Il parere del CSM sul ddl 2798 in tema di esecuzione penale

di Giovanna Di Rosa

In data 11.11.2015 il CSM, nell’ambito delle sue competenze consultive in vista dell’emanazione di testi normativi in tema di giustizia,[1] ha formulato con la delibera 11.11.2015 il parere sul ddl 2798 in tema di esecuzione penale.

Tale parere integra quello espresso il 20.5.2015 che si era concentrato sulle proposte di modifica del diritto sostanziale,[2]  rimandando a una separata delibera l’esame dei principi e criteri direttivi contenuti nel disegno di legge per la risistemazione organica dell’ordinamento penitenziario.

Esso contiene varie considerazioni, anche di natura sostanziale e processuale e ha quindi un contenuto non attinente la sola materia ordinamentale o organizzativa.

E’ bene muovere un cenno alla questione politica sottostante, nel tempo oggetto di riflessioni anche critiche argomentate sul preteso esorbitare dei poteri consiliari ove il Consiglio si esprima anche su soluzioni di merito, sviluppatesi a partire dalla vexata quaestio sulla necessità della preventiva richiesta del parere da parte del Ministro della Giustizia.

L’occasione è utile anche per ribadire che, nell’ottica della leale collaborazione tra le istituzioni e secondo una più costruttiva lettura dei rapporti tra legislatore e organismo consiliare, il parere del CSM sulle riforme in tema di giustizia è in linea di principio uno strumento per un contributo propositivo e consapevole, utile se non prezioso in sede di riforme destinate a ricadere sulla giurisdizione e sul suo esercizio, al di là dell’ampia previsione normativa che di fatto lo consente.

Sul merito del testo, il Consiglio muove dalle premesse della  centralità della questione dell’esecuzione penale nell’ambito del processo penale alla luce delle indicazioni europee a partire dalla sentenza c.d. Torreggiani dell’ 8.1.2013, che con il sistema della procedura-pilota invitò lo Stato italiano ad adottare  provvedimenti volti a rimediare alle disumane condizioni di vita dei detenuti negli istituti penitenziari.  Il Consiglio richiama anche il messaggio sul tema rivolto dal Presidente Napolitano alle Camere in data 8.10.2013.

Nella delibera, il CSM ricorda la sua partecipazione alla tematica sottostante, concretizzatasi nei precedenti pareri sui testi normativi nel frattempo adottati e tramite la sua Commissione Mista,  istituita nel 1998 e poi ricostituita  nel 2010 per  richiamare poi le sue delibere, tra cui quella del 21.11.2012, dal contenuto  innovativo perché tesa alla formulazione di proposte, oltre che organizzative, normative, di fatto parzialmente recepite nei successivi testi di legge, e la risoluzione 24.7.2013, che indicava proposte operative e  buone prassi per la migliore organizzazione dei Tribunali e degli Uffici di Sorveglianza al fine di semplificarne le procedure e accelerare la definizione delle singole istanze.

Per amore di verità va detto che la risoluzione del 21.11.2012[3] non venne approvata dal CSM dopo un’accesa discussione sulla contestata potestà del CSM di proporre in autonomia soluzioni normative e si concluse, a maggioranza, con una presa d’atto.

Occorre aggiungere poi che alla successiva risoluzione 24.7.2013, contenente una serie di raccomandazioni rivolte ai dirigenti dei Tribunali di Sorveglianza, oggetto di indicazioni recepite nei testi normativi poi adottati e nello stesso ddl 2798  fece seguito un’altra, innovativa delibera, adottata dallo stesso CSM il 22.1.2014. Con essa il Consiglio riepilogava i dati del monitoraggio operato dalla sua Commissione Mista dopo la risoluzione del 24.7.2013 per verificare, presso gli Uffici e i Tribunali di Sorveglianza, il grado di condivisione delle prassi proposte, a loro volta derivanti da esperienze positivamente sperimentate, in particolare presso il Tribunale di Sorveglianza di Milano.

La verifica della tenuta o meno delle prassi operata con la consultazione tramite questionario inviato a tutti i Tribunali e Uffici di Sorveglianza, seguiva un approccio metodologico utile all’organo di governo autonomo per conoscere l’effettiva attuazione e adeguatezza del suo deliberato e riflettere sulle indicazioni critiche pervenute. Sull’elaborazione delle risposte si fonda la proposta di risoluzione approvata alla seduta plenaria del 23.1.2014. Ferma restando l’autonomia del magistrato, è interessante ricordare che la delibera finale,  approvata prima dalla settima commissione del CSM e, poi, dal plenum, esplicitò “la diversa percezione della funzione del magistrato di sorveglianza, sinteticamente riconducibili in quella di giudice terzo in area strettamente giurisdizionale o in quella del magistrato che svolga anche compiti propulsivi nella modifica delle condizioni di detenzione.[4]”

Il riferimento alla storia del CSM in questo ambito non pare ultroneo perché la conoscenza e la diffusione di queste iniziative consiliari testimonia in concreto la presenza dell’organismo consiliare in una tematica così centrale per il funzionamento dell’intero processo penale.

In quest’ottica va ricordato anche l’altro contributo fornito al Ministro della Giustizia dal CSM con la delibera 16.1.2014[5] contenente la proposta di ampliamento della pianta organica dei Magistrati di Sorveglianza in forza di un ragionato e complesso lavoro sui nuovi carichi di affari di tali uffici conseguente all’aumento del numero dei condannati definitivi presenti negli istituti penitenziari anche a causa delle  modifiche normative nel frattempo elaborate sulla custodia cautelare (pari a circa 2.500 unità in più all’anno e, complessivamente, a 10.000 unità in più dal 2010 al 2013). Si noti che tali dati sono perfettamente congrui con quelli indicati dal CSM nella premessa al parere 11.11.2015. Quest’ultimo sottolinea infatti la riduzione proporzionale del numero dei ristretti in custodia cautelare (scesi alla data del 30.6.2015 a 18.478, a fronte dei 29.809 del 31.12.2009, con un calo corrispondente a 11 punti in percentuale).

La proposta 16.1.2014, che ha dunque calcolato il potenziale aumento lavorativo del Magistrato di Sorveglianza dovuto alla più massiccia e progressiva presenza dei condannati definitivi, sui quali si articolano le decisioni della Sorveglianza stessa, ha concluso chiedendo, al fine del solo mantenimento del carico di lavoro pro-capite dell’anno precedente, una richiesta di aumento complessivo della pianta organica dei Magistrati di Sorveglianza di 19 unità, pur senza affrontare il problema dell’adeguatezza in generale delle piante organiche.

Tale delibera, assai interessante perché in sostanza ha affrontato il tema dei carichi esigibili,  è stata una vera e propria conquista, visti i tempi in cui i risparmi della spesa pubblica sono argomento per  contrarre ogni ragionamento di efficienza. Essa infatti, pur significativamente evidenziando come sia “urgente e indifferibile procedere ad una rivisitazione anche delle piante organiche degli uffici di sorveglianza, tenuto conto della drammatica cronaca che quotidianamente interessa tali uffici,” è stata una pronta  risposta di aumento delle piante organiche degli uffici di sorveglianza pur auspicando, per l’immediato futuro, una riorganizzazione complessiva delle risorse.

L’incremento deliberato in allora ha avuto seguito con il recente decreto del Ministro della Giustizia del 18.9.2015, che ha disposto il conseguente ampliamento delle piante organiche.

Completato dunque, se pure in maniera estremamente sommaria, il panorama del contributo del CSM alla storia della modifica normativa del sistema dell’esecuzione penale, torniamo ora alla più recente delibera 11.11.2015 del CSM.

Muovendo dalla premessa che le modifiche normative del passato sono improntate alla stratificazione di specifici interventi su singoli settori o tipologie di reati per il ritenuto prevalere delle esigenze di sicurezza e di tutela della collettività, il CSM  afferma che ciò ha comportato il sacrificio dei profili della  rieducazione impedendo o rendendo più difficile l’accesso alle misure alternative. Di fatto tali modifiche, la cui ulteriore rimeditazione è oggetto di delega, sono state improntate alla sottrazione, al magistrato di sorveglianza, della potestà discrezionale di decidere la singola posizione caso per caso: le  barriere preclusive hanno normativamente previsto che non si dovesse valutare il merito delle specifiche istanze.

Il ddl elenca una serie di campi di intervento legislativo e il CSM esamina, uno per uno, tali settori.

Partendo allora dalla delega in punto semplificazione delle procedure, anche con la previsione del contraddittorio differito, il Consiglio sceglie la strada del mantenimento della collegialità articolata, valorizza la presenza degli esperti nei collegi e rappresenta comunque la scarsa chiarezza della delega sul tema perché – precisa – le modifiche introdotte dalla L.10/2014 hanno sufficientemente ampliato l’attività monocratica, già introducendo la procedura de plano per alcuni istituti.

Invero, il dibattito culturale sul tema si potrebbe pragmaticamente orientare in una direzione diversa: in un’ottica di comparazione tra le esigenze di celerità nella trattazione di procedimenti riguardanti la libertà personale e  il mantenimento della tradizione e della cultura collegiale, a quale opzione dare prevalenza? E’ ben vero che la previsione di collegialità assicura, come dice il CSM, un procedimento più garantito tramite il ricorso all’art.666 c.p.p. per la trattazione di istanze che riguardano la libertà personale, soprattutto – giusto per seguire l’espressione consiliare – perché nei singoli casi si può decidere diversamente e perché le competenze collegiali rimaste investono le posizioni più complesse, senza contare effettivamente l’importante contributo offerto dai giudici onorari esperti nelle scienze complementari e presenti nel solo collegio.

Deve però osservarsi che ciò ha, come si anticipava, un costo maggiore sotto ogni profilo. Il tempo del Collegio è infatti più lungo e il costo materiale del processo è più alto, senza considerare che alcune decisioni sono particolarmente urgenti per ragioni di salute o  condizioni personali e  familiari degli interessati. Trattandosi, sempre e comunque, di gestione della libertà personale, va infatti ribadito con forza che in materia di esecuzione penale ogni decisione, anche organizzativa, ricade sulla durata della detenzione. Non tutti i benefici penitenziari sono peraltro affidati alla gestione monocratica in via interinale: per grandi linee vi rientrano infatti le sole pene, anche residue, sino ai 4/6 anni o 3, a seconda del beneficio richiesto, salvo l’istituto del differimento della pena, che prescinde da qualsivoglia limite di pena e tipologia di reato.

Le nuove  norme hanno peraltro escluso l’art.47 quinquies O.P.,  relativo alla concessione della detenzione domiciliare alle detenute madri o ai detenuti padri con prole che non sia possibile affidare ad altri, come infatti ricordato dallo stesso CSM nella sessione dedicata alle ulteriori proposte.

In questa ottica si rappresenta un’ipotesi di lavoro: il contraddittorio successivo e collegiale potrebbe essere esteso solo ai casi in cui  il Magistrato di Sorveglianza che abbia concesso il provvedimento provvisorio (di affidamento, ordinario o terapeutico o di detenzione domiciliare) ne ravvisi la necessità a causa dell’andamento altalenante o delle violazioni nel frattempo realizzatesi.

Ciò consentirebbe al Collegio di concentrare le proprie energie sui casi incerti o su quelli in cui il Magistrato abbia respinto la richiesta di applicazione della misura alternativa in via provvisoria oppure – a legislazione invariata – sulle  posizione giuridiche più complesse e rimaste sottratte alla decisione provvisoria dell’organo monocratico.

Sotto il profilo della riduzione dei meccanismi preclusivi di cui al ddl 2798, il CSM ipotizza una “revisione in minima parte dell’elenco dei reati individuati al comma 1 dell’art.4 bis O.P., senza toccare le fattispecie sintomatiche delle attività di pericolose organizzazioni criminali,” peraltro escluse dalla stessa delega.

Giova aggiungere che i c.d. Stati Generali dell’esecuzione penale che hanno operato presso il Ministero della Giustizia sino al 30.11 u.s. elaborando, attraverso i loro tavoli di lavoro, contributi di riflessione “della base” grazie alla loro composizione multiculturale, hanno esitato una proposta totalmente soppressiva del comma 1 dell’art.4 bis O.P e, nel complesso, del meccanismo preclusivo in generale, nell’ottica di restituire  alla Magistratura di Sorveglianza responsabilità e autonomia nella scelta decisionale.[6]

Non è dato ad oggi di dire con certezza cosa e quanto, del lavoro degli Stati Generali, verrà recepito attraverso norme di legge. Quanto al tema del c.d. ergastolo ostativo, il CSM indica la possibilità di concedere la liberazione condizionale anche ai condannati per reati della c.d. prima fascia dell’art.4 bis O.P., salvo che si decida di sostituire il requisito della collaborazione con la giustizia con il raggiungimento della prova positiva della dissociazione del soggetto dall’organizzazione criminale, tuttavia concludendo per l’impossibilità della sua totale eliminazione “nei casi eccezionali in cui attualmente si realizza, nell’ottica di una razionale, effettiva e mirata strategia di contrasto alla criminalità organizzata”.

E’ bene ricordare che l’espressione “ergastolo ostativo” riguarda i condannati per taluni reati associativi e determina l’impossibilità di fruire di qualsivoglia beneficio penitenziario in perpetuo, a meno a che non il soggetto non abbia collaborato con la giustizia ovvero qualora la collaborazione con l’Autorità Giudiziaria venga riconosciuta impossibile o irrilevante.

Gli interventi della Corte Costituzionale hanno ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale della pena dell’ergastolo in generale: a partire dalla sentenza 7.11.1974, n.264, menzionata dallo stesso CSM, con la quale la Corte affermò che l’art.27 della Costituzione non ha proscritto la pena dell’ergastolo là dove il legislatore la ritenga, nell’esercizio del suo potere discrezionale, strumento ineludibile di intimidazione per soggetti che non rispondono a sanzioni meno gravi o come mezzo per isolare criminali che hanno dimostrato un’indole efferata e pericolosa.

Il richiamo a questa sentenza di oltre 40 anni addietro consente di ricordare che la Corte affermò allora che “dissuasione, prevenzione, difesa sociale, stiano, non meno della sperata emenda, alla radice della pena,” salvando l’istituto grazie alla liberazione condizionale e alla sua allora recente sottrazione alla competenza politica del Ministro della Giustizia per essere affidata alla giurisdizione e alle sue garanzie.[7]

  L’indicazione del CSM sul riconoscimento della liberazione condizionale  anche ai condannati all’ergastolo ostativo sarebbe quindi di per sé migliorativa di una situazione oggetto di studio e critiche di sistema, anche se appare complessa la successiva conciliazione interpretativa di questa indicazione con il requisito del sicuro ravvedimento imposto dall’art.176 c.p. a norma invariata.

Il CSM ricorda altresì, in subordine, la possibile opzione legislativa della sostituzione del requisito della collaborazione con la giustizia con il raggiungimento della prova positiva della dissociazione del soggetto dall’organizzazione criminale, sottolineandone però la problematicità, nella dichiarata consapevolezza dell’uso della collaborazione premiale,  strategia dell’investigazione giudiziaria, tanto da pervenire poi alla conclusione della sua ineliminabilità, come sopra ricordato.

Altro profilo preso in considerazione dal parere è il percorso della giustizia riparativa, istituto del quale oggi spesso si parla,  talvolta senza conoscere, neppure a livello terminologico, la differenza tra il risarcimento del danno e il diverso percorso che impone, appunto, la giustizia riparativa,  a sua volta diversa altra rispetto alla mediazione penale.

Il CSM ricorda come “presenza embrionale” nella legislazione vigente l’art.47 comma 7 della Legge 26.7.1975, n.354 di Ordinamento Penitenziario,[8] che prevede come, tra le prescrizioni dell’affidamento, debba stabilirsi che “l’affidato si adoperi in quanto possibile in favore della vittima del reato.”

La giurisprudenza dei Tribunali di Sorveglianza ha cercato di colmare il contenuto di tale previsione normativa con obblighi di restituzione economica cui sono stati talora aggiunti oneri riparatori di azioni per equivalente, quale lo svolgimento di un’attività socialmente utile, valutandone poi l’effettivo adempimento, al termine della prova, ai fini della dichiarazione di estinzione della pena. Tale orientamento, consolidatosi dall’epoca di “Mani Pulite” per i reati contro la Pubblica Amministrazione, sopperisce invero alla mancanza di norme e istituzioni specificamente preposte a questo fine.

La recente Legge 67/2014 sulla “messa alla prova” ha poi riconosciuto esplicitamente il ruolo della “persona offesa,” così denominando la vittima e ha previsto (art.464 bis comma 4 lett.c) c.p.p.) che nel programma siano indicate “le condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la parte offesa”.[9]

Bene il CSM sottolinea nel parere 11.11.2015 che si tratta di una  frontiera da non caricare di “valenze neo-retributive”.

Il percorso di mediazione deve anche, a mio parere, rimanere estraneo al processo penale ed ai suoi percorsi nella fase esecutiva onde assicurare un vero tentativo di riconciliazione tra reo e collettività, di cui la vittima è parte,  senza strumentalizzazioni per il ruolo di quest’ultima. 

Vale la pena di aggiungere che nell’ambito degli Stati Generali dell’esecuzione penale è stata proposta, in vista dell’eliminazione dell’ergastolo ostativo, l’introduzione di una norma introduttiva dell’ulteriore requisito della condotta riparativa.

Il CSM esamina poi il punto della delega sulla maggiore valorizzazione del lavoro intra ed extramurario come strumento di responsabilizzazione individuale e di reinserimento sociale dei detenuti evidenziando la positività dell’integrazione della delega con il riferimento al potenziamento del lavoro domestico[10] e a quello affidato a committenza esterna e aggiornando quanto il detenuto deve a titolo di mantenimento.

Invero, già l’Ordinamento Penitenziario (art.15) nel 1975 pose il lavoro come elemento fondante del trattamento insieme all’istruzione, alla religione, alle attività culturali, ricreative e sportive e ai contatti con la famiglia, abbandonando la visione del lavoro come fattore di ulteriore afflittività della pena.

Il citato art.15 O.P. stabilì il principio che il lavoro,  salvi i  casi di impossibilità, fosse obbligatoriamente assicurato a tutti, anche agli imputati e il successivo art.20 ne ribadì la natura, prescrivendo che dovesse essere remunerato, in piena armonia con le regole minime per il trattamento dei detenuti adottate dall’ONU (artt.71, 72, 76), dal Consiglio d’Europa (artt.26 l.reg.penit.eur., raccomandazione R(2002)2 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa) .

Sembra che tale punto della delega si saldi in qualche modo con la previsione della giustizia riparativa cui si è fatto cenno: il lavoro svolge una funzione di riequilibrio sociale e con finalità preventive  nella direzione di una giustizia che si occupa e si interessa anche delle vittime del reato: individuo e collettività.

Ciò sembra cogliersi nel parere che, nel favorire l’incentivazione del lavoro, si diffonde sulla valorizzazione delle attività che consentono al detenuto la positiva partecipazione alla crescita “materiale o spirituale della società e in ogni caso di consolidarne il percorso di responsabilizzazione.” 

Le difficoltà operative in tema di lavoro in carcere hanno sempre riguardato i tempi dell’organizzazione delle imprese a causa delle regole dell’istituzione penitenziaria, della rigidità delle autorizzazioni per l’accesso negli istituti penitenziari e del tempo necessario per ottenerle, della non sempre adeguata professionalità dei detenuti alle specifiche esigenze imprenditoriali, della carenza degli spazi interni e così via.

Le imprese rispondono invece a esigenze di competitività incompatibili con questi problemi.

Inoltre non sempre si è percorsa la strada della valorizzazione dei manufatti all’interno del carcere, nonostante la qualità dei prodotti che ivi si realizzano, anche se ora il DAP è impegnato a favorirne la diffusione sul mercato; né gli incentivi fiscali della legge c.d. Smuraglia hanno trovato facile copertura finanziaria nel tempo.

Il parere del CSM ricorda anche lo strumento dell’art.21 O.P. (il c.d. lavoro all’esterno) e richiama l’utilità di attività di valore morale e sociale che sempre più vedono oggi l’ampliamento del volontariato come forma di lavoro utile per l’accesso al benefici (‘art.21 O.P. modificato dal D.L.1.7.2013, n.78 conv. con L.9.8.2013, n.94).

L’incentivazione fiscale e previdenziale è una  strada utile per avvicinare l’impresa al carcere e vi è traccia di questa volontà legislativa nelle recenti modifiche di legge[11], anche se la tematica è delicata e deve fare i conti con l’attuale assenza di risorse lavorative sul mercato, permanendo peraltro il pregiudizio della pericolosità sulle persone condannate e/o in espiazione di pena anche al momento di selezione del personale da parte del datore di lavoro.

Il parere esamina poi il punto della delega sul ricorso al volontariato, anche in collaborazione con gli Uffici dell’Esecuzione Penale Esterna.

Il volontariato, grande risorse dell’esecuzione penale, è fonte di ossigeno per la carenza delle dotazioni organiche del personale dell’Amministrazione Penitenziaria ed è stato recentemente valorizzato per legge. Infatti l’art.1 comma 3 della L.11.8.2014, n.117 di conversione del D.L.26.6.2014, n.92 ha aggiunto  all’art.68 O.P. la previsione che gli Uffici di Sorveglianza possono avvalersi, “con compiti meramente ausiliari nell’esercizio delle loro funzioni, di assistenti volontari individuati sulla base dei criteri dell’art.78 O.P., la cui attività non può essere retribuita.”

Tale disposizione è ovviamente destinata a favorire il più sollecito svolgimento dell’attività del Magistrato di Sorveglianza, rallentata dalla carenza delle piante organiche del personale amministrativo che lo coadiuva e considerato che ogni ritardo nella risposta giudiziaria aumenta il numero dei giorni della detenzione.

Come detto, non bisogna dimenticare infatti che l’organizzazione degli Uffici di Sorveglianza procrastina o  riduce la detenzione.

Certamente un volontario qualificato potrà, oltre che collaborare negli uffici, “coadiuvare” l’esecuzione penale, come dice il CSM. In questo senso è bene ricordare le esperienze virtuose che, anticipando le riforme, hanno dato luogo a intese locali perché le associazioni di volontariato seguano i percorsi dei detenuti domiciliari, altrimenti gestiti solo dai controlli delle Forze dell’Ordine, in assenza di interventi degli Uffici dell’Esecuzione Penale Esterna, sovraccarichi di lavoro, che da tempo hanno accantonato proprio i detenuti domiciliari.

E della grave situazione di organico di tali operatori, che comporta tra l’altro la riduzione del livello di sicurezza che pure si invoca da più parti, si fa carico lo stesso CSM che nella parte  propositiva ricorda criticamente la clausola di invarianza finanziaria posta dal ddl in esame.

L’impossibilità dell’UEPE di sopperire alle  competenze di cui è gravato a fronte della sua scopertura di organico è esplosa dopo l’adozione della L.67/2014 sulla messa alla prova. Le nuove competenze all’UEPE sono state allora fronteggiate accantonando ovvero procrastinando le relazioni che l’Uepe stentava già a rendere in tempi adeguati alla Magistratura di Sorveglianza per l’adozione delle sue decisioni. Questo  grave stato di cose è sottolineato dallo stesso CSM che  evidenzia i nuovi e più frequenti rinvii di udienze collegiali dei Tribunali di Sorveglianza a causa dell’assenza dell’indagine sociale, necessaria per decidere sulle misure alternative. E, aggiungo, è ben difficile incentivare il ricorso alle misure alternative concedibili anche in via provvisoria senza tali indagini, che stentano o ritardano persino per le sintetiche relazioni sull’idoneità del domicilio, prescritte per la concessione del beneficio di cui alla L.199/2010 e succ.mod.

Pare utile porre l’accento su queste carenze organizzative  proprio parlando del volontariato, onde chiarire che il non costoso coinvolgimento di quest’ultimo non è la soluzione sufficiente per ovviare alle carenze di organico di cui si è detto. Ciò che viene chiesto al Magistrato di Sorveglianza, stretto tra contrapposte esigenze a scelte difficili, tra cui la consapevolezza che le istanze sono prive dei contributi necessari e che le misure, una volta concesse,  sono poi poco seguite sul territorio, è davvero tanto, troppo.

La stessa L.28.4.2014, n.67, all’art.7 ha del resto previsto la possibilità per il Ministro della Giustizia di riferire tempestivamente alle commissioni parlamentari competenti per l’adeguamento numerico e professionale della pianta organica degli Uffici di Esecuzione Penale esterna, “previo stanziamento delle occorrenti risorse finanziarie da effettuare con apposito provvedimento legislativo.”

Il parere prosegue poi sulla disciplina dell’utilizzo dei mezzi di collegamento audiovisivi a fini processuali e per favorire le relazioni familiari e si esprime a favore della loro diffusione nelle relazioni familiari criticandone però l’uso per finalità processuali, per un verso perché le attività delegate alla Magistratura di Sorveglianza da parte del giudice che procede ben potrebbero e dovrebbero essere svolte direttamente da quest’ultimo, operando la necessaria modifica normativa, per l’altro perché non sembra giusto formulare un giudizio che include valutazioni sulla persona, a seguito di dati acquisiti con uno strumento a distanza.

Invero la delibera del CSM del 24.7.2013 aveva consigliato  tra le sue prassi l’uso di tale strumento ben prima che diventasse oggetto della delega legislativa, al fine di favorire sia i colloqui con i familiari distanti dal luogo di detenzione del condannato, sia  la pronta esecuzione delle c.d. rogatorie di cui all’art.666 comma 4 c.p.p. La delibera aveva però specificato già che quest’ultimo non sarebbe dovuto diventare un mezzo di lavoro in sostituzione degli ordinari colloqui del Magistrato con il detenuto. Non va dimenticato infatti che il colloquio diretto del Magistrato con il detenuto consente di acquisire anche ciò che non emerge dagli atti e verificare concretamente la situazione, mentre la lettura cartacea del fascicolo consente solo de relato di percepire il percorso compiuto e di avere quindi piena consapevolezza di ciò che si decide.

Tali osservazioni trovano riscontro nella risoluzione del CSM  22.1.2014 all’esito del monitoraggio effettuato sulle proposte del luglio 2013: i Magistrati condividevano lo strumento tecnico per le sole rogatorie, sottolineavano  l’importanza del contatto diretto tra giudice e interessato, indicavano tale strumento come una semplice occasione per intensificare i colloqui evidenziando peraltro, sul collegamento a distanza per i colloqui con i familiari,  la necessità di un operatore al colloquio per le ritenute ragioni di sicurezza, con profili problematici dovuti al peggioramento della qualità del rapporto che deriverebbe dall’ascolto diretto di un terzo.

Il richiamo ai colloqui affettivi fa da ponte per la successiva indicazione, contenuta nella delega, sul riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute: il parere del CSM si esprime favorevolmente ai colloqui c.d. intimi. Essi sono allo stato impediti dall’art.18 O.P., secondo cui i colloqui visivi con i familiari si devono svolgere in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia e precisa che dovranno essere apprestati accorgimenti organizzativi per consentirne l’attuazione.

Per i minorenni, il parere del CSM riepiloga lo stato della normativa e sottolinea che le misure alternative svolgono un ruolo strategico che non va ostacolato da strumenti preclusivi.

Il CSM si esprime in maniera poi dichiaratamente contraria alla previsione della pubblicità dell’udienza di sorveglianza ponendo quale argomento forte la grave lesione alla privacy che potrebbe derivare dalla pubblicità generalizzata dell’udienza; ricorda a tale fine l’intervento della Corte Costituzionale (sentenza 5.6.2015, n.97, sulla scia della precedente sentenza della stessa Corte 21.5.2014, n.135 nel procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza) che ha reso ciò possibile a condizione che  l’interessato vi consenta. Pare interessante ricordare peraltro che la Corte, nella sentenza 97/2015, ha fondato la sua decisione anche sul “controllo del pubblico sull’esercizio dell’attività giurisdizionale,”sul cui significato si potrebbe lungamente trattare.

Bene fa il CSM nel condividere poi la necessità della previsione di un’osservazione scientifica della personalità in libertà stabilendo modi, tempi e soggetti chiamati a intervenire, con l’integrazione delle necessarie previsioni sugli strumenti dell’Uepe (art.47 O.P.). La delibera si concentra qui nuovamente sull’assetto organizzativo deficitario cui  si è fatto cenno, che si salda con tale punto della delega.

Essa esamina poi alcuni punti specifici che erano stati già oggetto delle prassi suggerite con la sua delibera 24.7.2013 e nella relazione della Commissione Ministeriale istituita con D.M.13.6.2013: tra questi, la necessità di intensificare le iniziative trattamentali connotate da effettiva presenza del lavoro e dello studio, che il CSM vuole incrementate anche attraverso l’uso di nuove tecnologie, l’organizzare i colloqui affettivi in orari favorevoli ai regimi familiari, il favorire le comunicazioni telefoniche, nell’ambito della vigilanza dinamica quale modello di alleggerimento del controllo a vista della Polizia Penitenziaria.

Le proposte dovranno comunque fare i conti con le disponibilità e le risorse della polizia Penitenziaria.

Il parere sottolinea poi la necessità di maggiori tipizzazioni delle fattispecie che costituiscono illecito disciplinare. Può qui osservarsi  che le sanzioni disciplinari sono talora usate come strumento di sicurezza  e che questione mai risolta è quanto sia corretto affidare solo ad esse la valutazione della regolarità della condotta per la concessione dei benefici premiali. Ma, si sa, spesso così si fa perché i pochi operatori penitenziari non hanno il tempo di predisporre relazioni più articolate.  

Gli ambiti ulteriori tracciati dal CSM per interventi normativi riguardano il disegno dell’esecuzione penale. Mi piace allora sottolineare la necessità di prevedere un intervento giurisdizionale di controllo dell’ubicazione dei soggetti nei circuiti penitenziari sia all’atto dell’inserimento che della declassificazione, oggi demandati esclusivamente al DAP.

In generale, il ripensamento complessivo del sistema passa per la giurisdizionalizzazione di ogni settore della vita del detenuto con la presenza del giudice quale garanzia di terzietà e di imparzialità, nella migliore tutela dei diritti  e della legalità.

Un punto centrale della criticità del sistema è infatti, a mio parere, il funzionamento del rapporto tra giurisdizione e amministrazione. Il legislatore ha solo di recente previsto i “rimedi risarcitori” di cui all’art.35 ter O.P. ricordati dal CSM nel suo parere insieme alla dichiarata opportunità di una norma che espliciti il “controverso significato dell’attualità del pregiudizio” oggetto di interpretazione restrittiva da parte del CSM stesso[12] e, poi, di differenti e contrapposte letture della giurisprudenza di merito e della Corte Suprema[13].

Aggiungo però che la messa a regime di un sistema risarcitorio per una detenzione illegittima è già intrinsecamente una contraddizione in termini: la pena tende, nelle sue modalità esecutive, al ripristino della legalità, negato in radice dalla risarcibilità di un danno patito durante tale esecuzione. Se  questo meccanismo contraddittorio è divenuto ineluttabile a causa di una situazione oggettiva su cui si è finalmente sollevato il velo, è il caso di lavorare per un futuro concretamente diverso nel quale il sistema risarcitorio non serva più.

La migliore messa a punto del sistema dell’esecuzione penale soprattutto nella direzione extramuraria richiede però impegni di spesa a tutto campo.

Il CSM sottolinea ciò e ricorda la prevista assistenza post penitenziaria, di cui all’art.75 O.P. rimasta sulla carta.

Non resta che augurarsi che ogni sforzo legislativo si muova in questa direzione.

In ogni caso il problema non si risolverà con la sola riduzione delle presenze in carcere: la qualità dell’esecuzione penale, la sua tensione costituzionale al reinserimento passano per iniziative e percorsi più impegnativi della semplice e forse troppo facile detenzione quale mera custodia di un  corpo. Qualità della detenzione e misure alternative possono davvero fare la differenza.

Concludo osservando quanto già risulta nella relazione introduttiva del Quaderno n.163 del CSM: la sentenza c.d. Torreggiani dell’8.1.2013, da più parti invocata, ricorda che gli Stati membri devono assicurarsi che la loro legislazione e le loro “prassi”siano conformi alle disposizioni della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e alla giurisprudenza dei suoi organi di controllo, che l’efficacia dei percorsi previsti “motivi” i giudici d ei procuratori a considerare le misure “per ridurre la durata della pena da scontare e “le sanzioni e le misure applicate nella comunità”, che gli Stati membri esortino procuratori e giudici a ricorrere il più possibile alle misure alternative.

Si tratta di interventi destinati a gettare lo sguardo anche sulla giurisprudenza, con un discorso estremamente complicato e, sinceramente, non indagato: il richiamo ai principi interni  di autonomia e indipendenza della magistratura e l’importanza dei valori sottesi spiegano la complessità del discorso.

Dal punto di vista dei Magistrati, il confronto attraverso la formazione e il dialogo con gli altri attori istituzionali potrebbero essere una risposta di equilibrio, mentre le iniziative consiliari potrebbero fare il resto.

                                              Giovanna Di Rosa

                                      Magistrato di Sorveglianza


[1] La previsione normativa è contenuta nell’art.10 della L.24.3.1958, n.195 recante “Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura” e riguarda l’espressione di pareri al Ministro per la Giustizia “sui disegni di legge concernenti l’ordinamento giudiziario, l’amministrazione della giustizia e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie.”

[2] In particolare, la delibera del 20.5.2015 esaminava le disposizioni del disegno di legge in tema di riparazione del danno, il contrasto alla corruzione, la confisca allargata, la prescrizione e alcune disposizioni processuali, con riferimento inoltre alle intercettazioni e al regime delle impugnazioni.

[3] La delibera è pubblicata, con i lavori integrali della Commissione Mista, nel Quaderno del CSM n.160 del 2013.

[4] Tale delibera è pubblicata invece, con i lavori della Commissione Mista dal 2013 al 2014, nel Quaderno del CSM n.163 del 2014, 105.

[5] Ivi, 127.

[6]  I  rapporti possono leggersi in www.giustizia.it

[7] Come era avvenuto in effetti grazie alla sentenza della Corte Costituzionale 27.6.1974, n.204.

[8] Di seguito indicato come “O.P.”

[9] La legge ha stabilito i casi di intervento, nel procedimento di messa alla prova, della persona offesa: essa deve per esempio essere avvisata della data dell’udienza nella quale si deciderà sulla messa alla prova e, se presente, sarà ascoltata, potrà impugnare per Cassazione, nel caso di mancato rispetto di tali previsioni normative,  l’ordinanza ammissiva, deve acconsentire alla rateizzazione del pagamento delle somme dovute come risarcimento del danno.  Si tratta invero di adempimenti formali. 

[10] L’espressione “domestico” si riferisce al lavoro interno al carcere.

[11] La L.94/2013 ha modificato al riguardo l’art.4 comma 3 bis della L.8.11.1991, n.381 e l’art.3 della L.22.6.2000, n.193.

[12] Si veda il parere del CSM del 23.1.2014 sul d.l. 23.12.2013, n.146, convertito in L.21.2.2014, n.10 senza il recepimento dell’indicazione del CSM sulla criticità interpretativa rilevata a proposito dell’art.35 bis O.P.

[13] Si ricorda qui la sentenza Cass.16.7.2015, n.46966, la quale ha ritenuto che l’esclusione del rimedio risarcitorio di competenza del Magistrato di Sorveglianza di cui all’art.35 ter O.P. per coloro che, in costanza di detenzione, lamentino il pregiudizio da condizioni di carcerazione inumane in violazione dell’art.3 CEDU non più attuali  in  quanto rimosse non è conforme, “sotto il profilo logico-sistematico, alle finalità proprie delle disposizioni introdotte dal legislatore in materia di ordinamento penitenziario nel 2013 e nel 2014”. 

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