La gestione del “rischio pandemico” negli ambienti di lavoro, tra tutela della salute pubblica e sicurezza dei lavoratori. Profili penalistici

di Francesco Cacucci in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la Costituzione

Sommario: 1 Cronologia delle disposizioni legislative e regolamentari di contrasto all’emergenza epidemiologica da Covid-19 – 2 La relazione intercorrente tra le misure di contenimento del rischio di contagio ed il sistema della sicurezza sul lavoro delineato dal d.lgs. 81/2008 – 3 Le specifiche misure di prevenzione e protezione contro il rischio pandemico……. – 4 (segue).……..in particolare il “Protocollo condiviso di  regolamentazione  delle  misure   per   il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro fra il Governo e le parti sociali”, sottoscritto il 24.4.2020 – 5 La “prima” valutazione del rischio pandemico e l’aggiornamento del DVR – 6 La valutazione del rischio pandemico negli appalti intra-aziendali – 7 L’apparato sanzionatorio. Le conseguenze penali della mancata attuazione delle misure di contenimento del rischio di contagio – 8 Gestione del rischio pandemico e responsabilità degli enti ex d.lgs. 231/01.

1. Cronologia delle disposizioni legislative e regolamentari di contrasto all’emergenza epidemiologica da Covid-19.

 A seguito del diffondersi del contagio da Covid-19 sono stati emanati diversi provvedimenti di vario rango – legislativi e regolamentari – tutti diretti a contrastare l’emergenza epidemiologica in atto.

Tali provvedimenti, seppure connotati da preminenti ragioni di salute ed igiene pubblica, hanno riguardato anche la sicurezza nei luoghi di lavoro, soprattutto in vista dell’avvio della c.d. “Fase 2” [1] nella quale è previsto il progressivo allentamento del c.d. “lockdown” [2] quantomeno con riferimento alla ripresa di alcune attività produttive tra quelle inizialmente sospese [3].

In ordine strettamente cronologico, il primo provvedimento legislativo in materia di “contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19” è da individuarsi nel D.L. 23.2.2020 n. 6 (convertito con modificazioni nella L. 5.3.2020 n. 13), con il quale è stato riconosciuto a “tutte le autorità competenti” il potere di “adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica” (art. 1), tra cui anche la “sospensione delle attività lavorative”, salvo che per “le  imprese che erogano servizi  essenziali  e  di  pubblica utilità  e” per le attività lavorative “che  possono  essere  svolte  in   modalità  domiciliare” (lett. n ed o)[4].

E’, quindi, seguita l’emanazione di una serie di decreti ministeriali [5], di ordinanze di Presidenti di Regione ed anche di circolari da parte di enti pubblici [6].

Per quanto in questa sede rileva, con il DPCM dell’11.3.2020 è stato sospeso, sull’intero territorio nazionale, l’esercizio di una serie di attività economiche [7] e, per quelle non sospese, sono state indicate una serie di “raccomandazioni” intese a ridurre il rischio del contagio[8]

In attuazione della misura prevista dall’art. 1, comma 1°, n. 9) del DPCM dell’11.3.2020, su invito del Governo le parti sociali hanno sottoscritto un (primo) “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto ed il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, alla cui osservanza – per le attività produttive non sospese – i datori di lavoro delle associazioni di categoria sottoscrittrici sono stati vincolati per effetto di quanto stabilito dall’art. 1, comma 3°, del DPCM del 22.3.2020.

Il D.L. 25.3.2020 n. 19 (“Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19”) ha, poi, operato una complessiva “sistemazione” delle disposizioni vigenti, prevedendo con l’art. 5 l’abrogazione del D.L. 23.2.2020 n. 6 (“ad eccezione degli artt. 3, comma 6 bis e 4”) e garantendo una copertura legislativa agli effetti prodotti dagli atti adottati sulla base del D.L. 6/2020 (art. 1, comma 2°).

E’ stato successivamente emanato il DPCM del 10.4.2020 (“Ulteriori disposizioni attuative del decreto legge 25 marzo 2020,  n. 19,   recante   misure   urgenti   per    fronteggiare    l’emergenza epidemiologica  da  Covid-19,  applicabili   sull’intero   territorio nazionale”) che ha abrogato tutti i precedenti DDPCM (art. 8, comma 2°); è, poi, seguito il DPCM del 26.4.2020 che – per quanto attiene alla materia della sicurezza nei luoghi di lavoro per le imprese rientranti tra quelle destinate a riprendere la propria attività a partire dal 4.5.2020 – ha sostanzialmente recepito le disposizioni contenute nel precedente Decreto del 10 aprile, ulteriormente prevedendo – per le “imprese, le cui attività sono comunque consentite alla data di entrata  in  vigore  del  presente  decreto” (cfr. art. 2, comma 10) – il rispetto del (secondo)  “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto ed il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” sottoscritto tra Governo e parti sociali il 24.4.2020 [9].

2. La relazione intercorrente tra le misure di contenimento del rischio di contagio ed il sistema della sicurezza sul lavoro delineato dal d.lgs. 81/2008.  

Con riferimento alla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, l’articolato quadro regolativo su descritto si affianca all’impianto complessivo del d.lgs. 9.4.2008 n. 81 (Testo unico sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro; d’ora in avanti T.u.s.l.), le cui norme non risultano formalmente modificate o derogate dalle successive disposizioni dettate dall’emergenza epidemiologica[10].

Particolarmente animata è la discussione sul rapporto, stretto, intercorrente tra la normativa speciale di contrasto al rischio pandemico ed il previgente sistema di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro; perché è indubbio che anche gli ambienti di lavoro – per quelle attività non sospese o prossime alla riapertura – possono divenire veicolo per la diffusione del contagio, laddove l’art. 2, comma 1°, lett. n) T.u.s.l. definisce “prevenzione il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno”[11]; dunque la prevenzione contro il rischio pandemico all’interno degli ambienti di lavoro assicura che i lavoratori non costituiscano fonte di contagio all’esterno dell’azienda.

   Sul punto si confrontano la posizione di chi sostiene l’autonomia ed alterità dell’apparato prevenzionistico e sanzionatorio introdotto dalla speciale normativa emergenziale – in quanto diretto alla tutela della salute pubblica e, quindi, anche del lavoratore non in quanto tale [12] – con quella di chi, viceversa, afferma che la gestione del nuovo rischio epidemiologico deve essere collocata all’interno sistema prevenzionistico delineato dal d.lgs. 81/2008[13] che, si evidenzia, “si applica a tutti i settori di attività, pubblici e privati, e a tutte le tipologie di rischio” (art. 3, comma 1°)[14].

Le implicazioni derivanti dall’adesione all’una o all’altra opzione sono rilevanti: dall’affermazione della obbligatorietà, o meno, a carico del datore di lavoro di aggiornare il DVR (documento di valutazione dei rischi) con la previsione anche del “rischio pandemico”, alla definizione dei rapporti tra l’apparato sanzionatorio contravvenzionale del d.lgs. 81/2008 ed il sistema delle sanzioni (amministrative) predisposto dalla normativa emergenziale nel caso di “mancato rispetto delle misure di contenimento” del rischio di contagio.  

3. Le specifiche misure di prevenzione e protezione contro il rischio pandemico…….

I provvedimenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 hanno, innanzitutto, previsto la possibilità di adozione – fino alla data del 31.7.2020, “termine dello stato di emergenza dichiarato con delibera del C.d.M. del 31.1.2020 – di misure di prevenzione di carattere generale destinate ad operare in più ambiti e settori, tra cui le attività produttive.

In particolare, l’art. 1, comma 1, del D.L. 19/2020 ha riconosciuto al Presidente del Consiglio dei Ministri il potere di adottare – “secondo i principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente su specifiche parti del territorio nazionale ovvero sulla totalità di esso” – misure di contenimento intese:

–          a limitare o sospendere “attività di impresa, professionali e di lavoro autonomo”, con possibilità di esclusione “dei servizi di pubblica necessità previa assunzione dei protocolli di sicurezza anti-contagio e, laddove non sia possibile rispettare la distanza di sicurezza interpersonale predeterminata e adeguata a prevenire il rischio di contagio come principale misura di contenimento, con adozione di adeguati strumenti di protezione individuale” (lett. z);

–          a prevedere che le “attività consentite si svolgano previa assunzione da parte del titolare o del gestore di misure idonee ad evitare assembramenti di persone, con obbligo di predisporre le condizioni per garantire il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale predeterminata ed adeguata a prevenire o ridurre il rischio di contagio; per i servizi di pubblica necessità, laddove non sia possibile rispettare tale distanza interpersonale, previsione di protocolli anti-contagio con adozione di strumenti di protezione individuale” (lett. gg).

Più nel dettaglio, con riferimento alle attività produttive “non sospese”, il DPCM del 26.4.2020 ha stabilito:

–          la “raccomandazione” per i datori di lavoro, pubblici e privati, di “promuovere la fruizione dei periodi di congedo ordinario e di ferie” (art. 1 lett. hh)

–          l’ulteriore “raccomandazione” dello svolgimento delle attività professionali con le seguenti modalità:  1) massimo utilizzo di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o  in modalità a distanza; 2) assunzione di protocolli  di  sicurezza  anti-contagio  e, laddove non fosse possibile rispettare la distanza interpersonale di un metro come principale misura di  contenimento, adozione  di strumenti di protezione individuale; 3) incentivazione delle operazioni di sanificazione dei  luoghi di lavoro (art. 1 lett. ii);

–          che le attività produttive non sospese devono adeguarsi ai contenuti del Protocollo condiviso di regolamentazione  delle  misure per il  contrasto  e  il  contenimento  della  diffusione  del  virus Covid-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 14 marzo  2020  fra il Governo e le parti sociali ed aggiornato in data 24.4.2020 (cfr. All. 6 del DPCM del 26.4.2020) (art. 2, comma 10).

4. (segue)……..in particolare il “Protocollo condiviso  di  regolamentazione  delle  misure   per   il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro fra il Governo e le parti sociali”, sottoscritto il 24.4.2020.

In questa cornice di carattere generale si inserisce il Protocollo d’intesa tra il Governo e le parti sociali sottoscritto il 24.4.2020 ai fini della “regolamentazione delle misure per il contagio ed il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro non sanitari”, con l’obiettivo prioritario di “coniugare la prosecuzione delle attività produttive con la garanzia delle condizioni di salubrità e sicurezza degli ambienti di lavoro e delle modalità lavorative”.     

4.1. Si premette che l’osservanza delle “misure di precauzione” previste in tale “Protocollo” è condizione necessaria per la prosecuzione dell’attività produttiva; così, infatti stabilisce l’art. 2, comma 6°, del DPCM del 26.4.2020, rubricato “Misure di contenimento del contagio per lo svolgimento  in  sicurezza delle attività produttive industriali e commerciali [15].

Il carattere vincolante delle prescrizioni è ribadito nelle premesse del Protocollo del 24 aprile[16], con l’ulteriore previsione della possibilità di ricorrere agli “ammortizzatori sociali” nel caso di riduzione o sospensione dell’attività lavorativa giustificata dalla necessità di “permettere  alle  imprese di tutti i settori di applicare tali misure e la  conseguente  messa  in sicurezza del luogo di lavoro[17].

Il Protocollo opera una modulazione graduale delle misure di contenimento, a partire da quelle intese a realizzare la “rarefazione delle presenze dentro i luoghi di lavoro” (dall’incremento del ricorso al “lavoro agile” e “a domicilio” con modalità “a distanza”, all’incentivazione delle ferie e dei congedi, per poi procedere dalla sospensione delle attività dei reparti non indispensabili alla produzione) sino al distanziamento interpersonale ed all’uso di strumenti di protezione individuale.

Segue la puntuale indicazione di “ulteriori misure di precauzione”, da “integrare con altre equivalenti o più incisive secondo le peculiarità della propria organizzazione……, per tutelare la salute delle persone presenti all’interno dell’azienda e garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro”[18].

4.2. L’esame delle singole misure di “precauzione” indica che le stesse per lo più consistono nella specificazione – giustificata dalla peculiarità del “rischio biologico” da fronteggiare – delle più generali misure di tutela elencate nell’art art. 15 del T.u.s.l.[19].

E così, la misura generale della ”informazione” per i lavoratori (artt. 2, comma 1° lett. bb e 15, comma 1°, lett. n, del d.lgs. 81/2008), da riguardare ordinariamente “i rischi generici e specifici” connessi all’attività espletata (art. 36, comma 1, lett. a e comma 2° lett. b T.u.s.l.), nel sistema precauzionale delineato dal Protocollo dovrà anche essere “adeguata sulla base delle mansioni e dei contesti lavorativi, con particolare riferimento al complesso delle misure adottate cui il personale deve attenersi, in particolare sul corretto utilizzo dei DPI per contribuire a prevenire ogni possibile forma di diffusione del contagio” (art. 1).

Si ritiene, quindi, che proprio all’art. 36 citato occorrerà rinviare per maggiori indicazioni circa l’attuazione della misura, prima fra tutte quella della “facile comprensibilità” del contenuto dell’informazione stessa, esigenza questa chepuò imporre la “previa verifica della comprensione della lingua utilizzata nel percorso informativo” in caso di presenza in azienda di lavoratori stranieri (art. 36, 4° co., T.u.s.l.).

Ed ancora, le misure delle “modalità di ingresso in azienda” con prescrizione della verifica della temperatura corporea (art. 2), quella della “pulizia e sanificazione in azienda” (art. 4) e delle “precauzioni igieniche personali” (art. 5), in quanto destinate ad assicurare la salubrità degli ambienti ben possono farsi rientrare nella generale misura di “eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo”, di cui all’art. 15, comma 1°, lett. c) T.u.s.l..

Così, la “gestione degli spazi comuni” (art. 7) , “l’organizzazione aziendale” (art. 8), la “gestione in entrata ed in uscita dei dipendenti” (art. 9), gli “spostamenti interni, le riunioni, gli eventi interni e la formazione” (art. 10), in quanto dirette a garantire il distanziamento sociale tra i lavoratori e ad evitare assembramenti, compatibilmente con le articolazioni del lavoro e la prosecuzione del processo produttivo, costituiscono la concretizzazione della misura prevista dall’art. 15, lett. g) T.u.s.l., ossia la “limitazione al minimo del numero dei lavoratori che sono o possono essere esposti al rischio” (in questo caso “da contagio”).

Anche in ordine all’accesso in azienda di personale “esterno” (“fornitori” e “trasportatori”), l’art. 3 del Protocollo prevede una serie di prescrizioni intese ad evitare quanto più possibili occasioni di contatto con i lavoratori.

Degna di menzione è la prescrizione secondo cui “l’azienda committente è tenuta a dare, all’impresa appaltatrice, completa informativa sui contenuti del Protocollo aziendale e deve vigilare affinché i lavoratori della stessa o delle aziende terze che operano a qualunque titolo nel perimetro aziendale, ne rispettino integralmente le disposizioni”.

 La disposizione rimanda all’obbligo imposto al committente dall’art. 26, comma 1°, lett. b) del d.lgs. 81/2008 (“Obblighi connessi ai contratti d’appalto, d’opera o di somministrazione”) di fornire all’appaltatore o al lavoratore autonomo “dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla propria attività”.

L’art. 6 riguarda l’adozione dei “dispositivi di protezione individuale” da parte dei lavoratori[20], tra i quali si privilegia l’uso delle “mascherine”; si osservi che gli artt. 18, comma 1° lett. d) e 77 del T.u.s.l. pongono a capo del datore di lavoro l’obbligo di fornire ai lavoratori i DPI.

Ancora, la “gestione di una persona sintomatica in azienda” (art. 11) e la “sorveglianza sanitaria” (art. 12) riecheggiano la “gestione delle emergenze” (artt. 15, comma 1° lett. u e 43 e ss.gg. d.lgs 81/2008) ed il “controllo sanitario dei lavoratori” (art. 15, comma 1°, lett. l e 38 e ss.gg. T.u.s.l.).

Da ultimo, l’”aggiornamento del protocollo di regolamentazione per l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo di regolamentazione”, da attuarsi “anche a livello territoriale o settoriale” (art. 13), condivide, in fondo, la stessa ratio dei generali istituti della consultazione e partecipazione dei lavoratori alla programmazione ed attuazione delle azioni di prevenzione a tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, previsti nel T.u.s.l. (artt. 15, comma 1° lett. r ed s nonché 47 e ss.gg.).

Le considerazioni che precedono suggeriscono la conclusione che la regolamentazione emergenziale diretta a fronteggiare il rischio pandemico, pur indubbiamente ispirata da ragioni di salute pubblica, rispetto alla tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro si integra ed armonizza con il sistema cautelare delineato dal d.lgs. 81/2008, come noto ispirato al generale obbligo datoriale, sancito dall’art. 2087 c.c., di «adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro»[21].

5. La “prima” valutazione del rischio pandemico e l’aggiornamento del DVR.  

Nel descritto, composito, contesto regolativo della disciplina “emergenziale”, la prima questione che si è posta all’attenzione degli interpreti riguarda l’obbligo – per le nuove imprese, quantomeno sino al termine dello stato di emergenza, fissato per il 31.7.2020 – di valutare il “rischio di contagio da Covid-19”, nonché – per le imprese già in attività – quello di procedere all’aggiornamento del DVR nel senso di considerarvi anche il suddetto “rischio biologico generico”[22].

 5.1.La valutazione dei rischi con la consequenziale elaborazione del relativo documento (DVR), nonché la designazione del Responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP), rappresentano le funzioni di salvaguardia della sicurezza e salute nei luoghi di lavoro che l’art. 17 T.u.s.l. pone in via esclusiva a carico del datore di lavoro; trattasi, infatti, di adempimenti non delegabili.

 Il legislatore definisce la valutazione dei rischi come «la valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui essi prestano la propria attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e di protezione e ad elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza»(art. 2, 1° co., lett. q, T.u.s.l.).

La disposizione da ultimo richiamata si colloca nel solco del previgente art. 4 d.lgs. 626/1994 che individuava l’oggetto della valutazione in “tutti i rischi” presenti sul luogo di lavoro, «che possono essere individuati con la diligenza richiedibile al datore di lavoro»[23], ossia “quelli riconosciuti o riconoscibili non dall’agente concreto ma quelli conosciuti secondo la migliore scienza o, quantomeno, dall’homo eiusdem professionis ed condicionis”[24].

Tale nozione “omnicomprensiva” dei rischi valutabili – perché prevedibili secondo diligenza – era stata introdotta al fine di conformare la normativa interna ad una sentenza della Corte di Giustizia (15 novembre 2001, causa C-49/00) che aveva condannato lo Stato italiano per non aver adempiuto agli obblighi derivanti dagli artt. 6, n. 3, lett. a), e 7, nn. 3, 5 e 8, della direttiva del Consiglio 12.6.1989, 89/391/CEE, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante l’esecuzione della prestazione.

In sede di individuazione dell’oggetto della “valutazione dei rischi”, l’art. 28, 1° co., T.u.s.l. ha confermato l’impostazione di fondo della valutazione globale dei rischi per la salute e sicurezza dei luoghi di lavoro ed ha operato alcune esemplificazioni attraverso il riferimento a taluni “rischi particolari”; pertanto «il documento di valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, previsto dall’art. 28 del D.Lgs. 9.4.2008, n. 81, è applicabile a tutte le tipologie di rischio e a tutti i settori pubblici o privati»[25].

La valutazione imposta dall’art. 28 in commento si estende non solo ai rischi che derivano direttamente dall’attività lavorativa ma anche a quelli che si verifichino “durante” l’attività lavorativa (cfr. l’art. 28, comma 1°, lett. a), indipendentemente dalle fonti di origine[26].

Rileva, altresì, la valutazione del rischio c.d. “raro”, “la cui realizzazione non sia però ignota all’esperienza e alla conoscenza della scienza tecnica”[27].

 L’attività di valutazione dei rischi deve necessariamente trovare la sua consacrazione formale in un documento[28].

L’art. 29 del T.u.s.l. disciplina le modalità di effettuazione della valutazione dei rischi, in sinergia tra i principali garanti della sicurezza nei luoghi di lavoro. 

La disposizione contenuta si ispira al criterio “dinamicità”. Infatti, «la valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione o a seguito di infortuni significativi o quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità. A seguito di tale rielaborazione, le misure di prevenzione debbono essere aggiornate. Nelle ipotesi di cui ai periodi che precedono il documento di valutazione dei rischi deve essere rielaborato, nel rispetto delle modalità di cui ai commi 1 e 2, nel termine di trenta giorni dalle rispettive causali» (art. 29, 3° co., T.u.s.l.)[29].

 5.2.Ciò premesso, sull’argomento oggetto di discussione – ossia la valutazione del “rischio da contagio” – sono state formulate diverse opinioni[30].

 5.2.1.  Secondo una prima opzione il rischio “da contagio” non sarebbe qualificabile come “rischio professionale”, ossia il rischio per la salute e sicurezza a cui è ordinariamente esposto il lavoratore nell’espletamento della sua attività lavorativa nella specifica mansione all’interno dell’organizzazione aziendale[31].

Il rischio sanitario sarebbe, pertanto, qualificabile come un “rischio generico” già “valutato” a monte dalle pubbliche autorità e da fronteggiare attraverso le generali misure di salute ed igiene pubblica  – dal distanziamento personale all’impiego di DPI quali le mascherine, sino all’introduzione di un “sistema di allerta Covid 19” ai sensi dell’art. 6 del D.L. 30.4.2020 n. 28 – imposte all’intera popolazione, ivi compresi i datori di lavoro pubblici e privati ed i lavoratori, da tutti i provvedimenti, legislativi e regolamentari, di contrasto all’emergenza epidemiologica.

In questa prospettiva, pertanto, il datore di lavoro[32] non sarebbe tenuto ad redigere o ad aggiornare il DVR con l’inserimento di una sezione dedicata al “rischio da contagio”, tanto più se si considera che il suddetto “documento” è finalizzato alla indicazione delle “misure di prevenzione e di protezione” e dei “dispositivi di protezione individuale (art. 28, comma 2°, lett. b T.u.s.l.), nonché all’“aggiornamento delle misure di prevenzione” (cfr. art 29, comma 3°, stesso T.U.), risultati questi che sarebbero ugualmente conseguibili – anche per tutti gli ambienti di lavoro – con l’applicazione delle direttive pubbliche intese a fronteggiare il rischio pandemico.

Questa interpretazione trae spunto dalla definizione di “prevenzione” contenuta nell’art. 2, comma 1°, lett. n) T.u.s.l. e da quella di “servizio di prevenzione e protezione dei rischi” di cui all’art. 2, comma 1°, lett. l) stesso d.lgs.: le due disposizioni, si evidenzia, si riferiscono ai “rischi professionali per i lavoratori”, da intendersi quelli “endogeni all’organizzazione aziendale”; conseguentemente, il riferimento a “tutti i rischi” operato dall’art. 15 e dall’art. 28, comma 1°, T.u.s.l. deve intendersi unicamente ai rischi “professionali”.

La ricaduta in termini penalistici della esposta interpretazione è che la mancata redazione o il mancato aggiornamento del DVR con l’inserimento di una sezione dedicata al “rischio da contagio” non integrerebbe a carico del datore di lavoro le relative contravvenzioni previste dall’art. 55, comma 1° lett. a) e comma 3°, del d.lgs. 81/2008; l’eventuale inosservanza, da parte del datore di lavoro, delle direttive pubbliche finalizzate a fronteggiare l’emergenza epidemiologica sarebbe, quindi, esclusivamente sanzionata dalle specifiche disposizioni introdotte per il “mancato rispetto delle misure di contenimento”[33]

5.2.2.  In senso opposto è stato evidenziato che l’art. 28, comma 2°, lett. a) d.lgs. 81 impone la valutazione di “tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa”; in questa definizione devono, perciò, ricomprendersi tutti i rischi che possono profilarsi nel corso – e non solo “a causa” – dell’attività lavorativa, tra cui le possibili occasioni di esposizione al rischio di contagio con il “coronavirus” all’interno dell’ambiente di lavoro[34].

Questa interpretazione si fonda, innanzitutto, sul consolidato orientamento giurisprudenziale per cui la restrittiva nozione di luogo di lavoro contenuta nell’art. 62, comma 1°, d.lgs. 81[35] riguarda unicamente le disposizioni contenute nel Titolo II del citato decreto; diversamente “ogni tipologia di spazio può assumere la qualità di “luogo di lavoro”, a condizione che vi sia ospitato almeno un posto di lavoro o esso sia accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro”[36]; al riguardo si citano gli esempi dei “lavoratori distaccati” e dei “lavoratori agili”.

In secondo luogo si richiama il disposto del comma 3° dell’art. 28 del T.u.s.l. – secondo cui il contenuto del DVR “deve altresì rispettare le indicazioni previste dalle specifiche norme sulla valutazione dei rischi contenute nei successivi titoli del presente decreto” – per sostenere la necessità dell’applicazione generalizzata, rispetto al rischio pandemico, delle disposizioni contenute nel Titolo X del d.lgs. 81 in tema di “esposizione ad agenti biologici”, tra le quali l’art. 271 in tema di valutazione del relativo rischio[37].

5.2.3.  Altra tesi argomenta l’obbligatorietà della valutazione, per la prima volta, del “rischio pandemico” – ovvero dell’aggiornamento del DVR nel senso di considerarvi anche tale rischio – dalla considerazione che il “rischio professionale” da valutare è quello “presente nell’ambito dell’organizzazione” in cui il lavoratore presta la propria attività (art. 2, lett. q, T.u.s.l.), intesa come interconnessione tra lavoratori, postazioni di lavoro, procedure e macchinari.

Si osserva, al riguardo, che anche le modalità di organizzazione del lavoro possono ex se costituire un potenziale fattore generativo del rischio di contagio: si pensi, ad esempio, a quelle mansioni che pongono il lavoratore a contatto con soggetti estranei alla compagine aziendale (quali clienti o fornitori) così esponendolo ad un maggiore rischio di contrazione dell’agente patogeno[38]; ciascun datore di lavoro dovrà, pertanto, farsi carico di verificare se ed in che misura le mansioni di ciascun lavoratore espongano quest’ultimo al rischio di contagio e, in caso affermativo, adottare le misure cautelari[39].

L’attuazione delle specifiche misure di contenimento del contagio prescritte dalle autorità pubbliche può, a sua volta, richiedere di riconsiderare, nel dettaglio, le varie fasi del processo produttivo e delle singole lavorazioni in ciascuna azienda, con inevitabile nuova mappatura delle situazioni di rischio derivanti dalle modifiche dell’assetto organizzativo aziendale[40].     

Si verifica, conseguentemente, una delle situazioni previste dall’art. 29, comma 3°, del T.U.S.L., che impone di procedere all’aggiornamento del DVR in occasione delle modifiche del processo produttivo e dell’organizzazione del lavoro; tra queste, per quanto premesso, devono essere annoverate anche quelle imposte dalla necessità di adottare gli accorgimenti di natura tecnica necessari all’interno delle aziende per adeguarsi ai richiamati provvedimenti in tema di contenimento del contagio[41].

5.2.4.  La tesi da ultimo esposta si presenta indubbiamente in linea con le modalità della programmazione della prevenzione da attuarsi, secondo quanto stabilito dall’art. 15 comma 1°, lett. b) T.u.s.l. tenendo conto non solo delle “condizioni tecniche produttive” ma anche dell’”influenza dell’organizzazione del lavoro” nel cui ambito, nell’attuale situazione emergenziale, potrebbero insidiarsi fattori amplificatori del rischio di contagio; nello stesso senso, peraltro, l’art. 6 del “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto ed il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, sottoscritto il 24.4.2020, stabilisce che la scelta dei DPI “idonei” a contrastare il rischio pandemico dovrà essere effettuata “sulla base del complesso dei rischi valutati e a partire dalla mappatura delle diverse attività dell’azienda”.

D’altra parte, se è vero che “l’obbligo di valutazione dei rischi è intimamente collegato al fatto che il datore di lavoro è il responsabile dell’organizzazione in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa……”, sicché “a lui e solo a lui, quale soggetto legittimato ad esercitare la libertà di iniziativa economica…., spetta definire l’organizzazione della propria impresa valutandone i rischi”[42], è altrettanto indiscutibile che il diritto al libero esercizio dell’attività economica trova uno dei suoi limiti nella tutela della “sicurezza” (art. 41, comma 2°); e se è vero che la Corte Costituzionale (sentenza n. 85/2013 sul caso ILVA) ha affermato che non esiste “tirannia dei diritti” né gerarchia di valori nella Costituzione, sicché neppure il diritto alla salute potrebbe tout court prevalere su altri diritti, è però anche vero che nella vicenda in scrutinio un punto di equilibrio è rappresentato proprio dall’osservanza di misure di contenimento che impongono una riorganizzazione all’interno dell’azienda e che si inseriscono nel quadro delle “misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori”; dunque il datore di lavoro è obbligato a darvi attuazione, a pena di non riprendere l’attività (art. 2, comma 6°, DPCM del 26.4.2020: “La  mancata attuazione dei  protocolli  che  non  assicuri  adeguati  livelli  di protezione determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza”).

In termini più espliciti, nel “Documento tecnico sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro e strategie di prevenzione, l’INAIL, dopo aver premesso che “le misure contenitive che hanno riguardato il mondo del lavoro si sono rese necessarie per ridurre le occasioni di contatto sociale sia per la popolazione generale, ma anche per caratteristiche intrinseche dell’attività lavorativa per il rischio del contagio”[43], ha evidenziato che “i profili di rischio possono assumere una diversa entità ma allo stesso tempo modularità in considerazione delle aree in cui operano gli insediamenti produttivi, delle modalità di organizzazione del lavoro e delle specifiche misure preventive adottate”; se, dunque, anche l’organizzazione del lavoro può costituire un fattore generativo del rischio pandemico, va da sé che l’attuazione delle misure prevenzionistiche anti-contagio potrà incidere – rimodulandola – su tale organizzazione, così comportando la necessità dell’adempimento previsto dall’art. 29, comma 3°, T.u.s.l.

Anche per questa ragione, sulla considerazione che “il sistema di prevenzione nazionale ed aziendale realizzatosi nel tempo, con il consolidamento dell’assetto normativo operato dal d.lgs. 81/2008 e s.m.i., offre la naturale infrastruttura per l’adozione di un approccio integrato alla valutazione del rischio connesso all’attuale emergenza pandemica”, l’INAIL segnala la “necessità di adottare una serie di azioni che vanno ad integrare il documento di valutazione dei rischi (DVR) atte a prevenire il rischio di infezione SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro contribuendo, altresì, alla prevenzione della diffusione dell’epidemia”[44]

Si riconosce, dunque, una dimensione strumentale del sistema prevenzionistico rispetto alle esigenze di tutela della salute pubblica, ma si ribadisce che il perno su cui ruota tale sistema rimane il DVR, poiché  «senza consapevolezza dei rischi connessi allo svolgimento di una determinata attività lavorativa in un particolare contesto, non vi può essere un’adeguata politica di sicurezza»[45].

Conferma indiretta dell’obbligatorietà dell’aggiornamento del DVR discende dall’art. 5 del “Protocollo del 24.4.2020” riguardante il settore dei cantieri; la disposizione prevede che “il coordinatore per l’esecuzione dei lavori, ove nominato ai sensi del d.lgs. 9.4.2008 n. 81, provvede ad integrare il Piano di sicurezza e di coordinamento e la relativa stima dei costi di tutti i dispositivi ritenuti necessari”; il PSC [46], come è noto, costituisce il documento di valutazione dei rischi nell’ambito delle misure per la salute e sicurezza nei cantieri temporanei e mobili[47].

L’interpretazione da ultimo esposta è, infine, coerente con gli approdi della giurisprudenza di legittimità in ordine all’ampiezza degli obblighi imposti dagli artt. 28 e 29 del T.U.S.L. ed al concetto “dinamico” di rischio; ad esempio, Cass., Sez. IV, n. 19030 del 20 aprile 2017, B.[48] ha precisato che la valutazione dei rischi “non è costituita soltanto dal rilevamento, dall’analisi e dalla ponderazione dei rischi, ma anche dalla concretizzazione del giudizio sul rischio nel modo di essere dell’organizzazione produttiva”.

6. La valutazione del rischio pandemico negli appalti intra-aziendali.

Le considerazioni innanzi svolte sulla necessità di valutazione del rischio pandemico risultano ancora più stringenti e persuasive in relazione agli obblighi di sicurezza richiesti nell’ambito degli appalti intra-aziendali.

La disciplina di riferimento è contenuta nell’art. 26 del T.u.s.l. (“Obblighi connessi ai contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione”)[49].

La norma richiamata delinea gli obblighi di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro – ed i relativi ambiti di responsabilità tra i datori di lavoro committente ed appaltatore – nell’ipotesi di affidamento di “lavori, servizi e forniture” ad imprese o lavoratori autonomi “esterni” all’organizzazione aziendale del committente; la disposizione risponde all’esigenza di approntare un sistema di tutele contro rischi aggiuntivi connessi a possibili interferenze o sovrapposizioni tra le attività svolte dai dipendenti dell’impresa committente e quelle date in appalto; tra questi rischi si annida, con ogni evidenza, anche quello di esposizione al contagio, sicuramente maggiore rispetto a quello cui è esposto il lavoratore confinato nel proprio ambito aziendale.

La disposizione prescrive, a carico del committente, dell’appaltatore e dell’eventuale subappaltatore, di cooperare «all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto» (art. 26, 2° co., lett. a, T.u.s.l.), nonché di coordinare «gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva» (art. 26, 2° co., lett. b, T.u.s.l.).

Gli obblighi di coordinamento e cooperazione riguardano, tuttavia, esclusivamente l’attuazione delle misure di prevenzione dirette ad elidere o ridurre il c.d. “rischio da interferenza” connesso alla contestuale operatività, nel medesimo ambiente, dei lavoratori del committente e dell’appaltatore[50].

L’”interferenza” deve essere intesa in senso funzionale, avendo cioè riguardo alla coesistenza nel medesimo contesto di più organizzazioni, ciascuna delle quali facenti capo a soggetti diversi, a prescindere dalla “qualificazione civilistica attribuita al rapporto tra le imprese che cooperano tra loro – vale a dire contratto d’appalto o d’opera o di somministrazione – ma all’effetto che tale rapporto origina, vale a dire alla concreta interferenza tra le organizzazioni ad esse facenti capo, che può essere fonte di ulteriori rischi per l’incolumità dei lavoratori” (Cass., Sez. IV, 17 giugno 2015, M. e altro, Ced Cassazione penale, Rv. 264957).

Questo principio trova  riscontro nella previsione che le disposizioni sulla cooperazione e sul coordinamento non si applicano ­«ai rischi specifici propri dell’attività delle imprese e dei singoli lavoratori autonomi» (art. 26, 3° co., T.U.S.L.); per il resto, ciascun datore di lavoro avrà cura di adottare le misure di prevenzione funzionali alla tutela dei propri dipendenti in relazione alle specifiche prestazioni da essi svolte.

L’obbligo di promuovere la cooperazione ed il coordinamento per l’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi “da interferenza” incombe in via esclusiva sul datore di lavoro committente e si attua attraverso l’elaborazione del Documento unico di valutazione dei rischi da interferenze nelle lavorazioni (DUVRI).

La disposizione richiamata disciplina nel dettaglio le modalità di redazione dell’indicato documento, nonché le tipologie di prestazioni esentate dal relativo obbligo, laddove il rischio di interferenza sia minimo o la durata della prestazione sia ridotta; in questa sede è opportuno evidenziare che il documento deve avere ad oggetto l’indicazione delle “misure” finalizzate ad “eliminare” o “ridurre al minimo” esclusivamente i “rischi da interferenze”, restando immutato per ciascun datore di lavoro l’obbligo sancito dall’art. 17, 1° co., lett. a), T.U.S.L. di valutazione dei rischi propri dell’attività svolta e di elaborazione del relativo documento.

Tanto premesso, nel descritto contesto emergenziale determinato dalla pandemia da Covid-19, anche la valutazione del rischio da contagio nel DUVRI – ovvero l’aggiornamento del documento nel senso di prevedere misure di prevenzione e protezione intese a fronteggiare tale rischio – si appalesa come un passaggio ineludibile negli appalti intra-aziendali.

Infatti il coinvolgimento nel processo produttivo di diversi plessi organizzativi esige una complessiva rimodulazione delle misure di prevenzione al fine di adattare l’ordinario apparato delle cautele contro i “rischi interferenziali” – insiti nella fisiologica interazione tra diversi operatori – alle generali prescrizioni imposte per assicurare il contenimento del contagio, prime fra tutte quella del distanziamento personale fra i lavoratori.

7. L’apparato sanzionatorio. Le conseguenze penali della mancata attuazione delle misure di contenimento del rischio di contagio.

Le misure di contenimento anti-contagio previste nei Protocolli del 14 marzo e del 24 aprile hanno efficacia generalizzata e sono obbligatorie per tutti i datori di lavoro autorizzati a riprendere le attività produttive nella c.d. “fase 2”.

 7.1. Sotto il primo profilo vi è chi ha ipotizzato (invero con riferimento al Protocollo del 14 marzo) che tali misure sarebbero vincolanti unicamente per le aziende aderenti alle confederazioni sindacali stipulanti[51].

7.2. In senso opposto è stato condivisibilmente affermato che la potestà di “adottare misure di contenimento per evitare la diffusione del Covid-19” è stata riconosciuta al Presidente del Consiglio in forza di una disposizione di legge (da ultimo, cfr. l’art. 1, comma 1°, del D.L. 25.3.2020 n. 19); l’imposizione dell’obbligo di cui all’art. 2, comma 6°, del DPCM del 24.4.2020 costituisce, pertanto, espressione di tale legittimo “potere regolamentativo”, con la conseguenza di rendere vincolante per tutti i datori di lavoro l’applicazione delle misure cautelari in questione, a pena di non riavviare l’attività produttiva[52].

L’apparato sanzionatorio per la mancata adozione ed attuazione delle misure di contenimento anti-contagio è contenuto nell’art. 4, comma 1°, del D.L. 19/2020, secondo cui “salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all’art. 1, comma 2°, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 2, comma 1°, ovvero dell’art. 3, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall’art. 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità di cui all’art. 3, comma 3”; nel caso di inosservanza delle misure di contenimento previste dall’art. 1, comma 2°, lett. i), m), p), u), v), z) e aa), si applica, altresì, la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell’esercizio o dell’attività da 5 a 30 giorni.

La clausola di sussidiarietà che apre il testo della norma si presta a diverse possibili interpretazioni a seconda dell’opzione di fondo prescelta circa la regolazione dei rapporti tra la normativa emergenziale ed il sistema generale di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro[53].

 7.3. L’affermazione dell’alterità del sistema prevenzionistico emergenziale rispetto al sistema sanzionatorio delineato dal d.lgs. 81/2008 comporta che la mancata attuazione delle specifiche misure di contenimento anti-contagio negli ambienti di lavoro sarà esclusivamente punita con la sanzione amministrativa prevista dal richiamato art. 4 [54].

 7.4. Sul fronte opposto si colloca l’opzione intesa a sostenere l’integrazione della normativa emergenziale con il complessivo sistema prevenzionistico delineato nel T.u.s.l.; la tutela della salute dei lavoratori, anche rispetto al rischio da contagio, è destinata ad essere presidiata anche dall’apparato sanzionatorio previsto dal d.lgs. 81/2008[55].

In tal guisa la “clausola di sussidiarietà” risolve in favore dell’applicazione della norma penale incriminatrice l’eventuale concorso tra una fattispecie rientrante nel sistema sanzionatorio previsto dal d.lgs. 81/2008 ed analoga fattispecie, “strutturalmente coincidente”, connessa alla mancata attuazione o alla violazione di una delle misure di contenimento previste nel DPCM e nel relativo Protocollo.

Potrebbe essere questo il caso dell’inosservanza della misura dell’”informazione”: l’art. 55, comma 5°, lett. c) T.u.l.s. punisce con l’arresto o l’ammenda il datore di lavoro ed il dirigente per la “violazione dell’art. 36, comma 2”; quest’ultima disposizione pone a carico del datore di lavoro l’obbligo di informare i lavoratori, tra l’altro” “sui rischi specifici cui è esposto in relazione all’attività svolta, le normative di sicurezza e le disposizioni aziendali in materia” (lett. a, seconda parte), nonché “sulle misure e le attività di protezione e prevenzione adottate” (lett. c); ebbene, non è esattamente questo il contenuto dell’informazione da fornire ai lavoratori ai sensi dell’art. 1 del Protocollo (“L’azienda, attraverso le modalità più  idonee  ed  efficaci, informa tutti i lavoratori e  chiunque  entri  in  azienda  circa  le disposizioni delle Autorità, consegnando e/o affiggendo all’ingresso e nei luoghi maggiormente visibili  dei  locali  aziendali,  appositi depliants informativi”)?

Resterebbero ugualmente assoggettate al sistema sanzionatorio penale previsto dal d.lgs. 81/2008 una serie di condotte inosservanti di obblighi imposti ai diversi “garanti per la sicurezza” non strettamente riferibili alla fase della predisposizione delle specifiche misure di contenimento del contagio; vengono in rilievo, ad esempio, oltre alle già richiamate violazioni delle norme in materia di valutazione dei rischi, tutta una serie di omissioni in ordine alla vigilanza sulla corretta applicazione ed osservanza delle misure di contenimento, ascrivibili non solo al datore di lavoro o ai dirigenti[56], ma anche ai preposti[57].

L’art. 4 in commento, inoltre, non sembra possa ostacolare la contestazione in sede penale delle condotte dei lavoratori che, all’interno dell’ambiente di lavoro, si rendano inosservanti alle misure di contenimento adottate dal datore di lavoro; l’art. 59, comma 1° lett. a) d.lgs. 81/2008 punisce, infatti, con l’arresto e l’ammenda il lavoratore che, tra l’altro, non osservi “le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro…..ai fini della protezione collettiva e individuale” o che non “utilizzi in modo appropriato i dispositivi di protezione messi a sua disposizione” (art. 20, comma 2°, lett. b e d).

Nell’ambito dei luoghi di lavoro, pertanto, il sistema di controlli e sanzioni amministrative previsto dall’art. 4, comma 1°, del D.L. 19/2020 opererebbe rispetto alle misure prevenzionistiche la cui inosservanza non integra, al tempo stesso, la violazione di una norma di analogo contenuto precettivo presente nel T.u.s.l., punita a titolo di contravvenzione; si pensi, ad esempio, alla mancato incremento del ricorso al “lavoro agile”, “a domicilio” o con modalità “a distanza”, o alla mancata incentivazione delle ferie e dei congedi.

 7.5. Altra questione è quella se le misure previste dal Protocollo per gli ambienti di lavoro esauriscano l’armamentario delle cautele da approntare per contrastare il rischio pandemico.   

Partendo dalla considerazione che la gestione del nuovo rischio si colloca nel generale sistema prevenzionistico delineato dal d.lgs. 81/2008, appare convincente la posizione di chi[58] evidenzia il carattere non necessariamente esaustivo dell’apparato prevenzionistico specificamente dedicato al rischio da contagio, allorché esso di dimostri inadeguato o l’evoluzione della scienza e della tecnica assicuri più elevati standard di sicurezza nella materia.

D’altra parte, lo stesso “Protocollo” impone ai datori di lavoro di “integrare” le “misure di precauzione” ivi elencate “con altre equivalenti o più incisive secondo la peculiarità della propria organizzazione”, al fine di “tutelare la salute delle persone presenti all’interno dell’azienda e garantire la salubrità dell’ambiente di lavoro”.

Questa prescrizione non è altro che un richiamo alla funzione promozionale contenuta nell’art. 2087 c.c., norma come è noto ispirata al principio della “massima sicurezza tecnologicamente possibile o fattibile” (c.d. “best available technology”), in forza del quale il datore di lavoro è tenuto a conformare il proprio assetto produttivo ed organizzativo ai più elevati standard di sicurezza elaborati dal progresso scientifico e tecnologico  per la tutela della salute negli ambienti di lavoro[59].

Secondo un’interpretazione ancora più rigorosa, il richiamato principio imporrebbe al datore di lavoro non solo un obbligo di continuo aggiornamento scientifico, ma anche la costante ricerca di tecniche prevenzionistiche sempre più progredite rispetto a quelle disponibili sul mercato[60].

Tale affermazione si fonda sul rilievo dell’inadeguatezza della normativa in materia di sicurezza sul lavoro ad esaurire ed attualizzare tutte le possibili prescrizioni atte a governare compiutamente tutti i possibili rischi; per questo  «la normativa cautelare ha bisogno di essere integrata dal sapere scientifico e tecnologico che reca il vero nucleo attualizzato della disciplina prevenzionistica […] L’obbligo giuridico nascente dalla attualizzata considerazione dell’accreditato sapere scientifico e tecnologico è talmente pregnante che è sicuramente destinato a prevalere su quello eventualmente derivante da disciplina legale incompleta o non aggiornata»[61].

Non sono tuttavia mancate, in dottrina ed in giurisprudenza, voci dissonanti rispetto alle richiamate posizioni.

Limiti all’operatività del principio della “massima sicurezza tecnologicamente fattibile” erano stati espressi dalla Corte Costituzionale nella sent. 312/1996  (la Consulta era stata chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità con l’art. 25 Cost. dell’art. 41, 1° co., d.lgs. 15.8.1991 n. 277 in materia di rischi derivanti dall’esposizione al rumore).

Nell’occasione il Giudice delle leggi aveva affermato: «la sicurezza del lavoro costituisce certamente un limite all’autonomia dell’imprenditore, ma quando sul fondamento di tale limite si intende basare una fattispecie criminosa, viene in considerazione l’indefettibile principio costituzionale di necessaria determinatezza delle previsioni della legge penale […] là dove parla di misure “concretamente attuabili”, il legislatore si riferisce alle misure che, nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti, sicché penalmente censurata sia soltanto la deviazione dei comportamenti dell’imprenditore dagli standard di sicurezza propri, in concreto e al momento, delle diverse attività produttive. Ed è in questa direzione che dovrà, di volta in volta, essere indirizzato l’accertamento del giudice: ci si dovrà chiedere non tanto se una determinata misura sia compresa nel patrimonio di conoscenze nei diversi settori, ma se essa sia accolta negli standard di produzione industriale, o specificamente prescritta»[62].

La portata dell’art. 2087 c.c. andrebbe, così, circoscritta all’affermazione del principio della “massima sicurezza ragionevolmente praticabile” (c.d. “best praticable tecnology”),  nel senso di richiedere al datore di lavoro di uniformarsi alle misure di salvaguardia della salute e sicurezza dei lavoratori comunemente applicate nello specifico settore interessato[63].

7.6. Le regole cautelari in tema di misure di contenimento del rischio pandemico possono, in ogni caso, fondare un giudizio di responsabilità per “colpa specifica” (ossia per violazione di “leggi, regolamenti, ordini e discipline”) con riferimento ai delitti contro l’incolumità pubblica (art. 452 c.p. in relazione all’art. 438 c.p.) ed individuale (artt. 589 e 590 c.p. aggravanti dalla “violazione delle norme sulla per la prevenzione degli infortuni sul lavoro)[64].

A tale riguardo si osserva che “l’infezione da coronavirus (SARS-CoV-2)”  nei luoghi di lavoro è considerata alla stregua di un infortunio sul lavoro; ciò si ricava da quanto stabilito nell’art. 42, comma 2° del d.l. 17.3.2020 n. 18 (“Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per le famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica” c.d. “Cura Italia, convertito con modificazioni nella L. 24.4.2020 n. 27)[65]; la patologia infettiva in oggetto sarebbe, altresì, annoverabile tra le “malattie professionali” ove si accerti che la sua causa generatrice si trovi nell’ambiente di lavoro.

L’affermazione della responsabilità penale del datore di lavoro per l’eventuale infezione o morte per contagio da Covid-19 è, tuttavia, condizionata dalla prova (al di là di ogni ragionevole dubbio):

  • che il contagio si sia verificato all’interno dei luoghi di lavoro; si tratta di un profilo di non agevole ed univoca dimostrazione, stante la natura “ubiquitaria” e fortemente esponenziale del virus con la conseguente possibilità che l’infezione sia stata contratta all’esterno dell’ambiente di lavoro;
  • che vi sia stata un’omessa o inadeguata predisposizione delle misure di contenimento dell’infezione e che sussista un rapporto di casualità tra l’inosservanza della prescrizione cautelare e l’evento infausto; tale accertamento richiederà, secondo il costante insegnamento della giurisprudenza, il ricorso all’accreditato sapere scientifico – ove esistente – che consenta il giudizio contro-fattuale, ossia l’esclusione di spiegazioni causali alternative dell’evento.

8. Gestione del rischio pandemico e responsabilità degli enti ex d.lgs. 231/01.

La mancata adozione delle misure di contenimento del rischio di contagio può generare anche profili di responsabilità a carico degli enti – ex d.lgs. 231/01 – ove abbia dato luogo al verificarsi di uno degli eventi rientranti tra le fattispecie annoverate dall’art. 25 septies stesso d.lgs.

La prima e più grave fattispecie di responsabilità (art. 25 septies comma 1°) è astrattamente ipotizzabile nel caso di omicidio colposo causato:

   a) dalla violazione dell’art. 29 comma 1° d.lgs. 81/2008 (in tema di effettuazione della valutazione del rischio pandemico e di elaborazione del relativo DVR);

   b) dalla violazione dell’art. 34, comma 2°, del d.lgs. 81/2008 (mancato assolvimento dei compiti del R.S.P.P.R. nei casi cui tale ruolo sia stato assunto personalmente dal datore di lavoro alle condizioni indicate dalla norma)[66].

Le disposizioni  richiamate attengono a compiti attribuiti in via esclusiva al datore di lavoro e da questi non delegabili (cfr. art. 17 d.lgs. 81/2008); pertanto l’omicidio colposo causato dalla violazione di tali norme non potrà che essere ascritto ai soggetti che all’interno dell’ente rivestono funzioni apicali ex art. 5, comma 1°, lett. a) d.lgs. 231/01.

La seconda fattispecie di responsabilità, per la quale è prevista una sanzione pecuniaria meno grave, si riferisce alle ipotesi in cui l’omicidio colposo si verifichi per colpa consistente nell’inosservanza “delle norme sulla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” (art. 25 septies comma 2°); in questo caso il reato presupposto può discendere da violazioni commesse non solo da soggetti che rivestano posizioni apicali all’interno dell’ente, ma anche da persone sottoposte alle loro “direzione e vigilanza” (art. 5, comma 1°, lett. b d.lgs. 231/2001), come i preposti.

La terza fattispecie di illecito dell’ente è collegata ai delitti di lesioni gravi e gravissime commessi “con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro” (art. 25 septies comma 3°); il riferimento è alle forme aggravate delle lesioni personali colpose gravi e gravissime previste dall’art. 590, comma 3° c.p.;anche in questo caso il reato presupposto può essere integrato da violazioni commesse non solo da soggetti che rivestano posizioni apicali all’interno dell’ente, ma anche da persone sottoposte alle loro “direzione e vigilanza” (art. 5, comma 1°, lett. b d.lgs. 231/2001).

L’attuale contesto emergenziale potrebbe offrire il pretesto per condotte finalizzate a realizzare “risparmi di spesa” rispetto agli oneri finanziari che le imprese si troveranno a dover sostenere per approntare le numerose misure di contenimento indicate nei provvedimenti su richiamati e dal Protocollo del 24 aprile[67].

Sussistono, quindi, le potenziali condizioni per l’integrazione, sul piano oggettivo, del primo elemento dell’illecito dell’ente, ossia la commissione – da parte di un soggetto che abbia un rapporto qualificato con la persona giuridica – di un reato rientrante tra i reati-presupposto elencati dal d.lgs. 231/01 e che sia stato consumato nell’”interesse o a vantaggio dell’ente” stesso[68].

E’, peraltro, ormai consolidato l’orientamento della S.C. secondo cui  in materia di responsabilità amministrativa ex art. 25 septies D.Leg.vo 231/01, l’interesse e/o il vantaggio vanno letti, nella prospettiva patrimoniale dell’ente, come risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dello strumentario di sicurezza ovvero come incremento economico conseguente all’aumento di produttività non ostacolata dal pedissequo rispetto della normativa prevenzionistica; pertanto nei reati colposi, l’interesse/vantaggio si ricollegano al risparmio nella spesa che l’ente dovrebbe sostenere per l’adozione delle misure precauzionali ovvero nell’agevolazione dell’aumento di produttività che ne può derivare per l’ente dallo sveltimento dell’attività lavorativa, favorita dalla mancata osservanza della normativa cautelare il cui rispetto, invece, tale attività avrebbe quantomeno rallentato nei tempi[69].

Occorre, tuttavia, rimarcare la necessità del carattere sistematico delle violazioni antinfortunistiche come criterio selettivo in funzione dell’affermazione della responsabilità dell’ente, limitandola all’ipotesi di coincidenza del vantaggio con una politica di impresa disattenta alla sicurezza sul lavoro ed orientata alla massimizzazione del profitto; ne deriva che per la verifica della sussistenza dell’interesse o del vantaggio rileva il carattere non occasionale né fortuito delle violazioni cautelari che, invece, devono rappresentare il frutto di una carenza organizzativa di sistema o di una specifica politica aziendale diretta alla massimizzazione del profitto con un contenimento dei costi in materia di sicurezza dei lavoratori[70]; pertanto non sono idonee a fondare la responsabilità dell’ente le condotte colpose prive delle caratteristiche della consapevolezza e delle volontarietà e, quindi, di quella tensione finalistica verso il risparmio dei costi, cioè le ipotesi di semplici negligenze o imperizie, di sottovalutazione dei rischi, di erronea considerazione delle misure di prevenzione necessarie e di mero difetto di vigilanza e controllo[71].

L’attuazione delle “misure di contenimento del rischio da contagio” produrrà, inoltre, riflessi sul contenuto del Modello di organizzazione e gestione previsto dall’art. 30 del T.U.S.L., nel senso che la sua efficacia esimente – diversamente declinata negli artt. 6 e 7 del d.lgs. 231/01 – potrà essere riconosciuta solo se il modello sarà stato adattato in funzione del controllo sull’attuazione, sull’efficacia e sul mantenimento delle misure contenitive del rischio pandemico[72].

La disposizione contenuta nell’art. 30 d.lgs. 81/2008 è, infatti, orientata ad integrare il sistema di prevenzione del rischio di consumazione dei reati di cui all’art. 25 septies con il sistema di prevenzione dei rischi da lavoro, che ha il suo momento culminante nella predisposizione del DVR. Ed infatti la prima esigenza che il MOG deve soddisfare è l’assicurazione di un sistema che consenta l’adempimento degli obblighi giuridici in materia di prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro, primo fra tutti proprio quello relativo alla valutazione dei rischi ed alla predisposizione delle misure di prevenzione e protezione conseguenti  (art. 30, comma 1°, lett. b); dunque, per prevenire i reati di cui all’art. 25 septies, l’ente deve adottare misure volte a garantire lo scrupoloso adempimento dei doveri prevenzionistici da parte dei garanti individuali; l’ente, infatti, non risponde per la mera violazione colposa della regola cautelare da parte del singolo garante, bensì per non aver predisposto le condizioni organizzative dell’osservanza individuale[73].

Ciò comporta che il DVR ed il MOG si differenziano per la tipologia dei rischi che intendono prevenire:

  • il DVR mira a prevenire gli infortuni insiti nel processo produttivo attraverso l’osservanza di tutte le cautele funzionali alla eliminazione o riduzione dei rischi;
  • il MOG, viceversa, mira alla prevenzione del rischio della commissione, da parte dei soggetti indicati nell’art. 5 d.lgs. 231/01, dei reati di omicidio colposo e lesioni colpose gravi o gravissime con violazione delle norme in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro[74].

I due strumenti di “auto-normazione” presentano, tuttavia, un elemento di analogia che è determinato dal carattere “dinamico” del loro contenuto; ed infatti, così come ai sensi del già richiamato art. 29, comma 3°, d.lgs. 81/2008 “la valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori”, allo stesso modo, per effetto di quanto previsto dall’art. 30, comma 4°, stesso d.lgs., “il riesame e l’eventuale modifica del modello organizzativo devono essere adottati in occasione di mutamenti nell’organizzazione e nell’attività in relazione al progresso scientifico e tecnologico”.

Pertanto, eventuali modifiche dell’assetto organizzativo della produzione indotte dall’attuazione delle specifiche misure di contenimento del contagio prescritte dalle autorità pubbliche, imporranno sia una nuova mappatura delle situazioni di rischio da contagio derivanti da tali modifiche, che un adeguamento del MOG in ordine ai sistemi di controllo sulla corretta ed efficace attuazione dei presidi anti-contagio[75]; in difetto di tale aggiornamento, al modello non potrà attribuirsi l’efficacia esimente della “colpa di organizzazione” prevista dagli artt. 6 e 7 del d.lgs. 231.    


[1] cfr. il DPCM del 26.4.2020 “Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di  contenimento  e  gestione dell’emergenza epidemiologica da  COVID-19,  applicabili sull’intero territorio nazionale”;

[2] disposto sull’intero territorio nazionale a partire dal DPCM dell’11.3.2020;

[3] cfr. gli Allegati 1, 2 e 3 del DPCM del 26.4.2020; cfr. sul tema M. Vizzardi: “Fase 2”, la gestione  del rischio penale per i datori di lavoro”; in Guida al Diritto del 20.4.2020; C. Corsaro e M.  Zambrini “Fase 2. DPCM 26.4.2020. Valutazione integrata del rischio contagio e adozione di misure organizzative, di prevenzione e protezione idonee a scongiurare l’insorgenza di focolai epidemici”, in www.giurisprudenzapenale.com; 27.4.2020;

[4] la L. 5.3.2020 n. 13 è stata successivamente abrogata dall’art. 5, comma 1°, lett. a) del D.L. 25.3.2020, “ad eccezione degli art. 3, comma 6 bis e 4”;

[5] nell’ordine: DPCM del 23.2.2020; DPCM del 25.2.2020; DPCM dell’1.3.2020; DPCM del 4.3.2020; DPCM dell’8.3.2020; DPCM del 9.3.2020; DPCM dell’11.3.202; DPCM del 22.3.2020; DPCM dell’1.4.2020; Ordinanza del Ministro della Salute del 20.3.2020; Ordinanza del Ministro della Salute con il concerto del Ministro delle Infrastrutture e dei trasporti del 28.3.2020; Decreto del Ministro per lo sviluppo economico del 25.3.2020;

[6] cfr., ad esempio, il “Documento tecnico sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da SARS-COv-2 nei luoghi di lavoro e strategie di prevenzione” adottato dall’INAIL nell’aprile 2020;

[7] con il precedente DPCM dell’8 marzo la sospensione era stata limitata ad alcune aree del Paese maggiormente colpite dall’emergenza;

[8]  ovvero: “7) in ordine alle attività produttive ed alle attività professionali, si raccomanda che: a) sia attuato il massimo utilizzo da parte  delle  imprese  di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere  svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza;  b) siano incentivate le ferie e  i  congedi  retribuiti  per  i dipendenti nonché gli altri strumenti previsti dalla  contrattazione collettiva;  c)  siano  sospese  le  attività  dei  reparti  aziendali  non indispensabili alla produzione;  d) assumano protocolli di sicurezza  anti-contagio  e,  laddove non fosse possibile rispettare la distanza interpersonale di un metro come principale misura di contenimento, con adozione di strumenti  di protezione individuale; e) siano incentivate le operazioni di sanificazione dei  luoghi di lavoro, anche utilizzando  a  tal  fine  forme  di  ammortizzatori sociali; 8) per le sole attività produttive si  raccomanda  altresì  che siano limitati al massimo gli  spostamenti  all’interno  dei  siti  e contingentato l’accesso agli spazi comuni; 9) in relazione a quanto disposto nell’ambito dei numeri 7 e 8 si favoriscono, limitatamente  alle  attività  produttive,  intese  tra organizzazioni datoriali e sindacali; 10) Per tutte le attività non  sospese  si  invita  al  massimo utilizzo delle modalità di lavoro agile”

[9] tale Protocollo è inserito all’All. 6 del DPCM del 26.4.2020 e costituisce una integrazione del primo Protocollo stipulato il 14 marzo;

[10] così L. Fantini: “Salute e sicurezza sul lavoro: tutte le novità contro il corona-virus”; Wolters Kluwer, Milano, 2020;

[11] C. Lazzari: – “Per un (più) moderno diritto alla salute e della sicurezza sul lavoro: primi spunti di riflessione a partire dall’emergenza da Covid-19” in Diritto e Sicurezza sul lavoro, 1/2020 – parla, in proposito, di “salute circolare”;

[12] cosi P. Pascucci: “Ancora su coronavirus e sicurezza sul lavoro: novità e conferme nello ius superveniens del d.P.C.M. 22.3.2020 e soprattutto del d.l. 19/2020”, in Diritto della Sicurezza sul lavoro 1/2020 (il contributo reca la data del 5.4.2020 e, pertanto, è precedente alla stipulazione del Protocollo del 24.4.2020; n.d.r.); l’argomento è affrontato, con richiami a note di dottrina, da S. Dovere “La sicurezza dei lavoratori in vista della fase 2 dell’emergenza Covid-19”, in www.giustizia insieme.it;

[13] in tal senso G.de Falco: “La normativa in tema di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro a confronto con l’emergenza epidemiologica da Covid-19”; in www.giustiziainsieme.it; secondo l’autore le disposizioni in materia di Covid-19 consistono, per lo più, in indicazioni operative e raccomandazioni di carattere tecnico parametrate sulle linee guida provenienti dalle autorità sanitarie interne e sovranazionali;

[14] Cass., Sez. IV, n. 3309 del 23 gennaio 2017, G e altro: “le norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro hanno applicazione generalizzata, estesa a tutti i settori di attività, pubblici e privati, e a tutte le tipologie di rischio, nonché a tutti i lavoratori, subordinati ed autonomi, nonché ai soggetti che si trovino nell’ambiente di lavoro indipendentemente dall’esistenza di un rapporto con il titolare dell’impresa, a meno che tale presenza non rivesta il carattere di anormalità ed eccezionalità”;

[15]  “Le imprese le  cui  attività  non  sono  sospese  rispettano i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione  delle  misure per il  contrasto  e  il  contenimento  della  diffusione  del  virus COVID-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 24 aprile 2020  fra il Governo e le parti sociali di cui all’allegato 6, nonché,  per  i rispettivi  ambiti  di  competenza,  il   protocollo   condiviso   di regolamentazione per il contenimento della  diffusione  del  COVID-19 nei cantieri, sottoscritto il 24 aprile 2020 fra  il  Ministro  delle infrastrutture e dei trasporti,  il  Ministero  del  lavoro  e  delle politiche sociali e le parti sociali, di cui  all’allegato  7,  e  il protocollo condiviso di regolamentazione per  il  contenimento  della diffusione del COVID-19 nel settore del trasporto e  della  logistica sottoscritto il 20 marzo 2020, di  cui  all’allegato  8.  La  mancata attuazione dei  protocolli  che  non  assicuri  adeguati  livelli  di protezione determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza”;

[16]La prosecuzione delle attività produttive  può  infatti  avvenire solo in presenza  di  condizioni  che  assicurino  alle  persone  che lavorano adeguati livelli di protezione. La  mancata  attuazione  del Protocollo che non assicuri adeguati livelli di protezione  determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni  di sicurezza”;

[17] ed ancora si prevede che Unitamente alla possibilità per l’azienda di ricorrere  al  lavoro agile  e  gli   ammortizzatori   sociali,   soluzioni   organizzative straordinarie,  le  parti  intendono  favorire  il  contrasto  e   il contenimento della diffusione del virus. E’ obiettivo prioritario coniugare la prosecuzione delle  attività produttive con la garanzia di condizioni di  salubrità e  sicurezza degli ambienti di lavoro e delle modalità lavorative. Nell’ambito di tale obiettivo, si può prevedere anche la riduzione o la sospensione temporanea delle attività”; 

[18] le misure previste riguardano: 1) L’informazione nei confronti dei lavoratori circa le disposizioni finalizzate a contenere il rischio del contagio; 2) Le modalità di ingresso in azienda; 3) Le modalità di accesso dei fornitori esterni dirette ridurre le occasioni di contatto con il personale; 4) Pulizia e sanificazione in azienda; 5) Precauzioni igieniche personali; 6) Dispositivi di protezione individuale; 7) Gestione degli spazi comuni; 8) L’organizzazione aziendale”; 9) Ingresso ed uscita dei dipendenti; 10) Spostamenti interni, riunioni, eventi interni e formazione; 11) Gestione di una persona sintomatica in azienda; 12) Sorveglianza sanitaria; 13) Aggiornamento del protocollo di regolamentazione;

[19] per l’inquadramento generale in materia di “misure generali di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro” si rimanda a: L. Fantini e A. Giuliani, “Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Le norme, l’interpretazione e la prassi”; Giuffrè, Milano, 2015; G. Natullo  – a cura di – “Salute e sicurezza sul lavoro”, Utet, Milano, 2015; M. Persiani e M. Lepore – a cura di – “Il nuovo diritto della sicurezza sul lavoro”, Utet, Milano, 2012;

[20] per tali dovendosi intendere “qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciare la salute e la sicurezza durante il lavoro, nonché ogni completamento o accessorio destinato allo scopo”; art. 74 T.u.s.l.;

[21] così anche G. de Falco; cit;

[22] il tema evidentemente non riguarda gli ambienti lavorativi nei quali il “rischio biologico” e con esso il rischio “da contagio” – per effetto del contatto con pazienti positivi al virus o con soggetti con elevato rischio di contrazione del virus – è connaturato al tipo di attività esercitata, quale la professione medica, quella infermieristica, l’attività di laboratorio ed i servizi sanitari in genere, pubblici – si pensi ai Dipartimenti di prevenzione delle ASL – e privati, quali le farmacie, ecc.; in questi ambienti di lavoro – rientranti nel campo di applicazione del Titolo X del d.lgs. 81/2008 in tema di “esposizione ad agenti biologici” – la corrispondente parte del DVR deve senz’altro essere aggiornata; sull’argomento cfr. G. Losappio: “Covid-19 e infortuni sul lavoro in ambito ospedaliero”, in www.giurisprudenzapenale.com; cfr. anche R. Calisi: “SARS-CoV-2, COVID-19, sicurezza e salute dei lavoratori”, in “Centro Studi Nino Abbate”;

[23] Cass., Sez. IV, 18 gennaio 2013, Bettio, De Jure;

[24] Cass. Sez. IV, n. 303633 del 3.4.2019, L., in R. Guariniello, “Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza”; Wolters Kluver, Milano, 2020;

[25] Cass., Sez. III, 4 luglio 2012, G., Ced Cassazione penale, rv. 253171;

[26]  si rimanda a R. Guariniello: “La sicurezza sul lavoro al tempo del coronavirus”, Wolters Kluver, Milano 2020; particolarmente discusso è, in giurisprudenza, il tema di cc.dd. “rischi psico-sociali” quali le pratiche vessatorie e persecutorie nei confronti dei lavoratori  che danno luogo e fenomeni del tipo “mobbing”, “stalking”, ecc.;

[27]  Cass. Sez. IV n. 27186 del 10 gennaio 2019, L, in Ced Cassazione penale, rv. 276703; per la valutazione anche del rischio “sismico” si rimanda a Cass., Sez IV, n. 6604 del 13 febbraio 2017, P;

[28]  è stato precisato, infatti, che  «l’esistenza di una semplice prassi operativa, priva di ogni premessa analitica e valutativa, nonché di una veste formale, ma che è solo frutto di una mera ripetizione di attività, non può essere ritenuta equipollente al documento di valutazione dei rischi (DVR), formalizzazione ufficiale e frutto di un’accurata operazione analitica»; Cass., Sez. IV, 27 aprile 2012, C.M., De Jure; in termini Cass., Sez. IV, n. 41486 del 15 ottobre 2015, P.;

[29] Cass., Sez IV, n. 6121 del 7 novembre 2017, D.B: “il DVR è uno strumento duttile che deve essere adeguato e attualizzato in relazione ai mutamenti sopravvenuti nelle aziende che sono potenzialmente suscettibili di determinare nuove e diverse esposizioni a rischio dei lavoratori. Incombe sul datore di lavoro l’onere di provvedere, non solo ad individuare, secondo le proprie esperienze e la migliore scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda, ai fini della redazione del suddetto documento, ma anche di provvedere al suo aggiornamento”;

[30] riassunte da S. Dovere: “Covid-19: sicurezza sul lavoro e valutazione dei rischi”, in www.giustiziainsieme.it;

[31] P. Pascucci, cit.; L. Fantini: “salute e sicurezza sul lavoro: tutte le novità del coronavirus”, Wolters Kluver, Milano, 2020; nello stesso senso L.M. Pelusi: “Tutela della salute e Covid-19. Una prima lettura critica degli obblighi datoriali”; in Diritto e Sicurezza sul Lavoro, 2.2019; sulla necessità di aggiornamento del DVR solo in relazione ai “rischi professionali” si è espresso anche C.G. Catanoso: “La valutazione dei rischi e il DVR ai tempi del Coronavirus”, sulla rivista on line “PuntoSicuro”;

[32]  si ribadisce con la sola eccezione di tutte quelle attività in cui l’esposizione al rischio biologico è connaturata al tipo di attività svolta;

[33]  così P. Pascucci, cit.; l’art. 3, comma 4°, del D.L. 23.2.2020 n. 6 – convertito con modificazioni nella L. 5.3.2020 n. 13 – prevedeva che “salvo che il fatto costituisca più grave reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è punito ai sensi dell’art. 650 c.p.”; tale disposizione è stata successivamente abrogata dall’art. 5, comma 1°, lett. a del D.L. 25.3.2020; l’art. 4, comma 1°, di tale D.L. stabilisce che “salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all’art. 1, comma 2°, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 2, comma 1°, ovvero dell’art. 3, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 3.000 e non si applicano le sanzioni contravvenzionali previste dall’art. 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità di cui all’art. 3, comma 3”;

[34] così R. Guariniello: “La sicurezza sul lavoro al tempo del coronavirus”; Wolters Kluver, Milano, 2020; nello stesso senso anche C.C. Corsaro e M. Zambrini: “compliance aziendale, tutela dei lavoratori e gestione del rischio pandemico” in www.giurisprudenzapenale.com;

[35] secondo cui per luoghi di lavoro si intendono “i luoghi destinati ad ospitare posti di lavoro, ubicati all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, nonché ogni altro luogo di pertinenza dell’azienda o dell’unità produttiva accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro”;

[36] così Cass., Sez. IV, n. 45808 del 5 ottobre 2017, C. e altro, in Ced Cassazione penale, rv. 271079; in termini anche Cass., Sez. IV, n. 48264 del 4 dicembre 2015, S.;

[37] ai sensi dell’art. 267, comma 1°, lett. a T.u.s.l. si intende per “agente biologico qualsiasi microrganismo, anche se geneticamente modificato, coltura cellulare ed endo-parassitaria umana che potrebbe provocare infezioni, allergie, intossicazioni”;

[38] S. Dovere: “Covid-19: sicurezza sul lavoro e valutazione dei rischi”; G.de Falco: “La normativa in tema di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro a confronto con l’emergenza epidemiologica da Covid-19”;  in www.giustiziainsieme.it; M. Riverditi e L. Amerio, “Covid-19 e infortuni sul lavoro: risvolti penalistici”; in www.giuriprudenzapenale.it”; all’aggiornamento del DVR accenna anche D. Pomata: “Coronavirus. Sulla responsabilità penale del datore di lavoro”; in PuntoSicuro;

[39] da ultimo quelle elencate nel “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, sottoscritto tra il Governo e le parti sociali il 24.4.2020;

[40] contra P. Pascucci: “Coronavirus e sicurezza sul lavoro, tra “raccomandazioni” e protocolli. Verso una nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale?” in Diritto della Sicurezza sul Lavoro n. 2/2019;

[41] S. Dovere, cit., cita l’esempio che “la maggior distanza tra due lavoratori addetti ad una comune lavorazione può determinare la sopraggiunta inidoneità della misura che garantiva l’esecuzione in sicurezza; si pensi al controllo visivo di un lavoratore sull’altro, o sulla disposizione di pulsantiere, ecc. In sintesi, la valutazione dei rischi deve essere aggiornata, secondo quanto impone l’art. 29, comma 3°, perché l’implementazione della misura di distanziamento fisico determina una rilevante modifica dell’organizzazione in astratto, ma ancor più perché il d.l. 19/20 rimanda al datore di lavoro per la definizione dell’assetto organizzativo concreto che vale a garantire il risultato del rispetto delle regole di condotta positivizzate”;

[42]  P. Pascucci “Coronavirus e sicurezza sul lavoro, tra “raccomandazioni” e protocolli. Verso una nuova dimensione del sistema di prevenzione aziendale?”, cit.;

[43] il rischio da contagio in occasione del lavoro è stato classificato secondo tre variabili: 1) Esposizione (“la probabilità di venire in contatto con fonti di contagio nello svolgimento delle specifiche attività lavorative”; 2) Prossimità (“le caratteristiche intrinseche di svolgimento del lavoro che non permettono un sufficiente distanziamento sociale per parte del tempo di lavoro o per la quasi totalità”; 3)Aggregazione (“la tipologia di lavoro che prevede il contatto con altri soggetti oltre ai lavoratori dell’azienda”);

[44] le misure indicate consistono in: misure organizzative; misure di prevenzione e protezione; misure specifiche per la prevenzione dell’attivazione di focolai epidemici.

[45] Cass., Sez. IV, 17 settembre 2010, Cozzini, Cassazione penale, Giuffrè, Milano, 2011, 5, 1679; Cass. Sez IV n. 18323 dell’11 gennaio 2019, in De Jure, ha ulteriormente stabilito che: “il datore di lavoro ha l’obbligo giuridico di analizzare, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all’interno dell’azienda e, all’esito, deve redigere e sottoporre ad aggiornamenti periodici il DVR previsto dall’art. 28 del d.lgs. 81/2008, all’interno del quale è tenuto ad indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute la sicurezza dei lavoratori. Lo strumento dell’adeguata valutazione dei rischi è un documento che il datore di lavoro deve elaborare con il massimo grado di specificità, restandone egli garante; l’essenzialità di tale documento deriva con evidenza dal fatto che, senza la piena consapevolezza di tutti i rischi per la sicurezza, non è possibile un’adeguata politica antinfortunistica”; cfr. anche Cass., Sez. U., 24 aprile 2014, E.H. e a., De Jure;

[46] il cui contenuto è disciplinato dall’art. 100 del T.U.S.L.;

[47] così S. Dovere: “La sicurezza dei lavoratori in vista della “fase 2” dell’emergenza da Covid-19”, cit.;

[48]  in R. Guariniello. “il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza”, cit.;

[49] per l’inquadramento generale della materia cfr.: D. Iarussi – M. Miscione: “Codice della sicurezza negli ambienti di lavoro”; Nel Diritto Editore; Roma, 2014; F. Carinci e E. Gragnoli, “Codice commentato della sicurezza sul lavoro”, Utet, Milano, 2010; M. Tiraboschi e L. Fantini – a cura di – “Il Testo Unico della salute e sicurezza sul lavoro dopo il correttivo (d.lgs. n. 106/2009”, Giuffrè, Milano, 2009;

[50] «In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, ciascun datore di lavoro, sia il committente che l’appaltatore, è esclusivo responsabile della tutela dei propri dipendenti dai rischi che coinvolgano unicamente questi ultimi, poiché la cooperazione tra committente ed appaltatore è imposta soltanto per eliminare i rischi comuni ai lavoratori dipendenti di entrambe le parti»; Cass., Sez. IV, 21 maggio 2009, C.C., CED, rv. 244691;

[51]  così L. Fantini “Salute e sicurezza sul lavoro: tutte le novità contro il coronavirus”; cit.; la questione è affrontata anche daL.M. Pelusi, cit.;

[52]  S. Dovere “La sicurezza dei lavoratori in vista della fase 2 dell’emergenza da Covid-19”; cit;

[53] il tema è affrontato da S. Dovere, “La sicurezza dei lavoratori in vista della fase 2 dell’emergenza da Covid-19”, cit., cui si rimanda;

[54] è l’opinione espressa da P. Pascucci; cit.; secondo l’autore l’ulteriore conferma dell’autonomia e specialità del sistema di contenimento del contagio discenderebbe dall’attribuzione dell’attività di vigilanza sull’osservanza di tali misure – ex art. 4, comma 9, del d.l. 19/2020 – alle Forze di polizia piuttosto che al personale ispettivo delle ASL; conclusivamente, “le violazioni delle misure di contenimento sono estranee alle sanzioni contravvenzionali del d.lgs. 81/2008 ed all’applicazione della prescrizione del d.lgs. n. 758/1994”;

[55] per un inquadramento generale della materia si rinvia a F. Giunta – D. Micheletti “Il nuovo diritto penale della sicurezza nei luoghi di lavoro”, Giuffrè, Milano, 2010 nonché A. Cadoppi, S. Canestrari, A. Manna, M. Papa (a cura di) “Trattato di diritto penale. Diritto penale del lavoro”; Utet, Milano, 2015;

[56]  ad esempio l’art. 18, comma 1°, lett. f impone al datore di lavoro ed al dirigente di “richiedere l’osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti, nonché delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza e di igiene del lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuali messi a loro disposizione”; l’omissione di tale obbligo è punita ai sensi dell’art. 55, comma 5°, lett. c);

[57] a carico dei quali l’art. 19 pone una serie di obblighi di vigilanza sull’osservanza da parte dei lavoratori delle disposizioni aziendali in materia di sicurezza sul lavoro e di uso dei dispositivi di protezione; l’inosservanza di tali obblighi è punita ai sensi dell’art. 56;

[58] S. Dovere; “Covid -19: sicurezza sul lavoro e valutazione dei rischi”cit.;

[59] “Trattasi di obbligo precipuo a carico del datore di lavoro……….che deve essere sempre attuale e pertinente alle concrete condizioni di svolgimento dell’attività lavorativa sussistenti nell’azienda, anche al fine di garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di sicurezza del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 15 lett. f)”(Cass., Sez. III n. 24820 del 5 maggio 2011, P., Ced Cassazione penale, rv. 250651);  nello stesso senso è stato affermato che  «la condotta omissiva del datore di lavoro che non fornisca agli operai strumenti dotati di misure di sicurezza adeguate, integra una responsabilità colposa specifica, da ritenersi sussistente, anche se sotto il diverso profilo della colpa generica, nel caso di disconoscenza della messa in commercio di strumenti rispondenti ai più elevati standard di sicurezza» (Cass., Sez. IV, 16 dicembre 2011,  M.M., De Jure). Il principio della  “massima sicurezza tecnologica”, pur non espressamente enunciato nel T.U.S.L., anima una serie di disposizioni in cui sono contenute esplicite prescrizioni finalizzate ad un progressivo e programmato innalzamento degli standard di sicurezza negli ambienti di lavoro.  Si richiamano, oltre all’art. 15, 1° co., lett. c), riguardante l’”eliminazione o riduzione dei rischi”, le seguenti disposizioni:l’art. 2, 1° co, lett. n), che, nel definire la nozione di “prevenzione”, precisa che tale è «il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno»;l’art. 2, 1° co, lett. q), che qualifica “la valutazione dei rischi” come «la valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui essi prestano la propria attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e di protezione e ad elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza»;  l’art. 9, 2° co., lett. c),  che, nel definire “gli enti pubblici aventi compiti in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”, affida ad essi l’attività di consulenza istituzionale anche al fine della «individuazione degli elementi di innovazione tecnologica in materia con finalità prevenzionistiche»;l’art. 18, 1° co., lett. z), che pone a carico del datore di lavoro e del dirigente l’obbligo di «aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che hanno rilevanza ai fini della salute e sicurezza del lavoro, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica della prevenzione e della protezione»;l’art. 29, 3° co, secondo cui «la valutazione dei rischi deve essere immediatamente rielaborata […] in occasione di modifiche del processo produttivo o dell’organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, o in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione o della protezione».

[60] «tra i compiti di prevenzione che fanno capo al datore di lavoro vi è anche quello di dotare il lavoratore di strumenti e macchinari del tutto sicuri, dovendo in proposito ispirare la sua condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza. Pertanto non sarebbe sufficiente, per mandare esente da responsabilità il datore di lavoro che non abbia assolto appieno il suddetto obbligo cautelare, neppure che una macchina sia munita degli accorgimenti previsti dalla legge in un certo momento storico, se il processo tecnologico sia cresciuto in modo tale da suggerire ulteriori e sofisticati presidi per rendere la stessa sempre più sicura» (Cass., Sez. IV, 25 novembre 2010, N.R., GDir, 2011, 11, 80; nello stesso senso cfr. Cass. Sez. IV n. 4325 del 2 febbraio 2016, Z; in R. Guariniello, “Il T.U. Sicurezza sul lavoro commentato con la giurisprudenza”; Utet, 2020)

[61]  Cass., Sez. U., n. 38343 del 24 aprile 2014, E.H. e a., De Jure;

[62]  Corte cost., 25 luglio 1996, n. 312, GiC, 1996, 2575:

[63] Questa interpretazione ha trovato riscontro anche in un orientamento della giurisprudenza di legittimità: «in tema di tutela della sicurezza dei lavoratori, qualora la ricerca e lo sviluppo delle conoscenze portino alla individuazione di tecnologie più idonee a garantire la sicurezza, non è possibile pretendere che l’imprenditore proceda ad un’immediata sostituzione delle tecniche precedentemente adottate con quelle più recenti ed innovative, dovendosi pur sempre procedere ad una complessiva valutazione sui tempi, modalità e costi dell’innovazione, purché, ovviamente, i sistemi già adottati siano comunque idonei a garantire un livello elevato di sicurezza» (Cass., Sez. IV, 19 ottobre 2006, Laguzzi, Cassazione penale, Giuffrè, 2007, 11, 4264; in termini Cass. Sez. IV n. 3616 del 27 gennaio 2016, A, in Ced Cassazione penale, rv. 265738);

[64]  il tema è trattato da G. Minniti e A. Falconi: “Diffusione Covid-19 in ambiente di lavoro: il datore di lavoro non può essere ritenuto responsabile del reato di epidemia colposa ex art. 40 cpv. c.p.”; nel “Il Penalista”, Giuffrè;

[65] si rimanda anche alla Circolare dell’INAIL n. 13 del 3 aprile 2020 riguardante la tutela assicurativa nei casi accertati di contagio da Covid-19; l’argomento è diffusamente trattato da G. Briola e C. Capuzzo, “La responsabilità penale del datore di lavoro per contagio da Covid-19”, in Quotidiano Giudico, Wolters Kluver, 28.4.2020; si veda anche M. Riverditi e L. Amerio “Covid-19 e infortuni sul lavoro: risvolti penalistici”, in www.giurprudenzapenale.com; si rimanda, altresì, a L. La Peccerella: “Infezione da coronavirus e tutela contro gli infortuni e le malattie professionali; in Diritto e Sicurezza sul Lavoro, 1/2020;

[66] Le suddette violazioni devono essere commesse in specifici contesti operativi ad elevata pericolosità, ed in particolare: A) nelle aziende indicate nell’art. 31, comma 6°, lett. a), b), c), d), f), g) del d.lgs. 81/2008 (aziende industriali a rischio di incidenti rilevanti connessi all’impiego di sostanze pericolose e soggetto all’obbligo di notifica o rapporto ai sensi del d.lgs. 334/1999; centrali termoelettriche; impianti e installazioni soggette alla disciplina in tema di radiazioni ionizzanti ai sensi del d.lgs. 230/1995; aziende per la fabbricazione ed il deposito separato di esplosivi, polveri e munizioni; industrie estrattive con oltre 50 lavoratori; strutture di ricovero e cura pubbliche e private con oltre 50 lavoratori); B) nelle aziende che svolgono attività che espongono i lavoratori a rischi biologici di cui all’art. 268, comma 1°, lett. c) e d) d.lgs. 81/2008, cancerogeni e mutageni e da attività di manutenzione, rimozione, smaltimento e bonifica di amianto; C) per le attività svolte in cantieri temporanei e mobili caratterizzate dalla compresenza di più imprese e la cui entità “presunte di lavoro” non sia inferiore a 200 uomini-giorno;

[67] a tal fine l’art. 43 del d.l. 17.3.2020 n. 18 – “Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza epidemiologica da Covid-19”, convertito con modificazioni nella l. 24.4.2020 n. 27, ha previsto lo stanziamento di “contributi alle imprese per la sicurezza e potenziamento dei presidi sanitari”;

[68] per l’inquadramento del tema si rinvia a A. Presutti – A. Bernasconi: “Manuale della responsabilità degli enti”, Giuffrè, Milano, 2018; D. Castronuovo, G. De Simone, E. Ginevra, A. Lionzo, D. Negri, G. Varraso – a cura di – “Responsabilità da reato degli enti collettivi”; Utet, Milano, 2019; R. Blaiotta “Sicurezza del lavoro e responsabilità dell’ente. Alla ricerca di una dogmatica”; in Sistema Penale 5/2020;

[69]  cfr. Cass., S.U., 24 aprile 2014, E. e a., Ced Cassazione penale, rv. 261115; Cass. n. 38363 del 23 maggio 2018, Consorzio M., Ced Cassazione penale, Rv 274320; Cass. n. 16598 del 24 gennaio 2019, Nardin in De Jure, Giuffrè;

[70]  così Cass. n. 2544 del 21 gennaio 2016, G., in Ced Cassazione penale rv 268065;

[71] in termini Cass. 27.11.2019 n. 49775, ne “il Penalista”, Giuffrè, con nota di C. Santoriello “Responsabilità degli enti e violazioni antinfortunistiche: il caso isolato non può determinare interesse o vantaggio per la società”;

[72] così S. Dovere; cit nonché C.C. Corsaro e M. Zambrini; cit.; si veda anche G. Minniti, “Contagio da COVID-19 in ambiente lavorativo: responsabilità del datore di lavoro e dell’ente ex d.lgs. 231/2001; in “Il Penalista”, Giuffrè, Milano, 15.4.2020;

[73] In tema di responsabilità da reato degli enti, la colpa di organizzazione, da intendersi in senso normativo, è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli” Cass. SS.UU. 38343/2014; cit.;

[74] inoltre, «mentre il documento di valutazione di un rischio è rivolto anche ai lavoratori per informarli dei pericoli incombenti in determinate situazioni all’interno del processo produttivo e, quindi, è strutturato in modo da garantire a tali destinatari una rete di protezione individuale e collettiva perché addetti concretamente a determinate mansioni, il modello del d.lgs. 231/2001 deve rivolgersi non tanto a soggetti che sono esposti al pericolo di infortunio, bensì principalmente a coloro che, in seno all’intera compagine aziendale, sono esposti al rischio di commettere reati colposi e di provocare, quindi, le lesioni o la morte nel circuito societario, sollecitandoli ad adottare standard operativi e decisionali predeterminati, in grado di obliterare una responsabilità dell’ente. Dall’analisi dei rischi del sistema produttivo l’attenzione viene spostata ai rischi del processo decisionale finalizzato alla prevenzione» (Trib. Trani, Sez. dist. Molfetta, 26 ottobre 2009);

[75] a tal fine potrà operare il potere di “curare l’aggiornamento del modello”  riconosciuto all’OdV dall’art. 6, comma 1°, lett. b d.lgs. 231/01;

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