La crisi della magistratura ordinaria

di Giuseppe Maria Berruti Commissario della CONSOB

La magistratura italiana ordinaria, al di là della sua origine storicamente piccolo borghese, e ad onta del suo intenso bagno di fascismo, dagli anni Sessanta dello scorso secolo si era sempre più identificata con lo spirito della Costituzione repubblicana. L’istituzione concreta del consiglio superiore della magistratura, la sua composizione a parlamentino, la effettiva presidenza attribuita al Capo dello Stato, avevano finito col determinare una posizione dei giudici ordinari, particolare rispetto a quella dei giudici amministrativi, tutta concentrata sulla funzione di interpretazione vivificante ed ammodernatrice della legge.

La legge, sia civile che penale, nasce storicamente vecchia. Interpretare la legge dentro il sistema costituzionale vuol dire adottare per la legge ordinaria il progetto scelto dalla Costituzione. Il giudice, nel tempo era diventato partecipe del governo effettivo del paese. Attraverso le sentenze che risolvendo il caso singolo contribuivano, volta per volta, a ricostruire ed a comprenderne il portato storico, e così a rendere attuale il sistema.

Proprio questa evoluzione ha favorito lo straordinario fenomeno del sorgere delle autorità amministrative indipendenti. Pezzi di amministrazione, cui sono attribuite competenze su specifiche in condizioni di particolare forza giuridica. Interpreti della legge, certo, ma anche, come il giudice, risolutrici dei casi concreti. In definitiva, anch’esse, e questa volta fuori dello standard storico della pubblica amministrazione, non solo interpreti ma anche autori delle regole concrete. Anche esse pezzi di governo.

Tutto questo sistema è andato in crisi. La politica giudiziaria che i giudici pretendevano di praticare era per definizione quella della Costituzione. Dunque, ad esempio, se la concorrenza é un interesse costituzionalmente rilevante, implicito nella libertà dell’iniziativa privata, la giurisprudenza ha adattato questo principio alle controversie tra privati ed alle controversie tra privati e Stato. Rispondendo alla esigenza di modernizzazione continua del mercato. Il giudice, che resta il perno del sistema perché la sua decisione può diventare definitiva, e le autorità amministrative indipendenti, partecipano in realtà alla funzione politica di costante attuazione della Costituzione e di costante adattamento delle norme, sulla base della loro essenziale, indiscussa, stabilità.

La Costituzione tuttavia ha perduto negli ultimi anni quella che sembrava essere, sostanzialmente, se non l’immutabilità, almeno la tendenziale stabilità dei suoi principi. Sono anni che da parte di forze politiche importanti si impongono oppure si propongono cambiamenti della Carta, anche relativamente a contenuti fondamentali. Cambiamenti che, attesa la logica di ogni sistema giuridico organico e complessivo, sono in grado di produrre effetti su tutto il sistema. Sul disegno. Quindi sui rapporti di forza tra i poteri dello Stato e tra gli organi dello Stato. Secondo l’orientamento di parte volta a volta sostenuto.

La Costituzione non è più considerata da tutti come dotata di un contenuto di indirizzo storicamente meditato e motivato. Da strumento di regolazione suprema della relazione di forza che sovrintende al governo, rischia di apparire, essa stessa, strumento immediato di governo. Dunque il giudice che si pone a leggere una vicenda nel suo spirito, ovvero nello spirito che egli ritiene essere attuale, rischia di apparire per un curioso gioco di specchi, come portatore di una delle tante tesi possibili, opinabili, contendibili in termini di logica politica. E questo distrugge il peso storico della giurisprudenza, intesa come complessivo prodotto dei pratici e dei teorici del diritto, che concorre alla formazione delle regole che guidano una comunità, e diminuisce fortemente il ruolo e la cultura di chi, professionalmente, applica la legge. Se le regole costituzionali sono percepite come pezzi di politica vivente, allora le politiche dei giudici, quelle che nella esperienza degli ultimi cinquant’anni almeno hanno contribuito ad arricchirne il dibattito interno ed a renderlo comprensibile ed a renderne trasparenti le decisioni, si confondono con le voci politiche. Quelle che legittimamente contrappongono posizioni di parte. Le culture dei giudici entrano nel tramestio, nel vocio, nel pettegolo clamore che non distingue gli argomenti dai pretesti, e nel quale si ritiene di poter contraddire senza conoscere.

Il problema a questo punto non è più solo quello dei giudici, del loro destino, o della loro credibilità professionale. E’, piuttosto, quello di un rapporto tra Costituzione e legge che nel sentire comune dei cittadini, e dunque nella loro percezione anche politica, può interrompersi. Facendo perdere il senso profondamente democratico del significato delle Corti, e dell’autorità delle decisioni.

La vicenda seguita alla captazione da parte di investigatori di conversazione tra magistrati e politici è stata incanalata sui binari istituzionali. Faticosamente si sono messi in moto gli anticorpi. Con grande intelligenza si è compreso che un sistema sopravvive ai propri momenti difficili solo se lo merita. Il momento di cui parliamo è difficilissimo, e dura ancora. Non credo però sia intelligente pensare, al di là delle responsabilità personali, tutte da lasciar decidere al giudice, che sia possibile semplicemente tornare all’antico. I giudici devono certamente ragionare sulla loro posizione nel sistema. Senza illudersi che la loro autonomia giustifichi scelte di cui il Paese non abbia piena consapevolezza. Un’epoca è finita. La pandemia del corona virus sta imponendo scelte che mostrano una assoluta secondarietà della magistratura. La giurisdizione come fase di razionalità massima cede il passo alla decisione.  E’ il momento più difficile per i giuristi. La lotta per il diritto è davvero eterna.