabile?

di Maurizio Millo

1. Il titolo rappresenta bene la complessità della problematica che si trova davanti chi voglia affrontare questo tema dopo le recenti modifiche dell’ordinamento giudiziario ed alla luce dei cambiamenti che negli ultimi tempi vi sono stati nella sensibilità dei cittadini verso l’amministrazione della giustizia. Credo che, proprio per la sua complessità, questo argomento si deve affrontare guardandolo non come una situazione statica, descrivibile con una fotografia o con un solo aggettivo, ma come una situazione dinamica, rappresentabile solo con una sequenza di affermazioni e con un film. Il fuoco della riflessione va in realtà posto sul percorso nella sua interezza e sul saperlo vedere come una situazione di movimento. Si deve pensare ad una serie di traguardi, il primo dei quali è quello di volersi muovere e riuscire a farlo assieme a tutto il gruppo. Bisogna comprendere che per raggiungere l’obiettivo non è proprio possibile camminare da soli. O lo si raggiunge insieme o lo si manca. Non ha senso pensare al dirigente isolato dal gruppo in cui è inserito.

2. Proprio all’inserimento in un gruppo che deve e vuole muoversi rimanda infatti il vocabolo inglese utilizzato nel titolo proposto dalla redazione. Il senso della parola leader indica un personaggio capace di guidare un gruppo lungo un percorso e verso un obiettivo. La prospettiva del movimento diventa perciò molto importante quando si tende a scegliere il termine leader per presentare la figura del dirigente (parola quest’ultima che da sola potrebbe rappresentare invece una realtà ben diversa: una figura staccata dal gruppo che dirige ed un gruppo non necessariamente in movimento).
Probabilmente la sintesi migliore da proporre è che il dirigente di un ufficio giudiziario deve tendere ad essere il leader responsabile di un insieme di magistrati responsabili. Questa definizione può aiutare a comprendere e dare senso più profondo anche alle sue – inevitabili – attività da “burocrate” e persino ai casi di necessarie segnalazioni disciplinari (da “delatore”), che solo in quest’ottica possono acquistare significato costruttivo e senso.

3. Riflettendo sulla figura di un magistrato dirigente nel tentativo di proiettarvi una luce nuova per rispondere alle domande dei tempi attuali, senza però tradire le esigenze permanenti della giurisdizione, per prima cosa è bene riflettere sull’insufficienza ed anzi la dannosità dei criteri parcellizzati normalmente utilizzati per disegnare il profilo di un buon dirigente. Bisogna infatti sottolineare che è necessario disporre di un criterio unificante per costruire un profilo organico del dirigente‑leader, per arrivare a chiarire quali capacità gli vogliamo davvero richiedere, in quale ordine ed in quale rapporto tra loro.

Non solo, perciò, una somma di capacità, anche se tutte necessarie o almeno utili. Un elenco di buone caratteristiche, infatti, se manca un criterio di collegamento e di sintesi fra loro, finisce per rendere poco comprensibili i percorsi da seguire per scegliere i dirigenti, ma anche quelli per la loro formazione, nonché le decisioni del CSM perché queste, senza un criterio unificante, verranno inevitabilmente fatte privilegiando a volte una, a volte altra delle caratteristiche, senza che si riesca a comprendere davvero il perché si preferisce una invece dell’altra. Così il CSM appare essere non organo titolare di giusti poteri discrezionali, ma sede di decisioni incomprensibili e forse arbitrarie. D’altra parte, anche chi critica le scelte rischia di farlo più seguendo simpatie ed opzioni personali che non criteri confrontabili con gli altri. Anche se va comunque sottolineato che si tratta pur sempre di scelte governate da discrezionalità amministrativa – e perciò non è vero che si possono fare con lo stesso procedimento e la stessa mentalità con cui si arriva a una decisione giudiziaria di applicazione del diritto, come erroneamente sostenuto da qualcuno in tempi recenti – ma devono risultare comunque leggibili e comprensibili. Ecco la necessità di un criterio ordinatore delle capacità richieste al dirigente-leader.

4. E allora è importante ricordare che il primo obiettivo da raggiungere per qualsiasi dirigente, tanto più se vuole essere “leader”, è quello di realizzare il miglior risultato possibile con le persone, le normative e gli strumenti dati. Il primo obiettivo per lui diventa quello di riuscire a ricordare sempre che una squadra ed un gruppo di lavoro rappresentano un insieme il cui valore è superiore alla somma dei singoli valori individuali. A questa somma, vista in modo statico, si deve infatti aggiungere l’importantissimo valore che si origina dal dinamismo del lavoro in comune e dallo spirito di collaborazione. Poiché questo produce un notevole incremento dell’impegno e delle risorse di ciascuno ed in conseguenza dei valori individuali considerati da soli ed in situazione statica. Un incremento di impegno e rendimento che è collegato alla valorizzazione di ciascuno e dal clima positivo e costruttivo in cui si lavora. Questo consente a tutti di lavorare meglio, sia dal punto di vista della qualità, sia da quello della quantità. Va però ricordato e sottolineato che, se il gioco di squadra non viene bene impostato e coordinato, come spesso purtroppo avviene, l’elemento da aggiungere può invece assumere valori negativi.

Tutto ciò è talmente vero che viene comunemente tenuto presente come fondamentale criterio di valutazione e scelta non solo dell’allenatore e del capitano in tutti gli sport di squadra, ma anche dei manager in tutte le attività nelle quali sia importante il lavoro di gruppo. In realtà sostanzialmente quasi tutti i lavori moderni. Perciò insistono fortemente su questo elemento tutti i più recenti orientamenti nell’insegnamento delle capacità manageriali. Evidentemente raggiungere questo obbiettivo non dipende solo dal leader. Diventa possibile solo se tutti e ciascuno interpretano in modo attivo il proprio ruolo e si impegnano realmente nel partecipare all’impresa comune. Ma proprio per questo il primo compito del dirigente – percepita l’essenziale importanza della capacità di valorizzazione della squadra – diventa quello di comprendere gli altri e le loro esigenze e farsi comprendere da loro per quanto riguarda modalità e percorsi da utilizzare per costruire un gruppo di lavoro efficace (obiettivo molto più importante che semplicemente efficiente). E per essere efficaci si deve naturalmente tenere conto, per quanto riguarda ciò che qui interessa, delle caratteristiche, veramente peculiari, che presentano il mondo giudiziario e le persone che in esso lavorano. Ecco perché ho sottolineato sin dall’inizio anche la responsabilità di tutti gli altri magistrati. Non si può pensare di raggiungere l’obiettivo immaginando di lasciare solo al dirigente-leader la responsabilità del coinvolgimento positivo di tutti gli altri. Il dirigente ha la responsabilità primaria di impostare e coordinare questo lavoro, ma il traguardo si potrà raggiungere solo se tutti ne avranno consapevolezza e se ne assumeranno la corresponsabilità. 

5. Alla luce di queste affermazioni iniziali, per trovare il centro di gravità della figura del dirigente giudiziario di cui stiamo parlando, penso allora sia necessario introdurre una categoria di pensiero, ormai nota nelle scienze economiche, ma ancora non utilizzata nel nostro mondo, anche se molti dei discorsi che da tempo si fanno sulle problematiche della dirigenza in qualche modo vi si riferiscono, ma solo implicitamente e spesso senza vera consapevolezza e perciò senza trarne le dovute conseguenze.

Quando si pensa non alla singola decisione giudiziaria, ma alla capacità di dare risposta alla domanda di giustizia nel suo complesso rispetto ad un certo territorio o ad una certa funzione, si deve immaginare un dirigente che sappia essereprima di tuttoil centro di sviluppo ed il facilitatore della produzione dei “beni relazionali”, sia nell’ambito del suo ufficio, sia tra questo e gli altri enti e soggetti con cui esso ha rapporti.

Questa capacità deve a mio avviso servire per coordinare tra loro le varie e disparate caratteristiche che gli si richiedono e soprattutto risulta utile per bilanciare il diverso peso che alle sue varie qualità si deve dare a seconda che si stia pensando al dirigente di un ufficio grande o piccolo; giudicante o requirente; di merito o di legittimità; specializzato o no; e così via elencando. Così si può anche spiegare in modo comprensibile perché in certi casi si debba privilegiare una certa caratteristica mentre in altri una diversa e quanto sia giusto che pesi ciascuna delle qualità in relazione alla scelta concreta da fare ed alla formazione che si può pensare di predisporre.

In quest’ottica, per raggiungere l’obiettivo di fare del dirigente un leader responsabile, tutte le varie doti del dirigente‑leader devono essere collegate e commisurate alla sua capacità di utilizzare tutte quelle doti per facilitare nella situazione che interessa la produzione e lo scambio dei “beni relazionali”.

Non una dote in più da aggiungere all’elenco, perciò, ma il centro focale che dovrebbe rappresentare come un mozzo attorno a cui far girare la ruota costituita dalle altre capacità e caratteristiche. Può diventare questa la chiave di spiegazione e di sintesi della sua figura.

6. È evidentemente necessario chiarire un’affermazione del genere. Provo a farlo cominciando a confutare alcune idee che ritengo spesso richiamate a sproposito: quelle che propongono di applicare alle nostre problematiche i criteri manageriali classici. In realtà un manager “classico” non accetterebbe mai di fare il dirigente di un ufficio giudiziario perché capirebbe subito di essere impossibilitato ad agire praticamente in tutti gli ambiti in cui egli è abituato a muoversi per svolgere il suo ruolo.

Infatti, il dirigente di un ufficio giudiziario è estremamente vincolato nell’organizzazione del lavoro del suo ufficio dalla normativa processuale e poi dalle disposizioni ministeriali sugli adempimenti cui le cancellerie sono tenute, nonché sulla tenuta di libri e registri (non importa qui se cartacei o informatici) e spesso anche sui tempi di esecuzione e sulle scadenze delle operazioni. E le decisioni finali sulla distribuzione dei magistrati dipendono sostanzialmente dai criteri fissati dal CSM. Insomma in un ufficio giudiziario risultano in gran parte immodificabili le cose che il manager classico si impegna a studiare e cambiare dal punto di vista delle procedure del lavoro per ottenere risultati migliori. Inoltre il nostro dirigente non può influire (seriamente) sulla carriera di nessuno; d’altra parte non può assolutamente concedere incentivi economici (ed ancora meno sanzioni economiche).

Infine il sistema tabellare (che risente moltissimo delle sue giuste origini di garanzia e molto meno delle sue possibilità di sistema organizzativo, che pure esistono) risulta nella sostanza assai poco flessibile ed estremamente centralizzato nelle decisioni finali.

Mi stupisce, perciò, che spesso chi tra i magistrati si è occupato di riflettere su formazione e scelta dei dirigenti giudiziari lo abbia fatto parlando di managerialità in termini sostanzialmente “classici”, finendo, proprio per questo, per essere in realtà di ben scarso aiuto nell’affrontare il problema in modo concreto e rischiando di essere sostanzialmente incapace di individuare soluzioni davvero efficaci per la vita quotidiana dei nostri uffici.

Spesso si è finito per sostenere un tentativo di fare gli “organizzatori” degli uffici in modo efficientistico, che si è risolto più che altro nella gratificazione di alcuni dirigenti (perché normalmente dotati di notevole egocentrismo). Si rischia alla fine solo di sostenere una forma – sia pure modernizzata – di dannoso autoritarismo, comunque negativo nella complessità del mondo moderno, poiché nel mondo attuale il raggiungimento dei risultati dipende dal coinvolgimento e dalla partecipazione della “squadra” (come va di moda dire). Solo con la partecipazione e il coinvolgimento di tutti, infatti, si possono affrontare le situazioni complesse – e nulla è probabilmente più complesso di un ufficio giudiziario – e si può inoltre sperare di garantire la continuità dell’impegno di tutti e ciascuno nelle situazioni difficili e faticose. Un “manager” efficientista ed egocentrico finisce inoltre per instaurare, specialmente in magistratura, relazioni umane ostili e per far nascere “dinamiche produttive” controproducenti, prima di tutto da parte degli altri magistrati, che molto probabilmente cercheranno, anche se a volte in modo distorto ed errato, ogni possibile modo per riaffermare la loro autonomia.

In realtà, infatti, ormai da tempo la formazione per i dirigenti di impresa ha mutato orientamento e cerca di insegnare a costruire quella che viene definita “dirigenza condivisa”. Per questo, come noto, ci si orienta sempre di più a preparare manager moderni che – diversamente da quelli “classici” – abbiano l’abilità e la capacità di realizzare gli aspetti efficientistici del lavoro (ovviamente sempre molto importanti) essenzialmente attraverso il coinvolgimento di tutti, facendo divenire perciò compito primario e complessivo del dirigente quello di saper creare un giusto clima di lavoro.

Ebbene, proprio nel ricercare una via di soluzione a queste problematiche, è stato dimostrato che la qualità e quantità di produzione dei beni e/o servizi che l’impresa deve produrre aumentano in modo determinante attraverso l’incremento di produzione dei beni relazionali. Ecco perché si arriva alla conclusione che il dirigente deve rivestire prima di tutto il ruolo di centro di sviluppo e “facilitatore” nella “produzione di beni relazionali”.

Va sottolineato che questa definizione non rappresenta uno slogan o una frase ad effetto. Ha invece una dimensione scientifica e può risultare utile perché emerge da recenti studi e ricerche rivolti ad approfondire la riflessione su come ottimizzare la produzione e la vita nelle società avanzate (soprattutto la produzione di servizi, che è il nostro ambito di lavoro) [1].

Non presento queste riflessioni per una astratta e sterile passione per l’economia, ma perché rappresentano una possibilità nuova per affrontare i nostri vecchi e permanenti problemi. Non è certo questa la sede in cui discutere in modo teorico ed approfondito la problematica relativa alla produzione di “beni relazionali”, ma è importante ai nostri fini rilevare che, soprattutto nelle economie avanzate, viene riconosciuta una sempre maggiore influenza ed importanza tra i fattori produttivi ai beni c.d. relazionali e si sottolinea che solo la dovuta attenzione a questo aspetto della produzione può dare speranza ai Paesi avanzati di evitare la regressione in cui sembrano altrimenti destinati ad avvitarsi.

7. I beni relazionali si aggiungono a quelli finora oggetto di considerazione – come già è avvenuto e sta ancora avvenendo per una serie di altri beni immateriali – e  sono costituiti in sostanza dalla soddisfazione che si aggiunge al consumo ed alla produzione di beni o servizi in sé e che si trae dalle relazioni umane che il consumo o la produzione di beni e servizi comportano. Sono economicamente importanti e valutabili, perché ricercati dal “consumatore”, che è portato a spostare la sua domanda verso le situazioni nelle quali i beni relazionali sono maggiori. La ulteriore interessante scoperta delle ricerche è che la produzione di questi beni risulta capace, per quanto qui interessa, di aumentare la produzione degli altri beni e servizi perché già all’interno dell’impresa i lavoratori addetti si spostano e si impegnano in maniera diversa alla ricerca dei beni relazionali che si producono internamente. Per questo possono diventare capaci di aumentare e migliorare in modo determinante la “produzione” del servizio giustizia che i nostri uffici possono rendere. Ed anche la “produzione” del singolo, magistrato o collaboratore che sia. Per comprenderlo basta riflettere sull’importanza che per ciascun magistrato ha verificare che la sua giurisprudenza trova l’apprezzamento del foro e dei colleghi o quanto possa essere ricercata la partecipazione a incontri di studio a vario livello o anche solo a riunioni dell’ufficio per approfondire le modalità di lavoro e la soluzione giuridica di problemi quotidiani che possano poi dare soddisfazione nella gestione concreta del proprio ruolo professionale.

8. Va a questo punto evidenziato con forza che anche un dirigente di uffici giudiziari può fare molto – a volte moltissimo – per influire sulla produzione dei beni relazionali, mentre, come abbiamo ricordato, ben poco può fare per influire sugli altri aspetti dell’organizzazione produttiva.

Attraverso un’adeguata attenzione verso i beni relazionali si possono raggiungere obiettivi imprevedibili ed impensati [2].

D’altra parte proprio la qualità e quantità della “produzione” di beni relazionali influisce in modo determinante sulla scelta di un lavoratore qualificato ed importante di rimanere in una certa impresa o settore oppure di spostarsi in un altro. Perciò, nel nostro ambito – come abbiamo più volte visto avvenire in concreto nei nostri uffici – sulla scelta per un magistrato di rimanere in una sezione o in un ufficio oppure cercare di andare in un altro (o per un funzionario rimanere in una cancelleria o spostarsi in un’altra). Poiché si tratta decisioni molto spesso alimentate non solo dall’interesse per una diversa materia giuridica, ma anche (spesso in modo determinante) dalla ricerca di un diverso ambiente umano e professionale in cui applicare le proprie energie.

La capacità del dirigente di centrare l’attenzione su questo tipo di produzione e di beni comporta, tra l’altro, la capacità di saper valorizzare gli altri magistrati ed i collaboratori, quella di difenderne l’autonomia, quella di saper organizzare un proficuo scambio di conoscenze ed informazioni, quella di individuare e realizzare l’organizzazione del lavoro più adatta a soddisfare le aspettative dei magistrati e del personale e così via.

Si vede subito come le qualità del dirigente appena elencate sono le stesse che normalmente ci si sforza di indicare per descrivere il buon dirigente, ma collegate alla capacità di produrre e facilitare i beni relazionali acquistano ben altra prospettiva e possibilità di integrazione reciproca.

9. Proviamo a verificarlo vedendone qualche applicazione.

Si dice normalmente che il dirigente deve essere un buon giurista. Ma non è del tutto chiara l’importanza di questa affermazione, tenuto conto che, come dirigente, specie negli uffici di merito, non sarà tanto importante la giurisprudenza che saprà “produrre” e a volte non svolgerà affatto in concreto funzioni giudiziarie. Io direi che deve essere un buon “giudice” (che è un tipo particolare di giurista, con caratteristiche diverse dallo studioso universitario e dall’avvocato) perché questo è un aspetto qualificante per il quale il dirigente riuscirà ad essere professionalmente autorevole agli occhi dei colleghi. E l’autorevolezza professionale gli consentirà allora di influire efficacemente sulla produzione di beni relazionali tra tutti gli altri magistrati impostando e favorendo lo sviluppo di un confronto positivo circa i problemi giuridici che l’ufficio deve affrontare. E la sua autorevolezza e storia personale come giudice darà a tutti la corretta percezione che vengono contemporaneamente garantite sia l’autonomia del singolo, sia un sano confronto e, nei limiti del possibile, coordinamento delle decisioni. Così il dirigente potrà attivare tra i magistrati il necessario clima di scambio e fiducia professionale che incrementerà la loro soddisfazione tecnico-giuridica (tipico bene relazionale) ed agevolerà la soluzione dei conflitti interpretativi; ciò tanto meglio quanto più il tipo di lavoro (il “prodotto” dell’ufficio) deve essere giuridicamente qualificato ed elevato. Questo spiega la particolare sottolineatura che se ne fa per gli uffici di legittimità.

L’impostazione fin qui rappresentata consente però di comprendere perché neppure in Cassazione (e tanto meno negli uffici di merito) si dovrebbe nominare presidente di sezione (o del tribunale e così via) un bravissimo giurista che fosse però incapace di gestire bene il confronto in Camera di Consiglio. Può invece spiegare perché proprio un adeguato confronto in quella sede ed un corretto clima in tutti i rapporti della sezione tenda ad innalzare il livello qualitativo (e persino quello quantitativo) delle sentenze, anche in Cassazione. Tanto che un magistrato capace di favorire in alto grado il confronto e l’approfondimento giuridico collegiale, certamente per la sua preparazione, ma anche per la sua disponibilità al dialogo e per la sua capacità a stimolarlo e coordinarlo con gli altri, potrebbe risultare più adatto e meritevole di uno bravissimo nello studio, ma incapace di confrontarsi con gli altri e stimolare il confronto tra tutti.

10. Ancora: si sottolinea, ormai da tempo e giustamente, che il dirigente deve saper essere un bravo organizzatore, e ciò è evidente, ma in realtà fino allo svolgimento del primo incarico, nessuno gli avrà mai chiesto prima, seriamente, di sperimentarsi nelle capacità organizzative e di prepararsi culturalmente e tecnicamente in queste. Non si è specificamente preparato nel comprendere le esigenze lavorative dei colleghi e collaboratori e nel sapersi far comprendere da loro per raggiungere obiettivi comuni. In conseguenza nessuno può avere a disposizione seri elementi di verifica di queste fondamentali qualità. C’entra solo in minima parte la capacità di aver saputo organizzare il proprio lavoro personale e d’altra parte le vere capacità dirigenziali vanno esercitate in modo profondamente diverso rispetto alle capacità solo in parte analoghe di un semi-direttivo. Come evitare allora di scegliere un dirigente che diventerà solo un burocrate, esperto del sistema tabellare, capace di scrivere progetti teoricamente perfetti, ma incapace di farli apprezzare, fare propri e realizzare dagli altri magistrati? Si potrà verificare quanto è stato fino a quel momento capace di utilizzare il suo impegno organizzativo – personale o da semidirettivo – per realizzare moduli di lavoro utili per far crescere la positività degli scambi tra i magistrati, i collaboratori e gli utenti. In sostanza se è capace di far aumentare la positività degli scambi relazionali tra tutti i soggetti coinvolti nel lavoro e nel servizio di un ufficio giudiziario.

11. Si pensa inoltre – anche se non sempre lo si dice chiaramente – che il dirigente debba avere capacità di collegamento e rappresentanza verso l’esterno, ma sostanzialmente mai nessuno ha spiegato davvero come si possano esercitare tali collegamenti ed a quali fini debbano essere esercitati. D’altra parte la massima preoccupazione nella esperienza professionale di un magistrato, finché non diventa dirigente,  è sempre (giustamente) quella di garantire l’indipendenza e l’autonomia della propria professionalità, fino al rischio però di coltivare forme di isolamento quasi pericolose. Improvvisamente si deve però diventare capaci di mantenere corretti e proficui rapporti con istituzioni diverse, con soggetti politici ed anche con enti capaci di finanziare e sostenere attività, ma ovviamente sempre senza rischiare nulla quanto ad indipendenza. Anche per questo, anzi prima di tutto in questo ambito, l’attenzione agli scambi di beni relazionali tra i vari soggetti, sia interni all’organizzazione giudiziaria, sia esterni, diviene essenziale e può risultare uno strumento ed un’ottica di lavoro veramente importante per realizzare un salto di qualità nell’efficacia del lavoro giudiziario, pur rimanendo nell’assoluta autonomia della giurisdizione. Anzi si può tutelare al meglio l’autonomia, pur nell’implementazione delle relazioni, proprio se si acquisisce piena consapevolezza dell’esistenza ed utilità dei beni relazionali perché le relazioni risultano migliori proprio quando si parte dalla consapevolezza della distinzione, ma non separatezza dei vari soggetti istituzionali [3].

12. Il sistema tabellare risulta legislativamente costruito – ancora una volta per molti versi giustamente e inevitabilmente – in modo molto accentrato nel CSM e risulta inoltre, nonostante le più recenti positive evoluzioni al riguardo, sostanzialmente preoccupato in modo prevalente della difesa dell’autonomia del singolo magistrato. In conseguenza il meccanismo dei concorsi per la mobilità interna all’ufficio appare preoccupato soprattutto del riconoscimento dei titoli pregressi del singolo, per garantire la non arbitrarietà delle scelte, perché questa potrebbe influire sull’indipendenza del magistrato, ma si chiede poi al dirigente di preparare e realizzare un progetto organizzativo come se fosse un vero manager che invece, come noto, fa i suoi progetti pensando ai risultati produttivi complessivi e non certo all’autonomia dei collaboratori. Anche in questo aspetto allora, la soluzione può venire solo dalla capacità del dirigente di saper pensare e proporre ai colleghi strutture operative e organizzazioni di sezioni e gruppi di lavoro basati su una alta soddisfazione personale dei singoli collegata alla produzione e scambio di beni relazionali (ad esempio per le soddisfazioni professionali che se ne possono ricavare nel lavorare con certi colleghi e in un certo modo invece di un altro; e poi per una migliore organizzazione dei contatti con l’esterno; e per l’impegno di tutti a collaborare al bene comune costituito dal funzionamento dell’ufficio). Solo queste prospettive possono far sperare di smuovere tanti piccoli egoismi e consolidate “nicchie ecologiche”. Ma anche saper diffondere un senso di rispetto per il lavoro e per le scelte del singolo magistrato – che rappresenta un tipico bene relazionale – può contribuire non poco a costruire un processo per la formazione delle “tabelle” dell’ufficio che risolva e non incrementi i conflitti e gli egoismi, oltre a rispondere correttamente alle esigenze del servizio.

Ma anche la capacità di saper convocare riunioni efficaci, di saperle preparare con adeguati incontri preliminari e poi di saperle dirigere in modo che producano risultati concreti e non solo sterili dibattiti risulta non tanto una tecnica, ma una efficace forma di produzione di beni relazionali che sola può raggiungere l’obbiettivo.

13. Ancora e per finire, è necessario sottolineare che dote essenziale del dirigente-leader che voglia sviluppare i beni relazionali sarà il non egocentrismo (che purtroppo sembra invece caratterizzare fin troppi dei dirigenti, anche tra i più “moderni”); quindi saper essere e sentirsi un vero magistrato prima e più che un dirigente e per questo “saper essere” il primo difensore dell’autonomia della giurisdizione. Questo non è solo un dovere istituzionale per la magistratura, ma contemporaneamente uno dei fattori fondamentali per aumentare la soddisfazione dei magistrati e la loro sicurezza che impegnarsi nel confronto e perciò nella circolazione di beni relazionali, non mette in pericolo la loro funzione, ma anzi la potenzia e così migliora non solo la qualità del servizio complessivo dell’ufficio, ma anche quella del singolo. Mentre proprio questa attenzione e capacità di indipendenza sostanziale consentirà al dirigente di svolgere, con la fiducia di tutti i magistrati dell’ufficio, i compiti di collegamento con gli altri uffici e con le altre realtà sociali ed istituzionali del territorio di cui si è già parlato.

14. Vale la pena infine di verificare, con qualche riflessione specifica, se e come il criterio proposto aiuta a superare i rischi del dirigente “burocrate o delatore” quando egli deve svolgere funzioni e compiti che, pur non qualificandoli con gli spiacevoli aggettivi scelti dal titolo, certamente non possono essere trascurati e che non possono essere rimossi, perché si negherebbe una parte della realtà. Si tratta di compiti e doveri che il dirigente effettivamente ha, ma deve saper svolgere in modo non burocratico o peggio, ma da leader responsabile.

Va allora detto che, per aiutare e far crescere le relazioni positive e la capacità di collaborazione e confronto fra i magistrati (i fondamentali beni relazionali) è anche essenziale che tutti possano sentirsi sicuri del livello di comunicazione di tutte le informazioni all’interno dell’ufficio e del rispetto delle regole di comportamento che ci si è dati (ad esempio per la divisione dei carichi di lavoro). Questo significa, tra l’altro, che il dirigente deve saper essere un buon “burocrate”, nel senso di garantire tutti al meglio circa il rispetto delle regole di comunicazione, di comportamento e di rispetto reciproco. In una buona situazione di condiviso e garantito rispetto per il lavoro quantitativo e qualitativo di tutti, diverrà probabilmente facile ottenere che si accettino in certi casi delle sane eccezioni, collegate a circostanze concrete che le giustificano e richiedono ed è anzi probabile che tutti collaborino al meglio. Perché un bravo dirigente-leader deve sapersi prendere la responsabilità di fare delle eccezioni. Queste risulteranno però comprese ed accettate ed insomma condivise solo in presenza di un corretto e normale funzionamento “burocratico” dell’ufficio. Purtroppo vi sono però spinte ad essere burocrate nel senso peggiore quando dall’alto (ad es. dal CSM) o dal basso (ad esempio da alcuni magistrati) si richiede il rigido rispetto della lettera della norma tabellare e delle regole che ci si è dati. Ciò può finire per uccidere lo spirito del sistema e trasformare il sano rigore, che deve normalmente caratterizzarlo, in una esasperante rigidità, che non giova a nessuno ed anzi ostacola il lavoro di tutti.

In ciò grande è la responsabilità non solo del dirigente, che deve saper meritare la fiducia di tutti quando chiede loro elasticità nell’impegno, ma anche quella di tutti e ciascuno perché altrimenti è facilissimo, specialmente nei grandi uffici, che si finisca per trincerarsi dietro i comodi alibi che le regole interpretate rigidamente sempre consentono.

A volte purtroppo vi sono magistrati che rischiano di apparire disinteressati rispetto al mondo che li circonda, estremamente individualisti ed incapaci di gioco di squadra. Sembrano, come dicono gli studiosi inglesi di queste materie, short‑sighted, cioè miopi, nella capacità di cogliere la complessità della domanda di giustizia che si deve fronteggiare in quel certo territorio e così presi dal loro lavoro come singoli da non comprendere come questo potrebbe migliorare nel rapporto con gli altri (spesso sono questi i più anziani ed esperti, ma non solo).

Altri magistrati invece possono risultare incapaci di gioco di squadra perché long‑sighted, cioè presbiti, (spesso i più giovani) perché, piuttosto presuntuosamente, pensano di saper vedere lontano nelle esigenze della giustizia e finiscono per disprezzare il valore dell’esperienza dei più anziani ed il bene che viene al lavoro di tutti dal confronto e dal coordinamento, basati su un sano accantonamento delle ideologie.

Al contrario risulta interessante e molto valida la posizione dei magistrati che magari si pensano come di “serie B”, ma proprio per questo, per la loro umiltà (come ricordava a tutti il presidente Napolitano) spesso sono invece i veri magistrati di “serie A”, per la loro capacità di ascolto e di studio e perfezionamento attraverso il confronto e per la loro conseguente disponibilità ad impegnarsi nella corresponsabilizzazione.

In questa sede interessa solo sottolineare che nessun dirigente, per quanto bravo possa essere, avrà speranze concrete di raggiungere alcun traguardo se non sarà inserito in un gruppo di magistrati responsabili. Certo ciò dipenderà molto dalla sua capacità nell’essere centro di produzione dei beni relazionali di cui abbiamo finora tanto parlato e nel farsi perciò sostenere, ma nulla sarà possibile se i colleghi non vorranno farsi coinvolgere e non accetteranno di divenire corresponsabili del progetto e dell’impegno.

15. Rimane da riflettere su come si debba comportare di fronte ai suoi nuovi obblighi di legge in relazione a situazioni che potrebbero risultare disciplinarmente rilevanti un dirigente che voglia essere leader responsabile del suo ufficio. La prima affermazione che credo vada fatta, alla luce di quanto finora detto, è che una segnalazione disciplinare può (e forse deve) essere fatta da un dirigente-leader responsabile quando essa appaia necessaria per proteggere ed aumentare i beni relazionali che si “producono” nell’ufficio. Per intendersi con un esempio facile si può pensare al caso di un magistrato che disattenda regolarmente i suoi doveri di collaborazione nei confronti dei colleghi o li faccia oggetto di denigrazione di fronte al foro o casi analoghi. In questi casi, qualora in ipotesi si superino i limiti di ciò che può essere recuperato con interventi e rapporti personali, il dirigente non assume la figura del delatore, ma di colui che vigila per essere garante del rispetto delle regole e degli impegni che devono essere comuni e tendenzialmente rispettati per ottenere il giusto clima di fiducia e lo sviluppo di alte ed efficaci relazioni professionali ed umane. In alcuni casi si deve saper essere difensori adeguati rispetto alle aggressioni di alcuni (chi non lavora abbastanza, pur potendo, e anche chi lavora decisamente male, assume la condotta del cittadino che non paga le tasse e finisce così per sottrarre agli altri quanto da lui dovuto). In ogni caso, però, il dirigente nel prendere una decisione del genere non potrà mai essere mosso dal suo personale interesse a non assumersi responsabilità e cercare di vivere più tranquillamente. In questo caso risulterebbe non leader responsabile, ma burocrate nel peggiore dei sensi e davvero solo delatore. È invece evidente che prima di qualsiasi segnalazione, salvi casi veramente gravi o già risalenti nel tempo e come tali senza più margini di rinvio, vi sono normalmente ampie possibilità per intervenire allo scopo di far rimuovere situazioni criticabili o superare momenti di crisi nei rapporti tra magistrati o tra questi ed i collaboratori e ristabilire equilibri positivi all’interno dell’ufficio. Qualcuno potrebbe dubitare che si tratti di materia sottratta al vaglio del dirigente, perché si potrebbe sostenere che non può comunque spettare a lui la qualificazione o l’esclusione di un fatto come illecito disciplinare, ma solo ai titolari dell’azione. Personalmente ritengo che ciò sia vero solo di fronte a condotte chiaramente ed indiscutibilmente riconducibili ai casi previsti di illecito disciplinare, mentre per tutte le possibili condotte che si collocano nell’inevitabilmente ampia zona grigia che circonda quella degli illeciti chiaramente codificati si deve riconoscere al dirigente la responsabilità di poter prevenire e risolvere le problematiche non solo nel senso ristretto di questi termini, ma anche nel senso di poter rapidamente intervenire per far cessare comportamenti discutibili e far invece rinnovare il clima migliore dell’ufficio, di nuovo puntando sullo sviluppo massimo possibile e quindi anche sul recupero dei migliori beni relazionali possibili.

16. In conclusione, spero che dal complesso delle riflessioni che precedono emerga una nuova, possibile, a mio avviso importante, chiave interpretativa di tutti i doveri e poteri del dirigente di un ufficio giudiziario. Potrebbe essere l’avvio di una strada che può portare alla costruzione di una figura di vero leader responsabile capace di aiutare la ricerca di un profilo organico del dirigente dalla quale siamo partiti. Mi appare una prospettiva davvero interessante per chiunque voglia fare il dirigente, ma va ribadito che comporta anche e fortemente la responsabilizzazione di tutti e ciascuno dei magistrati, poiché non è possibile auspicare un tale alto livello di risultato basandosi sull’impegno di una sola persona. Si deve invece puntare ad una percezione decisamente nuova anche del lavoro e dell’impegno del singolo magistrato, semplicemente perché non è pensabile immaginare di ottenere tutti i vantaggi e le garanzie per il lavoro del singolo senza comprendere che ciò non può non basarsi sullo sviluppo del funzionamento complessivo del sistema e perciò sulla corresponsabilità di tutti. Si tratta di divenire tutti, naturalmente a cominciare dai dirigenti, molto più consapevoli che solo l’innesto del lavoro personale su un sistema positivo nel suo insieme può dare vere soddisfazioni e tutele personali. Dobbiamo saper riscoprire il senso ed il valore profondo che il concetto di bene comune, da troppo tempo dimenticato o persino negato, può avere per il bene di ciascuno.


[1] Interessante al riguardo, per una visione generale, ma seria su questo argomento, può risultare la lettura di “Complessità relazionale e comportamento economico” a cura degli economisti Pier Luigi Sacco e Stefano Zamagni, ed. il Mulino 2002 (nel quale vi sono anche tutti i riferimenti ai corrispondenti studi stranieri, tra i quali vale la pena di ricordare quello di Amartya Sen, premio Nobel per l’economia del 1998).

[2] È interessante sottolineare che, dal punto di vista della scienza economica e di questo discorso, rappresenta già una produzione il trasferimento di beni o servizi da un settore ad un altro della stessa impresa. Nel nostro ambito perciò risultano “consumatori” di beni relazionali ad esempio i magistrati ed il personale dell’ufficio GIP rispetto ai “produttori” magistrati della Procura ed al personale della sua segreteria  e così via tra ufficio GIP e settore del dibattimento ed ancora tra il Tribunale e la Corte d’Appello e tra questa e la Corte di Cassazione. In tutti questi flussi di procedimenti si producono infatti inevitabilmente e contemporaneamente beni relazionali, con effetti positivi oppure, spesso purtroppo, con effetti negativi.

[3] Vale la pena di ricordare ciò che ha detto al riguardo Vittorio Bachelet (il vicepresidente del CSM purtroppo barbaramente assassinato dalle brigate rosse): “Di autonomia e di collegamento ha bisogno oggi, come ieri e forse più di ieri, l’ordine giudiziario. Una autonomia che garantisca sempre meglio la indipendenza e quindi la imparzialità dei giudici, tanto più necessaria in una fase di così rapida e profonda trasformazione della società e degli ordinamenti giuridici, nel cui travaglio la Magistratura non vuole essere un corpo separato ma neppure un legno alla deriva; un collegamento con la società e con le altre istituzioni dello Stato che consenta all’ordine giudiziario di rispondere meglio alla antica e nuova domanda di giustizia, ma anche di ottenere quegli strumenti – il cui apprestamento appartiene alla responsabilità di altri poteri dello Stato – che sono indispensabili per il funzionamento e la tempestività della amministrazione della giustizia: dai necessari interventi legislativi in tema di ordinamento giudiziario e di disciplina processuale, alle norme di status e alle misure necessarie per assicurare ai magistrati quell’assetto economico che garantisca la loro posizione costituzionale, alla predisposizione delle indispensabili strutture edilizie e tecniche, alla congruità del personale di cancelleria e ausiliario, alla possibilità di una efficiente utilizzazione della polizia giudiziaria, alla tutela della sicurezza del personale e degli uffici giudiziari, alla funzionalità dei servizi sociali in campo minorile, nel settore della tossicodipendenza, e in quello penitenziario e postpenitenziario”.

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