La nuova disciplina della trattazione della causa nella Legge delega n. 206/2021: vecchi modelli processuali e tentativi di innovazione

di Nicola Cosentino e Eugenia Italia in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la Costituzione

SOMMARIO: 1. Genesi della riforma e obiettivi del legislatore delegato – 2. L’anticipazione del sistema di preclusioni assertive e probatorie alla fase anteriore all’udienza di prima comparizione e trattazione della causa – 3. Un parziale ritorno a modelli processuali che si ritenevano superati? – 4. Le ordinanze provvisorie di accoglimento: la certezza del diritto e la tempestività della tutela – 5. Conclusioni e proposte per il legislatore delegato tra ritualità e bene della vita.

1- Genesi della riforma e obiettivi del legislatore delegato

Com’è noto l’intervento riformatore di cui alla l. n. 206/2021 scaturisce dall’impellente necessità di raggiungere gli ambiziosi obiettivi di recupero di efficienza dell’apparato giudiziario assunti quali condizioni per il conseguimento di risorse finanziarie europee nell’ambito del c.d. Piano nazionale di resistenza e resilienza.

Uno dei pilastri delle iniziative intraprese dal nostro Paese in attuazione del Piano è costituito proprio dalla riforma del processo civile, ispirata ai principi di semplicità, concentrazione, effettività della tutela, ragionevole durata del processo di cui all’art. 1, 5° comma, lett. a), l. n. 206/2021.

Sulla riscrittura delle regole del processo si ripone, dunque, una parte cospicua delle aspettative di riduzione dello stock di arretrato di cause civili e di abbattimento della durata dei processi.

La numerosità, l’eterogeneità e l’incisività degli interventi legislativi di riforma del processo civile succedutisi – in modo a tratti parossistico – nel corso degli ultimi decenni, senza peraltro ridurre in via risolutiva quei livelli di arretrato e durata dei processi civili ritenuti ancor oggi inaccettabili in sede europea, spiega l’assenza di entusiasmi nell’accogliere le modifiche oggi prospettate.

È massima tralatizia quella secondo la quale, a parità di risorse umane e finanziarie, la modifica dei modelli processuali ha un limitato impatto su obiettivi di maggiore efficienza dell’apparato giudiziario. Oggi, la vera novità dell’approccio riformatore sta nell’avere affiancato alla riforma del processo un’ancor più ambiziosa e innovativa linea d’azione, rappresentata dall’istituzione dell’Ufficio per il processo quale organismo, composto da funzionari appositamente reclutati, di ausilio e supporto dell’azione dei magistrati, in grado, negli auspici dei suoi ideatori, di implementare in modo radicale la produttività degli stessi (sul tema si rimanda a LEOPIZZI, in collaborazione con il Centro Studi “Nino Abbate” di Unità per la Costituzione, Gli addetti all’ufficio per il processo e gli altri nuovi profili professionali previsti dal Progetto Capitale Umano – PNRR. Riflessioni e prospettive, 2021, in www.unicost.eu).

E tuttavia, deve sin d’ora registrarsi la completa assenza di collegamenti tra la nuova riforma del processo civile e l’introduzione, foriera addirittura di un radicale stravolgimento del tradizionale modo di lavorare del giudice, dell’Ufficio per il processo. Si vuole segnalare, in particolare, come gli ausiliari dell’Ufficio per il processo non assumano alcun ruolo tra i formali attori del nuovo processo civile e che il legislatore della riforma non abbia sentito in alcun modo la necessità di disciplinare sul piano processuale il contributo di tali figure, per altri versi ritenuto decisivo al punto da preferirlo all’alternativa di un semplice incremento delle piante organiche dei magistrati. Ciò si spiega per la totale assenza di proiezione “esterna” dell’attività degli addetti all’Ufficio per il processo, di carattere esclusivamente ausiliario e preparatorio e di rilievo meramente “interno”.

Da questo punto di vista, allora, non si registrano sinergie tra novella del processo civile e apporto del nuovo Ufficio per il processo, con la conseguenza che la capacità del nuovo modello processuale di incidere sulla rapidità e sulla efficacia dei processi civili dipenderà in via esclusiva dalla bontà delle scelte adottate per regolare i diversi snodi del processo stesso.

2- L’anticipazione del sistema di preclusioni assertive e probatorie alla fase anteriore all’udienza di prima comparizione e trattazione della causa

La scelta di fondo che contraddistingue il modello del nuovo rito di cognizione ordinaria davanti al tribunale, destinato ad operare sia nelle cause monocratiche che in quelle collegiali, va certamente individuata nell’anticipazione della definizione del thema decidendum e del thema probandum alla fase anteriore all’udienza di prima comparizione, nell’idea che il primo contatto tra le parti e il giudice istruttore debba avvenire solo quando la disclosure dei fatti di causa e dei mezzi di prova degli stessi è stata piena e completa.

La direttiva fissata dal legislatore delegante sulle nuove modalità di trattazione della causa è sufficientemente precisa da non lasciare dubbi sulla scansione delle attività e facoltà processuali delle parti in questa fase e sulla sequenza serrata delle preclusioni che, man mano che si avvicina l’udienza, restringono sempre più l’ambito di ammissibilità delle attività assertive e di deduzione di prove delle parti.

In sostanza si assiste allo slittamento dell’attuale sistema di preclusioni nella fase compresa tra il deposito dei rispettivi atti introduttivi delle parti (atto di citazione e comparsa di risposta) e l’udienza, cosicché le parti giungono alla prima comparizione avendo già completato le rispettive deduzioni difensive.

La direttiva di cui alla lettera f) del comma 5 dell’art. 1 della Legge delega, contempla uno scambio di memorie “incrociate” che si snoda nel lasso temporale tra il deposito della comparsa di risposta del convenuto e la prima udienza, imponendo una dilatazione del termine a comparire di cui all’art. 163 bis c.p.c. al fine di contenere l’articolato svolgimento delle difese delle parti (dilatazione richiesta esplicitamente, anche con riguardo al termine di costituzione dell’attore, dalla direttiva di cui alla successiva lettera g) della norma in esame).

A differenza di quanto previsto dall’attuale sistema di preclusioni delineato dal vigente art. 183, 6° comma, c.p.c., nel quale ad entrambe le parti viene assegnato un identico termine per il compimento di identiche attività, i termini assegnati per il deposito delle memorie integrative e i contenuti di queste sono differenziati per ciascuna parte.

Un primo termine è riservato, in via esclusiva, all’attore e al deposito di una prima memoria con la quale egli potrà, a pena di decadenza, proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni del convenuto e chiedere di essere autorizzato a chiamare un terzo ai sensi degli articoli 106 e 269, terzo comma, del codice di procedura civile se l’esigenza è sorta dalle difese del convenuto, nonché in ogni caso precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate e, a pena di decadenza, indicare i nuovi mezzi di prova e le produzioni documentali.

La memoria vede concentrarsi, dunque, le facoltà processuali oggi consentite in parte nella prima udienza di trattazione (attuale art. 183, 5° comma, c.p.c.) e, in altra parte, nella prima (attività di mera emendatio di domande ed eccezioni già proposte) e nella seconda memoria ex art. 183, 6° comma, c.p.c. (deduzione di mezzi di prova).

Segue la previsione di una successiva memoria del convenuto, con la quale questi può modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate e, a pena di decadenza, indicare i mezzi di prova ed effettuare le produzioni documentali. Si tratta delle attività oggi consentite nel termine assegnato per la memoria di cui al n. 1 e, quindi, nel termine assegnato per la memoria di cui al n. 2 del 6° comma, dell’art. 183 c.p.c..

Infine, le parti possono replicare, entro un ulteriore e successivo termine, alle domande ed eccezioni formulate nelle memorie integrative e indicare la prova contraria, attività oggi consentita in parte nella seconda memoria e, in altra parte, nella terza memoria ex art. 183, 6° comma, c.p.c..

Appare evidente la sovrapposizione tra definizione del thema decidendum e definizione del thema probandum, considerato che la maturazione di preclusioni istruttorie avverrà quando ancora non saranno definitivamente cristallizzati i fatti da provare ovvero prima che sia precluso introdurre allegazioni nuove, quantomeno a confutazione di quanto dedotto dalla controparte. Si tratta di una criticità non estranea anche all’attuale sistema di preclusioni di cui al citato art. 183, 6° comma, c.p.c. e rimediabile, se non altro, attraverso l’istituto della rimessione in termini di cui all’art. 153, 2° comma, c.p.c., salvo un opportuno intervento del legislatore delegato sul punto.

L’esigenza che, sin dagli atti introduttivi, le parti assumano una posizione precisa sui fatti di causa è affidata alle direttive di cui alle lettere b) ed e) del comma 5 dell’art. 1, secondo cui attore e convenuto dovranno esporre in modo “chiaro e specifico” i fatti e le rispettive ragioni, mentre non si registra alcuna direttiva in ordine al discusso principio di sinteticità degli atti processuali, invocato quale strumento utile ai fini della semplificazione e accelerazione processuale.

3- Un parziale ritorno a modelli processuali che si ritenevano superati ?

Ad un primo sguardo la disciplina delle memorie integrative incrociate disegnata dalla Legge delega richiama lo scambio di memorie disciplinato dagli artt. 6 e 7, d.lg. n. 5/2003 (recante la disciplina del c.d. rito societario), sia pure in un contesto processuale differente (l’udienza è fissata sin da subito dall’attore nell’atto di citazione, secondo lo schema tipico dell’introduzione del giudizio mediante citazione a comparire a udienza fissa) e con un significativo ridimensionamento (le memorie integrative dell’odierna riforma sono solo quattro, due per ciascuna parte).

Non può mancarsi di ricordare che quel modello processuale, impregnato del mito di una prima udienza “a carte scoperte” che avrebbe visto l’ingresso del giudice istruttore su una scena definitivamente allestita dalle parti, uniche vere registe della trattazione della causa e della definizione del suo oggetto attraverso lo scambio di numerose memorie di replica e controreplica al di fuori del perimetro di controllo e direzione del processo riservato all’istruttore, risultava fino ad oggi dismesso e abbandonato dal legislatore (in virtù dell’abrogazione espressa disposta dall’art. 54, 5° comma, l. n. 69/2009, in vista della c.d. “semplificazione dei riti”).

Non è facile individuare le ragioni che hanno indotto il legislatore delegante a riesumare – sia pure in formato “ridotto” – tale modello processuale, dopo averlo archiviato ritenendolo forse, a distanza di meno di sei anni dalla sua entrata in vigore, non in linea rispetto a quegli stessi obiettivi di semplicità, concentrazione, effettività della tutela, ragionevole durata del processo che la Legge delega del 2021 afferma oggi come ispiratori della riforma (CHIARLONI, Il rito societario a cognizione piena: un modello processuale da sopprimere, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, 865).

Si consideri che l’art. 70 ter disp. att. c.p.c., introdotto dall’art. 2, comma 3, lett. a), d.l. n. 35/2005, conv. con modif. dalla l. n. 80/2005, aveva previsto la possibilità che le parti concordassero l’assoggettamento del processo di cognizione davanti al tribunale alla disciplina di cui al d.lg. n. 5/2003. Tale facoltà, anticipatrice di una generalizzazione del modello del rito societario per la disciplina del processo di cognizione, non ha avuto sostanzialmente alcun seguito nella prassi e tale insuccesso potrebbe indurre a ritenere che quel modello non fosse ritenuto dall’avvocatura idoneo a regolare adeguatamente il processo civile.

Certamente, non può negarsi l’apprezzabilità dell’intento di eliminare udienze inutili e di attivare l’intervento del giudice solo quando le parti hanno cristallizzato l’oggetto del giudizio, al fine di evitare spreco di risorse processuali.

E, tuttavia, il deposito di diverse memorie che si aggiungono agli atti introduttivi, unitamente al decorso di un ben più lungo termine a comparire, rischiano di determinare un inutile appesantimento del processo e un cospicuo allungamento dei suoi tempi in tutti quei casi, non infrequenti, in cui sussistono ostacoli alla regolare progressione del procedimento. Si pensi, in particolare, all’emersione, all’esito della prima udienza, del difetto di integrità del contraddittorio, della necessità di rinnovo della notifica dell’atto introduttivo a parti non costituitesi in giudizio e di altre irregolarità che impongano la regressione del processo e la reiterazione dello scambio di memorie, ovvero ai casi di constatazione dell’incompetenza o del difetto di giurisdizione del giudice adito, con definizione del processo attraverso una decisione in rito allo stato degli atti (si veda oltre nel testo nonché la nota critica di BIAVATI, Note sullo schema di disegno di legge delega di riforma del processo civile, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 2015, 209).

Quanto la riproposizione di tale modello sarà funzionale al conseguimento degli obiettivi di efficienza del processo inseguiti dall’ennesimo intervento riformatore, può pertanto sin d’ora farsi oggetto di riserve, in attesa di conoscere le scelte di dettaglio del legislatore delegato.

4.      Le ordinanze provvisorie di accoglimento: la certezza del diritto e la tempestività della tutela.

Come sin qui riferito, l’obiettivo del legislatore è quello di “efficientare” il processo civile; ebbene esso può dirsi centrato a metà.

La scelta del rito di cognizione ordinario con una integrale “discovery” cartacea anteriormente alla prima udienza può ritenersi una scelta preferibile sia rispetto al rito sommario, che vista la sua estrema semplificazione e l’assenza di preclusioni, non consente un contradditorio “ordinato” ed esaustivo,  sia rispetto al rito del lavoro, che prevede preclusioni rigidissime e limita fortemente le precisazioni  ovvero modifiche della domande, ammesse entro certi limiti, non proprio risicati ( cfr. Cass, Sez. Unite, 13.09.2018, n. 22404, e sia consentito rinviare ad ITALIA, Dall’azione contrattuale all’arricchimento ingiustificato: alternatività per connessione, in Nuova Giur. Civ. Comm. 2019, p. 249 e ss.).

La scelta presenta alcuni svantaggi connessi alla circostanza che il giudice entra in scena dopo che le parti si sono scambiate almeno tre memorie, con il rischio di dover ordinare la rinnovazione delle notificazioni, perché viziate o perché il litisconsorzio non è integro. Poi vi è il problema di coordinamento con l’art. 269 c.p.c.: nel caso di chiamata in causa da parte del convenuto il giudice dovrà spostare l’udienza, rispettando i termini di cui all’art. 163 bis c.p.c., ovvero nel caso di chiamata in causa da parte dell’attore, il giudice deve autorizzare l’istante.

Il legislatore, consapevole della necessità del coordinamento, nel punto h) delega «ad adeguare la disciplina della  chiamata  in  causa  del  terzo  e dell’intervento volontario ai principi di cui alle lettere  da  c)  a g)».

Non si può non sottolineare che la chiamata in causa del terzo o il suo intervento, circostanze molto frequenti nei processi civili, faranno saltare lo schema della discovery in quanto costringeranno il giudice a fare quel che fa già oggi: verificare immediatamente la regolarità delle notificazioni ovvero, nel caso di autorizzazione alla chiamata in causa da parte dell’attore, svolgere un esame delle domande sin a quel momento proposte dalle parti.

Se statisticamente la circostanza avverrà così frequentemente, allora viene da interrogarsi se non sia il caso di lasciare che il giudice, come avviene oggi, governi il contradditorio delle parti sin dai primi atti.

Si rischia che l’eccezione (verifica immediata delle notificazioni) diventi la regola; oppure si potrà immaginare qualche modalità di automatismo nelle chiamate del terzo, e una verifica complessiva del giudice alla prima udienza dopo il deposito di tutte le memorie, con il rischio che la rinnovazione delle notificazioni diventi un affare davvero gigantesco.

Ad avviso di chi scrive, occorre incidentalmente stimolare la riflessione sul tema delle notificazioni, che è in realtà il vero cruccio inconfessato del processo italiano; essa vorrebbe premiare la conoscibilità e in taluni casi la conoscenza effettiva della pendenza giudiziaria, ma per le modalità, ancora un po’ barocche, imposte dalla normativa processuale, si incaglia nelle ricerche improbabili, difficoltose, spesso di soggetti, quali gli addetti postali, nemmeno particolarmente qualificati per l’incombente. Si potrebbe ipotizzare di sostituire la notificazione con sistemi avanzati di comunicazione digitale certificata, se i singoli cittadini, inseriti in sistemi di identificazione digitale (SPID, CIE e quant’altro), fossero più attrezzati dal punto di vista telematico. Non sembra così in dissonanza con il piano di resilienza europea una politica di maggior informatizzazione dei cittadini sia in termini di educazione digitale sia sotto il profilo di incentivazione all’utilizzo di mezzi di identificazione e comunicazione digitale. Non sarebbe una privazione di garanzie processuali, ma la loro declinazione secondo modalità diverse e nuove, consone ai tempi in cui viviamo, alle nostre abitudini sociali.

Lo schema procedimentale previsto dal legislatore ha però il merito di preservare l’oralità del processo (non scontato dopo due anni di trattazione scritta «emergenziale») e di voler presentare al giudice un compendio completo per consentirgli di elaborare una proposta conciliativa alle parti ovvero di poter comprendere se la causa è già matura per la decisione.

Fin qui si l’impressione che il legislatore voglia accelerare il processo, ed anche di «semplificarlo» al netto di rischio del rinnovo delle notificazioni. Tuttavia, questa accelerazione potrebbe subire una brusca frenata ovvero incontrare ostacoli atti a far percorrere al processo strade estremamente tortuose contro ogni logica di economia processuale.

La lettera o) al punto 1) prevede che, nel corso del giudizio di primo  grado,  nelle controversie di competenza del tribunale che hanno ad oggetto diritti disponibili il giudice possa, su istanza  di  parte,  pronunciare  ordinanza provvisoria di accoglimento provvisoriamente esecutiva, in tutto o in parte, della  domanda  proposta,  quando  i  fatti  costitutivi  sono provati e le difese del convenuto appaiono manifestamente infondate.

Al punto 2 successivo si precisa che l’ordinanza di   accoglimento   è reclamabile   ai   sensi dell’articolo 669-terdecies del codice  di  procedura  civile  e  non acquista efficacia di  giudicato  ai  sensi  dell’articolo  2909  del codice civile, né può avere autorità in altri processi.

Non è la sede per soffermarsi sulle criticità anche organizzative che questa previsione normativa comporta e pertanto si rinvia alla lettura delle considerazioni svolta da DORO, Il disegno di legge delega alla riforma del processo civile: riflessioni e proposte, in www.lamagistratura.it.

Tuttavia, non si può sottacere un’incongruenza: se i fatti costitutivi sono provati e le difese sono infondate perché prevedere un’ordinanza solo provvisoria, per giunta reclamabile, anziché come avviene nel processo amministrativo, la possibilità, già all’esito della prima udienza, in occasione della decisione del cautelare, di provvedere con sentenza semplificata (cfr. art. 60 del codice del processo amministrativo)?

Un’occasione persa per incentivare l’economia processuale in quanto il processo dovrà essere quanto meno rinviato per la discussione ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., se il giudice ritiene di poterlo definire non provvisoriamente.

Peraltro, è un’ordinanza piuttosto “debole” rispetto ad altre analoghe presenti nell’ordinamento processuale civile.

L’ordinanza pronunciata ai sensi dell’art. 648 c.p.c. resa in corso di causa sembra avere la stessa funzione “anticipatoria” e “stabilizzatrice” di quella prevista dalla legge delega in commento. Riprendendo le considerazioni svolte dalla Corte Cost. con la sentenza n. 306 del 2007 che, in conformità alla propria giurisprudenza (ordinanza n. 428 del 2002), ha dichiarato infondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 648 c.p.c. in punto di non impugnabilità e non modificabilità, il legislatore ha preteso una particolare esaustività dell’atto di opposizione, onerandolo di una forte diligenza, sicché sull’opponente tendenzialmente si trasferisce, quando l’apprezzamento delle sue ragioni non sia immediatamente delibabile ma richieda la trattazione della causa, l’onere della durata del processo di cognizione attraverso l’anticipazione del momento dell’efficacia rispetto a quello del pieno accertamento.

La stessa funzione svolge l’ordinanza in commento, che non ha natura cautelare, ma anticipatoria; e peraltro una discovery così seria e penetrante sin dalla fase anteriore alla prima udienza di trattazione evoca lo stesso onere di diligenza per le parti e meriterebbe uguale trattamento.

La stabilizzazione dell’anticipazione di giudizio poteva essere diversamente disegnata dal legislatore delegante non solo eliminando la reclamabilità, così come previsto dalla disciplina di cui all’art. 648 c.p.c., ma anche alternativamente, strutturando l’introduzione del processo di cognizione come un vero e proprio référé, privo di autorità di giudicato, provvisorio, ma destinato ad un’efficacia nel tempo potenzialmente illimitata, ad una sorta di “stabilità di fatto”, che può tramutarsi anche in “stabilità di diritto” in ragione dell’inerzia delle parti e del maturarsi nel frattempo di prescrizioni e decadenze (BONATO, Tutela anticipatoria di urgenza e sua stabilizzazione nel nuovo c.p.c. brasiliano: comparazione con il sistema francese e con quello italiano, in www.judicium.it). Lungi dall’essere una proposta bizzarra, la bifasicità è presente nel sistema in materia di tutela del possesso, dove la prosecuzione del processo, una volta pronunciato l’interdetto, è rimessa dall’art. 703 c.p.c. ad un atto di impulso delle parti interessate.

Sarà comunque difficile in sede di legislazione delegata non prevedere l’ultrattività dell’efficacia esecutiva delle ordinanze pronunciate, in ipotesi di estinzione del processo, così come previsto per quelle rese ai sensi dell’art. 186 ter c.p.c. e dell’art. 189 disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 708 c.p.c.; pertanto non solo soltanto a pronunce prodromiche a condanne, come nel caso dell’art. 186 ter c.p.c. ma anche in relazione a pronunce con contenuto di accertamento e costitutivo, come in quella regolatrici la crisi familiare di cui all’art. 708 c.p.c.

5.      Conclusioni e proposte per il legislatore delegato tra ritualità e bene della vita.

In conclusione, possiamo formulare due auspici per l’efficientamento del rito di cognizione.

Si abbandoni la logica dello standard del giudizio probatorio pieno, e della sacralità del giudicato, come momento risolutivo del bisogno di giustizia, in quanto non è certo che una cognizione piena pervenga alla verità storica (il processo restituisce comunque una verità formale), e poi molto spesso solo la tutela tempestiva è effettiva tutela del bene della vita.

In secondo luogo, si pervada la società e le istituzioni di una cultura informatica consapevole, di una educazione digitale autentica; fluttuiamo ogni giorno nel virtuale, per lavoro o per svago, l’economia percorre ormai le strade della blockchain: la sfida è che lo strumento informatico diventi sicuro e idoneo a conferire certezze anche informative. Se la comunicazione in senso stretto deve rimanere riservata alle relazioni umane, l’informazione di natura “istituzionale” tra pubbliche amministrazioni, ovvero tra amministrazioni e cittadini, ovvero tra cittadini stessi, può circolare in modo sicuro e certo tramite bit. Esonerati da incombenti notificatori, per i quali si confida che il legislatore configuri modalità più attuali e snelle, l’ufficiale giudiziario potrà occuparsi di esecuzione mobiliare o immobiliare, e il postino…di consegnare in serenità lettere e pacchi!

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