La fase introduttiva del giudizio e di trattazione del giudizio

A cura di Ilaria Bianchi (giudice civile presso il Tribunale di Salerno) e di Giuseppe Barbato (giudice civile presso il Tribunale di Salerno)

La modifica della disciplina della fase introduttiva e di trattazione del giudizio – che troverà applicazione con riferimento ai procedimenti instaurati successivamente al 30.6.2023, ai sensi dell’art. 35, I comma d.lgs. n. 149/2022 – si contestualizza essenzialmente nel più ampio progetto di riduzione dei tempi di definizione dei giudizi, al fine di consentire di“assicurare la assicurare la semplicità,  la  concentrazione  e  l’effettività della tutela e la ragionevole durata del processo”, ai sensi dell’art. 1, V comma lett. a) della legge delega (n. 206/2021).

Del tutto innovativa risulta pertanto la rimodulazione della scansione della fase introduttiva, venendosi ad anticipare nella fase di cui all’art. 171-bis c.p.c. il controllo sulle verifiche preliminari, che in precedenza venivano effettuate in sede di prima udienza di comparizione delle parti; peraltro, il meccanismo dello scambio delle memorie integrative nelle forme di cui all’art. 171-ter c.p.c. anteriormente all’udienza di comparizione delle parti, consentirà di definire effettivamente il thema decidendum ac probandum anteriormente al primo contatto diretto del giudice con le parti.

Nell’intenzione del legislatore, quindi, ciò dovrebbe favorire la possibilità di conciliazione; di qui l’obbligatorietà della comparizione personale delle parti in sede di prima udienza.

Pur condividendosi talune novità che sembrerebbero effettivamente funzionali al conseguimento almeno tendenziale dell’obiettivo, come si avrà modo di rilevare successivamente, non v’è dubbio circa il fatto che la previsione astratta dovrà necessariamente confrontarsi sia con la prassi concreta giudiziaria, oltre che con gli atavici problemi del sistema giustizia in punto di carenza di risorse e di personale, che probabilmente hanno rappresentato senz’altro la principale causa di accumulo dell’arretrato.

Soltanto un armonioso e difficile coordinamento tra l’astrazione propria della fase di legiferazione e la concretezza dei problemi degli uffici giudiziari potrà consentire quantomeno di avvicinare gli ambiziosi obiettivi della riforma, altrimenti destinata a seguire il sostanziale fallimento degli innumerevoli tentativi di modifica del sistema processuale che l’hanno preceduta.

Artt. 163, 163-bis, 164, 165, 166, 167, 168-bis  c.p.c.:

L’art. 163 c.p.c., come rimodulato dal D.lgs. 149/22 introduce alcune novità nell’individuazione del contenuto dell’atto di citazione legate sia al profilo dell’editio actionis, che a quello della vocatio in ius.

In particolare, è stato introdotto al comma III il n. 3) bis in cui si onera l’attore di precisare l’indicazione “nei casi in cui la domanda è soggetta alla condizione di procedibilità, dell’assolvimento degli oneri previsti per il suo superamento”.

Tuttavia, l’omissione di tale avvertimento non costituisce motivo di nullità ai sensi del novellato art. 164 c.p.c.

Non vi è dubbio circa il fatto che tale norma si inserisce nel più ampio contesto della valorizzazione degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie (sui quali pure ha inciso l’art. 7 del d.lgs. 149/2022); cionondimeno, tale norma risulta sprovvista di sanzione processuale.

Appare inoltre significativa la modifica del punto 4) del co. III dell’art. 163 c.p.c., con specifico riferimento all’esposizione della causa petendi: risulta infatti previsto che l’attore debba esporre “in modo chiaro e specifico” i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda.

Tale innovazione ha un suo logico precipitato con riferimento all’operatività del principio di non contestazione di cui all’art. 115 co. 1 c.p.c. (come interpretato dai più recenti orientamenti giurisprudenziali sul tema).

Infatti, tanto più puntuale e specifica risulta l’allegazione in punto di fatto da parte dell’attore, tanto più significativo risulterà l’onere del convenuto di prendere posizione in modo specifico sulla stessa. A tale riguardo, con la modifica dell’art. 167 co. c.p.c. è stato imposto anche al convenuto di prendere posizione “in modo chiaro e specifico” sui fatti posti a fondamento della domanda, richiamandosi quanto già previsto all’art. 416 co. 3 c.p.c. in materia di rito del lavoro, secondo cui, invece, il resistente è tenuto a “prendere posizione in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda”.

Nonostante tale novità normativa (la cui omissione comunque non risulta oggetto di alcuna sanzione, salvo quanto si dirà con riferimento al combinato disposto degli artt. 164 co. 4 e 5 c.p.c. del nuovo art. 183 quater c.p.c.), vi è da rilevare come già l’elaborazione giurisprudenziale sul punto avesse delineato un quadro sistematico del tema e tanto a partire da Cass. Civ., SS.UU. 23.1.02 n. 761, in epoca antecedente all’introduzione della modifica dell’art. 115 co. 1 c.p.c. ad opera della L. n. 69/09.

In altre parole, trattasi dell’elaborazione delle coordinate ermeneutiche inerenti ai presupposti per l’operatività della non contestazione; sul tema, peraltro, si segnala anche Cass. Civ., SS.UU. 16.2.2016 n. 2951, che, pur affrontando più specificamente la questione con riferimento alla questione della titolarità attiva e passiva del rapporto giuridico oggetto di causa, analizza i presupposti di applicabilità del principio anche con peculiare riguardo alle questioni di fatto e di diritto suscettibili di rilevazione officiosa. 

Di fatto,  la modifica del n. 4) si pone quindi nel solco della consolidata elaborazione giurisprudenziale sul punto.

Infine, si registra una modifica del n. 7), in diretta connessione con la rimodulazione delle scansioni temporali attinenti alla fase introduttiva del giudizio.

È oggi infatti previsto l’invito al convenuto a costituirsi nel termine di  settanta giorni prima dell’udienza, nonché l’avvertimento, oltre a quello già previsto in merito alle decadenze di cui agli artt. 38 e 167 c.p.c., che la difesa tecnica mediante avvocato è obbligatoria in tutti i giudizi innanzi al Tribunale, fatta eccezione per i casi previsti dall’art. 86 c.p.c. o da leggi speciali e che la parte, sussistendone i presupposti di legge, può presentare l’istanza per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.

Tale modifica determina importanti conseguenze sotto il profilo della nullità della citazione per i vizi attinenti alla vocatio in ius, come disciplinata dall’art. 164 c.p.c.

Al riguardo, si riscontra innanzitutto la peculiarità della formulazione legislativa: infatti, nonostante in concreto si sia in presenza di una pluralità di avvertimenti, nella norma invece si utilizza il sostantivo al singolare.

Essendo immutato l’art. 164 co. 1 c.p.c., deve ritenersi, ad un’interpretazione sistematica, che la nullità della citazione sia conseguenza anche dell’omissione di uno solo dei “tre” avvertimenti previsti dal n. 7 del co. 3 art. 163 c.p.c.

Si introduce quindi un significativo onere a carico del procuratore, potenzialmente foriero di ulteriori dilazioni temporali nonostante la natura meramente formale degli avvertimenti, in evidente contrasto con l’esigenza di perseguire la ragionevole durata del procedimento, come previsto dall’art.1, comma V, lett. a) della l. n. 206/2021.

Inoltre, nella rimodulazione complessiva delle scansioni temporali della fase introduttiva del giudizio, l’art. 163-bis c.p.c. prevede ora un termine minimo di centoventi giorni tra la notifica e la data dell’udienza di comparizione, nel caso in cui il luogo di notificazione si trova in Italia, rimanendo fermo il termine di centocinquanta giorni se si trova all’estero.

Ancora, con riferimento alla disciplina della fase di costituzione dell’attore, l’art. 165 c.p.c. mantiene il temine generale di dieci giorni dalla notifica, con eliminazione del termine di cinque giorni in caso di abbreviazione del termine di cui all’art. 163-bis, II comma c.p.c., tenuto conto dell’abrogazione di tale disposizione.

Viene introdotta altresì la possibilità per l’attore che si costituisce personalmente di indicare l’indirizzo presso cui ricevere le comunicazioni e notificazioni anche in forma telematica in alternativa alla dichiarazione di residenza, ovvero all’elezione di domicilio nel comune ove ha sede il Tribunale.

L’art. 166 c.p.c., inoltre, eleva il termine di costituzione per il convenuto a settanta giorni prima dell’udienza di comparizione delle parti; viene eliminato il riferimento al termine di dieci giorni prima dell’udienza nell’ipotesi dell’abbreviazione dei termini di cui all’art. 163-bis, II commac.p.c., norma oggi abrogata.

E proprio con riferimento alla designazione del giudice istruttore, il novellato art. 168-bis c.p.c. dispone che il presidente del Tribunale senza indugio designa il giudice istruttore all’esito della formazione del fascicolo d’ufficio, venendo eliminata la modalità di individuazione dello stesso “con decreto scritto in calce della nota di iscrizione a ruolo”; analogamente il cancelliere iscrive la causa sul ruolo della sezione e su quello del giudice istruttore, senza necessità di trasmissione del fascicolo – e tanto tenuto conto delle modalità telematiche di gestione dei fascicoli d’ufficio.

Il differimento della prima udienza di comparizione, disciplinato originariamente dall’art. 168-bis, V comma c.p.c.,  viene oggi regolato dall’art. 171-bis, III comma c.p.c. segue: la nuova scansione temporale della fase introduttiva e di trattazione: artt. 171, 171-bis, 171-ter, 182 c.p.c.

Il nuovo art. 171 c.p.c. dispone che in caso di costituzione di una delle due parti nel termine assegnatole, l’altra parte può costituirsi anche successivamente – escludendosi così  il riferimento alla prima udienza di comparizione prima previsto dalla norma-  ferme restando le decadenze di cui all’art. 167 c.p.c.

Cionondimeno, la declaratoria di contumacia deve disporsi avuto riguardo alla mancata costituzione della parte, al più tardi, entro il termine previsto per la costituzione del convenuto (settanta giorni prima dell’udienza di comparizione).

Ed invero, il fulcro della rimodulazione della fase introduttiva del giudizio muove proprio dall’introduzione degli artt. 171- bis e ter c.p.c.

L’art. 171-bis c.p.c., infatti, anticipa i controlli originariamente propri della prima udienza di comparizione al momento della scadenza del termine per la costituzione del convenuto, e cioè di settanta giorni prima dell’udienza.

Alla scadenza di tale termine, entro i successivi quindici giorni, il giudice dovrà verificare d’ufficio la regolarità del contraddittorio, pronunciando, quando occorre, i provvedimenti di cui all’art. 102, II comma c.p.c.; 107 c.p.c. – introdotto dalla novella –; 164, II, III e V comma c.p.c., 167, II e III comma c.p.c.; 171, III comma c.p.c. – pure richiamato dalla novella; 182 c.p.c.; 291 c.p.c.

Viene altresì previsto che in questa sede si possa disporre il differimento dell’udienza di comparizione per la chiamata in causa del terzo da parte del convenuto.

Ancora, viene richiamato il disposto di cui all’art. 292 c.p.c. in materia di notificazione e comunicazione di atti al contumace: non v’è dubbio circa il fatto che il riferimento debba intendersi soprattutto alle ipotesi della formulazione della domanda riconvenzionale da parte del convenuto, non potendo essere certo pronunziata in tale sede l’ordinanza ammissiva dell’interrogatorio formale ovvero del giuramento.

In tale fase è altresì previsto che, oltre a doversi indicare alle parti le questioni rilevabili d’ufficio di cui si ritiene opportuna la trattazione, dovranno segnalarsi le questioni attinenti alle condizioni di procedibilità della domanda, oltre all’opportunità di verificare la sussistenza dei presupposti per procedere con rito semplificato.

Nella nuova scansione della fase introduttiva del giudizio, laddove il giudice pronuncia i provvedimenti necessari in parte qua, fissa, se necessario una nuova udienza per la comparizione delle parti rispetto alla quale decorreranno i termini di cui al novellato art. 171-ter c.p.c.; diversamente, conferma o differisce, fino ad un massimo di quarantacinque giorni la data della prima udienza rispetto alla quale decorrono i termini di cui all’art. 171-ter c.p.c.

Sotto tale specifico profilo, il giudice provvede con decreto comunicato alle parti dalla cancelleria – viene pertanto abrogata la corrispondente disposizione di cui all’art. 168-bis, V comma c.p.c.

In tal senso, il nuovo art. 171-ter c.p.c. dispone la possibilità per le parti di depositare, a pena di decadenza. ulteriori memorie integrative in cui peraltro poter trattare le questioni di cui all’art. 171-bis c.p.c.: viene pertanto sostanzialmente richiamata la disciplina delle memorie di cui all’art. 183, VI comma c.p.c.

Più in particolare, almeno quaranta giorni prima dell’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., le parti possono proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto o dal terzo, nonché precisare e modificare le domande, eccezioni e conclusioni già proposte. L’attore può essere autorizzato a chiamare in causa un terzo, se l’esigenza è sorta a seguito delle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta.

In altre parole, oltre a prevedersi nella prima memoria integrativa la possibilità di esercitare le facoltà originariamente previste con riguardo alla memoria ex art. 183, VI comma n.1) c.p.c., è in tale sede che le parti potranno esercitare le facoltà processuali previste nell’originario art. 183, V comma c.p.c. – proposizione di domande ed eccezioni che sono la conseguenza delle domande riconvenzionali e delle eccezioni proposte dal convenuto e dal terzo; chiamata in causa del terzo da parte dell’attore.

Con una seconda memoria integrativa, da depositare venti giorni prima dell’udienza, le parti possono esercitare le facoltà originariamente previste dall’art. 183, VI comma n. 2) c.p.c.: trattasi più in particolare della replica alle domande e alle eccezioni nuove o modificate dalle altre parti, oltre alla proposizione delle eccezioni che sono la conseguenza delle domande nuove da queste formulate, nonché dell’indicazione dei mezzi di prova e dell’effettuazione delle produzioni documentali.

Con la terza memoria integrativa, da depositare almeno dieci giorni prima dell’udienza, le parti possono replicare alle eccezioni nuove, nonché indicare la prova contraria.

Infine, il novellato art. 182 c.p.c. ha esplicitamente positivizzato la possibilità di applicazione dell’art. 182 c.p.c. anche con riferimento all’ipotesi della “mancanza della procura alle liti”, dandosi così continuità a quell’orientamento giurisprudenziale volto a riconoscere l’applicabilità dell’istituto anche all’ipotesi di mancanza della procura alle liti (Cass. Civ., Sez. Lav., 29.7.2020, n. 16252; Sez. II, 7.5.2018, n. 10885), in contrasto con altra impostazione più rigorosa sul punto (Cass. Civ., Sez. I, 4.3.2021, n. 5985; SS.UU., 27.4.2017, n. 10414).

L’udienza di prima comparizione delle parti e trattazione della causa: verso l’evoluzione della figura del “giudice conciliatore”.

artt. 183, 183-bis, 185 e 185-bis c.p.c.

Con la nuova rimodulazione delle scansioni temporali della fase introduttiva e di trattazione,  l’udienza ex art. 183 c.p.c. assumerà ben altra connotazione, giacché, una volta espletati tutti i controlli preliminari di cui all’art. 171-bis e articolate le richieste delle parti in punto di allegazione e di prova ai sensi dell’art. 171-ter c.p.c., risultano già definiti il thema decidendum e probandum del giudizio.

Tali circostanze dovrebbero consentire al Tribunale una più completa e approfondita cognizione dell’oggetto del contendere: ed è proprio sulla scorta di tali presupposti che viene così valorizzata la funzione conciliativa del giudice, essendo in tal senso previsto l’obbligo di comparizione personale delle parti dinanzi al Tribunale. Infatti, la mancata comparizione delle parti senza giustificato motivo costituisce comportamento valutabile ai sensi dell’art. 116, II comma c.p.c.

Viene pertanto richiamato in questa sede un modulo processuale già previsto – sia pure con scarsi risultati applicativi – con riferimento alla disciplina in materia di procedimento davanti al giudice di pace (art. 320 c.p.c.), ovvero in materia di separazione e scioglimento del matrimonio (secondo l’originaria disciplina rispettivamente di cui all’art. 708 c.p.c. e 4, VII comma l. n. 898/1970).

Cionondimeno, la rimodulazione delle scansioni temporali dovrebbe consentire al giudice di avere piena cognizione dell’oggetto del contendere, così potenzialmente dovendosi ravvisare un’effettiva utilità del contatto diretto tra le parti e l’organo giudiziario in questa sede.

Ebbene, all’udienza in esame il giudice tenterà la conciliazione nelle forme di cui all’art. 185 c.p.c., interrogando liberamente le parti.

Laddove non fosse possibile procedere in tali termini, dovrà provvedere sulle richieste istruttorie, con ordinanza da emettere non oltre trenta giorni in caso di riserva.

Peraltro, è specificamente previsto che l’udienza di assunzione dei mezzi di prova è fissata entro novanta giorni – anche questo da intendersi quale termine meramente ordinatorio e sprovvisto di sanzione processuale.

In questa sede viene richiamata poi la disciplina in punto di calendarizzazione del processo prevista originariamente dall’art. 81-bis delle disp. att. al c.p.c.

Il richiamo al rispetto del calendario del processo viene valorizzato anche in sede di art. 185 c.p.c., laddove, con specifico riguardo alla rinnovazione del tentativo di conciliazione, si prevede espressamente che lo stesso possa avvenire “nel rispetto del calendario del processo”, oltre che nell’art. 188 c.p.c., laddove si dispone che l’istruzione debba avvenire nel rispetto delle tempistiche in questione.

Appare evidente che, quantunque la ratio di tali disposizioni sia evidentemente quella di accelerare i tempi di definizione processuale dei giudizi, si dubita dell’effettiva incidenza delle stesse al riguardo, soprattutto con riferimento agli uffici giudiziari gravati da significativi carichi del ruolo.

Viene infine richiamata la disciplina di cui alla vecchia formulazione dell’art. 183, VII comma c.p.c. nell’ipotesi in cui siano disposti d’ufficio mezzi di prova.

Sempre nella logica di valorizzare la semplificazione del procedimento, viene altresì rimodulato l’art. 183-bis c.p.c., prevedendosi che il giudice, valutata la complessità della lite e dell’istruzione probatoria, sentite le parti, se rileva che in relazione a tutte le domande proposte ricorrono i presupposti di cui all’art. 281-decies c.p.c., dispone con ordinanza non impugnabile la prosecuzione del processo nelle forme del rito semplificato e si applicano le disposizioni di cui all’art. 281-duodecies, V comma c.p.c.

Infine, con specifico riguardo all’art. 185-bis c.p.c. viene espressamente positivizzato il limite temporale di applicabilità dell’istituto della proposta conciliativa, coincidente con il momento in cui viene fissata l’udienza di rimessione della causa in decisione. Ed invero, l’originaria formulazione della norma prevedeva che potesse procedersi all’esercizio di tale potere fino a “quando è esaurita l’istruzione”; nonostante lo specifico limite così previsto, non sono mancate nella prassi soluzioni ermeneutiche volte ad espanderne la portata applicativa, di fatto, sino al rinvio della causa per la precisazione delle conclusioni.

Art. 183-ter c.p.c.

Ulteriore novità introdotta dalla riforma in commento, risulta l’istituto dell’“ordinanza di accoglimento della domanda”.

Si riconosce infatti un potere discrezionale del giudice – in tal senso depone l’inciso “può pronunciare” – da esercitarsi su istanza della parte, con riferimento alle controversie di competenza del Tribunale in materia di diritti disponibili. Ne consegue, pertanto, che tale istituto potrà trovare applicazione anche con riguardo alle materie oggetto di attribuzione funzionale del Tribunale in composizione collegiale, nei limiti della disponibilità dell’oggetto del giudizio.

È invece da escludere, ad un’interpretazione letterale, la compatibilità della norma con la disciplina speciale del procedimento dinanzi al giudice di pace, in applicazione del più generale disposto di cui all’art. 311 c.p.c.

Ancora, è prevista l’applicabilità della disposizione esclusivamente con riferimento al procedimento di primo grado.

Tale potere è esercitabile su istanza di parte “nel corso del giudizio di primo grado”: a differenza del successivo art. 183-quater c.p.c., come si avrà modo di rilevare infra, non viene espressamente previsto il limite dell’adozione del provvedimento “all’esito dell’udienza dell’art. 183 c.p.c.”. Eppure, tenuto conto della concreta rimodulazione della fase introduttiva e di trattazione del giudizio, non v’è dubbio circa il fatto che tale potere non possa che essere esercitato a partire dalla predetta udienza, onde non è comprensibile la diversificazione normativa all’uopo prevista – a meno di non voler accedere ad un’interpretazione formalistica secondo cui potrebbe addivenirsi all’adozione del provvedimento de quo anche all’inizio, ovvero nel corso dell’udienza, e non necessariamente all’esito della stessa.

Presupposto per l’applicazione dell’istituto in esame risulta la circostanza che “i fatti costitutivi sono provati e le difese della controparte appaiono manifestamente infondate”.

Risulta senz’altro peculiare la terminologia adoperata dal legislatore al riguardo: ed invero, avrebbe più opportunamente dovuto farsi riferimento non già tanto alla prova del “fatto costitutivo”, quanto piuttosto, e in linea più generale, della situazione giuridica subiettiva identificata, sotto il profilo obiettivo, anche dal petitum, oltre che dalla causa petendi.

Aldilà di tale precisazione, deve altresì rilevarsi che da un lato la domanda deve essere pertanto “provata”; dall’altro, le difese di controparte devono invece “apparire manifestamente infondate”.

Già in tal senso la “prova” del fatto costitutivo non necessariamente deve intendersi nel senso documentale del termine: in altre parole non risulta puntualmente previsto che l’istituto debba trovare applicazione soltanto nel caso in cui non siano state formulate specifiche richieste istruttorie

Pertanto, almeno in linea generale, non è da escludere prima facie l’applicabilità della norma anche all’esito della valutazione di inammissibilità e/o irrilevanza delle richieste istruttorie, o addirittura all’esito dell’istruttoria orale.

Eppure, risulterebbe in tal senso poco plausibile l’operatività dell’istituto in tale fase di giudizio: ed infatti, molto probabilmente le determinazioni attinenti all’ammissione dei mezzi di prova, e quindi la necessità di istruzione della causa, sono state determinate dal contegno difensivo tenuto dalla controparte, che evidentemente non ha dato luogo a prospettazioni “manifestamente infondate”. In altre parole, in tale fase di giudizio, non appare realisticamente possibile ritenere che possa riscontrarsi una “manifesta infondatezza” delle difese di controparte.

D’altro canto, occorrerebbe anche interrogarsi circa l’utilità dell’istituto nell’ipotesi in cui le richieste istruttorie delle parti non dovessero essere state ammesse, qualora le difese di controparte apparissero manifestamente infondate.

Ed invero, non v’è dubbio circa il fatto che almeno una delle due parti sia potenzialmente interessata all’emissione di una sentenza, suscettibile di passare in giudicato ai sensi dell’art. 2909 c.c.

Pertanto, il campo privilegiato di applicazione della norma pare essere proprio quello attinente alle cause di pronta soluzione, dal tenore essenzialmente documentale, suscettibili di definizione all’esito dell’udienza ex art. 183 c.p.c.

Ancora, le difese di controparte devono “apparire” manifestamente infondate. Sembra pertanto prospettarsi una valutazione di carattere eminentemente sommario, volta a verificare se ictu oculi, ad un esame complessivo delle difese della controparte, debba ritenersi che la prospettazione difensiva di quest’ultima risulti assolutamente priva di fondamento.

Tra l’altro, in caso di pluralità di domande, l’ordinanza può essere pronunciata soltanto se tali presupposti ricorrono per tutte. 

Aldilà della difficoltà di ipotizzare una realistica possibilità di applicazione della norma, tenuto conto dei presupposti per l’operatività della stessa, il terzo comma della disposizione in commento sancisce che l’ordinanza di accoglimento, provvisoriamente esecutiva, è reclamabile ai sensi dell’art. 669-terdecies c.p.c.- e non acquista efficacia di giudicato ex art. 2909 c.c., né la sua autorità può essere invocata in altri processi.

Veramente peculiare risulta tale ultima previsione, peraltro riproposta anche nel successivo art. 183-quater c.p.c.

Tale puntualizzazione appare superflua ed irragionevole, tenuto conto del fatto che già di per sé il provvedimento, non acquisendo efficacia di giudicato, non può sicuramente incidere con riguardo ad altri procedimenti e pertanto la sua “autorità non può essere invocata in altri processi”.

La dizione utilizzata sembra quindi richiamare quanto previsto dall’art. 669-octies, IX comma c.p.c., secondo cui l’autorità del provvedimento cautelare non è invocabile in un diverso processo.

Eppure, pur essendo evidente la necessità di tale esplicazione in sede di procedimento cautelare, non potendosi richiamare tecnicamente il concetto di giudicato con riferimento alla tutela cautelare, la previsione di tale puntualizzazione nella disposizione in commento appare del tutto ultronea.

Ed invero, tenuto conto del principio di conservazione nell’interpretazione della norma, potrebbe prospettarsi che tale disposizione incida sotto il profilo dell’inutilizzabilità del provvedimento in esame anche con riguardo ad ulteriori giudizi, a fini istruttori, anche se nel limitato senso di mero elemento indiziario, ovvero di argomento di prova. 

Peraltro, già sotto tale specifico profilo può dubitarsi della concreta utilità dell’istituto in commento: infatti, a fronte di una domanda sufficientemente provata e di difese di controparte manifestamente infondate, appare irragionevole ritenere che la parte interessata non intenda procedere alla definizione del giudizio con sentenza, al fine di statuire, con efficacia di giudicato, sul rapporto giuridico oggetto di causa.

E tanto a maggior ragione tenuto conto della perdurante vigenza dell’istituto similare di cui all’art. 186-quater c.p.c., applicabile invece con riferimento alle specifiche ipotesi di domanda di condanna al pagamento di somme ovvero alla consegna o al rilascio dei beni, all’esito dell’attività istruttoria.

Eppure, tramite il meccanismo disciplinato dall’art. 186-quater, IV comma c.p.c., l’ordinanza in esame è potenzialmente suscettibile di acquisire l’autorità del giudicato.

Sicché, anche in virtù di tale peculiare istituto, deve darsi atto della probabile scarsa applicazione concreta della novella in esame.

Peraltro, proprio tale risvolto comporta che il titolare dell’effettivo interesse a richiedere l’emissione dell’ordinanza in commento sia l’attore; non v’è dubbio però circa il fatto che, in caso di contrasto tra le parti in merito all’opportunità di provvedere nelle forme di cui all’art. 183-ter c.p.c., debba propendersi per la necessità di procedere nelle forme ordinarie di definizione del giudizio (come peraltro modificate anche dalla riforma in commento, ai sensi dei novellati artt. 189, 275-bis e 281-quinquies e ss. c.p.c.).

Ad ogni modo, trattandosi di provvedimento che definisce il giudizio, è disposta la liquidazione delle spese di lite, secondo il più generale dettato di cui all’art. 91 c.p.c.

Molto particolare risulta altresì il regime rimediale azionabile avverso il provvedimento in esame, richiamandosi per relationem la disciplina del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c.

In tal senso, l’unico punto di contatto tra l’istituto in esame ed il reclamo cautelare può ravvisarsi nella valutazione sommaria astrattamente richiesta per la valutazione della manifesta infondatezza delle difese di controparte.

Eppure, non v’è dubbio circa il fatto che tale provvedimento non risulta contraddistinto dalle note tipiche del rimedio cautelare, sia pure intese in senso lato.

Trattasi pertanto di un richiamo meramente formale di un procedimento in funzione di controllo di un provvedimento che non sembra avere natura cautelare.

Si registra ancora un’evidente deroga all’art. 669-terdecies, IV comma c.p.c., che invece prevede il divieto di rimessione della causa al primo giudice: ed infatti, in caso di accoglimento del reclamo, è disposta la rimessione del procedimento “a un magistrato diverso da quello che ha emesso l’ordinanza reclamata”.

Tale previsione, pertanto, non potrà non avere ripercussioni sull’organizzazione degli uffici giudiziari -soprattutto quelli di piccole dimensioni – introducendosi ulteriori forme di incompatibilità. Sarebbe pertanto necessario individuare il giudice della rimessione sulla scorta di specifiche previsioni tabellari. 

Art. 183-quater c.p.c.

Del tutto innovativa risulta anche la disposizione normativa in esame rubricata “ordinanza di rigetto della domanda”.

Anche in tale ipotesi, come per l’istituto analogo di cui all’art. 183-ter c.p.c., si riconosce infatti un potere discrezionale del giudice da esercitarsi su istanza della parte, con riferimento alle controversie di competenza del Tribunale.

Ne consegue, pertanto, che tale istituto potrà trovare applicazione anche con riguardo alle materie oggetto di attribuzione funzionale del Tribunale in composizione collegiale – oggetto di rimodulazione nella presente riforma -; è invece da escludere, ad un’interpretazione letterale, la compatibilità della norma con la disciplina speciale del procedimento dinanzi al giudice di pace, ai sensi dell’art. 311 c.p.c.

Ancora, è prevista l’applicabilità della disposizione esclusivamente con riferimento al procedimento di primo grado, e tanto a prescindere dalle ulteriori novità pure introdotte dalla riforma in tema di pronunzie di inammissibilità con riferimento ai procedimenti di appello di cui artt. 348- bis e ter c.p.c.

Tale potere, esercitabile su istanza di parte, riguarda esclusivamente i procedimenti concernenti diritti disponibili e può essere esercitato all’esito dell’udienza ex art. 183 c.p.c.; ancorché non sia previsto uno specifico termine finale per l’esercizio di tale potere, deve dirsi, anche raffrontando la norma con quella di cui all’art. 183-ter c.p.c. che prevede genericamente che il provvedimento possa essere “adottato nel corso del giudizio”, che l’istituto rinvenga la più adeguata collocazione proprio all’esito della udienza di trattazione.

E tanto tenuto conto del fatto che i presupposti di applicazione dell’istituto – manifesta infondatezza della domanda, ovvero omessa integrazione o rinnovazione della domanda a seguito del rilievo della nullità della citazione per vizio dell’editio actionis– risultano maggiormente compatibili con la conclusione dell’udienza ex art. 183 c.p.c.

Cionondimeno, non è da escludere in via astratta che l’istituto possa trovare applicazione anche all’esito delle udienze istruttorie, e tanto a prescindere dalla concreta utilità effettivamente ritraibile dall’emissione dell’ordinanza, come si avrà modo di rilevare anche successivamente.

In tal senso, si prevede la possibilità di emettere un’ordinanza di rigetto della domanda quando questa è manifestamente infondata, ovvero se è omesso o risulta assolutamente incerto il requisito di cui all’art. 163, III comma n. 3) c.p.c. e la nullità non è stata sanata o se, emesso l’ordine di rinnovazione della citazione o di integrazione della domanda, persiste la mancanza dell’esposizione dei fatti di cui al n. 4) III comma dell’art. 163 c.p.c.

Per quanto concerne la prima ipotesi applicativa, e cioè quella attinente alla manifesta infondatezza della domanda, la norma richiama una dizione già utilizzata nel codice, con particolare riguardo, a titolo esemplificativo, all’art. 283, II comma c.p.c. in tema di sanzione applicabile alle ipotesi di manifesta infondatezza delle istanze di sospensiva delle sentenze in appello; ovvero con riguardo all’art. 360-bis c.p.c. in punto di inammissibilità del ricorso per cassazione laddove sia manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei principi regolatori del giusto processo.

Ad una prima interpretazione della norma, sembrerebbe che il presupposto della manifesta infondatezza sia da rinvenire essenzialmente nelle ipotesi in cui la domanda, nonostante le allegazioni e le richieste istruttorie formulate, appaia del tutto destituita di fondamento, senza necessità di alcun ulteriore approfondimento istruttorio. Già soltanto per tale ragione, può immaginarsi che l’applicazione dell’istituto non troverà frequente applicazione, tenuto conto dell’assoluta eccezionalità dei presupposti di fatto della stessa, scarsamente frequenti nelle concrete realtà giudiziarie.

Peraltro, nonostante la specifica previsione di un vero e proprio “rigetto” che farebbe propendere per una pronuncia sul merito della domanda, il secondo comma dell’articolo in commento esclude testualmente che tale pronunzia possa acquisire l’efficacia di giudicato di cui all’art. 2909 c.c., così in sostanza richiamandosi effetti propri di una pronunzia di inammissibilità. Tale terminologia infatti, sarebbe stata sicuramente più appropriata tenuto conto degli effetti dell’ordinanza in esame.

Anche per tale ipotesi normativa viene altresì puntualmente previsto che “la sua autorità non può essere invocata in altri processi”: devono pertanto richiamarsi in tale sede le note critiche già prospettate con riguardo all’art. 183-ter c.p.c.

Il rigetto per manifesta infondatezza assume particolare rilievo proprio con riferimento all’individuazione della parte interessata a proporre l’istanza.

Ed invero, non v’è dubbio circa il fatto che paradossalmente sia proprio l’attore inadempiente agli oneri inerenti alla prova del suo diritto a presentare un interesse diretto, concreto ed attuale ad una siffatta pronunzia. È evidente infatti che il convenuto avrebbe piuttosto interesse ad una pronuncia di rigetto nel merito con efficacia di giudicato, che definisca il giudizio.

Trattasi pertanto di una norma non conforme allo spirito della ragionevole durata dei processi che pure avrebbe dovuto ispirare la riforma.

Inoltre, si pone anche il problema di risolvere le questioni attinenti all’eventuale conflitto di interessi tra le parti in merito alla necessità o meno di una pronuncia di questo tipo. In altre parole, a fronte di una manifesta infondatezza della domanda, non è previsto specificamente se ed in quali termini, il giudice, a fronte del contrasto tra le parti in merito alla definizione del giudizio ex art. 183-quater c.p.c., possa o meno incidere in tal senso. Un’interpretazione costituzionalmente orientata depone senz’altro per privilegiare la strada della definizione ordinaria del giudizio con sentenza, come si è avuto modo di rilevare in precedenza.

L’interpretazione della norma si complica ulteriormente con riferimento alle ulteriori ipotesi applicative indicate in essa, in ordine ai profili di nullità non sanata dell’atto di citazione in merito ai vizi attinenti all’editio actionis.

Preliminarmente, in entrambe le ipotesi l’applicazione della norma è limitata al caso in cui non si sia addivenuti alla sanatoria del vizio già oggetto di vaglio giudiziale ai sensi dell’art. 164, IV e V comma c.p.c.

Pertanto, si registra un’irragionevole discrepanza tra l’ipotesi del vizio attinente al “petitum”, in cui si riferisce genericamente della mancata sanatoria della nullità, e l’ipotesi della causa petendi, laddove risulta invece specificato il caso in cui “persiste la mancata esposizione” della causa petendi a seguito dell’ordine di rinnovazione o integrazione della domanda. In altre parole, la norma sembra ipotizzare forme di sanatoria diverse con riferimento ai vizi in questione, laddove invece, ai sensi dell’art. 164, V comma c.p.c., è prevista una disciplina unitaria nell’ipotesi dell’omissione o dell’assoluta incertezza di tali elementi identificativi della domanda, prevedendosi l’ordine di integrazione o rinnovazione della stessa a seconda che il convenuto si sia costituito o meno.

È noto il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sviluppatosi in merito alle conseguenze derivanti dalla mancata rinnovazione o integrazione della domanda, non essendo prevista una puntuale disposizione come invece con riferimento ai vizi della “vocatio in ius” di cui all’art. 164, II comma c.p.c.

Secondo il più condivisibile orientamento dottrinale, infatti, se alla mancata rinnovazione della domanda dovrebbe seguire l’ordine di cancellazione della causa dal ruolo, con la conseguente estinzione del giudizio, invece, con riferimento alla mancata integrazione della domanda, dovrebbe piuttosto addivenirsi ad una declaratoria di nullità della domanda.

In tal senso, il legislatore ha perso l’opportunità di chiarire la questione ermeneutica in esame, ulteriormente complicando la disciplina in materia.

Da un lato, infatti, viene prevista in via generalizzata una pronuncia di “rigetto” – che però non può acquisire efficacia di giudicato -, e che quindi ha natura sostanziale di pronuncia in rito; inoltre, secondo la prospettiva del legislatore, nei casi in risulta applicabile l’istituto in commento, non sarebbe possibile disporre la cancellazione della causa dal ruolo, con conseguente estinzione del giudizio a fronte della mancata rinnovazione dell’atto di citazione.

E peraltro, tenuto conto degli specifici presupposti di applicabilità della norma – controversie di competenza del Tribunale in primo grado in materia di diritti disponibili; necessità dell’istanza di parte – tali dubbi ermeneutici esaminati in dottrina permangono con riferimento alle fattispecie in cui la norma non può trovare applicazione.

Analogamente a dirsi con riguardo all’ulteriore previsione secondo cui l’ordinanza possa essere pronunziata, in presenza di una pluralità di domande, solo se i relativi presupposti ricorrono per tutte. In altre parole, potrebbero distinguersi le conseguenze derivanti dall’omissione dell’ordine di rinnovazione e/o integrazione della domanda a seconda se si sia in presenza di una o più domande, dovendosi applicare lo speciale rimedio in esame solo nel caso in cui tutte le domande presentino i presupposti. Ne consegue un ulteriore elemento di irragionevolezza della disposizione in commento.

Inoltre, avendo tale ordinanza natura di provvedimento che definisce il giudizio, si prevede la liquidazione delle spese di lite, secondo il più generale paradigma di cui all’art. 91 c.p.c.

Veramente peculiare risulta poi il regime rimediale esperibile avverso tale ordinanza: viene infatti prevista la reclamabilità ex 669-terdecies c.p.c., disponendosi che, all’esito di tale fase, il provvedimento non sarebbe ulteriormente impugnabile.

In tal senso, si richiama la disciplina del reclamo previsto in sede di procedimento cautelare uniforme, e tanto nonostante che il provvedimento non presenti natura cautelare neppure in senso ampio. Ulteriore peculiarità del reclamo in questione risulta la previsione, in caso di accoglimento dello stesso, della sostanziale rimessione del giudizio ad altro magistrato, diverso da quello che ha emesso l’ordinanza, così determinandosi una regressione del procedimento alla fase in cui il provvedimento è stato emesso, come si è già avuto modo di rilevare con riguardo all’istituto di cui all’art. 183-ter c.p.c.

Si registra quindi un’evidente deroga all’art. 669-terdecies, IV comma c.p.c., che invece prevede il divieto di rimessione della causa al primo giudice.

Trattasi di una norma che sembra richiamare in senso ampio l’istituto previsto dall’art. 410-bis c.p.p. in punto di reclamo avverso i provvedimenti di archiviazione emessi dal G.I.P. nel procedimento penale; nel reclamo di cui all’art. 183-quater c.p.c., tuttavia, è prevista la rimessione della causa ad altro magistrato, introducendosi una sostanziale ipotesi di incompatibilità e prevedendosi un regime particolarmente garantistico, diversamente da quanto invece testualmente previsto dall’art. 410-bis, IV comma c.p.p. che non prevede analoghe limitazioni.

Anche tale previsione, pertanto, avrà significativi risvolti applicativi in punto di organizzazione tabellare degli Uffici.

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