La costituzione di parte civile nel processo a carico degli enti

procedura penale

di Sergio Beltrani

1. Premessa.

Una decisione giurisprudenziale di merito (Ass. Taranto, 4.10.2016) che – ponendosi in consapevole contrasto con l’orientamento assolutamente dominante – ha ammesso la costituzione di parte civile in danno degli enti responsabili ex D. Lgs. n. 231 del 2001, ripropone il problema dell’ammissibilità della costituzione di parte civile nel processo a carico degli enti.

La Corte di assise di Taranto, con la citata ordinanza (sulla quale vedi anche C. SANTORIELLO, Costituzione di parte civile nel processo nei confronti degli enti: una sorprendente decisione di merito, in www.ilpenalista.it), ha ammesso la costituzione di parte civile in danno di un ente incolpato ex D. Lgs. n. 231 del 2001, essenzialmente valorizzando, a fondamento della decisione, il fatto che il legislatore delegato, con il D. Lgs. n. 231 del 2001, non ha esercitato la delega ricevuta dalla legge n. 300 del 2000 nella parte in cui menzionava, tra i principi ed i criteri direttivi da osservare, la possibilità di prevedere che « il riconoscimento del danno a seguito dell’azione di risarcimento spettante al singolo socio o al terzo nei confronti degli amministratori dei soggetti […] di cui sia stata accertata la responsabilità amministrativa […] non sia vincolato dalla dimostrazione della sussistenza di nesso di causalità diretto tra il fatto che ha determinato l’accertamento della responsabilità del soggetto ed il danno subito » e che « la disposizione non operi nel caso in cui il reato è stato commesso da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di chi svolge funzioni di rappresentanza o di amministrazione o di direzione, ovvero esercita, anche di fatto, poteri di gestione e di controllo, quando la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi connessi a tali funzioni » (art. 11, comma 1, lett. v).

Secondo il collegio, la scelta del legislatore delegato di non prevedere espressamente la possibilità della costituzione di parte civile in danno degli enti responsabili ex D. Lgs. n. 231 del 2001 non sarebbe frutto della volontà di escludere la possibilità dell’esercizio dell’azione civile in danno dei predetti enti, bensì della volontà di non esercitare la delega ricevuta, che avrebbe comportato l’adozione, nei confronti degli enti, di un sistema <<peggiorativo e sanzionatorio (…) rispetto alle ordinarie regole rispetto alle ordinarie regole di imputazione della responsabilità (sia essa civile che penale)>>, e ciò per finalità di natura politica, come  espressamente desumibile dalla Relazione al D. Lgs. n. 231 del 2001 (la quale, sul punto, ammonisce che <<gli effetti di natura civilistica, prefigurati nella delega, esporrebbero … le imprese a gravi rischi di instabilità, atteso che il recesso dei soci e le azioni di responsabilità potrebbero di fatto comportare lo “smantellamento” dell’ente>>).

Peraltro, non essendo stata introdotta, per l’esercizio dell’azione civile in danno dell’ente responsabile ex D. Lgs. n. 231 del 2001, una disciplina ad hoc, residuerebbe la possibilità dell’esercizio di detta azione ai sensi della disciplina codicistica generale, che deve intendersi richiamata ex artt. 34 e 35 D. Lgs. cit., e risulta più favorevole per gli enti di quella che sarebbe stata introdotta con il D. Lgs. n. 231 del 2001 se fosse stata esercitata in parte qua la delega ex l. n. 300 del 2000.

I giudici tarantini hanno evidenziato che « mai nella relazione illustrativa del D. Lgs. n. 231/2001 vi è un’espressa indicazione nel senso dell’inammissibilità della costituzione di parte civile nei confronti dell’Ente », ed il dato è stato ritenuto di per sé significativo, atteso che, in tutti i casi nei quali il Legislatore delegato si è discostato da una ordinaria disciplina codicistica, è stata prevista una espressa norma derogatoria (è il caso degli artt. 53-54, 57, 58, 61-64, rispettivamente in tema di sequestri cautelari, informazione di garanzia, archiviazione, procedimenti speciali), al contrario non prevista per escludere la possibilità della costituzione di parte civile nei confronti dell’ente.

Infine, la possibilità del risarcimento del danno (e quindi, implicitamente, dell’azionabilità della relativa pretesa) sarebbe evocata dagli artt. 12 e 17 del D. Lgs. n. 231 del 2001, che prevedono, rispettivamente, la riduzione della sanzione pecuniaria in caso di danno patrimoniale di particolare tenuità o se l’ente risarcisce il danno cagionato o pone in essere condotte riparatorie, e la non applicazione delle sanzioni interdittive se l’ente risarcisce il danno cagionato o pone in essere condotte riparatorie. Al riguardo, aggiungiamo che non convince l’opinione di quanti ritengono che tali disposizioni dimostrerebbero il contrario, poiché il danno risarcibile da parte dell’ente sarebbe soltanto quello derivante dal reato-presupposto commesso dalla persona fisica, non il diverso danno derivante dall’illecito del ente: l’assunto è, infatti, arbitrario, oltre che contraddittorio, poiché, avendo il Legislatore  espressamente previsto che tali condotte risarcitorie sono connotate da profili di meritevolezza che incidono (riducendole, nel caso della sanzione pecuniaria, od addirittura comportandone la non applicazione, nel caso di quelle interdittive) sulle sanzioni applicabili all’ente per effetto della commissione dell’illecito da reato, non si comprende la ragione per la quale sarebbe stato a tal fine considerato soltanto un elemento di detto illecito (il reato-presupposto, di per sé ascrivibile unicamente alla persona fisica del suo autore), e non l’illecito da reato dell’ente nella sua complessità (ovvero comprensivo anche degli elementi costitutivi ulteriori rispetto al reato-presupposto, che soli ne legittimano la configurabilità e l’ascrizione all’ente).  

La Corte tarantina ha concluso, pertanto, affermando che non esistono ragioni espresse che inducano a negare la possibilità di costituzione di parte civile nei confronti degli enti responsabili ex D. Lgs. n. 231 del 2001: <<l’ente, infatti, risponde per un fatto proprio (…) fatto proprio dell’ente che, quindi, lo obbliga, a norma dell’art. 185 c.p., così come richiamato dall’art. 74 c.p.p., a sua volta espressamente applicabile ex art. 34 D. Lgs. 231/2001 al risarcimento del danno>>.

2. Il contrario orientamento della giurisprudenza di legittimità.

La Cassazione (Sez. VI, sentenza n. 2251 del 22 gennaio 2011, Rv. 248791, unica sentenza massimata in argomento) sembra ferma nel ritenere, al contrario, che, nel processo instaurato per l’accertamento della responsabilità da reato degli enti, non è ammissibile la costituzione di parte civile, atteso che l’istituto non è previsto dal D. Lgs. n. 231 del 2001 e l’omissione non rappresenta una lacuna normativa, ma corrisponde ad una consapevole scelta del legislatore.

La citata sentenza ha ritenuto che la soluzione del problema dell’ammissibilità della costituzione di parte civile nel procedimento a carico degli enti non dipenda, in maniera decisiva, dalla risposta sulla natura della responsabilità prevista nel d.lgs. 231/2001, perché risulterebbe decisivo il rilievo che nel D. Lgs. n. 231 del 2001 manca ogni riferimento espresso alla parte civile: <<la sistematica rimozione, nel d.lgs. 231/2001, di ogni richiamo o riferimento alla parte civile (e alla persona offesa) porta a ritenere che non si sia trattato di una lacuna normativa, quanto piuttosto di una scelta consapevole del legislatore, che ha voluto operare, intenzionalmente, una deroga rispetto alla regolamentazione codicistica: la parte civile non è menzionata nella sezione II del capo III del decreto dedicata ai soggetti del procedimento a carico dell’ente, né ad essa si fa alcun accenno nella disciplina relativa alle indagini preliminari, all’udienza preliminare, ai procedimenti speciali, alle impugnazioni ovvero nelle disposizioni sulla sentenza, istituti che, invece, nei rispettivi moduli previsti nel codice di procedura penale contengono importanti disposizioni sulla parte civile e sulla persona offesa>>.

Il D. Lgs. n. 231 del 2001 conterrebbe addirittura espresse conferme della volontà di escludere la parte civile dal processo in danno degli enti:

– l’art. 27 disciplina la responsabilità patrimoniale dell’ente limitandola all’obbligazione per il pagamento della sanzione pecuniaria, senza fare alcuna menzione alle obbligazioni civili;

– l’art. 54 limita il sequestro conservativo al solo scopo di assicurare il pagamento della sanzione pecuniaria (oltre che delle spese del procedimento e delle somme dovute all’erario), prevedendo che la misura possa essere richiesta unicamente dal pubblico ministero, laddove l’omologo istituto codicistico di cui all’art. 316 c.p.p. pone questa misura cautelare reale sia a tutela del pagamento della “pena pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all’erario”, sia delle “obbligazioni civili derivanti dal reato”, in quest’ultimo caso attribuendo anche alla parte civile la possibilità di richiedere il sequestro: <<anche qui il legislatore ha compiuto una scelta consapevole, escludendo la funzione di garantire le obbligazioni civili, funzione che, nella struttura della norma codicistica, presuppone la richiesta della parte civile>>.

E’ stata esclusa la possibilità di applicare direttamente gli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p. attraverso la clausola generale di cui all’art. 34 d.lgs. 231/2001, presupponendo la piena compatibilità dell’istituto della costituzione di parte civile nel processo a carico degli enti: <<all’accertamento del reato commesso dalla persona fisica deve necessariamente seguire la verifica sul tipo di inserimento di questa nella compagine societaria e sulla sussistenza dell’interesse ovvero del vantaggio derivato all’ente: solo in presenza di tali elementi la responsabilità si estende dall’individuo all’ente collettivo, in presenza cioè di criteri di collegamento teleologico dell’azione del primo all’interesse o al vantaggio dell’altro, che risponde autonomamente dell’illecito “amministrativo”. Ne deriva che tale illecito non si identifica con il reato commesso dalla persona fisica, ma semplicemente lo presuppone. Di conseguenza, se l’illecito amministrativo ascrivibile all’ente non coincide con il reato, ma costituisce qualcosa di diverso, che addirittura lo ricomprende, deve escludersi che possa farsi un’applicazione degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., che invece contengono un espresso ed esclusivo riferimento al “reato” in senso tecnico. L’ostacolo maggiore all’applicazione diretta dell’art. 185 c.p. nella disciplina del processo ex d.lgs. 231/2001 – non importa se attraverso una interpretazione estensiva o analogica – è costituito dagli stessi limiti ermeneutici ed applicativi della norma citata, che si riferisce esclusivamente ai danni cagionati dai reato, nozione quest’ultima che non può coprire anche l’illecito dell’ente, così come delineato nel citato d.lgs. 231/2001. Allo stesso modo, anche l’art. 74 c.p.p. non può trovare applicazione attraverso la clausola di chiusura contenuta nell’art. 34 d.lgs. 231/2001, in quanto esso consente la costituzione della parte civile in funzione del ristoro dei danni previsti dall’art. 185 c.p., espressamente richiamato, cioè dei danni derivanti dal reato. In sostanza, l’impossibilità di procedere all’applicazione delle due norme richiamate discende dal fatto che per entrambe il presupposto per la costituzione di parte civile è rappresentato dalla commissione di un reato, non dell’illecito amministrativo>>.

Per altro verso, si è convenuto con quella dottrina (PISTORELLI, La problematica costituzione di parte civile nel procedimento a carico degli enti: note a margine di un dibattito forse inutile, in Rivista 231, 2008, 104) a parere della quale <<i danni riferibili al reato sembrano esaurire l’orizzonte delle conseguenze in grado di fondare una pretesa risarcitoria>>”, e si è, pertanto, escluso che possano esservi danni ulteriori derivanti direttamente dall’illecito dell’ente: <<Se non è ipotizzabile l’esistenza di un danno che possa presentarsi come conseguenza immediata e diretta dell’illecito amministrativo allora “l’ostinato silenzio” del legislatore sulla parte civile e sulla possibilità di costituirsi in giudizio per far valere le pretese risarcitorie assume un significato ancor più preciso, apparendo del tutto ragionevole l’esclusione della parte civile dalla cerchia dei protagonisti del processo a carico dell’ente. In ogni caso, anche a voler ammettere, in astratto, che un danno possa derivare direttamente dall’illecito amministrativo, mancherebbe comunque, per le ragioni che si sono già illustrate, ogni appiglio normativo che giustifichi la costituzione della parte civile nel processo ex d.lgs. 231/2001>>.

L’inammissibilità della costituzione della parte civile nel processo a carico dell’ente, così come disciplinato nel d.lgs. 231/2001, in deroga rispetto a quanto previsto nel modello di processo penale ordinario, è stata ritenuta dalla Cassazione non in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., perché <<la “disparità” di trattamento con il processo ordinario disciplinato dal codice può ritenersi sorretta da adeguata giustificazione in considerazione dell’illecito oggetto dell’accertamento nel processo a carico dell’ente che, prescindendo dalla definizione della sua natura (amministrativa o penale ovvero di un terzo genere), appare strutturato nella forma di una fattispecie complessa, in cui, come si è visto, il reato costituisce solo uno degli elementi fondamentali dell’illecito, sicché appare ragionevole che il legislatore abbia escluso, per le ragioni che si sono sopra illustrate, la costituzione della parte civile. Anche il dedotto contrasto con l’art. 24 Cost. appare manifestamente infondato. Innanzitutto deve escludersi che la norma citata elevi a regola costituzionale quella del simultaneus processus; inoltre, nel processo ex d. gs. 231/2001 la posizione del danneggiato è comunque garantita, in quanto oltre a poter tutelare immediatamente i propri interessi davanti al giudice civile, può citare l’ente come responsabile civile ai sensi dell’art. 83 c.p.p. nel giudizio che ha ad oggetto la responsabilità penale dell’autore del reato, commesso nell’interesse nella persona giuridica, e lo può fare – normalmente – nello stesso processo in cui si accerti la responsabilità dell’ente>>.

3. La giurisprudenza sovranazionale.

Della questione si è occupata anche la Corte di Giustizia UE.

Era stata devoluta (dal Tribunale di Firenze) alla Corte di giustizia UE la questione della compatibilità della disciplina italiana di cui al D. Lgs. n. 231 del 2001 (come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità nel senso di ritenere l’inammissibilità della costituzione della parte civile nel processo a carico dell’ente, così come disciplinato nel D. Lgs. cit.) con l’art. 9, § 1, della decisione quadro 2001/220/GAI del Consiglio del 15 marzo 2001, relativa alla posizione della vittima nel processo penale, secondo il quale “Ciascuno Stato membro garantisce alla vittima di un reato il diritto di ottenere, entro un ragionevole lasso di tempo, una decisione relativa al risarcimento da parte dell’autore del reato nell’ambito del procedimento penale, eccetto i casi in cui il diritto nazionale preveda altre modalità di risarcimento”.

La Corte di giustizia, con la decisione del 12 luglio 2012 (causa C- 79/2011), aveva ritenuto la compatibilità della disciplina italiana alla normativa europea, affermando che <<l’art. 9, § 1, della decisione quadro 2001/220/GAI del Consiglio del 15 marzo 2001, relativa alla posizione della vittima nel processo penale, deve essere interpretato nel senso che non osta a che, nel contesto di un regime di responsabilità delle persone giuridiche come quello in discussione nel procedimento principale, la vittima del reato non possa chiedere il risarcimento dei danni direttamente causati dallo stesso, nell’ambito del processo penale, alla persona giuridica autrice di un illecito amministrativo da reato>>.

La decisione fonda essenzialmente sulla natura di infraction administrative dell’illecito da reato degli enti, ritenuta decisiva: per tale ragione, la Corte di Giustizia ha concluso che del tutto legittimamente il diritto interno prevede che <<le persone offese in conseguenza di un illecito amministrativo da reato commesso da una persona giuridica, come quella imputata in base al regime instaurato dal d. lgs. 231/2001, non possono essere considerate, ai fini dell’applicazione dell’art. 9, § 1, della dcs. quadro, come le vittime di un reato che hanno il diritto di ottenere che si decida, nell’ambito del processo penale, sul risarcimento da parte di tale persona giuridica>>.  

4. La giurisprudenza costituzionale.

La Corte costituzionale (adita dal medesimo Tribunale di Firenze), con la sentenza n. 218 del 2014, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 83 c.p.p. e del D. Lgs. n. 231 del 2001, impugnati, in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui non prevedono che nel processo penale le persone offese possono chiedere agli enti il  risarcimento dei danni subiti per il comportamento dei loro dipendenti, affermando, in particolare, che:

– l’ordinanza di rimessione censurava l’intero testo normativo del D. Lgs. n. 231 del 2001, senza individuare la disposizione asseritamente lesiva del principio di uguaglianza, e non indicava neanche l’intervento additivo da adottare per eliminare la denunciata illegittimità costituzionale;

– la questione muoveva, inoltre, dall’erroneo presupposto interpretativo secondo cui l’art. 83, comma 1, c.p.p. non consentirebbe la citazione dell’ente come responsabile civile: <<contrariamente a quanto ritiene il rimettente, infatti, l’illecito di cui l’ente è chiamato a rispondere ai sensi del D. Lgs. n. 231 del 2001 non coincide con il reato commesso dalla persona fisica, sicché quest’ultima e l’ente non possono qualificarsi come coimputati nel medesimo reato; in base alla disposizione indicata, inoltre, intesa nel suo corretto significato, la citazione dell’imputato come responsabile civile per il fatto dei coimputati non è esclusa prima del suo proscioglimento, ma è ammessa sotto condizione, nel senso che produce effetto solo nel caso in cui l’imputato venga prosciolto od ottenga una sentenza di non luogo a procedere. Sotto entrambi i profili indicati, pertanto, l’art. 83, comma 1, cod. proc. pen. non costituisce un impedimento alla citazione dell’ente come responsabile civile>>.

Con riferimento al D. Lgs. n. 231 del 2001, l’inammissibilità è stata, quindi, dichiarata per ragioni meramente formali.

5. Spunti di riflessione. L’intervento delle Sezioni Unite sulla natura della responsabilità degli enti.

Come abbiamo in più occasioni osservato (da ultimo, cfr. il nostro Dopo S.U. n. 38343/2014, E.: soluzione di questioni controverse e nuovi dubbi, in Rivista 231, 2015, 203 ss.), l’individuazione della natura giuridica della responsabilità degli enti nell’ordinamento italiano è particolarmente controversa.

Sul punto, la dottrina è estremamente divisa, potendo essere enucleati nel suo ambito ben tre filoni di pensiero:

(a) un orientamento (valorizzando la voluntas legis espressamente manifestata dalla legge delega e dal successivo decreto legislativo, oltre che alcuni profili disciplinatori, in particolare con riguardo alla prescrizione – con disciplina ad hoc che prescinde in toto da quella penalistica –, alle conseguenze delle vicende modificative dell’ente – la cui disciplina riprende quella dettata dal codice civile in tema di trasformazioni, fusioni e scissioni – ed all’assenza di una disposizione afferente alla sospensione dell’esecuzione della sanzione) ritiene che si tratti di responsabilità amministrativa;

(b) un orientamento (valorizzando essenzialmente l’inscindibile collegamento con il reato presupposto, e le modalità di accertamento, devoluto al giudice penale con le garanzie del processo penale) ritiene che si tratti di responsabilità penale;

 (c) un orientamento (valorizzando i caratteri distintivi rispetto all’una ed all’altra, che renderebbero del tutto autonomo il sottosistema delineato dal D. Lgs. n. 231 del 2001) ritiene che si tratti di un tertium genus: <<occorre la piena consapevolezza – proprio al fine di evitare pericolose confusioni di piani e conseguire risultati accettabili sul piano politico-legislativo – che, nel momento in cui si costruisce un criterio d’imputazione sostitutivo e non integrativo dei “classici” coefficienti soggettivi propri dell’autore individuale, dandosi luogo ad una responsabilità autonoma dell’ente e non (solo) cumulativa, siamo di fronte non più al tradizionale illecito penale, ma ad un delictum sui generis ritagliato sin dall’inizio sulle “fattezze” dell’ente collettivo. Non ci muoviamo più, cioè, sul piano che ha tradizionalmente catalizzato l’attenzione degli studiosi, divisi sull’opportunità di estendere o meno alla persona giuridica la responsabilità per reati concepiti e strutturati in rapporto alle persone fisiche; né si tratta solo di confezionare le sanzioni più adatte all’ente collettivo in chiave di prevenzione degli illeciti penali: viene piuttosto ad essere inaugurato un ambito del tutto inedito di intervento del magistero criminale, del quale il legislatore deve sapersi dimostrare all’altezza” (G. DE VERO, La responsabilità penale delle persone giuridiche, Milano 2008, 66 s.).

Altra dottrina ha osservato che <<la scelta di qualificare come “amministrativa”, anziché come “penale”, la nuova forma di responsabilità non è dovuta all’esigenza di superare decise e forti resistenze da parte della dottrina penalistica, ma è frutto della necessità di allentare le consistenti tensioni del mondo imprenditoriale molto preoccupato per le eventuali ricadute economiche della riforma: sdrammatizzando, così, anche in termini simbolici, le preoccupazioni connesse all’impatto sulla vita delle imprese>>,  pur se <<la disciplina predisposta è normativamente articolata in modo tale da suscitare l’impressione che il legislatore – incorrendo in una sorta di “frode delle etichette” – abbia voluto formalmente definire “amministrativa” una responsabilità che, nella sostanza, assume un volto penalistico (o parapenalistico): la responsabilità dell’ente è, infatti, strettamente agganciata alla commissione di un fatto di reato, e la sede in cui essa viene accertata è pur sempre il processo penale>> (G. FIANDACA ed E. MUSCO, Diritto penale – Parte generale, V ed., Bologna 2007, 162 s.).

Analoga diversità di posizioni è enucleabile in giurisprudenza.

E’ stata, talora, incidentalmente e quasi inconsapevolmente, sostenuta la tesi della natura amministrativa della responsabilità degli enti (Sez. un., sentenze n. 34476 del 2011  n. 10561 del 2014).

La natura penalistica della predetta forma di responsabilità sembrerebbe, in precedenza, essere stata nel complesso sostenuta dalle Sezioni Unite (sentenza n. 26654 del 2008).

L’orientamento che con maggiore consapevolezza aveva affrontato la questione (Sez. VI, sentenze n. 36083 del 2009, e n. 27735 del 2010) riteneva che il D. Lgs. n. 231 del 2001 avesse introdotto un tertium genus di responsabilità rispetto ai sistemi tradizionali di responsabilità penale e di responsabilità amministrativa, prevedendo un’autonoma responsabilità dell’ente in caso di commissione, nel suo interesse o a suo vantaggio, di uno dei reati espressamente elencati da parte un soggetto che riveste una posizione apicale, sul presupposto che il fatto-reato «è fatto della società, di cui essa deve rispondere».

La sentenza delle Sezioni Unite n. 38343 del 2014, E. (massima ufficiale Rv. 261112: <<Il sistema normativo introdotto dal D. Lgs. n. 231 del 2001, coniugando i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo, configura un tertium genus di responsabilità compatibile con i principi costituzionali di responsabilità per fatto proprio e di colpevolezza>>) non sembra aver fatto definitivamente luce sulla natura giuridica della responsabilità degli enti, essendosi limitata ad osservare quanto segue:  <<Il Collegio considera che, senza dubbio, il sistema di cui si discute costituisce un corpus normativo di peculiare impronta, un tertium genus, se si vuole. Colgono nel segno, del resto le considerazioni della Relazione che accompagna la normativa in esame quando descrivono un sistema che coniuga i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficienza preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia. Parimenti non è dubbio che il complesso normativo in esame sia parte del più ampio e variegato sistema punitivo; e che abbia evidenti ragioni di contiguità con l’ordinamento penale per via, soprattutto, della connessione con la commissione di un reato, che ne costituisce il primo presupposto, della severità dell’apparato sanzionatorio, delle modalità processuali del suo accertamento. Sicché, quale che sia l’etichetta che si voglia imporre su tale assetto normativo, è dunque doveroso interrogarsi sulla compatibilità della disciplina legale con i principi costituzionali dell’ordinamento penale, seguendo le sollecitazioni difensive>>.

Non vi è stata, dunque, una chiara e netta presa di posizione per l’una o l’altra delle possibili opzioni interpretative, ma vi è stata, pur sempre, una sufficientemente netta esclusione della natura meramente amministrativa della responsabilità degli enti, e, quindi, l’affermazione della sua natura (anche o soltanto) penale, a sua volta sufficiente ad imporre la necessità che la disciplina dettata dal D. Lgs. n. 231 del 2001 risulti compatibile con i principi dettati dalla Costituzione in tema di responsabilità penale. 

6. Segue. Le conseguenze.

La tesi della Corte di assise di Taranto, secondo la quale le vigenti disposizioni di legge consentono, e non escludono, la costituzione di parte civile in danno degli enti responsabili ex D. Lgs. n. 231 del 2001, è motivata sulla base di riferimenti certamente acuti, che appaiono condivisibili, e, soprattutto, non agevolmente superabili.

In particolare, non appaiono decisivi, in senso contrario, i dubbi avanzati (con decisione, da parte della dottrina; più timidamente, da parte della giurisprudenza: la citata sentenza n. 2251 del 2011 della Corte di cassazione sembra evocare l’argomentazione soltanto incidentalmente, non riconoscendole valenza assorbente) sull’effettiva esistenza di danni ulteriori derivanti direttamente dall’illecito dell’ente, per il rilievo che <<i danni riferibili al reato sembrano esaurire l’orizzonte delle conseguenze in grado di fondare una pretesa risarcitoria>>.

L’affermazione:

– muove dalla premessa della natura esclusivamente amministrativa della responsabilità da reato degli enti, laddove il riconoscimento della sua natura (quantomeno anche) penale può legittimare il risarcimento di eventuali danni ex art. 185 c.p.;

– non considera la peculiare atipicità ex art. 2043 c.c. dei danni civili, che non consente l’aprioristica esclusione, in assoluto, dell’esistenza dei danni de quibus;

 – non considera che l’assenza di danni risarcibili non può condizionare l’astratta esistenza della possibilità della parte civile di agire, ma al più comportare il difetto di legittimazione (ove la costituzione abbia luogo per ottenere il risarcimento di danni anche in astratto in ogni caso non risarcibili) ovvero il rigetto della sua pretesa (ove la costituzione abbia luogo per ottenere il risarcimento di danni in concreto risultati insussistenti);

– non considera, infine, che esistono casi nei quali è impossibile ottenere il risarcimento dei danni riferibili al reato, residuando, in favore del soggetto in ipotesi danneggiato, unicamente la possibilità di agire in danno dell’ente responsabile da reato: il riferimento è alla disciplina dettata dall’art. 8, comma 1, lett. a), prima parte, D. Lgs. n. 231 del 2001, a norma del quale risulta configurabile la responsabilità dell’ente anche quando l’autore del reato non è stato identificato.    

Al suo accoglimento non osta neppure la considerazione che <<quand’anche vi fosse spazio per identificare un danno civilmente risarcibile direttamente collegato al titolo che sta alla base della responsabilità amministrativa, la correlativa azione civile non potrebbe comunque essere esercitata nell’ambito del processo penale, tenuto conto della tassatività della previsione dell’art. 1 c.p.p. – secondo cui sono proponibili dinanzi al giudice penale solo le azioni specificamente previste dalle norme di legge – e della conseguente possibilità di esercitare l’azione civile nel giudizio criminale solo in presenza delle condizioni di cui al combinato disposto degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p.: in particolare, l’illecito dell’ente non potrebbe mai identificarsi con il reato, che pure ne costituisce il presupposto e ciò precluderebbe l’applicazione del disposto dell’art. 185 c.p. e, per conseguenza, dell’art. 74 c.p.p., che appunto legittima l’esercizio dell’azione civile nel processo penale agli esclusivi fini del ristoro dei danni menzionati dal citato art. 185 c.p.>>(cfr. SANTORIELLO, op. cit.).

Invero, deve in senso contrario rilevarsi che le conclusioni della Corte di assise tarantina sarebbero legittimate dalla natura (anche) penale della responsabilità da reato degli enti, e dal richiamo delle disposizioni del codice di procedura penale ex art. 34 s. D. Lgs. n. 231 del 2001.

Peraltro, anche se si volesse ritenere la tesi dei giudici tarantini non condivisibile, perché fondata su argomenti non decisivi, che tutte le giurisprudenze intervenute in argomento hanno ritenuto insufficienti, concordemente pervenendo all’assunto che il D. Lgs. n. 231 del 2001 non prevede attualmente la possibilità della costituzione di parte civile in danno degli enti responsabili da reato ex D. Lgs. n. 231 del 2001, la presa di posizione delle Sezioni Unite nel senso della natura (anche o soltanto) penale della responsabilità da reato degli enti, con la ferma esclusione della natura esclusivamente amministrativa di detta responsabilità, impone, per evidenti ed ineludibili esigenze di coerenza sistematica, l’esigenza di ripensare le conclusioni cui si è pervenuti in tema di ammissibilità o meno della costituzione di parte civile in danno degli enti responsabili ex D. Lgs. n. 231 del 2001, legittimando la riproposizione di non peregrini dubbi sulla legittimità dell’orientamento attualmente dominante.

Invero, se effettivamente dovesse ritenersi palese la volontà del D. Lgs. n. 231 del 2001 di escludere la parte civile dal processo in danno degli enti, detta opzione evidenzierebbe l’esistenza di un contrasto tra il D. Lgs. n. 231 del 2001 (in particolare, nella parte in cui non attribuisce ai soggetti che assumono di aver subito danni ascrivibili all’illecito dell’ente, la facoltà di costituirsi parte civile in danno del predetto ente, con specifico riferimento all’art. 34, nella parte in cui tra le disposizioni del codice di procedura penale richiamate non ricomprende quelle in tema di costituzione di parte civile, ed agli artt. 27 e 54, nella parte in cui tale facoltà indirettamente escludono) e gli artt. 3 e 24 della Costituzione, per l’irragionevolezza dell’esclusione della parte civile dal processo a carico degli enti, poiché, una volta riconosciuta la natura non esclusivamente amministrativa della responsabilità da reato degli enti, risultano non più giustificabili le differenze di disciplina tra i due modelli di processo (in danno di persone fisiche e degli enti), il cui oggetto di accertamento è, in entrambi i casi, costituito da fatti suscettibili di originare una responsabilità di tipo penale (il reato presupposto commesso dall’imputato-persona fisica; l’illecito – quantomeno anche penale – da reato commesso dall’ente, che comporta l’accertamento del reato presupposto commesso dall’imputato-persona fisica, ma non solo); non vi è quindi apprezzabile ragione per la quale il giudice del processo in danno degli enti non debba conoscere anch’egli degli interessi civili nascenti dall’illecito ex D. Lgs. n. 231 del 2001.

Il contrasto, se riconosciuto, potrebbe richiedere un intervento additivo della Corte costituzionale, consistente nel riconoscere la possibilità, per chi asserisca di aver subito danni per effetto dell’illecito da reato dell’ente, di costituirsi parte civile in danno dell’ente a norma delle disposizioni del codice di procedura penale.

L’esclusione della parte civile dal processo in danno degli enti potrebbe, inoltre, porsi oggi in contrasto con gli artt. 117, comma 1, della Costituzione, e 9, § 1, della decisione quadro 2001/220/GAI del Consiglio del 15 marzo 2001, relativa alla posizione della vittima nel processo penale, contrasto che la Corte di Giustizia ha già escluso, ma valorizzando unicamente la natura esclusivamente amministrativa della predetta responsabilità: come illustrato, il dictum della Corte di Giustizia sembra dover essere rivisitato, perché fondato su un presupposto interpretativo di diritto interno ormai non più attuale, in quanto decisamente superato dalla giurisprudenza di legittimità nella sua più autorevole espressione, che ha riconosciuto la natura (anche o soltanto) penale della responsabilità da reato degli enti.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale (da ultimo, Corte cost. n. 17 del 2010, n. 240 del 2016, n. 58 del 2017), una disposizione non può essere ritenuta costituzionalmente illegittima perché può essere interpretata in un senso che la ponga in contrasto con parametri costituzionali, essendo la dichiarazione d’illegittimità di una disposizione giustificata unicamente dalla constatata impossibilità di offrirne un’interpretazione conforme a Costituzione.

Nel caso in esame, la constatata possibilità di offrire del quadro normativo di riferimento sia un’interpretazione che lo pone in contrasto con parametri costituzionali (gli artt. 3, 24 e 117, comma 1, della Costituzione), sia un’interpretazione conforme a Costituzione (quella prescelta dalla Corte di assise di Taranto) sembrebbe imporre di optare per quest’ultima, superando l’orientamento attualmente consolidato della giurisprudenza.