Il tema della decisione e l’eccentricità di alcune pronunce: Edgar Lee Masters, Bertold Brecht e Francois Rabelais per concludere il viaggio tra le pagine de “La borsa di miss Flyte”

di Roberto Tanisi

Della decisione

“Decidere” è parola che deriva dal latino “de – caedere”, che significa letteralmente “tagliare via”. Rimanda plasticamente all’immagine del sarto che, nel cucire il vestito, è costretto a tagliare pezzi di stoffa, a scegliere quelli che sono funzionali alla esecuzione dell’abito e a metterli insieme, sino alla realizzazione del prodotto finale. Un po’ quello che, in qualche misura, fa anche il giudice, chiamato ad esaminare prove e ragioni delle parti, a vagliarle e, quindi, tagliare via (decidere) quelle che non sono funzionali alla emanazione della sentenza e a mettere insieme le restanti, sino, appunto, al provvedimento finale. Dando conto, ovviamente, del percorso motivazionale seguito.

Il nostro Ordinamento (art. 111, comma 6°, Cost.) prevede infatti che “tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati”, imponendo al Giudice di raccontare e di… raccontarsi. Ma non sempre è stato così. Nel tardo Duecento e fin quasi alla rivoluzione francese le sentenze penali venivano motivate in maniera estremamente lapidaria, di solito facendo ricorso alla formula: “per ciò che è risultato dal processo” (ma l’estensore si guardava bene dal dire ciò che era, effettivamente, risultato). Fu alla vigilia della rivoluzione francese che tale costume iniziò a cambiare, quando alcuni editti di vari Regnanti europei imposero l’obbligo della motivazione. In particolare, in Italia, nel Regno delle due Sicilie, fu il Re Ferdinando IV che, persuaso dal suo ministro Bernardo Tanucci, emanò una “prammatica” (il 27.9.1774) con la quale imponeva ai giudici, “sull’esempio dei Tribunali più rinomati”, di indicare “le norme violate e quelle applicate”. La reazione di molti giureconsulti dell’epoca (con l’eccezione del Filangieri) fu violenta, perché si sostenne, un po’ contraddittoriamente, da un lato, che con questa riforma si attribuiva troppo potere ai giudici – visti non più come semplici “esecutori” delle leggi, ma come “interpreti” (col rischio, dunque, che venisse meno il principio della “certezza del diritto” o che la legge ne risultasse, in qualche misura, manipolata: non a caso Voltaire sosteneva che “interpretarla [la legge] equivale a corromperla”) – dall’altro, che l’obbligo di motivazione diminuiva il “decoro dei magistrati”, obbligati a dar conto delle ragioni delle loro decisioni e, perciò, in qualche misura intaccati nella fiducia che su di loro era riposta.

Dopo la Rivoluzione francese, con l’Ancien regime in Francia ed i codici pre-unitari in Italia, si richiese una motivazione dei provvedimenti penali, per quanto sempre piuttosto lapidaria, dovendosi dare atto in sentenza degli estremi dell’accusa, dell’attività processuale svolta, delle conclusioni del P.M. e della difesa (e, se presente, anche della parte civile), infine dei motivi della decisione che, però, si riducevano alla indicazione letterale della legge penale applicata. Meno elusivo il codice delle due Sicilie, in cui l’art. 293 imponeva al decidente di ricostruire compiutamente, a pena di nullità, il fatto e di indicare le prove utilizzate, sicché già in questo sistema può individuarsi il proprium della motivazione moderna, intesa quale “causae perchédella decisione.

Peraltro, la tendenza alla retorica, tipica dell’ambiente curiale italiano, portò ben presto all’eccesso opposto, in quanto a sentenze lapidarie si sostituirono sentenze prolisse e ridondanti, tanto che i legislatori degli anni successivi, sin dal codice civile del 1865, si indussero a scoraggiare l’eccesso grafico, richiedendo ai giudici un “conciso” riferimento ai principi generali del diritto: come dire, l’estensore stia all’essenziale, ricostruisca brevemente il fatto e dia conto concisamente delle ragioni della decisione. Il termine “conciso” è rimasto anche nei  vigenti codici di rito (art. 132 c.p.c. e artt. 544 e 546 c.p.p.), anche se non sempre i Giudici (non tutti) danno prova di tenerne conto.

Di talune eccentricità nel decidere.

Fatta questa breve digressione sulla motivazione delle sentenze, e venendo al proprium della soluzione della lite, ossia al contenuto della decisione, è noto che nella cultura Occidentale, come esempio di sentenza saggia e giusta, venga sovente indicata quella adottata dal re Salomone (anche se, nel gergo avvocatesco corrente, con l’espressione “salomonica” si suole ironicamente indicare una decisione frutto non di un’adeguata ponderazione dei fatti, ma di un furbo escamotage). La storia è nota. Due donne si rivolgono al re, reciprocamente accusandosi di aver sottratto un bambino, figlio di una delle due, e chiedendo a Salomone di decidere la controversia, assegnando il bambino alla vera madre. Salomone prova inizialmente a mettere d’accordo le due contendenti, peraltro senza riuscirci. Viene così a trovarsi in una situazione particolarmente difficile, non potendo ricusare la decisione (con una sorta di non liquet), perché ne sarebbe risultato grandemente sminuito il suo prestigio. Constatata, dunque, l’impossibilità di un accordo, ricorre ad uno stratagemma: ordina che gli venga portata una spada e che il bimbo sia tagliato in due, così da darne una parte a ciascuna delle due donne che lo rivendicavano come proprio. A questo punto una delle due, mossa dalla pietà per il figlio, rinuncia alla sua pretesa e implora che l’altra lo tenga per intero. Questa, invece, non si scompone per il giudizio del re e accetta di ottenerne la metà. Visto ciò, Salomone decide di assegnare il bambino alla donna che aveva rinunciato alla sua pretesa, ritenendo essere lei la vera madre del piccolo.

Probabilmente mai il re avrebbe davvero deciso di far tagliare in due il bambino, essendo egli – come narra la Bibbia – illuminato da Dio nelle cose della Giustizia (nel racconto biblico Salomone è descritto, infatti, come persona saggia e retta, che a Dio ha chiesto non ricchezza e potere, “ma  un cuore docile e … il discernimento nel giudicare”), sicché è lecito ritenere che, con il ricorso alla spada, egli abbia inteso mostrarsi alle donne e al popolo come espressione vivente del giudizio di Dio, onde la spada non va considerata semplicemente come un’arma, ma, tangibilmente, come lo strumento (simbolico) della giustizia divina, tale da stimolare la coscienza di una delle donne e consentire la giusta decisione. Come poi avvenne.

Non è forse un caso che la spada, insieme alla bilancia, sia ancora oggi uno dei simboli della Giustizia.

Peraltro un episodio analogo a quello biblico è descritto dal Bertolt Brecht nel “Il cerchio rosso del Caucaso”, un testo teatrale mutuato da altri racconti popolari di provenienza orientale, in cui il bambino, vittima anche qui della contesa di due madri, viene messo all’interno di un cerchio, legato con due funi alle braccia ed affidato alle donne perché lo tirassero ciascuna dalla sua parte fino a farlo uscire dal cerchio e tenerlo come proprio (col rischio, però, di squartarlo vivo o, comunque, di fargli del male). Nel racconto di Brecht, a differenza di quello biblico, è noto chi sia la vera madre del piccolo conteso: una donna ricca, che lo aveva abbandonato per non perdere la sua ricchezza e che dopo molti anni ne rivendica la restituzione invocando “il diritto di sangue”. L’altra donna, invece, è colei che si era presa cura del piccolo dopo il suo abbandono, lo aveva allevato ed accudito e dunque si era comportata da vera madre e ne rivendicava la restituzione per ragioni affettive.

A dirimere la controversia, stante l’assenza del giudice titolare, viene chiamato una specie di vecchio saggio, un “clochard intellettuale” e mezzo ubriaco di nome Azdak, al quale solitamente ci si rivolgeva per dirimere le liti fra privati. Ebbene il “giudice” ricorre allo stratagemma di Salomone, dichiarando di agire nell’interesse del minore. Al via, però, solo la donna ricca tira a sé il bambino, mentre la balia che lo aveva allevato lascia la fune, perdendolo ma garantendogli l’incolumità. Il Giudice, però, come già Salomone, assegna a costei il bambino, reputandola la vera madre e pervenendo, alla fine, alla giusta decisione perché – canta il “coro” dei contadini alla fine della commedia – “ogni cosa deve appartenere a chi le si conviene, i bambini ai cuori materni, perché prosperino…”.

Tutto è bene quel che finisce bene, si potrebbe concludere, pur se non può non evidenziarsi la differenza fra la decisione di Azdak e quella di Salomone. Il re israelita non sapeva davvero quale fosse la vera madre e agì per illuminazione divina; Azdak, al contrario, sapeva benissimo chi era la madre, sapeva anche benissimo perché aveva abbandonato il figlio, come sapeva che era stata l’altra contendente che se n’era preso cura.  La sua scelta di porre il bambino al centro del tiro alla fune appare, perciò, come una decisione aberrante e rischiosa, ma … fortunata (visto l’esito), posto che egli, dichiarando di agire nell’interesse del minore (sic), avrebbe da subito dovuto preferire la popolana, onesta ed amorevole, al posto della donna ricca, ma arida. In definitiva, proprio la ragione addotta dall’improvvisato giudice Azdak è la sola cosa che si salva in questa storia, perché, allora come oggi, nelle cause che riguardano minori, l’interesse del minore resta – e deve restare – prioritario.

Un altro esempio di decisione eccentrica è raccontato da Francois Rabelais nel suo Pantagruel. Vi si narra del procedimento disciplinare a cui fu sottoposto un giudice del piccolo tribunale di Fonsbeton, tal Bridoye, trascinato davanti all’immaginaria Corte di Myrelingues per avere deciso una causa ricorrendo … ai dadi.

Nel corso del giudizio disciplinare si accerta che Bridoye era noto per essere un giudice molto attento alla procedura, in particolare all’istruzione della causa e alla acquisizione delle prove e, da ultimo, alla loro valutazione. Infatti, nel corso del suo interrogatorio circa il suo modo di procedere, egli afferma che terminata l’acquisizione delle prove, si dedicava all’esame accurato dei fascicoli processuali e solo dopo aver “bien veu, reveu, leu, releu…” (“ben visto, rivisto, letto, riletto…”: nell’opera sono riportate ben trentasette voci relativa alla disamina degli atti), procedeva poi a separare i due “sacchi” (modernamente fascicoli) dell’attore e del convenuto ponendoli alle due estremità del tavolo, per poi gettare i dadi e dare la vittoria a chi dei due avesse avuto il punteggio più alto.

Ovviamente il racconto rappresenta una comica rappresentazione di come l’arguzia popolare e una certa aneddotica forense percepiscano la “singolarità” di certe decisioni, ritenute più frutto della “sorte”, che del diritto o della bravura dei difensori.

Allora come oggi.

Qualche anno fa, subito dopo la riforma istituiva del Giudice di pace, mi capitò, infatti, di essere affidatario di alcuni neo-nominati Giudici di pace in tirocinio. Si trattava, prevalentemente, di avvocati e funzionari pubblici, un po’ in là con gli anni, che, espletata con dignità la professione sino al limite della pensione (ed anche oltre), avevano inteso chiudere la propria esperienza nel mondo del “giure”, facendo, appunto, i Giudici di pace. Accadde che al termine di un processo, rientrati in Camera di Consiglio per la decisione, presi ad illustrare loro quali erano state, a mio modo di vedere, le ragioni dell’accusa e della difesa e quali le prove acquisite, alla cui stregua pervenire alla decisione. Nel caso di specie, gli apporti probatori non erano stati “schiaccianti” (come usa dire), né nel senso della colpevolezza, né in quello dell’assoluzione. Una zona grigia che capita molto spesso nei processi e che costringe il Giudice ad una analisi dei fatti particolarmente accurata e puntuale. Mentre parlavo, notavo sul volto di quegli anziani operatori del diritto, alle prese con un’esperienza per loro del tutto nuova, uno sguardo che denotava perplessità mista a preoccupazione. Così, anche per allentare la tensione, feci una battuta: “Poi, quando proprio le prove non sono chiare e, come in questo caso, sono perfettamente bilanciate fra le ragioni dell’accusa e della difesa, si può prendere una moneta, lanciarla per aria e affidare la decisione alla sorte”. Mentre prendevo dalla tasca una moneta, feci in tempo a notare che la perplessità, sul volto dei miei interlocutori, era aumentata considerevolmente trasmutando in preoccupato stupore, fino a che (a conferma che non tutti avevano colto l’ironia della battuta) uno degli astanti, incredibilmente, disse: “Allora si può fare veramente?”. Ovviamente mi affrettai subito a chiarire che la mia era solo una battuta e che, se vi erano dubbi, questi giocavano a favore e non contro il reo, ma, da allora, mi è sempre rimasto il dubbio che qualcuno, magari leggendo le motivazioni di alcune sentenze, abbia pensato e pensi, come quel Giudice di pace, che davvero la decisione sulla libertà, la vita, il patrimonio delle persone, sia affidata non alla ponderazione di un Giudice, ma solo … alla sorte. Né più né meno di come usava fare il giudice Bridoye.

Del resto, anche in epoca moderna non manca chi, un po’ paradossalmente, si dice sostenitore della giustizia affidata alla sorte. Neil Duxbury, giurista inglese docente presso la London School of economics, in una sua pubblicazione del 1999, dal titolo quanto mai significativo (Random justice), ha dedicato alcune pagine ai rapporti fra decisione per sorte e decisione per procedural justice, mostrandosi affascinato dalla random justice e richiamando a sostegno il paradosso di Guicciardini, il quale, a proposito della prassi dei giudici turchi di decidere immediatamente le liti “ad occhi serrati” (e, dunque, senza guardare le carte processuali), la considerava prassi saggia ed efficace perché “non costa tempo, né denaro e produce risultati giusti nella metà dei casi, che è una media accettabile per qualsiasi giudice”.

D’altro canto, la giustizia non è forse rappresentata anche come una dea bendata? Per indicarne l’imparzialità, si suole sostenere. Tuttavia, in una poesia di Edgar Lee Masters tratta da Antologia di Spoon river, la benda possiede una connotazione ben diversa e totalmente negativa, dal momento che, strappata dagli occhi della donna che rappresenta la Giustizia, essa lascia vedere le sue ciglia “corrose sulle palpebre marce” e “le pupille bruciate da un muco latteo”, le quali, tuttavia, non le impediscono di risultare violenta contro i più deboli (“un bimbo…. un operaio …. una donna… un folle…) ed essere corrotta dai potenti (quelli che, gettando monete, riescono a schivare i colpi della spada).

Personalmente, non ho mai apprezzato la benda quale simbolo della Giustizia. Ho sempre ritenuto – e ritengo – che il Giudice, nel giudicare, debba tenere gli occhi molto bene aperti, perché solo guardando in profondità e con la massima attenzione i dati del processo (e le persone, in carne ed ossa, che gli compaiono davanti), può pronunciare una sentenza equa e giusta; laddove, invece, una giustizia cieca o bendata, se pure non nasconde la sua corruzione (come nella lirico di Lee Masters), non è altro che una giustizia morta e neppure imparziale. Un po’ come il fato, talvolta benevolo con gli ingiusti e crudele e cattivo con i retti e gli onesti.