Il processo penale nel ddl Bonafede di David Mancini

Alla base dell’intervento del legislatore, che agli articoli dal 13 al 22 della legge delega recante un campo di azione vastissimo (disegno  di  legge  recante deleghe   al   governo   per   l’efficienza   del processo  civile  e  del  processo  penale,  per  la  riforma complessiva dell’ordinamento   giudiziario   e   della   disciplina   su eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati nonché disposizioni sulla costituzione e funzionamento del consiglio superiore della magistratura e sulla flessibilità dell’organico di magistratura) riguarda il processo penale, vi sarebbe la stringente necessità di una modifica di un meccanismo processuale sempre più farraginoso e ridondante.

Purtroppo, agli intenti ambiziosi corrispondono soltanto sparuti interventi di riforma, talvolta ispirati astrattamente al principio di economia processuale, senza alcuna riflessione sulle problematiche concrete e in assenza di una vera azione riformatrice di ampio respiro. Nessun cenno, ad esempio, sull’ampliamento dell’applicazione del giudizio direttissimo, sull’efficienza dell’ingresso delle prove in dibattimento (e su altre analoghe tematiche esemplificative, indicate nello scritto che sarà pubblicato a cura di Alessandro De Santis).

A fronte di taluni elementi positivi (l’intervento seppur minimale in tema di notificazioni, i poteri del Giudice dell’udienza preliminare, con la previsione di una fase pre-dibattimentale che possa essere realmente deflattiva, con il mutamento della regola di giudizio ex art. 425 comma 3 c.p.p., e di rimando, dell’art. 125 norme att. c.p.p.), restano numerose criticità e perplessità.

D’altro canto, sembra non emergere affatto una chiara virata verso la “ragionevole durata del processo” (trattasi dell’ennesima riforma “a costo zero”), bensì si prevedono oneri e responsabilità, anche di tipo disciplinare, in capo al Pubblico Ministero.

Non si introduce alcun rimedio teso a modernizzare e snellire le indagini preliminari (ad esempio, concrete potenzialità deflattive della diversificazione del rito), ma si intende “costruire un muro” al termine di esse.

Art. 13

L’articolo 13 costituisce la base della legge delega materia penale. Il raggio di azione è estremamente ampio (modifica del codice di procedura penale, del codice penale e della collegata legislazione speciale e per la revisione del regime sanzionatorio di alcune contravvenzioni, con finalità di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo penale, nel rispetto delle garanzie difensive e secondo i princìpi e criteri direttivi previsti dalle disposizioni del presente capo) e consente al governo un esercizio della delega su tutto il settore penalistico entro i termini prefissati. Qualora veramente l’esecutivo volesse mettere a frutto il termine concesso con la legge delega, in luogo di istituire le ennesime commissioni di studio, potrebbe muovere – almeno in parte – da alcune egregie proposte di riforma già esistenti.

Art. 14

In tema di notificazioni si prevede che l’esercizio della delega debba orientarsi nel senso di :

– prevedere  che  tutte  le  notificazioni  all’imputato  non  detenuto successive  alla  prima  siano eseguite mediante consegna al difensore; al di fuori dei casi previsti dagli articoli 161 e 162 del codice di procedura penale. Tale previsione è auspicata da anni, ma il timore resta connesso a quale estensione sarà riservata alle opportune deroghe al suddetto principio, considerato che sul punto finora si sono registrate notevoli resistenze da parte del ceto forense;

– prevedere che dal secondo atto le notifiche all’imputato saranno effettuate mediante consegna al difensore   che l’imputato ha l’onere di indicare al  difensore  un recapito  idoneo  e ogni mutamento dello stesso. Anche in tal caso la previsione è positiva, ma occorre attendere quali eccezioni verranno formulate alla regola, anche se dovrebbe essere rassicurante la previsione che   non costituisce illecito disciplinare del difensore l’omessa o ritardata comunicazione all’assistito imputabile al fatto di quest’ultimo;

– fare chiarezza sui rapporti tra la notificazione mediante consegna al difensore e gli altri criteri dettati dal codice di procedura penale per le notificazioni degli atti all’imputato.

In sostanza, si perde l’ennesima occasione di rivisitare l’intera materia delle notificazioni, introduce un nuovo sistema snello, razionale e tecnologicamente al passo con i tempi, prevedendo interventi, seppur positivi, parziali. Non si può tralasciare, infatti, che, allo stato attuale, appare anacronistica ai limiti del ridicolo la necessità di una doppia notifica cartacea pro manibus, in specie ove la pratica venga analizzata alla luce di un contesto economico-sociale forgiato dalla dipendenza tecnologica che, attraverso l’istantaneo appagamento delle esigenze individuali, ha plasmato lo stile di vita dell’umanità contemporanea, immersa in una realtà caratterizzata dalla rapidissima circolazione delle informazioni e dalla sempre più pregnante presenza della scienza nella vita quotidiana (fatta eccezione, purtroppo, per il processo penale).

Art. 15

Incidendo su indagini preliminari ed udienza preliminare, le modifiche che dovrebbero investire la fase pre-dibattimentale, sarebbero tutte incentrate sulla volontà di contrarre la dilatazione delle tempistiche che la caratterizzano e sul rafforzamento della funzione di “filtro” dell’udienza preliminare, nonché sull’inutilità dello svolgimento di dibattimenti defatiganti e fondati su prove incerte

Con l’art. 15 lett. a) il Pubblico Ministero, per richiedere il rinvio a giudizio deve avere prove che facciano pronosticare una sentenza di condanna. Cambia la regola di giudizio ex art. 125 delle disposizioni di attuazione. La ragione della modifica è deflattiva, ma si riscontrerebbe l’interferenza del piano dibattimentale con quello investigativo, che presuppone una rinuncia alla fisiologica progressiva costruzione della prova (principio ispiratore del codice di procedura penale vigente).

Specularmente viene modificata la regola di giudizio in capo al G.U.P., di cui all’art. 425 comma 3 c.p.p., secondo cui il rinvio a giudizio viene limitato ai casi per i quali si prospetti l’elevata probabilità della colpevolezza dell’imputato.

Il principio del “ragionevole dubbio” della fase dibattimentale verrebbe così ad insinuarsi nella fase prodromica del rito. Un’udienza preliminare, quindi,  che somiglia sempre più ad un primo grado di giudizio, in cui è inevitabile che il giudice si presti a valutazioni di carattere sostanziale, con il rischio di  influenzare la fase decisoria finale.

Proprio perchè il G.U.P sarebbe investito di una maggiore responsabilità decisoria, a fronte comunque di un impianto probatorio assai limitato, la riforma prevede, al fine di vincere tali resistenze una redazione più snella della sentenza ex art. 425 comma 1 c.p.p., espungendo, la lettera d), dai requisiti dettati dall’art. 426 comma 1 c.p.p, richiedendo all’estensore solo un’esposizione sommaria dei motivi imprescindibili di fatto e di diritto.

In sostanza, sembra che la scelta del legislatore sia orientata ad abdicare alle possibilità di accertare (con il dibattimento o con riti alternativi) o di negoziare (con il potenziamento di forme “patteggiate” di risposta giudiziaria) in tema di responsabilità penali, privilegiando l’archiviazione e/o la sentenza di n.l.p..

Segue art. 15

Con le lettere c), d), e), f), si prevede la rimodulazione dei termini di durata delle indagini e l’obbligo di definizione dei procedimenti in termini brevi, graduati in relazione alla natura e alla gravità dei reati.

In modo neanche troppo velato, il messaggio posto a fondamento di tale prospettiva di riforma è che la lunghezza delle indagini dipende in buona parte dall’inerzia dell’organo requirente, piuttosto che dalla corsa ad ostacoli e trabocchetti rappresentata dall’attuale codice di procedura penale.

La definizione dei procedimenti penali entro termini così contingentati, come quelli previsti dalle lettere sopra indicate dell’art. 15 del d.d.l. di riforma sarà possibile solo nel caso in cui i ruoli gestiti dai singoli magistrati siano numericamente sostenibili e gli organici degli Uffici giudiziari (in termini di magistrati, personale amministrativo e polizia giudiziaria) siano al completo.

Si prevede, poi, che se entro tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini preliminari o nei diversi termini di cinque e quindici mesi dalla stessa scadenza nei casi dell’articolo 407, comma 2, lettera b) e, rispettivamente, comma 2, lettera a),  numeri  1),  3)  e  4),  del  codice  di  procedura  penale, il Pubblico Ministero, non emette avviso ex art. 415bis c.p.p. o richiesta di archiviazione, incorre – in caso di dolo o negligenza inescusabile (art. 15, lett. f), g) ) – in illecito disciplinare. In concreto, vi possono essere varie ragioni che impediscano di provvedere a ciò. Si pensi a casi di coordinamento investigativo in relazione a due o più indagini collegate, di una o più Procure, che impediscano la discovery, anche se i predetti termini sono scaduti.

In ogni caso, con formulazione generica, si prevede che il termine può essere ritardato dal P.M. con provvedimento motivato e per un periodo di tempo limitato.

Il magistrato, inoltre, potrebbe sempre giustificarsi dimostrando di essersi uniformato ai criteri di priorità enucleati nel progetto organizzativo della Procura della Repubblica (cfr. art. 15 lett. i)).

L’art. 15 lett. h) prevede che a seguito della modifica dei termini delle indagini preliminari, venga ripristinato, altresì, l’istituto dell’avocazione per inerzia, così come formulato prima della novella n. 103 del 23 giugno 2017.

Con la lettera i) si prevede che gli uffici del Pubblico Ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, selezionino le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre sulla base di criteri di priorità trasparenti e predeterminati, indicati nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica e redatti periodicamente dai  dirigenti degli  uffici.

A parte la dubbia costituzionalità di tale norma, se la si affianca con le altre previsioni della legge delega contenute nella parte relativa all’ordinamento giudiziario ne consegue il fortissimo rischio di consegnare la scelta di quali reati perseguire nelle mani di pochi magistrati direttivi, dotati di poteri indiscussi di gestione degli uffici. Questa non è la rappresentazione offerta dalla Costituzione (in particolare, art. 104, 107 e 112 cost.). Il legislatore vorrebbe attenuare questa rigidità prevedendo che  nella elaborazione dei criteri di priorità il procuratore della Repubblica curi in ogni caso l’interlocuzione con il procuratore generale presso la corte d’appello e con il presidente del tribunale e tenga conto:

– della specifica realtà criminale e territoriale;

– delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili;

– delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti;

– della redazione periodica, da parte del CSM, di criteri di priorità e trasparenza che gli uffici del Pubblico Ministero sono tenuti a seguire durante l’attività di selezione delle notizie di reato.

A parte la valutazione negativa generale sopra indicata su questa dirompente modifica, appare anche contraddittoria la sua formulazione: se il Procuratore della Repubblica valuta come pervasiva la presenza del crimine organizzato nel suo territorio, ma si rende conto che le risorse tecnologiche, umane e finanziarie sono del tutto inadeguate (come accade in molti distretti che seppure non tradizionalmente “mafiosi” oggi registrano le continue presenze di gruppi organizzati italiani e stranieri) cosa deve fare? Abdicare al traguardo più difficile perché oggettivamente non dispone di strumenti adeguati e quindi indicare di perseguire furti e abusi edilizi? Oppure deve dare priorità al crimine organizzato pur sapendo di non avere i mezzi, sottraendo risorse ai reati più “semplici”, così esponendosi ad un bilancio negativo in futuro, con danno per la propria immagine professionale?