La prescrizione: profili costituzionali e intertemporali

procedura penale

di Angelo Salerno

Il presente articolo affronta le principali questioni che l’istituto della prescrizione ha posto nella più recente giurisprudenza, nazionale e sovrannazionale, dando altresì atto delle recenti modifiche che la disciplina della prescrizione ha subito, per effetto della Legge n. 103 del 2017, e dei problemi intertemporali e di legittimità costituzionale che ne sono derivati.

SOMMARIO: 1. Inquadramento generale; 2. La prescrizione; 3. Sospensione della prescrizione; 4. Interruzione della prescrizione.

1. Inquadramento generale

Ad un fatto tipico, antigiuridico e colpevole può non conseguire una sentenza di condanna nei confronti del suo autore.

Qualora infatti si sia in presenza dei casi di reato impossibile e immunità, nonché di sussistenza di una causa di non punibilità in senso stretto o esimente, dovrà pervenirsi ad una sentenza di assoluzione, ai sensi dell’art. 530 c.p.p., “perché l’imputato non è punibile”, indicandone la ragione in dispositivo (ad esempio, “per particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131 bis c.p.”); può inoltre accadere che l’azione non dovesse essere iniziata ovvero proseguita, con conseguente pronuncia di una sentenza di non doversi procedere, ai sensi dell’art. 529 c.p.p.

Un’ulteriore e assai frequente evenienza è infine quella disciplinata dall’art. 531 c.p.p., ai sensi del quale “se il reato è estinto, pronuncia sentenza di non doversi procedere enunciandone la causa nel dispositivo[1].

Il Codice penale, al pari di alcune norme penali di settore, prevede infatti una serie di circostanze, in presenza delle quali il reato si estingue, al pari della responsabilità penale del reo.

Si tratta di un fenomeno analogo a quello dell’estinzione del rapporto obbligatorio in materia civile, che si verifica in presenza di una delle cause di cui agli artt. 1230 ss. c.p. (in ordine, per novazione, remissione del debito, compensazione, confusione e impossibilità sopravvenuta) ovvero di prescrizione del diritto di credito (ai sensi dell’art. 2946 c.c.).

Al pari di quanto accade con riferimento all’obbligazione e al relativo diritto di credito, infatti, anche nel diritto penale il reato integrato dalla condotta tipica, antigiuridica, colpevole e punibile del reo, cessa di esistere, impedendo al giudice di pervenire ad una sentenza definitiva di condanna.

Occorre tuttavia precisare che, come evidenziato da autorevole dottrina[2], l’espressione “estinzione del reato” non deve essere fraintesa, posto che in presenza di una delle cause estintive individuate dal legislatore il fatto storico non può che rimanere invariato e, anche sul piano giuridico, il reato che sia stato accertato può continuare a produrre effetti.

Si pensi al disposto dell’art. 170 c.p., che chiude il Capo I del Titolo VI del Libro I del Codice, dedicato alle cause di estinzione del reato, ai sensi del quale “Quando un reato è il presupposto di un altro reato, la causa che lo estingue non si estende all’altro reato”, sicché, ad esempio, il delitto presupposto di furto, quand’anche estinto, continua ad assumere rilevanza ai fini del delitto di ricettazione della relativa refurtiva.

Ai sensi del comma secondo dell’art. 170 c.p., inoltre, “La causa estintiva di un reato, che è elemento costitutivo o circostanza aggravante di un reato complesso, non si estende al reato complesso”, con riferimento alle ipotesi disciplinate dall’art. 84 c.p.

Infine, l’ultimo comma dell’articolo in esame prevede che l’aggravante della c.d. connessione teleologica, di cui al già esaminato art. 61, comma primo, n. 2, c.p. che, come ormai noto, si fonda sul nesso strumentale tra due reati dei quali l’uno sia stato commesso per realizzare l’altro o per ottenerne il profitto o l’impunità, continua ad operare nei confronti del reo, nonostante “L’estinzione di taluno fra più reati connessi”.

Un’ulteriore conferma della produzione di effetti del reato, anche a seguito di estinzione, è inoltre rinvenibile nella disciplina dettata dall’art. 106 c.p., ai sensi del quale “Agli effetti della recidiva e della dichiarazione di abitualità o di professionalità nel reato, si tien conto altresì delle condanne per le quali è intervenuta una causa di estinzione del reato o della pena”, precisando tuttavia che “Tale disposizione non si applica quando la causa estingue anche gli effetti penali”. Ne deriva che, fuori da quest’ultima ipotesi, il reato estinto continua ad assumere rilevanza giuridica.

Infine, assume rilievo in tal senso il disposto dell’art. 198 c.p., ai sensi del quale “L’estinzione del reato o della pena non importa l’estinzione delle obbligazioni civili derivanti dal reato”; la disposizione in esame precisa tuttavia, che vengono invece meno “le obbligazioni indicate nei due articoli precedenti” e cioè, nell’art. 196, con riferimento all’obbligazione civile per le multe e le ammende inflitte a persona dipendente, e nell’art. 197 c.p., che disciplina invece l’obbligazione civile delle persone giuridiche per il pagamento delle multe e delle ammende, in quanto derivanti o comunque dipendenti dalla condanna alla pena pecuniaria.

Deve pertanto concludersi nel senso che l’estinzione del reato determina principalmente il venir meno della responsabilità penale del reo per il fatto tipico, antigiuridico, colpevole e punibile, dallo stesso commesso, e la conseguente rinuncia da parte dello Stato a perseguire penalmente il reo.

La ragione di tale rinuncia varia a seconda della causa di estinzione del reato che si verifichi e può attenere al venir meno del soggetto responsabile, come nel caso di morte del reo, ovvero per sopravvenuta mancanza di interesse della persona offesa alla punizione del reo, come nel caso di remissione di querela, o, ancora, alla meritevolezza del comportamento tenuto dal reo, che abbia ad esempio spontaneamente accettato e dato esecuzione alla pena, come nel caso di oblazione, o si sia astenuto dal commettere nuovi reati, rispettando le prescrizioni ricevute, come nei casi di sospensione condizionale della pena o di messa alla prova, o abbia riparato il danno cagionato alla persona offesa, come previsto dal nuovo art. 162 ter c.p., ovvero, infine, alla volontà del legislatore, animato spesso da intenti di deflazione processuale e di gestione della popolazione carceraria, come nel caso di amnistia.

2. La prescrizione

Tra le cause di estinzione del reato di più frequente applicazione, nonché oggetto di una recente e incisiva riforma, attuata con legge n. 103 del 2017[3], c.d. riforma Orlando, e dell’attenzione della giurisprudenza nazionale e sovrannazionale, rientra quella della prescrizione, di cui agli artt. 157 ss. c.p.

La prescrizione, ai sensi dell’art. 157 c.p., “estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria”.

Il decorso del tempo incide infatti sull’attualità dell’affermazione di responsabilità dell’imputato e, nel contempo, sull’efficacia della pena che ne conseguirebbe; la funzione rieducativa della pena sarebbe infatti compromessa e potrebbe risultare inutile se l’affermazione di colpevolezza del reo e l’esecuzione della pena irrogata intervenissero a distanza di anni dal fatto di reato, dal momento che la stessa persona condannata potrebbe essere diversa rispetto a quella che si sia resa responsabile del reato, perché mutata nel tempo nel suo modo di essere e nella sua condotta di vita.

Parte della dottrina sottolinea inoltre che le lungaggini processuali cui la giustizia penale, per carenza di strumenti e personale, è purtroppo soggetta, non dovrebbero ricadere sull’imputato che, ai sensi del comma secondo dell’art. 27 Cost., si presume innocente fino a sentenza definitiva di condanna; su quest’ultimo, infatti, il protrarsi nel tempo dell’accusa di aver commesso un reato e l’attesa di una pronuncia definitiva, determinano effetti anche devastanti sulla sua sfera personale e sulla sua vita di relazione, familiare e sociale, tali da indurre parte della dottrina a definire il processo stesso una “pena”.

Il legislatore del 1930 ha pertanto previsto che, fatta eccezione “i reati per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo, anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti” (che ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 157 c.p. non si estinguono per prescrizione), il decorso del tempo estingue il reato, stabilendo i termini entro cui debba pervenirsi ad una sentenza definitiva di condanna.

La prescrizione è stata quindi disciplinata come causa di estinzione del reato, assumendo pertanto carattere sostanziale – come evidenziato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 393 del 2006 – a differenza di quanto previsto dal previgente Codice del 1889, che all’art. 91 disponeva che “La prescrizione, salvo i casi nei quali la legge disponga altrimenti, estingue l’azione penale”, conferendo così all’istituto natura processuale.

La previgente disciplina dettata dall’art. 157 c.p. prevedeva una pluralità di termini di prescrizione, la cui durata era connessa alla pena edittale prevista per ciascun reato, dividendoli per scaglioni.

L’attuale disciplina dei termini di prescrizione individua invece un termine minimo di prescrizione, che viene fissato in sei anni per i delitti e in quattro per le contravvenzioni, prevedendo che, ove la pena massima prevista per il reato risulti superiore, si debba far riferimento a quest’ultima per individuare la durata della prescrizione.

Pertanto, se un delitto è punito con una pena detentiva che nel massimo sia inferiore o pari ai sei anni, ovvero con una pena pecuniaria, troverà applicazione il termine residuale di cui al comma primo dell’art. 157 c.p.; quando invece il massimo edittale superi i sei anni, dovrà farsi riferimento alla durata della pena per individuare il termine di prescrizione.

I successivi commi dell’art. 157 c.p. disciplinano il computo dei termini[4] di prescrizione e la loro determinazione, prevedendo che “Per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per il reato consumato o tentato”; occorre dunque far riferimento alla pena edittale e non a quella che sia stata irrogata in giudizio o che il giudice ritenga di irrogare in concreto; qualora inoltre l’imputato sia stato accusato di aver commesso il delitto in forma tentata, dovrà farsi riferimento alla pena massima prevista per il delitto, ridotta nella misura minima di un terzo, ai sensi dell’art. 56 c.p.

Il comma secondo dell’articolo in esame precisa, al riguardo, che il giudice, nel determinare il periodo necessario perché maturi la prescrizione, non deve “tener conto della diminuzione per le circostanze attenuanti e dell’aumento per le circostanze aggravanti, salvo che per le aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale, nel qual caso si tiene conto dell’aumento massimo di pena previsto per l’aggravante”.

La norma fa dunque riferimento alle circostanze aggravanti appartenenti alle categorie di cui all’art. 63, comma terzo, c.p. e, in particolare, alle c.d. circostanze aggravanti autonome (che, lo si rammenta, comportano l’irrogazione di una pena di specie diversa rispetto a quella prevista per il reato non circostanziato) e a quelle ad effetto speciale (che comportano un aumento di pena superiore ad un terzo rispetto a quella edittale prevista per il reato non circostanziato).

Il comma terzo dell’art. 157 c.p. esclude inoltre che possa trovare applicazione il bilanciamento delle circostanze attenuanti e aggravanti, previsto dall’art. 69 c.p., con la conseguenza che il giudice dovrà fare riferimento all’aumento o alla diminuzione prevista dalle suddette circostanze aggravanti autonome o ad effetto speciale, senza tener conto delle altre circostanze del reato.

È infine previsto, ai sensi del comma quarto, che “Quando per il reato la legge stabilisce congiuntamente o alternativamente la pena detentiva e la pena pecuniaria, per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo soltanto alla pena detentiva”; la pena pecuniaria, anche se prevista congiuntamente a quella detentiva, non sortisce alcun effetto sul termine di prescrizione.

I termini di prescrizione, così individuati, sono destinati ad essere raddoppiati, ai sensi del comma sesto dell’art. 157 c.p., per una serie di reati ritenuti dal legislatore di maggiore gravità e allarme sociale ovvero in ragione di esigenze di ordine probatorio.

La ratio di tale raddoppiamento dei termini di prescrizione è stata tuttavia ritenuta insussistente con riferimento al delitto di incendio colposo, di cui all’art. 449 c.p., richiamato nel testo del comma sesto dell’art. 157 c.p.; con sentenza n. 143 del 2014, la Corte Costituzionale ha quindi dichiarato l’illegittimità della norma “nella parte in cui prevede che i termini di cui ai precedenti commi del medesimo articolo sono raddoppiati per il reato di incendio colposo (art. 449, in riferimento all’art. 423 del codice penale)[5].

Nella motivazione della citata sentenza si rileva infatti come “il raddoppio del termine di prescrizione del delitto di incendio colposo non possa essere in alcun modo giustificato, nel raffronto con il trattamento riservato all’omologa figura dolosa, facendo leva su considerazioni legate al grado di allarme sociale”, evidenziando nel contempo che “Èmanifestamente insostenibile, perchécontrario a logica, che un fatto criminoso – nella specie, un incendio – causato per colpa, alla cui base si pone invariabilmente un semplice difetto di attenzione, di prudenza, di perizia o di osservanza di regole cautelari (art. 43 cod. pen.), “resista all’oblio”, nella coscienza sociale, molto più a lungo del medesimo fatto di incendio causato intenzionalmente, suscettibile di collocarsi in contesti criminali ben più allarmanti, caratterizzati dal ricorso ad attività intimidatrici o di ritorsione”.

Del pari, si rileva che “La registrata anomalia sistematica non può trovare giustificazione neppure in considerazioni di ordine probatorio”, così confermando la duplice ratio della disposizione in esame, legata alla gravità del reato commesso e alle esigenze di carattere probatorio legate al suo accertamento, entrambe carenti con riferimento a detta fattispecie; alle stesse conclusioni, secondo parte della dottrina, dovrà pervenirsi anche in relazione al delitto di omicidio (colposo) stradale, di cui all’art. 589 bis c.p., introdotto tra i delitti con prescrizione raddoppiata, a seguito della legge 23 marzo 2016, n. 41.

Ai sensi dell’art. 158 c.p., il termine di prescrizione del reato, determinato a norma dell’art. 157 c.p., decorre “per il reato consumato, dal giorno della consumazione; per il reato tentato, dal giorno in cui è cessata l’attività del colpevole; per il reato permanente, dal giorno in cui è cessata la permanenza”. Il diesa quo della prescrizione resta tale anche quando si tratti di reati punibili a querela, istanza o richiesta, a nulla rilevando le relative condizioni di procedibilità.

Diversamente, ove sia prevista una condizione di punibilità, “il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata”; così, ad esempio, i termini di prescrizione del delitto di incesto decorreranno dal momento del pubblico scandalo e non da quello della condotta criminosa.

Riguardo l’individuazione del dies a quo del termine di prescrizione, il comma 10 dell’art. 1 della citata legge n. 103 del 2017, nel dare attuazione alla Convenzione di Istanbul, contro la violenza nei confronti delle donne, ratificata dall’Italia con la legge 27 giugno 2013, n. 77, ha aggiunto un ultimo comma all’art. 158 c.p., ai sensi del quale “Per i reati previsti dall’articolo 392, comma 1-bis, del codice di procedura penale, se commessi nei confronti di minore, il termine della prescrizione decorre dal compimento del diciottesimo anno di età della persona offesa, salvo che l’azione penale sia stata esercitata precedentemente. In quest’ultimo caso il termine di prescrizione decorre dall’acquisizione della notizia di reato”.

L’individuazione dei reati di riferimento è stata dunque affidata al rinvio all’art. 392, comma 1 bis, c.p.p., che disciplina i casi di incidente probatorio, con particolare riferimento ai “procedimenti per i delitti di cui agli articoli 572, 600, 600-bis, 600-ter e 600-quater, anche se relativi al materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater.1, 600-quinquies, 601, 602, 609-bis, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, 609-undecies e 612-bis del codice penale”.

In siffatte ipotesi, dunque, la riforma ha inteso garantire la tutela della vittima minorenne all’epoca del commesso reato, prevedendo che il relativo termine di prescrizione decorra solo dal momento in cui la persona offesa abbia conseguito la capacità di agire, al raggiungimento del diciottesimo anno di età.

Con riferimento invece all’ipotesi in cui l’azione penale sia stata esercitata quando la vittima del reato era ancora minorenne, la riforma prevede un’ulteriore eccezione rispetto al regime ordinario della prescrizione, individuando il relativo dies a quo nel momento dell’acquisizione della notizia di reato, invece che in quello della consumazione dello stesso.

Ne consegue pertanto che per i predetti delitti, quando commessi ai danni di un minore, il termine di prescrizione comincia a decorrere dall’acquisizione della notizia di reato e non dalla data di consumazione della fattispecie penale; se tuttavia l’azione penale non sia stata esercitata prima del raggiungimento della maggiore età da parte della vittima, il dies a quo dovrà essere procrastinato al compimento degli anni diciotto di quest’ultima.

La deroga all’ordinario regime di prescrizione trova la propria ratio nella caratteristica che accomuna la predette fattispecie criminose, specie quando commesse ai danni di un minore, che rimangono a lungo e sovente nell’area della criminalità sommersa e vengono alla luce solo dopo diversi anni, quando la vittima acquisisce piena consapevolezza di quanto accaduto ed è in grado di affrontare i propri aguzzini.

3. Sospensione della prescrizione

Così determinato il momento da cui decorrono i termini di prescrizione e la relativa durata, il giudice, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., dovrà immediatamente dichiarare l’estinzione del reato, in ogni stato e grado del processo, pronunciando, come anticipato, sentenza di non doversi procedere, salvo che dall’istruttoria eventualmente espletata non risultino elementi da cui emerga in maniera evidente e immediata una causa di assoluzione dell’imputato.

Nel verificare che sia decorso il termine di prescrizione del reato, il giudice dovrà tuttavia tener conto delle eventuali cause di sospensione o di interruzione previste dagli artt. 159 e 160 c.p.; al pari di quanto infatti previsto in materia civile, in relazione alla prescrizione dei diritti, il relativo termine può essere sospeso o interrotto; nel primo caso, al verificarsi di una causa di sospensione e per tutta la durata della stessa, non potrà computarsi il relativo periodo di tempo e il termine di prescrizione tornerà a decorrere solo dopo la cessazione della sospensione (ai sensi dell’art. 159, comma terzo, c.p. infatti “La prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione”); se dunque, ad esempio, sono trascorsi cinque anni dal commesso reato e interviene una causa di sospensione della prescrizione per la durata di un anno, quest’ultima maturerà dopo sette anni, poiché il relativo termine tornerà a decorrere solo dopo la cessazione della sospensione, e quindi il restante periodo di un anno si sommerà ai sei anni già trascorsi, di cui però solo cinque rilevano ai fini dell’estinzione del reato.

Diversamente, in presenza di una causa di interruzione, il tempo trascorso prima del suo verificarsi cessa di avere rilevanza e il termine di prescrizione decorre ex novo, a partire dal momento in cui tale causa si sia verificata; così, ad esempio, anche un giorno prima della prescrizione del reato, la causa interruttiva impone di non tenere in considerazione il periodo interrotto e di comunicare nuovamente a calcolare i termini di prescrizione, da zero, a partire da tale data.

L’art. 159 c.p., al comma primo, individua come cause di sospensione della prescrizione “ogni caso in cui la sospensione del procedimento o del processo penale o dei termini di custodia cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge”.

A questi, la disposizione in esame aggiunge “i casi di: autorizzazione a procedere, dalla data del provvedimento con cui il pubblico ministero presenta la richiesta sino al giorno in cui l’autorità competente la accoglie[6].

Un’ulteriore causa di sospensione espressamente prevista dal legislatore, al n. 2 del comma primo, è il “deferimento della questione ad altro giudizio, sino al giorno in cui viene decisa la questione;[7], come nel caso in cui sussista una questione pregiudiziale relativa allo stato di famiglia o di cittadinanza di una delle parti, che consente al giudice penale, ove risulti “seria e se l’azione a norma delle leggi civili è già in corso” di “sospendere il processo fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce la questione”, ai sensi dell’art. 3 c.p.p.; ovvero nel caso di rimessione alla Corte Costituzionale di una questione di legittimità costituzionale rilevante per la decisione della causa e non manifestamente infondata.

Una terza causa di sospensione dei termini di prescrizione è inoltre individuata, al n. 3 del comma primo, nella “sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti e dei difensori ovvero su richiesta dell’imputato o del suo difensore”.

Con riferimento a tale ultima ipotesi, la norma in esame prosegue disponendo che “In caso di sospensione del processo per impedimento delle parti o dei difensori, l’udienza non può essere differita oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione dell’impedimento, dovendosi avere riguardo in caso contrario al tempo dell’impedimento aumentato di sessanta giorni”. In questo modo il legislatore ha inteso contemperare, da un lato, l’esigenza di garantire l’effettività e la pienezza del contraddittorio, consentendo alle parti di opporre un legittimo impedimento alla celebrazione del processo; dall’altro, ha prevenuto condotte opportunistiche, volte ad ottenere l’estinzione del reato mediante l’abuso del diritto di chiedere rinvii che, in ragione dei carichi di lavoro che interessano la maggior parte degli uffici giudiziari, vengono solitamente fissati anche oltre i sei mesi; ai sensi del comma primo dell’art. 159 c.p., infatti, di tale periodo solo sessanta giorni assumeranno rilevanza ai fini del computo dei termini di prescrizione, in aggiunta alla durata dell’impedimento della parte o del difensore.

Tale limitazione non opera tuttavia se, a seguito di accertamenti, “risulta che lo stato mentale dell’imputato è tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento”, con conseguente sospensione dello stesso ai sensi dell’art. 71 c.p.p., espressamente richiamato dall’art. 159 c.p.; tale disposizione è stata oggetto di una recente sentenza della Corte Costituzionale, n. 45 del 2015, che l’ha dichiarata illegittima nella parte in cui, ove lo stato mentale dell’imputato sia tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento e questo venga sospeso, non esclude la sospensione della prescrizione quando è accertato che tale stato è irreversibile[8].

Alle cause di sospensione summenzionate, la legge n. 67 del 2014 ha aggiunto, al n. 3 bis del comma primo dell’art. 159 c.p., la “sospensione del procedimento penale ai sensi dell’articolo 420-quater del codice di procedura penale”, anch’esso introdotto con la citata legge e che prende in considerazione il caso di assenza dell’imputato (sostituendo il previgente regime della contumacia). In siffatte ipotesi, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 159 c.p., anch’esso aggiunto con la legge n. 67 del 2014, la durata della sospensione del periodo di prescrizione non può superare determinati termini, individuati attraverso il rinvio al comma secondo dell’art. 161 c.p., che prevede i limiti “di più di un quarto del tempo necessario a prescrivere, della metà nei casi di cui all’articolo 99, secondo comma, di due terzi nel caso di cui all’articolo 99, quarto comma, e del doppio nei casi di cui agli articoli 102, 103 e 105”. Ne consegue che, decorso il termine massimo di sospensione, la prescrizione decorrerà nuovamente, così determinandosi, di fatto, un raddoppiamento del relativo termine, quando l’imputato resti irreperibile[9].

Anche la legge di riforma del 2017 ha integrato l’elenco delle cause di sospensione di cui al comma primo dell’art. 159 c.p.

Una prima novità[10] è stata inserita nel nuovo n. 3 ter del comma primo, in coda alle previgenti cause di sospensione, e riguarda le “rogatorie all’estero, dalla data del provvedimento che dispone una rogatoria sino al giorno in cui l’autorità richiedente riceve la documentazione richiesta, o comunque decorsi sei mesi dal provvedimento che dispone la rogatoria”. La nuova disposizione prevede dunque un termine residuale, di sei mesi di sospensione, rispetto a quello ordinario, che decorre dal momento del provvedimento che dispone la rogatoria e termina con la ricezione, da parte dell’organo richiedente, della documentazione richiesta.

Ulteriori e centrali novità sono state invece inserite nei commi secondo, terzo e quarto dell’art. 159 c.p.

Più nello specifico, la lettera b) del comma 11 dell’articolo unico della riforma ha previsto l’introduzione di un – nuovo – comma secondo dell’art. 159 c.p., che introduce due nuove cause di sospensione.

La prima opera “dal termine previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di primo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il grado successivo di giudizio, per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi”; allorché, dunque, il giudice di primo grado, anche pronunciandosi in sede di rinvio (come, a titolo esemplificativo, nel caso di nullità della sentenza di primo grado dichiarata in sede di appello), pronunci, mediante lettura in udienza del dispositivo, una sentenza di condanna, il termine di prescrizione del reato ascritto all’imputato resterà sospeso a decorrere dal momento del deposito delle motivazioni (quindi immediatamente, se la motivazione è contestuale, ovvero dal quindicesimo giorno successivo o decorso il maggior tempo indicato in dispositivo dal giudice). La prescrizione riprenderà invece il suo corso quando sarà stata pronunciata, mediante la lettura del dispositivo (senza dunque dover attendere il deposito delle motivazioni) la sentenza di condanna di secondo grado.

È tuttavia previsto un limite massimo di sospensione, pari ad un anno e sei mesi, volto ad evitare che le tempistiche, spesso ampie, della giustizia possano incidere in misura eccessiva sulla posizione dell’imputato. Trattasi dunque di un compromesso tra le due principali posizioni che gli operatori del diritto e la dottrina hanno assunto in merito alla sospensione della prescrizione a seguito di condanna in primo grado e che ha superato la tesi della sospensione senza limiti, sino alla sentenza definitiva di condanna, e quella opposta che chiedeva l’eliminazione tout court di tale nuova causa di sospensione dal progetto di legge.

Disposizioni analoghe a quelle esaminate sono state dettate con riferimento al giudizio di secondo grado, oggetto del n. 2 del comma secondo, ai sensi del quale “dal termine previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di secondo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitiva, per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi”.

La sospensione dei termini di prescrizione prevista dal nuovo comma secondo dell’art. 159 c.p. è tuttavia destinata a venir meno, con conseguente computo del tempo trascorso ai fini dell’estinzione del reato, in tre distinte eventualità, disciplinate dal nuovo comma terzo.

Qualora infatti la sentenza successiva a quella di primo o di secondo grado abbia prosciolto l’imputato ovvero abbia annullato la sentenza precedente, nella parte in cui afferma la sua responsabilità, o infine abbia dichiarato nulla la precedente pronuncia con trasmissione degli atti al giudice di primo grado.

In tutte le descritte ipotesi, dunque, il tempo di sospensione decorso dal deposito delle motivazioni della sentenza di condanna dovrà essere computato ai fini del calcolo della prescrizione del reato, sommandosi al tempo precedentemente trascorso; solo quindi in caso di conferma, nel grado di giudizio successivo, dell’affermazione di responsabilità dell’imputato, potrà operare la causa di sospensione in esame.

Il nuovo quarto comma dell’art. 159 c.p. prevede infine che, qualora con le cause di sospensione di cui al comma secondo (appena illustrate) concorra un’ulteriore causa di sospensione[11]i termini sono prolungati per il periodo corrispondente”. In questo modo, pertanto, il legislatore della riforma ha dilatato ulteriormente il periodo di prescrizione, prevedendo espressamente la rilevanza delle cause concorrenti, quand’anche riferibili al medesimo periodo (e pertanto prive di effettiva incidenza sulle tempistiche del processo, con conseguenti dubbi in merito alla ragionevolezza della novella in esame).

4. Interruzione della prescrizione

Le cause di interruzione della prescrizione sono invece disciplinate dall’art. 160 c.p., che ai commi primo e secondo individua un elenco di cause interruttive, precisando al comma terzo che “La prescrizione interrotta comincia nuovamente a decorrere dal giorno della interruzione” e che “Se più sono gli atti interruttivi, la prescrizione decorre dall’ultimo di essi”; pertanto, se ad un primo atto di interruzione della prescrizione, rappresentato ad esempio, da un decreto penale di condanna, segua un secondo atto interruttivo, consistente nel decreto che dispone il giudizio immediato, a seguito di tempestiva opposizione al decreto penale di condanna, dovrà aversi riguardo alla data del secondo, dalla quale comincerà a decorrere nuovamente il termine di prescrizione.

L’interruzione dei termini di prescrizione, tuttavia, non può comportare un aumento sine die (senza termine) del tempo necessario ad estinguere il reato; diversamente, la ratio dell’istituto e le esigenze ad essa sottese sarebbero eluse.

Pertanto, il comma secondo dell’art. 160 c.p., prosegue precisando che “in nessun caso i termini stabiliti nell’articolo 157 possono essere prolungati oltre i termini di cui all’articolo 161, secondo comma[12]; quest’ultimo, come si è avuto modo di anticipare, individua un limite massimo di durata della prescrizione, sancendo che “in nessun caso l’interruzione della prescrizione può comportare l’aumento di più di un quarto del tempo necessario a prescrivere”.

Siffatto limite è stato oggetto delle recenti pronunce della Corte di Giustizia (sentenza 8 settembre 2015 in causa C-105/14,Taricco) e della Corte Costituzionale, che con ordinanza n. 24 del 26 gennaio 2017, ha effettuato un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

La Corte di Giustizia, con la sentenza “Taricco”, in causa C-105/14, ha infatti affermato che una normativa nazionale in materia di prescrizione del reato come quella nazionale “èidonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dallarticolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUEnellipotesi in cui detta normativa nazionale impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dellUnione europea, oin cui preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione piùlunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dellUnione europea, circostanze che spetta al giudice nazionale verificare”. La Corte prosegue affermando che “Il giudice nazionale è tenuto a dare piena efficacia all’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE disapplicando, all’occorrenza, le disposizioni nazionali che abbiano per effetto di impedire allo Stato membro interessato di rispettare gli obblighi impostigli dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE”.

L’eventuale disapplicazione delle norme che individuano i termini massimi di prescrizione, pertanto, comporterebbe che ogni atto interruttivo della prescrizione implichi un nuovo decorso del relativo termine, senza limite alcuno.

La decisione della Corte, che ha rimesso al giudice nazionale la valutazione della sussistenza di elementi idonei a dimostrare la violazione del diritto europeo (l’impossibilità di sanzionare i comportamenti lesivi dell’interesse fiscale europeo ovvero la disparità di trattamento rispetto alla tutela penale degli interessi fiscali nazionali), ha visto contrapporsi due orientamenti in giurisprudenza: il primo, adottato dalla Corte di Cassazione (in tal senso, tra le altre, Cass., sez. III penale, 20 gennaio 2016, n. 2210), di recepimento delle indicazioni del giudice europeo, con conseguente disapplicazione delle norme di cui agli artt. 160 e 161 c.p. e interruzione dei termini di prescrizione con decorso ex novo e senza limiti massimi; un secondo, invece, che ha ravvisato un contrasto tra la suddetta soluzione e l’art. 25, comma secondo, Cost., in ragione degli effetti sfavorevoli che ne conseguirebbero per il reo.

È stata pertanto sollevata, con ordinanza n. 28346 del 30 marzo 2016, una questione di legittimità costituzionale in relazione alle norme di recepimento dei Trattati[13], nella parte in cui rendono direttamente applicabile il disposto del citato art. 325 TFUE, come interpretato dalla sentenza Taricco, per violazione dell’art. 25, comma secondo, Cost., stante l’effetto in malampartemche ne discenderebbe per l’imputato.

Nell’affrontare la questione, la Corte Costituzionale ha a propria volta adito la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in via pregiudiziale, ponendo tre quesiti interpretativi riguardo le norme del Trattato e l’interpretazione accolta nella sentenza Taricco.

Con l’ordinanza 26.1.2017, n. 24, laCorte Costituzionale ha infatti chiesto ai giudici di Lussemburgo di chiarire se l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del TFUE “debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato”:

anche quando tale omessa applicazione sia priva di una base legale sufficientemente determinata;

anche quando nell’ordinamento dello Stato membro la prescrizione è parte del diritto penale sostanziale e soggetta al principio di legalità;

anche quando tale omessa applicazione sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro.”

       La Corte dunque si interroga se quella proposta dai giudici rimettenti sia davvero l’unica possibile declinazione applicativa dell’art. 325 TFUE ovvero sia possibile enucleare “interpretazioni anche in parte differenti, tali da escludere ogni conflitto con il principio di legalità in materia penale”.

Il carattere interlocutorio della decisione non ha impedito al Giudice delle leggi di operare delle precisazioni sui complessi rapporti tra principi costituzionali e fonti sovranazionali.

La Corte afferma taluni capisaldi: a) il riconoscimento del primato del diritto dell’Unionequale dato acquisito dalla giurisprudenza costituzionale, a condizione che siano osservati i “principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona” (c.d. controlimiti); b) l’affermazione del principio di legalità in materia penale, di cui all’art. 25, co. 2 Cost., quale “principio supremo dell’ordinamento, posto a presidio dei diritti inviolabili dell’individuo, per la parte in cui esige che le norme penali siano determinate e non abbiano in nessun caso portata retroattiva”; c) la conferma della natura sostanziale dell’istituto della prescrizione e la conseguente soggezione al principio di legalità in materia penale, dovendo pertanto essere analiticamente descritto, al pari del reato e della pena, da una norma che vige al tempo di commissione del fatto.

Si è dunque interrogata la Corte Costituzionale se la sentenza Tariccosia conforme al requisito dellaragionevole prevedibilità e al requisito della determinatezza delle norme di diritto penale sostanziale, principio che “appartiene alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri quale corollario del principio di certezza del diritto”.

Con riferimento alla ragionevole prevedibilità, si evidenzia che trattasi di esigenza propria sia del diritto penale costituzionale interno sia dell’art. 7 CEDU e che nessuno avrebbe potuto ragionevolmente pensare, prima della sentenza Taricco, “che l’art. 325 del TFUE prescrivesse al giudice di non applicare gli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, c.p., ove ne fosse derivata l’impunità di gravi frodi fiscali in danno dell’Unione in un numero considerevole di casi, ovvero la violazione del principio di assimilazione”.

Sotto altro profilo, come visto, rileva il rispetto della riserva di legge e del grado di determinatezza assunto dall’ordinamento penale in base all’art. 325 del TFUE, con riguardo al potere del giudice, “al quale non possono spettare scelte basate su discrezionali valutazioni di politica criminale”, pena la compromissione del principio della “separazione dei poteri di cui l’art. 25, co. 2 Cost. declina una versione particolarmente rigida nella materia penale”. Anche al riguardo si ritiene che la regola enunciata dalla Corte di Giustizia nella sentenza Taricco è inidonea a delimitare la discrezionalità giudiziaria, giacché “non vi è modo di definire in via interpretativa con la necessaria determinatezza il requisito del numero considerevole dei casi, cui è subordinato l’effetto indicato dalla Corte di Giustizia”; pur non dubitandosi che “esso si riferisca alla sistematica impunità che il regime legale dell’interruzione della prescrizione comporterebbe per le frodi fiscali, tuttavia il concetto rimane per sua natura ambiguo, e comunque non riempibile di contenuto attraverso l’esercizio della funzione interpretativa”.

L’accertata incompatibilità tra i principi fondamentali sanciti dalla Costituzione e quanto riconosciuto dalla sentenza Taricco, ha indotto la Corte non a contrapporsi frontalmente al Giudice europeo, azionando i controlimiti, ma, in nome del principio di leale collaborazione che definisce i rapporti tra Unione e Stati membri, ad optare per una soluzione conciliativa, ritenendo che la Corte di Giustizia non abbia sostenuto che il giudice nazionale debba dare applicazione alla regola “anche quando essa confligge con un principio cardine dell’ordinamento italiano”. Secondo i Giudici costituzionali, la stessa si sarebbe invece limitata ad affermare l’applicabilità della regola tratta dall’art. 325 del TFUE solo se compatibile con l’identità costituzionale dello Stato membro, demandando il vaglio di siffatta compatibilità agli organi nazionali competenti. Così ragionando, verrebbe a cessare qualsiasi profilo di incostituzionalità.

Questa, è dunque, secondo la Consulta, l’interpretazione della ‘regola Taricco’ in grado, da un lato, di “preservare l’identità costituzionale della Repubblica italiana”, e, dall’altro, di non compromettere“le esigenze di uniforme applicazione del diritto dell’Unione”, non essendo “in discussione il significato che la Corte di giustizia ha rinvenuto nell’art. 325 del TFUE”.

Sulla base di tali coordinate, la Consulta ha impostato la questione del rapporto tra fonti nazionali e sovranazionali ritenendo che “l’obiettivo dell’unità, che giustifica la rinuncia a spazi di sovranità” deve essere perseguito con la “capacità di includere il tasso di diversità minimo, ma necessario per preservare la identità nazionale insita nella struttura fondamentale dello Stato membro”. Ne discende che “il diritto dell’Unione e le sentenze della Corte di giustizia che ne specificano il significato ai fini di un’uniforme  applicazione, non possono interpretarsi nel senso di imporre allo Stato membro la rinuncia ai principi supremi del suo ordine costituzionale”.

La Consulta inoltre riafferma la regola per cui la Corte di Giustizia ha il compito di definire il campo di applicazione del diritto dell’Unione, ma che la valutazione in ordine al rispetto dell’identità costituzionale, alla compatibilità del diritto europeo, come interpretato dalla Corte di Giustizia, con i principi supremi e i diritti inalienabili garantiti dall’ordinamento nazionale compete esclusivamente alla Corte costituzionale.

In merito alla questione sollevata dalla Corte Costituzionale, l’Avvocato Generale ha invitato la Corte del Lussemburgo a orientarsi in questo senso: confermare dell’interpretazione dell’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE quale effettivamente impositivo, al giudice nazionale, di un obbligo di disapplicazione di norme interne sulla prescrizione che tradiscano il perseguimento dei fini di tutela degli interessi finanziari dell’Unione cui gli Stati membri si sono impegnati; ridefinire però presupposti della disapplicazione cui il giudice deve attenersi: rinuncia al criterio statistico (“considerevole numero”) e adozione del solo criterio legato alla gravità del reato, intendendosi per gravi, secondo una definizione data dal legislatore dell’Unione, “tutti i reati aventi un collegamento con il territorio di due o più Stati membri e che comportano un danno di importo totale superiore alla soglia di Euro 10 milioni”. Dunque, con profili di innovazione rispetto alla stessa sentenza Taricco, l’avvocato generale propone di stabilire una soglia quantitativa di disapplicazione delle norme sulla prescrizione; adottare infine una nozione europea di interruzione della prescrizione, da intendersi nel senso che “ogni atto diretto al perseguimento del reato nonché ogni atto che ne costituisce la necessaria prosecuzione interrompe il termine di prescrizione; tale atto fa quindi decorrere un nuovo termine, identico al termine iniziale, mentre il termine di prescrizione già decorso viene cancellato”.

Si tratta di conclusioni che vanno, in parte, nel senso di confermare i contenuti della sentenza Taricco, in altra parte, nel senso di riconoscere il bisogno di una loro parziale precisazione, ma che si scontrano con quanto esposto nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale della Corte Costituzionale italiana.

La Corte di Giustizia, Grande Sezione, pronunciandosi con sentenza del 5 dicembre 2017, in causa C42/17, ha ricomposto, sebbene parzialmente, il contrasto, affermando che “L’art. 325, par. 1 e 2, TFUE dev’essere interpretato nel senso che esso impone al giudice nazionale di disapplicare, nell’ambito di un procedimento penale riguardante reati in materia di imposta sul valore aggiunto, disposizioni interne sulla prescrizione, rientranti nel diritto sostanziale nazionale, che ostino all’inflizione di sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea o che prevedano, per i casi di frode grave che ledono tali interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti per i casi che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, a meno che una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che imponga un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato.

Pur dissipando, dunque, i dubbi sollevati dalla Consulta in merito alla violazione del principio di irretroattività delle norme penali di sfavore, pienamente riaffermato nella c.d. sentenza Tariccobis, la sentenza è stata oggetto di critiche da parte della dottrina, poiché non risponde in maniera esaustiva ed adeguata agli ulteriori interrogativi avanzati dai giudici nazionali, in merito ai presupposti del dovere di disapplicazione, con particolare riferimento alla gravità della violazione e al “numero considerevole di casi”.

Tali critiche sono state fatte proprie dalla Corte Costituzionale, nel medesimo procedimento che aveva dato luogo al rinvio pregiudiziale con ordinanza n. 24/2017, conclusosi con la sentenza n. 115/18, in cui espressamente i giudici costituzionali osservano che “una sufficiente determinazione non sarebbe rintracciabile neppure nell’enunciato della sentenza Taricco, relativo ai “casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato”, evidenziando che “Si tratta infatti di un enunciato generico, che, comportando un apprezzamento largamente opinabile, non è tale da soddisfare il principio di determinatezza della legge penale e in particolare da assicurare ai consociati una sua sicura percezione”.

Stante tuttavia l’affermata irretroattività della “regola Taricco”, la Consulta ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale, non potendo la predetta norma trovare applicazione nei giudizi a quibus, ferma tuttavia l’operatività della stessa in ordine ai fatti successivi alla sentenza del 2015, quale eccezione al limite massimo previsto dall’ordinamento nazionale.

Anche l’art. 161 c.p. individua quali eccezioni a tale limite massimo i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p. e, nel contempo, prevede limiti più alti per la prescrizione dei reati commessi da chi sia stato dichiarato recidivo nei casi di cui all’articolo 99, secondo comma, c.p. (recidiva aggravata), e in casi di dichiarazione di abitualità o professionalità nel delitto, di cui agli artt. 102, 103 e 105; in siffatte ipotesi, infatti, il tempo di prescrizione del reato è destinato ad aumentare, rispettivamente, della metà per i recidivi aggravati e di due terzi per i delinquenti abituali o professionali.

Al pari della sospensione dei termini di prescrizione, le cause di interruzione e la disciplina dei relativi effetti sono state altresì oggetto della riforma del 2017, in forza dei commi 12, 13 e 14 dell’articolo unico, che hanno modificato la disciplina di cui agli artt. 160 e 161 c.p.

La prima disposizione introduce, tra le cause di interruzione del termine di prescrizione, di cui all’art. 160 c.p., l’interrogatorio dell’indagato davanti alla polizia giudiziaria[14], quando quest’ultima operi su delega del pubblico ministero; in tal modo il legislatore della riforma ha inteso superare la lacuna derivante dal limite della tassatività delle cause di interruzione della prescrizione, che aveva portato le Sezioni Unite ad escludere l’efficacia interruttiva dell’interrogatorio delegato alla polizia giudiziaria, in quanto non espressamente richiamato dall’art 160 c.p. (in tal senso le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella sentenza 11 settembre 2001, n. 33543).

Ulteriori modifiche hanno invece interessato, come anticipato, gli effetti della interruzione ovvero della sospensione della prescrizione, mediante la sostituzione del previgente comma primo dell’art. 161 c.p. con il seguente: “l’interruzione della prescrizione ha effetto per tutti coloro che hanno commesso il reato. La sospensione della prescrizione ha effetto limitatamente agli imputati nei cui confronti si sta procedendo”. Precedentemente, al contrario, anche la sospensione della prescrizione operava per tutti i correi, come previsto dall’originaria formulazione del comma primo, che così prevedeva: “La sospensione e l’interruzione della prescrizione hanno effetto per tutti coloro che hanno commesso il reato”.

Ne deriva un effetto favorevole per i correi non ancora sottoposti a procedimento penale, che tuttavia è destinato a non operare retroattivamente in forza del disposto del comma 15 dell’art. 1 della riforma, che espressamente prevede che tutte le modifiche introdotte dai commi da 10 a 14 “si applicano ai fatti commessi dopo l’entrata in vigore della presente legge”. Anche in relazione a tale limitazione rispetto all’effetto favorevole della novella, pur in assenza di rilievi da parte del Servizio studi della Camera, si è osservato che la disposizione del comma 15 introduce un limite alla retroattività di una norma di favore che, stante il carattere sostanziale della disciplina della prescrizione (come affermato dalla Corte Costituzionale nelle sentenze 393 del 2006, 72 del 2008 e 236 del 2011), rischia di risultare violativo del principio di retroattività delle norme penali favorevoli al reo.

Non possono invece trovare applicazione retroattiva le disposizioni introdotte dal comma 14 dell’articolo unico della legge n. 103 del 2017, che estendono il summenzionato regime aggravato della prescrizione dei reati commessi da soggetti recidivi nella forma aggravata di cui all’art. 99, comma secondo, c.p., ai reati “di cui agli articoli 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322-bis, limitatamente ai delitti richiamati dal presente comma, e 640-bis”.

La disposizione, che originariamente (nel progetto di legge presentato alla Camera) era destinata in parte ad essere introdotta nel testo dell’art. 157 c.p., prevede dunque un aumento massimo della metà, invece di un quarto, del termine di prescrizione dei predetti reati, in presenza di cause interruttive.

In questo caso, il legislatore ha invece tenuto debitamente in considerazione l’insegnamento della Corte Costituzionale che, nelle succitate pronunce, ha superato ogni dubbio in merito alla natura dell’istituto e alla piena operatività in materia di prescrizione dei principi che regolano la successione nel tempo delle norme penali sostanziali.

Alla tesi della natura sostanziale della prescrizione hanno altresì aderito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 21833 del 2007, osservando, in motivazione, che a differenza del codice previgente, il codice penale del 1930 non fa più riferimento all’estinzione dell’azione penale per intervenuta prescrizione, bensì all’estinzione del reato, che opera quindi sul piano sostanziale[15].

Le predette tre fondamentali sentenze hanno avuto ad oggetto l’art. 10, comma terzo della legge 5 dicembre 2005, n. 251, c.d. “ex Cirielli” che, come anticipato, ha introdotto un regime di prescrizione più favorevole per il reo sotto molteplici profili rispetto alla normativa previgente, la cui applicabilità nei procedimenti pendenti è stata tuttavia sottoposta a limitazioni in forza del citato art. 10, il cui comma terzo dispone infatti che “se, per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, le stesse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonchédei processi giàpendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione”.

La prima pronuncia della Corte Costituzionale avente ad oggetto la disposizione citata è intervenuta nel 2006, con sentenza n. 393, e ha interessato solo il primo dei limiti in essa previsti, consistente nella pendenza in primo grado del processo (che decorre, come determinato dalla norma stessa, dalla dichiarazione di apertura del dibattimento ex art. 492 c.p.p.).

Il parametro di legittimità invocato dal giudice che ha rimesso la questione di costituzionalità davanti alla Corte è stato proprio il principio di ragionevolezza e di eguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost., sostenendo che la deroga alla retroazione favorevole delle norme di favore sopravvenute in materia di prescrizione non fosse sorretta da una valida giustificazione, non potendosi imporre un diverso trattamento normativo per la sola circostanza dell’avvenuta dichiarazione di apertura del dibattimento.

La Corte Costituzionale, con la citata sentenza, ha ritenuto fondata questione, ricostruendo preliminarmente il rango e la portata del principio di retroattività favorevole, cui l’art. 10, comma terzo apportava deroghe in relazione ai procedimenti pendenti in primo grado; con riferimento al fondamento costituzionale del principio, la Corte ha escluso che esso possa rinvenirsi nell’art. 25, comma secondo, Cost., che prevede esclusivamente il divieto di retroazione sfavorevole della norma penale.

La Corte ha pertanto passato in rassegna le fonti internazionali cui era riconducibile – nel 2006 e dunque prima della sentenza Scoppola – il principio di retroazione favorevole, citando in tal senso il Patto di New York del 1966, la Carta di Nizza del 2000, nonché la già menzionata giurisprudenza della Corte di Giustizia che ne riconosce il valore di principio generale dell’ordinamento europeo.

Alla luce della riscontrata rilevanza sovrannazionale della regola di retroattività favorevole della norma penale la Corte ha quindi desunto che esso “non si fonda soltanto su una norma, sia pure generale e di principio, del codice penale” ma costituisce un principio generale dell’ordinamento, che pertanto può essere sacrificato solo in ragione una norma che tuteli interessi di analogo rilievo. Sul punto la Corte Costituzionale ha precisato che l’eventuale deroga al principio deve quindi superare “un vaglio positivo di ragionevolezza”, che dimostri la sussistenza di un’idonea giustificazione, non essendo invece sufficiente escluderne, in negativo, il carattere manifestamente irragionevole.

Al principio di retroattività favorevole viene dunque riconosciuto rango costituzionale, riconducendolo al già citato art. 3 Cost. senza tuttavia assegnargli valore assoluto; la Corte ha infatti ammesso la possibilità per il legislatore di derogarvi, purché in presenza di idonea giustificazione, che non dovrà soltanto risultare non arbitraria e non manifestamente irragionevole ma sarà sottoposta ad un più scrupoloso giudizio, volto ad accertate, in positivo, se gli interessi e i valori sottesi all’eventuale limite alla retroattività favorevole presentino il medesimo rilievo rispetto all’interesse del reo di vedere applicata la norma di favore.

Non ha superato tale verifica di ragionevolezza, in positivo, il primo limite introdotto dal comma terzo dell’art. 10, della legge del 2005, dal momento che la Corte Costituzionale non ha ritenuto che lo sbarramento alla retroazione delle norme più favorevoli in materia di prescrizione, legato all’apertura del dibattimento, tutelasse un interesse di pari rango rispetto al diritto del reo alla retroazione della norma penale sopravvenuta più favorevole; non è stata infatti condivisa la tesi sostenuta dall’Avvocatura dello Stato, che ha richiamato l’esigenza di conservazione del materiale probatorio acquisito, poiché, di norma, all’apertura del dibattimento non sono state ancora compiute attività processuali.

La disciplina dell’art. 10, comma terzo, della citata legge “ex Cirielli”, è stata dunque dichiarata incostituzionale nella parte in cui impediva la retroattività delle nuove norme di favore nei procedimenti penali in cui fosse stata dichiarata l’apertura del dibattimento, fermi restando gli ulteriori limiti della pendenza del giudizio in secondo grado e davanti alla Corte di Cassazione.

Il primo dei limiti “sopravvissuti” alla sentenza del 2006 è stato oggetto di una nuova questione di legittimità costituzionale, per ritenuta violazione del principio di retroattività sfavorevole, su cui la Corte si è pronunciata con sentenza n. 72 del 2008.

Nella sentenza in esame, tuttavia, la Corte è pervenuta a conclusioni opposte circa la legittimità della limitazione, consistentenella pendenza in secondo grado del giudizio, pur condividendo ed espressamente richiamando le premesse elaborate nella sentenza n. 393 del 2006 riguardo il rango e la portata del principio di retroattività favorevole.

Anche con riferimento al limite della pendenza del giudizio in secondo grado, infatti, la Corte Costituzionale ha operato un sindacato positivo di ragionevolezza, volto ad accertare la sussistenza di un’idonea giustificazione a fondamento della deroga alla retroattività favorevole, verificando la rilevanza delle esigenze e degli interessi tutelati.

Come anticipato, in questo caso il test di ragionevolezza della deroga al principio di retroattività ha avuto esito positivo, poiché si è ritenuto che gli interessi all’efficienza del processo, alla salvaguardia delle posizioni giuridiche soggettive tutelate, nonché alla non dispersione del materiale probatorio acquisito, fossero idonei a giustificare una deroga al principio retroattività favorevole; si è inoltre osservato che, a differenza della sola apertura del dibattimento, la pendenza in appello e l’emanazione della sentenza di primo grado, che ne segna il momento iniziale, presentano una obiettiva rilevanza nella dinamica processuale, come confermato dalla idoneità ad esse riconosciuta, ex art. 160 c.p., ad interrompere la prescrizione.

Sulla scorta delle esposte argomentazioni, la Corte Costituzionale ha quindi ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma terzo, cit. nella parte in cui impedisce la retroazione delle norme di favore in materia di prescrizione nei giudizi pendenti ormai in secondo grado, escludendo la violazione dell’art. 3 Cost. e dei principi di eguaglianza e ragionevolezza che all’epoca costituivano l’unico fondamento costituzionale del principio di retroattività favorevole.

Una nuova questione di legittimità costituzionale sui limiti previsti dall’art. 10 cit. è stata tuttavia sollevata a seguito del riconoscimento da parte della Corte di Strasburgo del principio di retroattività favorevole tra le garanzie sancite dall’art. 7 CEDU, che ha pertanto rappresentato, come già evidenziato, un nuovo e ulteriore parametro di legittimità costituzionale, in forza del disposto dell’art. 117, comma primo, Cost, rispetto alle disposizioni interne limitative della retroazione delle norme penali di favore.

Entrambi i limiti della pendenza del giudizio in appello e davanti alla Corte di Cassazione sono stati infatti oggetto di una seconda questione di legittimità costituzionale, fondata questa volta sul combinato disposto tra i citati artt. 7 CEDU e 117, comma primo, Cost., sul presupposto che la norma interposta di diritto internazionale, sancendo implicitamente il principio di retroattività favorevole, impedisse al legislatore di introdurre limiti all’applicazione delle norme di favore sopravvenute con legge ordinaria.

La Corte Costituzionale è stata pertanto chiamata a pronunciarsi, con la sentenza n. 236 del 2011, circa la compatibilità dell’art. 10, comma terzo, cit. con il diritto della Convenzione, alla luce della sentenza Scoppola e dei principi in essa affermati. Il nuovo parametro di legittimità costituzionale, invocato dalla Seconda Sezione penale della Corte di Cassazione, con ordinanza dell’11 giugno 2010, ha infatti consentito al giudice delle leggi di pronunciarsi una seconda volta sulla medesima disposizione e, nell’occasione, di precisare la portata e gli effetti del riconoscimento del principio di retroattività favorevole tra le garanzie sancite dalla CEDU.

Nella sentenza del 2011, tuttavia, la Corte Costituzionale ha disatteso le premesse dell’ordinanza di rimessione, negando al principio di retroattività favorevole il carattere assoluto che il giudice a quo gli aveva riconosciuto. Nella motivazione della sentenza si precisa infatti che, sebbene la Convenzione vincoli gli Stati membri a rispettarne il contenuto precettivo secondo la interpretazione che la Corte di Strasburgo gli attribuisce, e ferma l’insindacabilità da parte dei giudici nazioni di tale interpretazione, resta tuttavia in capo a questi ultimi e, in specie, alla Corte Costituzionale “un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata ad inserirsi”.

Nel precisare il contenuto e la ratio di tale potere la Corte, richiamando un proprio precedente[16], ha infatti rivendicato il proprio potere di “valutare come ed in qual misura il prodotto dell’interpretazione della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano” dal momento che “la norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell’art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni cui questa Corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza”.

Nell’esercitare tale potere di armonizzazione e adeguamento, nella Sentenza n. 236 del 2011, la Corte Costituzionale ha preso dunque le mosse dalla sentenza pronunciata nel 2009, nel caso Scoppola contro Italia, onde individuarne l’effettiva portata innovativa.

Proprio dall’esame del testo della sentenza Scoppola la Corte ha quindi desunto il carattere non assoluto del principio di retroattività favorevole, evidenziando come la stessa Corte di Strasburgo avrebbe individuato alcuni limiti alla sua operatività: in primis si è osservato che, nel pronunciarsi in merito al caso Scoppola, il giudice sovrannazionale abbia sì riconosciuto nell’art. 7 della Convenzione il fondamento del principio ma, nel contempo, abbia ritenuto ammissibili eventuali deroghe allo stesso; si legge infatti nella sentenza del 2009 che “infliggere una pena più severa solo perché essa era prevista al momento della commissione del reato si tradurrebbe in una applicazione a svantaggio dell’imputato delle norme che regolano la successione delle leggi penali nel tempo”. Sulla scorta di tale affermazione, pertanto, secondo i giudici della Corte Costituzionale sarebbe implicitamente ammissibile una deroga alla retroattività favorevole, purché sorretta da idonee giustificazioni, che non risultino legate alla mera previsione di una pena più severa da parte delle norme vigenti al momento del fatto.

La Corte Costituzionale ha inoltre precisato, nella sentenza n. 236, che il principio di retroattività favorevole presenta una portata minore rispetto a quanto previsto invece dalle norme dettate in materia dall’art. 2, comma quarto, del Codice penale: “quest’ultimo infatti riguarda ogni disposizione penale successiva alla commissione del fatto, che apporti modifiche in melius di qualunque genere alla disciplina di una fattispecie criminosa, incidendo sul complessivo trattamento riservato al reo, mentre il primo ha una portata più circoscritta, concernendo le sole norme che prevedono i reati e le relative sanzioni”; a questa conclusione la Corte è pervenuta osservando che “la Corte europea dei diritti dell’uomo, ritenendo che il principio in esame sia un corollario di quello di legalità, consacrato dall’art. 7 della CEDU, ha fissato dei limiti al suo ambito di applicazione, desumendoli dalla stessa norma convenzionale. Il principio di retroattività della lexmitior, come in generale «le norme in materia di retroattività contenute nell’art. 7 della Convenzione», concerne secondo la [CEDU] le sole «disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono»”.

Ne consegue che, secondo l’impostazione accolta dalla Corte Costituzionale, il principio di retroattività favorevole, come risultante dall’interpretazione dell’art. 7 CEDU da parte della Corte di Strasburgo, non riguarda le norme in materia di prescrizione e, in ogni caso, ammetterebbe deroghe giustificate dalla presenza di interessi meritevoli di tutela, quali risultano essere le esigenze già individuate nella precedente sentenza del 2008, n. 72, ritenute idonee a limitare la retroazione delle norme più favorevoli in materia di prescrizione nei processi già pendenti in appello o davanti alla Corte di Cassazione.

In disparte, dunque, le specifiche e “tormentate” vicende che hanno interessato la disciplina del citato art. 10 della legge “ex Cirielli”, alla luce dell’esame delle principali pronunce in materia di retroattività favorevole della Corte Costituzionale è possibile confermare la rilevanza costituzionale del principio, riconducibile contemporaneamente al principio di eguaglianza e al rispetto dei vincoli internazionali da parte del legislatore; nel contempo, tuttavia, deve evidenziarsi che, tanto con riferimento all’art. 3 Cost., quanto in relazione al combinato disposto tra gli artt. 7 CEDU e 117, comma primo, Cost., il principio di retroattività favorevole non assume carattere assoluto – al pari dell’opposto principio di irretroattività sfavorevole – con la conseguenza che eventuali limiti alla retroattività delle norme penali di favore saranno ammissibili, purché giustificati dalla tutela di interessi rilevanti per l’ordinamento e idonei, in un giudizio di bilanciamento, a prevalere sull’interesse del reo all’applicazione delle norme di favore sopravvenute.


[1] L’art. 531 c.p.p., al comma primo, fa salvo il disposto dell’art. 129, secondo comma, c.p.p., ai sensi del quale “Quando ricorre una causa di estinzione del reato ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione o di non luogo a procedere con la formula prescritta”; il legislatore del codice di rito ha inteso pertanto affermare la priorità, nell’interesse dell’imputato, della sua assoluzione nel merito rispetto alla dichiarazione di estinzione del reato, in ragione degli effetti più favorevoli che derivano per l’imputato nel primo caso, trattandosi di una piena affermazione di innocenza, con quanto ne consegue in termini di efficacia del giudicato in sede civile, amministrativa e disciplinare, ai sensi degli artt. 652 ss. c.p.p. Il secondo comma dell’art. 531 c.p.p. prevede infine che “Il giudice provvede nello stesso modo quando vi è dubbio sull’esistenza di una causa di estinzione del reato”, confermando la regola espressa dal brocardo “in dubio pro reo”, che opera altresì in relazione all’assoluzione nel merito del reo, ai sensi dell’art. 530, comma secondo, c.p.p., e per l’accertamento della sussistenza di una causa di giustificazione, ai sensi del comma terzo dell’articolo.

[2]Fiandaca, Musco, Diritto penale – Parte generale, Bologna, 2014.

[3] Nella proposta di legge n. 4368, approvata dal Senato il 15 marzo 2017, che ha dato origine alla legge n. 103 del 2017, è infatti confluita, con modifiche[3], la proposta di legge “Ferranti ed altri C. 2150 (Modifiche al codice penale in materia di prescrizione del reato, S. 1844)”, introducendo alcune importanti novità nella disciplina generale della prescrizione, mediante la novella degli artt. 158 ss. c.p., ai sensi dei commi 10 ss. dell’articolo unico di cui si compone la legge di riforma, che intervengono, come si avrà modo di osservare nel prosieguo, sull’individuazione del dies a quo del termine di prescrizione – con particolare riferimento ad alcuni delitti quando commessi ai danni di un minore – nonché sulla sospensione e sull’interruzione del termine prescrizionale e sui relativi effetti. Come evidenziato nella relazione del Servizio Studi della Camera, tra le più rilevanti modifiche apportate rispetto all’originario disegno di legge, “si segnala la soppressione, rispetto al testo-Camera, dell’integrazione all’art. 157 c.p. che – in relazione al tempo necessario a prescrivere – stabiliva l’aumento della metà dei termini di prescrizione per i seguenti reati: corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.); corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.); corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.)”.

[4] La disciplina dettata dal legislatore in materia di prescrizione opera congiuntamente alle disposizioni generali di cui all’art. 14 c.p., ai sensi del quale, “Quando la legge penale fa dipendere un effetto giuridico dal decorso del tempo, per il computo di questo si osserva il calendario comune” e “Ogni qual volta la legge penale stabilisce un termine per il verificarsi di un effetto giuridico, il giorno della decorrenza non è computato nel termine”.

[5]È stata invece rigettata, con sentenza n. 112 del 2018, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 157, sesto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede che il termine di prescrizione del reato di frana colposa (art. 449 in riferimento all’art. 426 cod. pen.) è raddoppiato, in quanto, secondo l’impostazione seguita dalla Corte Costituzionale, il legislatore può bene ritenere,nella sua discrezionalità, che “in rapporto a determinati delitti colposi la “resistenza all’oblio” nella coscienza sociale e la complessità dell’accertamento dei fatti siano omologabili a quelle della corrispondente ipotesi dolosa, giustificando, con ciò, la sottoposizione di entrambi ad un identico termine prescrizionale”: e ciò anche in via di deroga alla disciplina generale (già sentenza n. 265 del 2017).

[6]La disciplina dell’art. 159, nella parte in esame, è stata modificata dal legislatore della legge n. 103, che ha infatti, in parte, razionalizzato e reso più ordinata la previgente disciplina e, in parte, integrato l’elenco delle cause di sospensione c.d. tipiche previste dall’art. 159 c.p. In primo luogo, infatti, il comma 11 cit. ha abrogato il comma secondo dell’art. 159 c.p., dedicato alla sospensione a seguito di richiesta di autorizzazione a procedere da parte del pubblico ministero, facendo confluire la relativa disciplina al numero 1) del comma primo. In questo modo è stata resa più immediata e chiara la disposizione codicistica in esame.

[7]Anche il n. 2) del comma primo dell’art. 159 c.p. è stato oggetto della novella del 2017, che ha integrato il testo della norma: la nuova formulazione del n. 2 del comma primo prevede oggi, come osservato, che la sospensione opera “sino al giorno in cui viene decisa la questione”. Non occorrerà dunque che il giudizio sia definito ma sarà sufficiente che il giudice competente si sia pronunciato, anche con provvedimento non definitivo, sulla questione sottopostagli.

[8] La legge n. 103 del 2017 ha previsto l’introduzione del nuovo art. 72 bis c.p.p., rubricato “Definizione del procedimento per incapacità irreversibile dell’imputato”, dal seguente tenore: “1. Se, a seguito degli accertamenti previsti dall’articolo 70, risulta che lo stato mentale dell’imputato è tale da impedire la cosciente partecipazione al procedimento e che tale stato è irreversibile, il giudice, revocata l’eventuale ordinanza di sospensione del procedimento, pronuncia sentenza di non luogo a procedere o sentenza di non doversi procedere, salvo che ricorrano i presupposti per l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca”.

[9] Non è invece compatibile con la lettera della disposizione in esame la tesi, propugnata da una parte minoritaria della dottrina, secondo cui il raggiungimento dei termini di cui all’art. 161 c.p. determinerebbe la prescrizione del reato, nonostante la sospensione del relativo termine. Trattasi infatti di una soluzione che confligge sia con il dato letterale, che si riferisce alla durata della sospensione e non della prescrizione, sia con la natura e gli effetti della sospensione, che, come anticipato, congelano il decorso dei termini di prescrizione, che riprendono successivamente alla cessazione della causa di sospensione, sommandosi al tempo precedentemente trascorso.

[10] Il progetto di legge proposto dalla Camera, cui si è fatto riferimento in precedenza, prevedeva l’inserimento di altre due cause di sospensione, successivamente soppresse dal Senato e aventi ad oggetto “le perizie particolarmente complesse disposte in udienza preliminare o in dibattimento, dalla data di affidamento dell’incarico fino al deposito della perizia e comunque per un massimo di 3 mesi” e “la presentazione di ricusazione, dalla data della sua presentazione sino alla comunicazione al giudice procedente che ne dichiara l’inammissibilità”.

[11]Il nuovo testo fa riferimento alle cause di sospensione di cui al comma primo, interpretato nel dossier n. 551/1 del Servizio studi della Camera in senso favorevole al reo, come rinvio esclusivo alle ipotesi “tipiche” espressamente previste nella seconda parte del comma primo (si legge infatti nella relazione che: “in caso di concorso tra la causa di sospensione dovuta alle condanne nei gradi di merito e le altre cause sospensive previste dal primo comma dell’art. 159 (autorizzazione a procedere, deferimento ad altro giudizio, impedimento delle parti o dei difensori, assenza dell’imputato o rogatoria all’estero), il termine è prolungato per il periodo corrispondente”); occorre tuttavia rilevare che il comma primo dell’art. 159 c.p., nella parte lasciata immodificata dalla riforma, fa altresì riferimento a tutte le residuali cause di sospensione previste dalla legge (“ogni caso in cui la sospensione del procedimento o del processo penale o dei termini di custodia cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge”). Occorrerà attendere, pertanto, le prime applicazioni giurisprudenziali della nuova norma per ottenere indicazioni interpretative circa il concorso di cause di sospensione.

[12] A tale limite fanno tuttavia espressamente eccezione i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p.

[13] In particolare viene sollevata “questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007), nella parte in cui autorizza alla ratifica e rende esecutivo l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), sottoscritto a Roma il 25 marzo 1957 (Testo consolidato con le modifiche apportate dal Trattato di Lisbona 13 dicembre 2007), come interpretato dalla sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco”.

[14] Il comma 12 prevede infatti che “All’articolo 160, secondo comma, del codice di procedura penale, dopo le parole: <<davanti al pubblico ministero>> sono inserite le seguenti: <<o alla polizia giudiziaria, su delega del pubblico ministero>>”.

[15] Sulla scorta della natura sostanziale dell’istituto, le Sezioni Unite hanno escluso la possibilità di estendere in via analogica l’effetto interruttivo della prescrizione all’emanazione da parte del Pubblico Ministero dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, di cui all’art. 415 bis, non espressamente contemplato come causa interruttiva dall’art. 160 c.p.; diversamente, infatti, si configurerebbe una violazione del divieto di analogia in malampartem.

[16] Corte Cost. n. 317 del 4 dicembre 2009.