L’A.N.M. tra identità dei gruppi e sintesi programmatica – prima parte

di Giuseppe Mastropasqua in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la Costituzione

L’associazionismo giudiziario da molti anni è in forte crisi causata da fattori endogeni ed esogeni, che sono individuati sulla base dei contributi offerti dalla sociologica in chiave storica, tecnico-scientifica, etico-filosofica; si è in presenza di una cambiamento d’epoca, che sta profondamente trasformando le istituzioni a livello anche europeo e internazionale, la società civile sul piano etico-culturale e socio-politico, i ‘corpi intermedi’ fra i quali vanno annoverati l’A.N.M. ed i Gruppi che ne fanno parte. Questa crisi è un’opportunità per l’associazionismo giudiziario, il quale è sollecitato ad individuare innovativi criteri interpretativi della realtà; inoltre, i singoli Gruppi sono chiamati a ridefinire le rispettive identità secondo dinamiche relazionali e narrative aperte all’alterità, rivitalizzando nell’oggi i principi costituzionali nazionali ed europei ed ampliando notevolmente gli spazi di democrazia interna. In questo modo è più agevole -in seno all’A.N.M.- approdare a sintesi programmatiche e ad iniziative comuni idonee ad affrontare le ‘res novae’ in modo più adeguato ed efficace.

SOMMARIO: 1. Cenni storici sull’associazionismo giudiziario. – 2. Associazionismo giudiziario ed interpretazione della realtà; 2.1 L’epoca della ‘post-verità’; 2.2 I corpi intermedi: dal collante ‘ideologico’ alla liquidità e al corto-termismo; 2.3 ‘Surfismo’, società del rischio e cultura dell’incertezza; 2.4 Frammentazione, fragilità, miti a ‘bassa intensità’; 2.5 Le dinamiche del potere: scopo, degenerazioni, leader e suo ‘cerchio magico’. – 3. Proposte minimali per il rilancio dell’associazionismo giudiziario; 3.1 L’identità relazionale e narrativa dei gruppi; 3.2 Il giudice ‘costituzionale’; 3.2.1 Autonomia e indipendenza; 3.2.2 Il giudice naturale e l’organizzazione dell’ufficio; 3.2.3 Lo status giuridico del magistrato; 3.2.4 Profili deontologici; 3.2.5 L’interazione con la società. 

     1- Cenni storici sull’associazionismo giudiziario

Si è soliti affermare che l’associazionismo giudiziario nasca formalmente il 13 giugno 1909, allorquando un gruppo di 44 magistrati si riunisce a Milano e costituisce l’Associazione Generale tra i Magistrati d’Italia (A.G.M.I.)[1] sulla base di obiettivi programmatici in gran parte già contenuti nel cd. ‘Proclama di Trani’ (1904) sottoscritto da 116 magistrati del Distretto della Corte d’Appello di Trani[2].

L’A.G.M.I. persegue -fra i suoi scopi- soprattutto il riconoscimento di diverse garanzie a tutela dei magistrati come, ad esempio, l’inamovibilità dei pubblici ministeri già prevista per la magistratura giudicante, il miglioramento delle miserevoli condizioni professionali e retributive dei magistrati, il rafforzamento dei poteri del Consiglio Superiore della Magistratura[3].

Il Governo dell’epoca, mediante il Guardasigilli V. E. Orlando, manifesta una posizione molto critica sulla costituzione dell’A.G.M.I. per le seguenti tre ragioni:

a) la peculiare funzione dei magistrati determina l’insorgenza di “dubbi gravissimi sulla possibilità che l’iniziativa produca frutti utili e degni”;

b) la struttura gerarchica della magistratura italiana, che ha il suo vertice nella Corte di Cassazione, è incompatibile con un’Associazione i cui aderenti hanno posizione paritaria fra loro con conseguente danno per la dignità e l’autorità della cd. ‘magistratura maggiore’, che ricopre funzioni direttive; per converso, l’Associazione potrebbe essere compatibile, se rispecchiasse i diversi gradi della gerarchia e, perciò, non desse adito a conflitti tra magistratura ‘minore’ e quella ‘maggiore’;

c) “la discussione combattiva di idee e tendenze”, insita nell’A.G.M.I., le avrebbe conferito un ruolo politico che non si addice ai magistrati[4].

L’Assemblea generale degli iscritti nella riunione del 21 dicembre 1925 delibera lo scioglimento dell’A.G.M.I. per paralizzare in anticipo la pretesa del regime di trasformarla in sindacato fascista; la stessa A.G.M.I., ritenuta responsabile di aver abbracciato un indirizzo antistatale e sovversivo, è formalmente sciolta con Regio Decreto del 16 dicembre 1926 e i suoi dirigenti sono destituiti dal servizio con decorrenza dal 31 dicembre 1926.

Tuttavia, anche se la stragrande maggioranza dei magistrati aderisce con convinzione al fascismo e viene premiata mediante una veloce progressione in carriera nell’ambito di un ordine giudiziario ormai strutturato in senso fortemente gerarchico e quasi completamente asservito al regime, una buona parte di magistrati -di formazione culturale liberale- resta fedele al modello di giudice burocrate quale ‘bocca ed applicatore’ della legge e tende a rapportarsi col regime fascista in maniera silenziosamente o formalmente adesiva, testimoniando così di essere in qualche modo permeabile al contesto politico e socio-culturale del tempo; non mancano, però, diversi magistrati che dissentono dal fascismo e taluni entrano in formazioni partigiane, pagando tali scelte con la vita, la deportazione in lager, il trasferimento ‘punitivo’ ad altri uffici, il collocamento a riposo, la dispensa dal servizio[5].

Al termine del Secondo conflitto mondiale, la maggior parte della magistratura passa dal regime fascista al nuovo contesto repubblicano, democratico e costituzionale, ma tale passaggio avviene senza soluzione di continuità sul piano culturale e professionale[6].

Infatti, nella magistratura da un lato si fa fatica ad attuare i nuovi principi contenuti -nella Prima Parte della Costituzione- in norme ritenute ‘programmatiche’ e non immediatamente applicabili; dall’altro lato, in spregio al principio di divisione dei poteri, si elabora la proposta (non recepita dall’Assemblea Costituente) di attribuire alla Corte di Cassazione (‘alta magistratura’) il potere di vagliare la conformità alla Costituzione delle leggi e degli atti aventi forza di legge.

Anzi, una parte della magistratura continua a manifestare una certa diffidenza e resistenza -verso il nuovo ordinamento costituzionale– anche dopo che la Corte Costituzionale inizia ad operare (1956); ciò è da ascriversi al fatto che i magistrati sono in gran parte di formazione liberale e conseguentemente -considerandosi ‘funzionari’ deputati ad essere ‘mera bocca della legge’- si limitano ad applicare le leggi vigenti emanate anche in epoca fascista e nell’immediato dopoguerra, omettendo di investire (se non in rari casi) il Giudice delle leggi al fine di verificarne la conformità alla Costituzione[7].

Ciò posto, l’associazionismo giudiziario vede di nuovo la luce il 21 ottobre 1945 con una nuova denominazione: Associazione Nazionale Magistrati (A.N.M.) che per oltre un decennio viene diretta da magistrati di Cassazione.

L’A.G.M.I. e poi l’A.N.M. sono le uniche due associazioni unitarie di magistrati, sino a quando nel 1960 i magistrati di Cassazione danno vita all’Associazione Unione delle Corti, che nel 1961 prende il nome di Unione Magistrati Italiani (U.M.I.).

I magistrati di Cassazione (iscritti all’U.M.I.) decidono di uscire dall’A.N.M., perché questa dal Congresso Nazionale di Napoli (1957) in poi assume posizioni da quelli non condivise e fortemente contrastate; in particolare, detta fuoriuscita è determinata dal fatto che l’A.N.M.:

  1. propugna la tesi secondo cui il giudice è non simple bouche de la loi e non sacerdote separato dalla società e rinserrato nella turris eburnea del suo sapere sillogistico e tecnico-formale, bensì interprete vivo della legge secondo i principi costituzionali, aperto ed attento alle problematiche culturali e socio-politiche riguardanti il ‘servizio giustizia’;
  2. si schiera -con maggioranze progressivamente sempre più ampie- contro la concezione gerarchica e piramidale della magistratura basata sulla progressione in carriera a ‘ruoli chiusi’ e sulla distinzione tra ‘alta magistratura’ (i magistrati di Cassazione) e ‘bassa magistratura’ (tutti gli altri magistrati), sostenendo invece il sistema dell’avanzamento in carriera a ‘ruoli aperti’ fondato sulla cd. ‘anzianità senza demerito’;
  3. è contraria all’accentramento del potere giudiziario nelle mani dei magistrati cassazionisti per il fatto che costoro nel contempo dirigono l’A.N.M., hanno un peso preponderante -in virtù della legge elettorale all’epoca vigente- nel C.S.M., compongono le commissioni preposte a valutare i magistrati che aspirano ad avanzamenti di carriera.

L’U.M.I. resta in vita per oltre un decennio sino agli anni “70, allorquando i suoi iscritti rientrano gradualmente nell’A.N.M. e aderiscono in gran parte al Gruppo ‘Magistratura Indipendente’.

L’A.G.M.I. e l’A.N.M., sin dalla loro costituzione, si caratterizzano per il carattere politico dei loro rispettivi operati e per il pluralismo interno, in quanto vi si iscrivono magistrati di diverso orientamento culturale; ma soltanto dal 1957 in poi il pluralismo nell’A.N.M. si esprime mediante la progressiva formazione al suo interno di gruppi, che si differenziano per contenuti programmatici, obiettivi da raggiungere, metodi praticati.

Infatti si costituiscono: nel 1957 il Gruppo ‘Terzo Potere’ che nel 1979 concorre a formare il nuovo Gruppo ‘Unità per la Costituzione’; nel 1962 il Gruppo ‘Magistratura Indipendente’; nel 1964 il Gruppo ‘Magistratura Democratica’ che nel 2012 concorre a formare il Gruppo ‘Area’; nel 1969 il Gruppo ‘Impegno Costituzionale’ che nel 1979 concorre a formare il nuovo Gruppo ‘Unità per la Costituzione’; nel 1988 il Gruppo ‘Movimento per la Giustizia’ (già denominato ‘Verdi’) che nel 2012 concorre a formare il nuovo raggruppamento denominato ‘Area’, il quale il 21 giugno 2016 dà vita all’Associazione ‘Area Democratica per la Giustizia’; nel 2015 il Gruppo ‘Autonomia e Indipendenza’ nato da una scissione di ‘Magistratura Indipendente’; negli ultimi anni i due distinti Gruppi ‘Articolo 101’ e ‘Movimento per la Costituzione’, quest’ultimo sempre alleato con ‘Magistratura Indipendente’ in tutte le competizioni elettorali cui ha partecipato.

Le plurali sensibilità culturali (già esistenti nell’A.G.M.I.) e i diversi gruppi, che operano in seno all’A.N.M., sono i ‘veri motori’ dell’associazionismo giudiziario, in quanto danno vita all’interno della comune ‘casa associativa’ a dibattiti serrati, a confronti talvolta accesi, a sintesi programmatiche (deliberate di volta in volta all’unanimità o a maggioranza) sugli obiettivi da perseguire e sugli interventi in materia di ordinamento giudiziario, stato della giustizia, carriera e prerogative dei magistrati, proposte normative sulle diverse tematiche esaminate.

Le molteplici posizioni, assunte nel corso degli anni dall’A.N.M. e dai singoli gruppi sulle questioni affrontate, oscillano e talvolta fanno sintesi tra tensioni corporative a tutela dei magistrati, prospettive culturali ed ermeneutiche costituzionalmente centrate e orientate, apertura ad interventi politici su problematiche riguardanti la giustizia e la democrazia.

Storicamente le diverse sensibilità culturali, presenti nell’A.G.M.I. e poi nell’A.N.M., costituiscono un indubbio fattore di ricchezza per l’intera magistratura; ciò è attestato anche dall’attuale Ministra della Giustizia, la quale afferma di essere consapevole […] della fisiologica e peraltro ineliminabile pluralità delle culture della magistratura […], sicché occorre rifuggire […] dalla semplificazione che confonde il valore del pluralismo con le degenerazioni del correntismo […][8].

Infatti, numerosi e pregevoli sono i contributi e gli stimoli culturali offerti dall’associazionismo giudiziario:

  1. tra il 1909 e il 1925 sul piano ordinamentale mediante il perseguimento di obiettivi programmatici concernenti il pieno riconoscimento del governo autonomo della magistratura, l’indipendenza della magistratura requirente dal potere esecutivo, il miglioramento delle condizioni retributive e lavorative dei magistrati;
  2. dal 1945 in poi per quanto concerne l’indipendenza, l’autonomia, l’imparzialità e la terzietà del giudice; l’introduzione del ‘sistema tabellare’ per la ripartizione degli affari giurisdizionali[9]; la progressione in carriera dei magistrati (abolizione dei ‘ruoli chiusi’ accessibili mediante appositi concorsi ed introduzione prima dei ‘ruoli aperti’ e poi del criterio dell’anzianità senza demerito); l’elezione dei membri togati del C.S.M. secondo il criterio della parità nel diritto di voto attivo e passivo senza distinzioni tra livelli professionali; la legittimità del diritto di criticare i provvedimenti giurisdizionali; l’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa in vigore; l’apertura al dibattito pubblico su tematiche concernenti il ‘servizio giustizia’; la tutela dei diritti fondamentali della persona sul piano politico, culturale, sociale ed economico. A ciò si aggiunge il notevole contributo teorico offerto a sostegno della tesi, secondo cui le norme della Costituzione -qualora abbiano contenuti autosufficienti e completi- sono non ‘programmatiche’, bensì ‘precettive’ e perciò immediatamente applicabili dal giudice alla fattispecie concreta[10].

L’A.N.M. svolge, altresì, un ruolo molto significativo a presidio della stessa democrazia durante gli ‘anni bui’ della Repubblica segnati da stragi, atti di terrorismo eversivo dell’ordine costituzionale, attentati miranti a destabilizzare l’ordine pubblico, criminalità mafiosa e corruzione; molti magistrati pagano con la vita per il semplice fatto di aver avviato indagini e svolto attività giurisdizionale -con le ‘armi’ del diritto e del processo- nei confronti di ‘grumi’ criminali più o meno potenti ed occulti.

Accanto alle molte ‘luci’, però, non mancano diverse ‘ombre’ che, in epoca repubblicana, si allungano sulla magistratura e gettano discredito sul ‘servizio giustizia’, sugli organi del governo autonomo, sull’A.N.M. e sui gruppi che ne fanno parte, determinando un netto calo di fiducia nell’imparzialità e terzietà dei magistrati; infatti, diversi magistrati balzano alle cronache per fatti di corruzione, malaffare, collusioni con centri di potere politico od economico, degenerazioni correntizie, disdicevole malcostume sul piano deontologico.

Tuttavia, tra alti e bassi, è certo che l’A.N.M. e i gruppi contribuiscono notevolmente a costruire, implementare e rafforzare la democrazia costituzionale aperta alle istanze europee e internazionali.

In uno storico documento l’A.N.M. rimarca: […] L’associazionismo giudiziario in Italia ha una forte e radicata tradizione che risale agli inizi dello scorso secolo. Nell’ultimo secolo esso si è articolato con la formazione delle “correnti” all’interno dell’unica Associazione nazionale magistrati che da tale situazione trae indiscutibile rappresentatività e particolare autorevolezza per il fatto di esprimere il risultato del dibattito pluralistico, ricco ed articolato, dei gruppi associativi. L’associazionismo giudiziario costituisce ad un tempo: l’esercizio da parte dei magistrati delle libertà costituzionali di pensiero e associazione; lo strumento per la crescita della consapevolezza nei magistrati della specificità della funzione e della essenzialità dell’indipendenza per il suo esercizio; il contributo dei magistrati al dibattito sul ruolo della magistratura nella società e nelle istituzioni […][11].

Questo è un patrimonio storico di idee, programmi, interventi e attività -indubbiamente rilevante sul piano quantitativo e soprattutto qualitativo- che nessuno può revocare in dubbio.

     2- Associazionismo giudiziario ed interpretazione della realtà

Le molteplici ombre, addensatesi negli ultimi anni su una parte della magistratura e dell’organo di governo autonomo, sono sintomatiche di una ben più vasta crisi della democrazia sul piano istituzionale, politico, economico, culturale e sociale; oggi si assiste ad una crisi di sistema, la quale involge tutti i settori della convivenza civile e -per quel che rileva ai fini della nostra analisi- soprattutto i cc.dd. ‘corpi intermedi’ che all’interno della società sono il collante di istanze, sollecitazioni, programmi, attività, interventi, elaborazioni di carattere culturale e socio-politico.

Nel disegno, tracciato dalla Costituzione, i ‘corpi intermedi’ sono formazioni sociali, in cui ciascuna persona può realizzarsi integralmente sul piano lavorativo, etico, morale, culturale e religioso, nonché contribuire ad elaborare progetti volti alla promozione e allo sviluppo della comunità civile e delle istituzioni democratiche secondo i principi di solidarietà, uguaglianza formale e sostanziale, sussidiarietà e bene comune.

Sino alla fine del decennio 1970-1980, i ‘corpi intermedi’ sono generalmente luoghi di confronto e di dibattiti (anche animati) su molteplici questioni di interesse generale; a seguito della graduale liquefazione delle ideologie, che hanno dominato il ‘secolo breve’[12], nel decennio 1980-1990 i ‘corpi intermedi’ iniziano a smarrire questa loro vocazione e -tranne alcune realtà circoscritte- si ripiegano progressivamente sul presente e si accasciano su iniziative di corto respiro.

L’anemia dei ‘corpi intermedi’ impedisce di avviare reali processi di discernimento della realtà circostante e di concorrere in maniera autentica allo sviluppo della comunità civile e delle istituzioni democratiche del Paese; infatti l’attuale crisi della democrazia è il risultato, fra l’altro, anche dell’afasia e dell’assopimento dei ‘corpi intermedi’ e, conseguentemente, della loro incapacità di decodificare la crisi sistemica che sta investendo il Paese ed il mondo intero.

Si è in presenza non di una ‘epoca di cambiamento’, ma di un ‘cambiamento d’epoca’ accelerato -da ultimo- dai pervasivi effetti prodotti dalla pandemia in corso: senso di incertezza sul futuro, fragilità e vulnerabilità sul piano relazionale, fisico e psicologico; crollo dell’economia; aumento dei casi di depressione, suicidi, separazioni, violenza fra mura domestiche; accentuata precarietà del lavoro; stress dei sistemi sanitari e delle stesse istituzioni democratiche; fake news divulgate spesso intenzionalmente attraverso il web, i media, le tecnologie digitali; pervasiva diffusione di populismi in ambito penale secondo lo schema ‘amico/nemico-delinquente’, socio-politico in relazione alla profonda crisi globale, socio-sanitario per quanto concerne la gestione dell’emergenza pandemica e della campagna vaccinale.

La narrazione del trauma, provocato dalla pandemia, mette certamente in discussione il ‘mito’ del progresso lineare ed inarrestabile, perché smentisce quella lettura ‘faustiana’ della storia secondo cui l’uomo -con il suo sapere tecnico-scientifico ed il suo operato- può titanicamente dominare il mondo, indirizzarlo e piegarlo secondo il suo volere.

Anche l’esperienza giuridica da tempo è sottoposta a diverse sollecitazioni ‘stressanti’ e traumatiche, in quanto si trova ad affrontare problematiche e situazioni nuove con strumenti normativi e un armamentario culturale, che si sono mostrati in gran parte obsoleti e inadeguati.

Infatti, di fronte alle sfide poste dalla pandemia mondiale in atto, il decisore politico interviene anche con atti amministrativi per limitare la libertà di spostamento dei cittadini e per disciplinare l’esercizio di diritti fondamentali della persona; attribuisce, altresì, ai capi degli uffici giudiziari il potere di organizzare -a ‘macchia di leopardo’- lo svolgimento dell’attività giurisdizionale mediante l’adozione di specifici e differenti progetti organizzativi, in cui sono individuati in maniera diversa i processi da trattare e quelli da rinviare ed i relativi tempi/modalità di definizione, dando così luogo ad una giurisdizione esercitata in maniera disomogenea e diversificata sul territorio nazionale.

Inoltre, diverse nuove sfide per la giurisdizione provengono, ad esempio, dalle complesse problematiche concernenti il ‘fine vita’, le questioni ‘eticamente sensibili’, i fenomeni migratori, la tutela dei diritti e l’osservanza dei doveri connessi all’accesso e all’uso di internet e dei social networks.

In particolare, la travolgente trasformazione digitale in atto determina:

  1. certamente varietà e facilità di contatti sociali e di reperimento/scambio di informazioni, ma scarsa integrazione nei gruppi, in quanto questi sono caratterizzati da legami deboli;
  2. la vita quotidiana delle persone è orientata e organizzata sulla base di algoritmi, i quali però sono inficiati da una contraddizione di fondo: da una parte, danno visibilità massima a comportamenti e valutazioni di singoli, gruppi, imprese, istituzioni; dall’altra, invece, rendono invisibili le dinamiche del loro stesso funzionamento, nonché scarsamente trasparenti le culture aziendali di riferimento;
  3. una conoscenza di notizie partecipata e diffusa in tempo reale la quale, se da un lato incentiva la collaborazione fra gli utenti dei social networks, dall’altro si basa su meccanismi di condivisione e partecipazione che spesso sono il frutto non di condotte razionali, bensì di compulsive spinte emozionali ed empatiche che portano a ‘polarizzare’ i discorsi, le valutazioni, le analisi e le opinioni;
  4. la creazione di centri di ‘intelligenza artificiale’, i quali contengono sì innumerevoli dati, ma progressivamente sostituiscono l’intelligenza collettiva e individuale e -a cascata- ridimensionano o addirittura annullano la sovranità di ciascuno e della comunità su interi campi e processi decisionali;
  5. la labilità tra epistème (conoscenza certa e vera) e doxa (opinioni e valutazioni) con grave danno per le acquisizioni di dati scientifici e di quelli storicamente certi validati ufficialmente dalle autorità competenti. Trattasi di danni, che sono causati dalla diffusione di notizie e valutazioni (non verificate da alcuno) ‘alternative’ a quelle ‘ufficiali’ -ad esempio- in ambito sanitario, storico, scientifico, politico, istituzionale, dando luogo a ‘bolle informative’ in cui da una parte le opinioni più visibili dominano le menti senza imbattersi in punti di vista diversi, conflittuali o non graditi; dall’altra, le fakes news -in forza della loro vorticosa reiterazione e diffusione- finiscono per ‘essere’ la realtà e per avere una valenza maggiore delle stesse evidenze scientifiche[13].

Altre situazioni, che sono all’origine di continue riflessioni e incessanti adattamenti nell’ambito dell’esperienza giuridica, sono costituite dalle reiterate frequenti riforme sia della normativa sostanziale e processuale soprattutto penale, sia della legislazione che disciplina altri settori della convivenza civile come -ad esempio- quella riguardante la tutela delle fasce più deboli della società, l’introduzione di istituti di democrazia ‘partecipativa’ o ‘inclusiva’ in un sistema parlamentare a carattere rappresentativo, la disciplina dei fenomeni migratori da Paesi extracomunitari secondo le differenti prospettive dell’assimilazione, interculturalità, multiculturalità.

Le sfide, che le ‘res novae’ portano all’esperienza giuridica, producono rilevanti effetti anche sull’associazionismo giudiziario e sulla sua stessa capacità di rinnovarsi, adattarsi, attrezzarsi sul piano culturale per offrire -ai singoli magistrati, al grande pubblico e alle istituzioni democratiche- idee e strumenti concettuali adeguati ad affrontarle con consapevolezza e responsabilità.

Tuttavia, è chiaro che l’elaborazione di un armamentario culturale nuovo -idoneo ad affrontare le numerose e dirompenti sfide di questo tempo- richiede a monte la conoscenza della realtà nel suo continuo fluire e la comprensione delle sue profonde e reali dinamiche.

Questo è un compito non facile anche per il giurista, perché la realtà si presenta come un prisma che può essere ‘conosciuto’ in profondità soltanto se lo si guardi dalle sue basi e da tutte le sue facce laterali e rifrangenti; in altre parole la realtà è poliedrica, sicché i tentativi di definirla postulano la necessità di utilizzare i criteri conoscitivi offerti da altre scienze umane nella consapevolezza, però, che oggi sembrano essersi esaurite proprio le categorie interpretative della realtà per il fatto che queste spesso si rivelano insufficienti a decodificare l’incessante e continua emersione delle res novae.

La realtà supera le idee e le categorie concettuali umane, perché essa è più grande dell’uomo, lo precede, lo eccede, ne accompagna l’esperienza e l’uomo stesso è immerso in essa; d’altronde, è assodato che le analisi, le idee e le valutazioni, qualora dovessero essere ‘ideologicamente’ fondate ed orientate, rischierebbero seriamente di ‘accecare’ l’uomo e non gli consentirebbero di conoscere funditus la realtà stessa nella sua continua evoluzione; a questo riguardo non può revocarsi in dubbio l’estrema attualità ed utilità -per l’esperienza giuridica- dell’antica massima ex facto oritur ius.

In particolare la realtà, essendo dinamica e in continuo divenire, supera l’interpretazione di essa in virtù del fatto che l’interpretazione è di per sé statica e si cristallizza nel momento stesso in cui ritaglia analisi e scolpisce concetti; inoltre, la realtà s’imbatte nell’insufficienza della sua stessa ermeneutica, perché questa è riduttiva e parziale per il fatto che è connotata dalla ‘fissità’ di principi, criteri, canoni, metodi, concetti, definizioni, locuzioni incapaci di comprendere, contenere e spiegare la realtà tutta intera nel suo poliedrico dinamismo.

Quindi, l’associazionismo giudiziario, al fine di tentare di comprendere la realtà e di incidere sul suo vorticoso ed incessante fluire, è chiamato anche a conoscere funditus il tempo presente in cui opera, ad individuarne le caratteristiche e le dinamiche evolutive, a decodificare il contesto storico in cui si svolge l’attività giurisdizionale; allo scopo è necessario ed utile avvalersi -senza alcuna pretesa di completezza ed esaustività- degli strumenti conoscitivi e dei criteri interpretativi offerti soprattutto dall’analisi sociologica in chiave storica, tecnico-scientifica, etico-filosofica.

2.1 L’epoca della ‘post-verità’

Nella tragedia di Sofocle, Edipo Re, si narra che la città di Tebe fu invasa da un’epidemia causata dall’assassinio del suo re rimasto impunito; allora Edipo, per salvare la città, salì al trono, sposò la moglie del re ucciso e si mise alla ricerca del regicida.

Ma Edipo non sapeva che stava cercando se stesso, perché egli era il regicida. Infatti, fu il cieco indovino, Tiresia, ad aprirgli gli occhi: Edipo, senza saperlo, aveva ucciso suo padre, il re Laio, e poi aveva sposato sua madre, Giocasta.

La conoscenza della verità viene da un uomo cieco, perché questi vede attraverso la prospettiva del tempo che è superiore a quella dello spazio.

Non si può conoscere la realtà attuale, se non si comprende il passato; la storia costruisce il presente, l’identità di una persona, i valori condivisi in una comunità.

L’esperienza di vita personale e collettiva si compone anche del passato, perché i vissuti contribuiscono a plasmare il presente; la storia è un sistema o una sequenza di esperienze umane, che formano una catena unica, irriducibile ed indistruttibile.

Tuttavia, il pensiero e la scrittura della storia non hanno saputo opporre valide ed efficaci resistenze alla forza distruttiva dell’esistenzialismo diffusosi a cavallo tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70 del secolo scorso, allorquando la de-costruzione del passato ha determinato il progressivo sbriciolamento della prospettiva storica, che ha finito per soccombere sotto i colpi di manipolazioni e maltrattamenti.

Dal 2016 il lemma ‘post-verità’ è entrato nel circuito culturale occidentale, per descrivere quelle situazioni in cui deliberatamente oppure per errore o ignoranza -facendo leva su emozioni, credenze e pregiudizi cognitivi della psicologia umana- la realtà viene distorta e si stabilisce una sequenza ad essa parallela; si crea una realtà fittizia, in base alla quale molti formano le proprie opinioni e leggono i vissuti esperienziali propri e altrui[14].

Questa generazione di ‘verità’ fittizie finisce spesso per essere supportata da presunti ‘riscontri’ in fatti ed eventi, inoculando così dei veri e propri ‘virus’ nella cultura di una comunità e delle sue istituzioni ai vari livelli; a ciò si aggiunge il fatto che i destinatari delle false ‘verità’ credono di essere informati, ma di fatto recepiscono (spesso inconsapevolmente) narrazioni infarcite di interpretazioni personalissime elaborate da chi le ha diffuse al grande pubblico.

Forse l’attuale epoca della ‘post-verità’ è il canto del cigno di quelle stesse ideologie, che sono nate nel XIX secolo e si sono diffuse nel XX secolo.

Anche l’esperienza giuridica negli ultimi tre decenni è stata interessata dai colpi inferti da ‘costruite’ falsificazioni di verità storiche, dalla pervasiva diffusione di innumerevoli fake news, dall’artificioso stravolgimento di fatti ed eventi, dalla strumentale estrapolazione di frasi ed espressioni contenute in provvedimenti giurisdizionali.

Infatti, non sono stati pochi gli attacchi strumentalmente portati -sulla base di ‘bufale’ confezionate ad arte- contro singoli magistrati rei di aver avviato un’indagine non gradita o redatto un provvedimento non condiviso; contro uffici giudiziari esposti in prima linea nel perseguire delitti di criminalità organizzata o commessi dai cc.dd. ‘colletti bianchi’; contro la stessa A.N.M. definita ‘consorteria mafiosa’, ‘loggia massonica’, ‘anomalia della democrazia’; contro il legislatore allorquando ha approvato -ad esempio- le norme in materia di immigrazione o su questioni ‘eticamente sensibili’.

Quindi, per accedere alla realtà e decodificarla nella sua complessità in modo da evitarne false rappresentazioni, è necessario adottare criteri metodologici basati sui seguenti quattro movimenti:

  1. prendere le distanze: penetrare la realtà, avvertirne le sensazioni, uscirne, rifletterci sopra;
  2. riunire le prospettive: ogni realtà è poliedrica, sicché soltanto la somma delle facce e il groviglio delle prospettive possono restituirne i contenuti, la forma, il volume;
  3. innalzarsi: elevarsi e distanziarsi dalla realtà, restare indifferenti rispetto ai fatti osservati, al fine di far cadere le lenti deformanti di possibili pregiudizi e preconcetti, che sono rischi sempre in agguato;
  4. dialogare con l’alterità: l’apertura ad altri patrimoni culturali, la conoscenza di fatti ed esperienze differenti, il confronto con opinioni e valutazioni diverse sono fattori che aiutano ad approfondire la realtà storica ed a situarla in uno specifico contesto, in quanto la conoscenza di essa è possibile mediante il dialogo, la relazionalità, l’intersoggettività senza ‘gabbie ideologiche’ precostituite.

2.2 I corpi intermedi: dal collante ‘ideologico’ alla liquidità e al corto-termismo

Nel corso del XX secolo si sono affermate a livello mondiale diverse ideologie, le quali sono state espressioni di differenti ‘concezioni’ del mondo e portatrici di variegati criteri interpretativi della realtà, che sono entrati a far parte del patrimonio culturale di una moltitudine di persone e, perciò, spesso anche dei magistrati chiamati ad interpretare e applicare la legge al caso concreto; si sono avute ‘visioni’ del mondo che poggiavano su alcuni enunciati fondamentali nel senso che si radicavano su idee e principi di fondo, in base ai quali si interpretava la realtà, si valutavano fatti e situazioni, si strutturava la vita di una comunità, si definiva l’ordinamento di uno stato, si individuavano misure e strumenti per risolvere le problematiche del tempo.

In quella fase storica l’associazionismo giudiziario si è strutturato sulla base di collanti culturali, che si identificavano nei principi ispiratori delle diverse ‘concezioni’ del mondo diffuse nella società; molti magistrati si sono riconosciuti in quei gruppi, che traevano ispirazione da quei principi e costituivano i contenitori formali dell’associazionismo giudiziario.

Generalmente i diversi gruppi, tranne eccezioni, avevano alla base una comune ‘visione’ del mondo e un’idea di giurisdizione sagomata su specifici principi e ideali condivisi.

Tuttavia, nel corso del decennio 1980-1990, nella società italiana sono emersi i primi germi di un ponderoso cambiamento, che l’hanno proiettata verso una graduale revisione delle acquisizioni culturali sino ad allora maturate, verso l’elaborazione di idee e approcci innovativi, verso la diffusione di nuove etiche e prassi sotto il forte impulso determinato soprattutto dall’evaporazione di quelle ideologie che sino ad allora avevano dominato la scena mondiale sul piano politico, economico, culturale e sociale; gradualmente è scomparsa -nella coscienza civile e nei vari livelli istituzionali- quella forte spinta propulsiva a realizzare gli obiettivi ideali propugnati da quelle stesse narrazioni ideologiche sino ad allora condivise.

La liquefazione delle ‘ideologie’ ha progressivamente fatto maturare -nella coscienza di gran parte degli uomini- un diverso criterio ispiratore delle relazioni tra persone, tra persone e società, tra società e istituzioni; la ‘liquidità’ è diventata la cifra dominate dei rapporti interpersonali, sociali e istituzionali.

Questo processo storico nel corso degli anni successivi si è diffuso a tal punto, che la società attuale può essere fondatamente considerata:

  • ‘cortotermista’ in virtù del fatto che tende prevalentemente a ‘galleggiare’ sul contingente, a gestire le urgenze ripiegata e curvata sul presente, ad essere quasi ‘ossessionata’ dal vivere il presente, omettendo di pensare e attuare progetti lungimiranti ed intergenerazionali[15];
  • ‘liquida’ sul piano dei principi o della weltanschauung, atteso che i comportamenti e le relazioni interpersonali, sociali, interistituzionali sono connotati dalla fretta ‘adessista’ o ‘puntinista’ dell’hic et nunc, sono caratterizzati da precarietà e instabilità, sono dominati dal ‘carpe diem’ e dalla ‘tirannia del presente’, la quale sgonfia le spinte ideali e annichilisce ogni sforzo di ‘pensare’ il futuro in una prospettiva di lungo termine[16].

In generale le aspettative personali -tranne situazioni circoscritte- sono state la molla precaria e ‘liquida’ dell’adesione alle formazioni intermedie e alle iniziative interne ed esterne da esse realizzate.

E gran parte della stessa magistratura italiana non è rimasta impermeabile a questi profondi e decisivi mutamenti verificatisi nella coscienza sociale.

Infatti, l’A.N.M. ed i gruppi che ne fanno parte -tranne settori circoscritti- hanno progressivamente perso l’originario collante di quei principi, ideali e progetti su cui si fondava l’adesione dei magistrati, sostituendolo con quello più fluido e transeunte dell’utile, del conveniente, del tornaconto del momento.

Inoltre, diverse associazioni di magistrati, pur continuando a declamare formalmente gli ideali di un tempo, si sono appiattite -tranne alcune parti- su prassi ‘adessiste’, sulla gestione ‘puntinista’ del potere, sull’utile reciproco nei rapporti interni ed esterni; una sfuggente ed informe ‘liquidità’ nelle relazioni ha preso il posto degli ideali di un tempo che sembravano granitici e solidi, determinando a cascata un’evidente incapacità di elaborare proposte culturali lungimiranti, efficaci e incisive[17].

L’interesse effimero è gradualmente diventato -tranne eccezioni di una certa rilevanza e ampiezza- il nuovo collante dello ‘stare insieme’ nelle formazioni intermedie, la molla instabile di ondivaghe adesioni ad esse, la causa principale della loro ‘miopia’ e debolezza progettuale verso l’esterno.

2.3 ‘Surfismo’, società del rischio e cultura dell’incertezza

La lettura in profondità dei fenomeni sociali e delle sue dinamiche può essere svolta con metodologie e secondo criteri analitici, che decodificano la traiettoria del progresso tecnico-scientifico e gli effetti che ne derivano sull’uomo e sull’ambiente.

Secondo una prima analisi, è in atto un profondo cambiamento epocale, che sta smantellando sistematicamente tutto l’armamentario culturale politico, economico e culturale ereditato dalla società ottocentesca, romantica e borghese[18].

Questo cambiamento d’epoca determina, nella coscienza sociale, sgomento e paure ascrivibili ad una sorta di ‘invasione’ operata da barbari che -senza cultura né storia- starebbero saccheggiando e depredando la terra.

Si tratta di un cambiamento generato da due fattori:

  • la diffusione massiccia delle innovazioni tecnologiche che comprimono lo spazio e il tempo delle persone ‘digitali’;
  • l’ingresso sullo scenario mondiale di uomini nuovi, che sono portatori di un’energia cinetica indispensabile ad implementare una vera mutazione culturale.

Da ciò derivano l’elaborazione di una diversa idea di esperienza e il mutamento/dislocazione del senso nella stessa esistenza umana; in particolare l’uomo ‘digitale’, saltellando, entra velocemente nelle singole esperienze ed altrettanto velocemente ne esce in una prospettiva di esaltazione massima del ‘movimento in sé’ quale scopo del suo stesso vivere.

La nuova idea di esperienza umana è connotata da prassi e stili frivoli, affettati, superficiali, chattati, perché è fondata sull’apparenza che imprime un nuovo senso alla vita mediante l’estasi commerciale, i vestiti, la moda, la spettacolarità, la semplificazione; si percorrono traiettorie esistenziali che corrono veloci in superficie anziché sui binari logici dello ‘scavo’ in profondità; si prediligono la superficie alla profondità, il piacere alla fatica, il surfismo a ‘pelo d’acqua’ alla pesca ‘subacquea’ in profondità.

In definitiva l’analisi e la riflessione sono sostituite dalla propensione a vivere in maniera epidermica le esperienze di vita in vorticosa sequenza.

Questa mutazione andrebbe accettata, altrimenti si rischierebbe di scivolare in un dannoso ‘scontro di civiltà’ a carattere anche intergenerazionale; pertanto, occorre reagire non costruendo una ‘Grande Muraglia’ tesa a fronteggiare e contenere la tracimazione delle res novae, bensì condividendo un nuovo stile di vita improntato all’attenzione, alla cura e alla vigilanza quotidiane da parte di ciascuna persona nella consapevolezza, tuttavia, che si può salvare non ciò che è tenuto al riparo dall’evoluzione dei tempi, bensì ciò che si lascia mutare perché diventi ciò che è in un tempo nuovo.

Questa analisi sociologica induce a riflettere sul fatto che oggi anche l’esperienza giuridica si svolge spesso in un celere susseguirsi di norme e precetti nuovi i quali -ancor prima di essere pienamente attuati e di vederne gli effetti prodotti in concreto- sono soggetti a loro volta a frettolose modifiche sollecitate magari da urgenze sopravvenute; infatti, non sono rari i casi in cui una nuova legge modifica -anche in maniera estesa e profonda- una legge approvata poco tempo prima senza che si sia avuto il tempo sufficiente per verificarne le ricadute applicative e gli effetti che in concreto avrebbe potuto produrre.

Non è raro, infatti, imbattersi in fenomeni di ‘bulimia legislativa’ che, a cascata, determinano oscillazioni giurisprudenziali e creano vaste sacche di ‘legale incertezza’ per il cittadino comune; anche l’esperienza giuridica spesso diventa epidermica, perché si sviluppa in superficie senza la possibilità di approfondire il dato positivo e conoscerne le concrete ricadute applicative.

Inoltre, l’uso massiccio delle tecnologie, soprattutto in tempo di pandemia che ha indotto a celebrare le udienze da remoto su piattaforme digitali, allenta i rapporti fra le parti del processo e il giudice, rende piuttosto evanescenti i contatti fra gli attori processuali, raffredda quel ‘calore umano’ che solitamente si respira nelle aule d’udienza nei momenti topici del processo.

Secondo una diversa prospettiva sociologica, che tende l’orecchio anche alle problematiche messe in luce dall’ambientalismo, nell’esperienza umana il rischio e l’insicurezza sono non situazioni particolari, eccezionali, circoscritte, future, incerte nell’an, bensì fattori sempre presenti nell’orizzonte della vita quotidiana di ciascuna persona; tutte le persone sono quotidianamente esposte al rischio, perché vivono immerse proprio nella ‘società del rischio’, sicché soltanto la capacità e l’intelligenza di ‘anticipare’ il rischio consente di non trasformare le emergenze sociali in panico generale e le paure collettive in catastrofi globali[19].

Il rischio, che domina la vita sociale e genera paure e bisogni di sicurezza, prefigura una nuova utopia costituita dall’esigenza di cambiare in positivo le modalità e le prassi delle decisioni strategiche protese ad anticiparlo nel presente, al fine di evitare che esso produca crisi e disastri ben maggiori; infatti, il concetto di rischio assume sempre più le problematiche della sua efficace anticipazione nel senso che occorre mettere in conto la sopravvenienza di un pericolo.

A ben riflettere, i rischi sono non delle sconfitte della modernità, ma paradossalmente delle sue vittorie, perché essi nascono dalla crescita troppo rapida, compulsiva e senza regole della moderna economia industrializzata.

Il rischio certamente mette in crisi le più granitiche certezze scientifiche, culturali, economiche e socio-politiche, ma nel contempo offre la possibilità a tutti di produrre cambiamenti e innescare energie nuove nella consapevolezza, però, che è fallace l’idea di progresso lineare e inarrestabile capace un giorno di coinvolgere e liberare tutti dalla precarietà e dal bisogno.

I rischi sono transnazionali, perché tutti gli uomini -al di là delle frontiere che separano gli stati- sono legati da culture e/o sentimenti religiosi, che comunque sottendono un destino comune.

Da ciò consegue che l’uomo ha bisogno di maturare ed acquisire la ‘cultura dell’incertezza’ (C.I.), la quale consiste nella disponibilità a parlare apertamente del modo in cui si affrontano i rischi, a negoziare fra diverse razionalità piuttosto che impegnarsi nella reciproca denuncia, a riconoscere responsabilmente le perdite che -nonostante i progressi compiuti e le precauzioni adottate- continueranno a verificarsi.

Ne consegue che il rischio nella società attuale è parte costitutiva dell’insicurezza collettiva, la quale va accettata come elemento di libertà, che è una delle forme in cui si invera la democrazia e si esplica la scelta tra diverse opzioni; e dall’esercizio delle scelte nasce il cambiamento.

In particolare, i rischi individuali e collettivi sono fattori di stress per le istituzioni, l’esperienza giuridica, l’economica e la politica; saper vivere nella società del rischio significa che tutti coloro, che operano in detti ambiti, devono essere capaci di anticiparlo e fronteggiarlo.

E si rileva che la vita umana -nella società del rischio- è determinata non dalla quantità dei rischi insorti, bensì dalla qualità ed efficacia del loro controllo; ma è evidente, purtroppo, il progressivo collasso della propensione ad istituzionalizzare detto controllo, nonché delle idee guida e dei progetti fondati sulla ‘certezza e razionalità’ delle misure adottate per fronteggiare il rischio.

Ecco perché l’esigenza di controllare i rischi ed i suoi possibili effetti dannosi è al vertice della gerarchia dei valori sociali, prendendo il posto dei principi di libertà ed uguaglianza; infatti, ad esempio, la catastrofe di Cernobyl (1986), il crollo delle Torri Gemelle (2011), i disastri ambientali e climatici sono diventati fattori di paura e di ‘nevrosi collettiva’ a causa proprio dall’inefficacia degli stessi sistemi difensivi e di controllo.

Orbene, è indubbio che detta analisi in chiave sociologica -inforcando le lenti dell’incertezza e della vulnerabilità- è di notevole ausilio per l’esperienza giuridica, allorquando questa si imbatte nelle res novae determinate dalla ‘società del rischio’; anzi, la decodifica della realtà -secondo i parametri culturali del rischio e vulnerabilità- porta l’esperienza giuridica a conoscere l’insufficienza dei propri contenuti, l’inadeguatezza e la precarietà dei propri strumenti e metodi di analisi e approfondimento.

La ‘C.I.’ smantella le certezze formali derivanti da formule legislative e/o da prassi giurisprudenziali, che pretenderebbero -in maniera quasi ‘sacrale’- di risolvere ogni problema e di sciogliere tutti i nodi critici della comunità umana; l’esperienza giuridica vive anche sul limen tra il già e il non ancora, tra acquisizioni consolidate e innovazioni dirompenti, tra passato presente e futuro, tra tutela di diritti ex lege riconosciuti ed aspettative in cerca di legittimazione e protezione.

Le stesse riforme legislative non sempre sono la panacea di tutti i mali, in quanto esse possono dare voce ad esigenze prima latenti o inespresse, le quali a loro volta reclamano ulteriori riconoscimenti e tutele che soltanto una legge di nuovo conio potrebbe assicurare; e così via.

Anche la prassi giurisprudenziale spesso si imbatte in problematiche veramente nuove, che possono essere affrontate -stante l’assenza di una disciplina normativa ad hoc- soltanto mediante il ricorso ai fluidi criteri generali dell’analogia legis o dell’analogia iuris; ma l’applicazione di questi criteri spesso produce ulteriori incertezze/problematiche interpretative ovvero oscillazioni giurisprudenziali, che restituiscono l’immagine di un’esperienza giuridica dinamicamente protesa sempre alla ricerca di nuove strade, di più efficaci strumenti di tutela, di innovativi approcci sul piano sostanziale e/o processuale.

Infine, le stesse riforme dell’ordinamento giudiziario, pur concorrendo a risolvere le criticità venute alla luce negli ultimi anni, potrebbero determinare l’insorgenza di ulteriori problematiche prima inesistenti oppure invisibili, latenti o scarsamente considerate.

Ed è chiaro che l’associazionismo giudiziario, soltanto se elabori adeguati e lungimiranti contributi di riflessione e proposte, può concorrere ad ‘attrezzare’ culturalmente i magistrati, perché sappiano sapientemente affrontare le res novae nella consapevolezza che il diritto e la sua applicazione non sono il frutto di sillogismi formali ed astratti, bensì sono strettamente agganciati all’esperienza umana e sono centrati sui principi costituzionali nazionali ed europei.


[1] L’A.G.M.I., dagli originari 44 soci fondatori, passa a 1.700 aderenti nel 1911 ed a 2.067 aderenti nel 2014 su un totale di magistrati pari a poco più di 4.000, radicandosi soprattutto nella magistratura cd. ‘minore’.

[2] Sulla storia dell’associazionismo giudiziario: A. MENICONI, Storia della magistratura italiana, Il Mulino 2012; E. R. PAPA, Magistratura e politica. Origini dell’associazionismo democratico nella magistratura italiana (1859-1913), Padova, Marsilio 1973; V. VENTURINI, Un “sindacato” di giudici da Giolitti a Mussolini. L’Associazione generale tra i magistrati italiani 1909-1926, Il Mulino 1987.

[3] Sulla storia del Consiglio Superiore della Magistratura, V. A. TORRENTE, Consiglio Superiore della Magistratura, in Enciclopedia del diritto, Milano, Giuffrè, IX, 1961, 328. In questa sede si dà atto che con la legge del 14 luglio 1907 n. 511 è istituito il Consiglio Superiore della Magistratura, il quale è composto soltanto da magistrati della Corte di Cassazione centrale aventi grado non inferiore a quello di Presidente della Corte d’Appello; ha competenze deliberative in materia di promozioni e consultive sulla nomina a magistrati di avvocati e professori, ammissioni e riammissioni, trasferimenti d’ufficio, passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa; non ha competenze in materia disciplinare che spettano -in virtù della legge 24.7.1908 n. 438- ai Consigli di disciplina e alla Corte Suprema disciplinare composta da sei senatori.

[4] Dall’intervista al Guardasigilli, V. E. Orlando, pubblicata sul Corriere d’Italia il 23 agosto 1909.

[5] In tema: G. CANZIO, Le leggi antiebraiche e il ceto dei giuristi, pag. 41; G. NEPPI MODONA, La magistratura e le leggi antiebraiche del 1938, pag. 87; e P. MOROSINI, P. SERRAO d’AQUINO, O. MONACO, La Magistratura nel Ventennio: l’involuzione ordina mentale e i suoi protagonisti, pag. 53, in A. MENICONI – M. PEZZENTI (a cura di) in Razza e inGiustizia. Gli avvocati e i magistrati al tempo delle leggi antiebraiche, edito dall’Istituto Poligrafico dello Stato nel 2018 per conto del C.S.M., C.N.F., Senato della Repubblica, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.

[6] Fra i tanti, si menziona -ad esempio- il giudice Gaetano Azzariti il quale nel 1905 entra in magistratura, nel 1919 è segretario particolare del Ministro Guardasigilli, dal 1938 al 1943 è Presidente del ‘Tribunale della Razza’, dal 1928 al 1943 ricopre l’incarico di Direttore dell’Ufficio Legislativo del Ministero di grazia e giustizia, coopera alla riforma del codice civile e di procedura civile, negli anni 1943-1944 diventa Ministro Guardasigilli nel primo governo Badoglio, dal 1944 al 1946 presta servizio presso l’Ufficio Legislativo anche come consulente del Ministro Guardasigilli Togliatti, nel 1949 è nominato Presidente del Tribunale Superiore delle Acque, nel 1955 è nominato dal Presidente della Repubblica giudice della Corte Costituzionale, ricoprendone l’incarico di Presidente dal 1957 al 1961. Ma si possono ricordare anche i magistrati Ernesto Eula, Giuseppe Lampis, Antonio Manca, Luigi Oggioni, Giovanni Petraccone (da G. NEPPI MODONA, La magistratura e le leggi antiebraiche del 1938, op. cit., 92 e ss.).

[7] Lo ‘spartiacque’ storico tra modello di ‘giudice burocrate’ e modello di ‘giudice costituzionale’ si ha con il Congresso dell’A.N.M. tenutosi a Gardone nel 1965, il quale rappresenta il vero momento di discontinuità rispetto al passato; ma già durante il Congresso dell’A.N.M., tenutosi a Napoli il 1957, si gettano le basi di questa epocale rivoluzione culturale.

[7] M. CARTABIA, Linee programmatiche sulla giustizia, 2021, par. n. 7.

[8] M. CARTABIA, Linee programmatiche sulla giustizia, 2021, par. n. 7.

[9] Il sistema tabellare, che ha i suoi prodromi in una Risoluzione del 1969 e nella Circolare n. 5520/1977 emanate dal C.S.M., è disciplinato prima dalla legge n. 532/1982 e poi dalla legge n. 479/1987, al fine di dare attuazione al principio del giudice naturale precostituito ex lege sancito dall’art. 25, comma 1 Cost. e, conseguentemente, limitare la discrezionalità dei capi degli uffici e tutelare l’indipendenza dei singoli magistrati all’interno dell’ufficio.

[10] Infatti, la Corte di Cassazione a SS.UU. con la storica sentenza del 7 febbraio 1948 distingue le norme Costituzionali fra ‘programmatiche’ e ‘precettive’, precisando che le prime -contrariamente alle seconde- non sono immediatamente applicabili. Inoltre i vertici della Corte di Cassazione criticano la Corte Costituzionale, in quanto questa pretende di svolgere un ruolo politico, allorquando ritiene di sottoporre a giudizio di legittimità anche le leggi emanate prima dell’entrata in vigore della Costituzione; in tema: G. COLLI, La funzione del giudice nella società contemporanea, in Rassegna dei magistrati, 1972.

[11] Documento approvato all’unanimità dal C.D.C. dell’A.N.M. il 13 luglio 2002.

[12] Eric J. HOBSBAWM, Il secolo breve. 1914-1991, Bur 2014.

[13] In tal senso EURISPES, Rapporto Italia 2020.

[14] S. LATORRE, Le “Fake News” al tempo della pandemia, in www.lamagistratura.it 12 ottobre 2021.

[15] G. DE RITA, Prigionieri del degrado, in Corriere della Sera 17 febbraio 2011. In tema: Z. BAUMAN, Il buio del postmoderno, Aliberti 2011; ID., Vite di corsa. Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero, Il Mulino 2009.  

[16] Z. BAUMAN, Futuro liquido. Società, uomo, politica e filosofia, Albo Versorio 2014; ID., Modernità liquida, Laterza 2011; ID., Modernità e ambivalenze, Bollati Borighieri 2010.

[17] G. MASTROPASQUA, L’associazionismo giudiziario: criticità e prospettive, in www.unicost.eu

[18] A. BARICCO, I barbari. Saggio sulla mutazione, Fandango Libri 2006.

[19] U. BECK, La società globale del rischio, Asterios 2018; ID., La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci 2013; ID., I rischi della libertà. L’individuo nell’epoca della globalizzazione, Il Mulino 2012; ID., Conditio humana. Il rischio nell’età globale, Laterza 2011.