La proposta conciliativa ex art. 185 bis c.p.c. e la mediazione ex officio iudicis

di Michele Ruvolo

1.     Il Decreto del fare e la legge 98/13.

Dopo che la Corte Costituzionale ha dichiarato, con la sentenza 272/2012, l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. 28/10 per eccesso di delega, e quindi per violazione  degli artt. 76 e 77 Cost., il c.d. Decreto del “fare” (decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito nella legge 98/13) ha reintrodotto, per determinate controversie ed a partire dal 20 settembre 2013, la mediazione obbligatoria, ossia l’obbligo, in relazione a determinati tipi di controversie, di instaurare un procedimento di mediazione a pena di improcedibilità della domanda giudiziale.

Tale reintroduzione è avvenuta soltanto per quattro anni. La legge 98/13 stabilisce, infatti, al comma 1 bis dell’art 5, che “l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. La presente disposizione ha efficacia per i quattro anni successivi alla data della sua entrata in vigore…”.

Si è quindi rinviata alla scadenza del quadriennio la decisione – da prendere alla luce dei risultati raggiunti e dell’effettiva diffusione nel contesto sociale di un cultura della mediazione – relativa alla stabilizzazione dell’obbligatorietà della mediazione o al mantenimento della sola mediazione volontaria.

Al di là dei casi di mediazione obbligatoria ex lege, la citata riforma normativa del 2013 ha pure stabilito che il giudice può – anche in grado di appello e valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione ed il comportamento delle parti – disporre l’esperimento del procedimento di mediazione a pena di improcedibilità della domanda. Ovviamente si tratta dei casi in cui la mediazione non è già obbligatoria per legge, essendo stato già il legislatore a configurare l’espletamento del procedimento di mediazione come condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

È stato pure previsto un limite temporale all’emissione del provvedimento del giudice che invia le parti in mediazione. Esso deve essere adottato prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni ovvero, quando tale udienza non è prevista, prima della discussione della causa. Insieme al provvedimento che dispone la mediazione ex officio il giudice fissa (senza sospendere il processo, trattandosi di mero differimento) la successiva udienza dopo la scadenza del termine massimo di durata della procedura di mediazione (fissato dal nuovo art. 6 del d.lgs. 28/10 in tre mesi e non più in quattro) e, quando la mediazione non è già stata avviata, assegna anche contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione.

Ecco che la legge 98/13 attribuisce al giudice il potere di imporre alle parti di intraprendere un procedimento di mediazione nel corso del processo (in passato, invece, il giudice poteva solo invitarle a svolgere un tentativo stragiudiziale di mediazione, attendendo l’eventuale risposta positiva delle parti), in tal modo creando una nuova condizione di procedibilità (sopravvenuta) per ordine del giudice.

Si tratta di una norma che rimette al giudice l’effettività di tale canale di accesso alla mediazione (che opera non quale filtro preventivo alle liti, ma successivo e non per questo meno utile ed efficace) e può operare in ogni lite, purché abbia ad oggetto diritti disponibili.

Un ruolo centrale nella rinnovata mediazione è quindi assegnato, oltre che all’avvocato (la cui assistenza è ormai obbligatoria), anche al giudice, il quale può ordinare alle parti di tentare la mediazione (ma senza indicare l’organismo di mediazione come era invece previsto in una disposizione del Decreto “del fare” poi opportunamente eliminata nella legge di conversione 98/13, che ha quindi lasciato spazio all’autodeterminazione delle parti nella relativa scelta).

Sono quindi due le possibili fonti dell’obbligatorietà della mediazione: 1) la prima è normativa e introduce un obbligo ex lege, limitato ad alcune materie e circoscritto nel tempo per una fase di sperimentazione; 2) l’altra si affida alla valutazione discrezionale del giudice e, per questo motivo, non è vincolata nella sua operatività né ad alcune materie né ad un determinato lasso temporale.

Rimane poi, la possibilità per le parti di vincolarsi alla mediazione tramite forme di patto che precedono l’insorgenza della lite (ad esempio inserendo clausole di mediazione nei contratti nelle materie non previste dalla legge come obbligatorie) o di avviare procedimenti di mediazione volontariamente, senza, cioè, che vi sia un obbligo legale o contrattuale. In queste circostanze la mediazione seguirà anche regole diverse sulla base dei regolamenti di procedura degli organismi di mediazione.

2.     Tipologie di mediazione.

Sotto il profilo della fonte da cui scaturisce, sono quindi stati previsti, essenzialmente, tre tipi di mediazione:

1) facoltativa, quando viene liberamente scelta dalle parti. È sempre facoltativa anche la mediazione c.d. concordata, ossia la mediazione scaturente da una clausola di mediazione (si tratta della mediazione prevista nel contratto o nello statuto o nell’atto costitutivo di un ente; v. il comma 5 dell’art. 5 d.lgs. 28/10);

2) obbligatoria ex lege, quando è imposta dalla legge (e la legge 98/13 è entrata in vigore il 21.9.2013, senza considerare comunque i casi di mediazione obbligatoria già esistenti nel nostro ordinamento);

3) obbligatoria ex officio iudicis (o semplicemente ex officio o giudizialmente prescritta o by judge)quando è il giudice a disporre (con ordinanza emessa, come detto, prima della precisazione delle conclusioni o prima della discussione della causa) che le parti intraprendano, a pena di improcedibilità della domanda, un percorso di mediazione.

Come già osservato, tale tipo di mediazione è stata introdotta dalla citata legge 98/13. Nella precedente versione del d.lgs. 28/10 era prevista, invece, la mediazione giudizialmente sollecitata. Si prevedeva, infatti, che il giudice potesse solo invitare le parti ad iniziare un procedimento di mediazione (con chiara differenza rispetto alla conciliazione giudiziale, nella quale è lo stesso giudice a svolgere in ambito endoprocessuale le funzioni conciliative). Effettuata questa valutazione di opportunità (sulla via conciliativa) da parte del giudice, la scelta spettava poi alle parti, che potevano aderire o meno all’invito giudiziale. Le parti potevano ritenere utile, magari per la natura della controversia o per alcune particolari vicende fattuali, il ricorso ad un mediatore che potesse adoperarsi per il raggiungimento di un accordo amichevole.

Con la nuova mediazione ex officio iudicis è il giudice che stabilisce (valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti) se le parti debbano o meno andare in mediazione, senza che occorra il consenso delle parti e creando così una condizione di procedibilità della domanda prima inesistente.

Il giudice può prendere questa decisione anche in grado appello e in questo caso non è semplice stabilire se, in caso di mancata instaurazione del procedimento prescritto dall’Autorità giudiziaria, si debba dichiarare improcedibile l’appello o la domanda giudiziale (in molti casi proposta dall’appellato e accolta in primo grado).

3.     Connessione tra due cause di cui una sola soggetta a mediazione  obbligatoria.

Molto interessante è il caso della mediazione che risulti obbligatoria soltanto in relazione ad una delle cause connesse. È quanto accaduto, anche se sotto il vigore della mediazione su mero invito del giudice di cui alla precedente formulazione del d.lgs. 28/2010, presso il Tribunale di Verona (ordinanza 18 gennaio 2012), dove pendevano due giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo. Nel primo era stato ingiunto il pagamento di una somma di denaro a titolo di corrispettivo per forniture di autovetture e parti di ricambio che la ricorrente aveva assunto di aver effettuato a favore dell’ingiunta in esecuzione del contratto di concessione di vendita che, sempre a detta della ricorrente, doveva intendersi risolto per inadempimento della resistente seguito di invio di diffida ad adempiere rimasta priva di riscontro. In questo giudizio la resistente aveva proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo evidenziando il grave inadempimento contrattuale della controparte e chiedendo in via riconvenzionale la condanna di quest’ultima al risarcimento dei danni contrattuali.

Nel secondo giudizio era stata ingiunta – con decreto provvisoriamente esecutivo chiesto sempre dalla medesima ricorrente di cui sopra (concedente in relazione al contratto di concessione di vendita) – la consegna delle insegne che identificavano l’ingiunta come concessionaria-auto e officina autorizzata della ricorrente. Nel ricorso la ricorrente aveva dedotto che l’obbligo di restituzione delle insegne era previsto, oltre che nel medesimo contratto di concessione di vendita succitato, in un contratto di comodato, avente ad oggetto proprio tali insegne, contratto del quale le parti avevano previsto l’automatica risoluzione quale conseguenza della cessazione degli effetti del contratto di concessione di vendita. Dopo la costituzione dell’opponente, che aveva fatto valere le medesime argomentazioni già svolte nel primo giudizio, l’opposta, nel costituirsi, eccepiva che la controversia, riguardando anche il contratto di comodato sopra menzionato, avrebbe dovuto essere preceduta dal tentativo di conciliazione avanti al mediatore ai sensi dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. 28/2010.

Alla prima udienza, su concorde richiesta delle parti, i due giudizi venivano riuniti. Ecco che – poiché il primo giudizio verteva sulla risoluzione o meno del contratto di concessione di vendita e solo il secondo giudizio verteva anche sul contratto di comodato – era con esclusivo riferimento alla seconda causa, riunita però alla prima, che poteva porsi un problema di condizione di procedibilità per mancato esperimento del tentativo di conciliazione. Per dar modo alle parti di esperire, nel caso di specie, il procedimento di mediazione, sarebbe stato necessario separare la controversia riguardante il contratto di comodato da quella concernente il contratto di concessione di vendita e revocare il decreto ingiuntivo opposto (anche se un simile effetto avrebbe richiesto l’emissione di una sentenza, il che avrebbe complicato l’iterdel giudizio in quanto, in caso di esito negativo del procedimento di mediazione, si sarebbe dovuto promuovere un nuovo giudizio relativo al contratto di comodato). Proprio per evitare una tale eventualità e, al contempo, per favorire appieno la prospettiva conciliativa propria del procedimento di mediazione, il Tribunale di Verona ha ritenuto opportuno che al procedimento di mediazione le parti devolvessero tutte le controversie di cui si è detto, giovandosi del disposto dell’art. 5 comma 2° d.lgs. 28/2010 e, quindi, della mediazione su invito del giudice. Stante la stretta connessione, non solo giuridica ma anche fattuale, esistente tra la controversia relativa al contratto di concessione di vendita e quella relativa al contratto di comodato, il decidente ha considerato opportuno, al fine di rendere utilmente esperibile il procedimento di mediazione, demandare ad esso entrambe le controversie. Ciò che risulta di particolare interesse è che in questo caso il Tribunale di Verona non ha chiesto esplicitamente alle parti se volessero accettare l’invito del giudice, ma, a scioglimento della riserva, invece di fissare l’udienza per la verifica dell’accettazione dell’invito ad opera delle parti, ha direttamente rinviato la causa ad un’udienza successiva di oltre quattro mesi per consentire alle parti di esperire il procedimento di mediazione su tutti i rapporti dedotti in causa ed ha assegnato alle stesse il termine di quindici giorni dalla comunicazione del provvedimento per presentare la domanda di mediazione. Ciò ha fatto in quanto ha ritenuto che il consenso delle parti all’avvio della mediazione giudizialmente sollecitata (con riferimento, quindi, al contratto di concessione di vendita), consenso richiesto dal citato comma 2 dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010, potesse presumersi sulla base del loro contegno processuale, estrinsecatosi, per quanto riguarda l’opposta, nel richiedere espressamente l’avvio della mediazione e, con riferimento all’opponente, nel non aver sollevato obiezioni di sorta in relazione a tale eventualità.

Dopo le modifiche apportate dalla legge 98/13, che ha trasformato la mediazione ex officio in obbligatoria prevedendo che il provvedimento del giudice che invia le parti in mediazione faccia sorgere una condizione di procedibilità della domanda giudiziale, la soluzione adottata dal Tribunale diventa ancor più semplice da adottare in quanto non occorre verificare la sussistenza del consenso delle parti.

4.     Quando può disporsi la mediazioneex officio iudicis.

Per Trib. Milano, sezione IX civile, 29.10.2013 (in Giur. Italiana, 2014, 1; v. pure, Trib. Milano, sez. Impresa, ordinanza 11 novembre 2013, Pres. est., E. Riva Crugnola, in www.ilcaso.it) la mediazione ex officio iudicis è possibile anche per i procedimenti pendenti (in quanto il nuovo comma 2 dell’art. 5 del d.lgs. 28/10 attribuisce un nuovo potere discrezionale al magistrato che va considerato come una nuova facoltà squisitamente processuale e quindi applicabile dal momento dell’entrata in vigore della norma a tutti i procedimenti, compresi quelli pendenti), nonché pure per le materie diverse da quelle assoggettare a mediazione obbligatoria ex lege in base al comma 1 bis dell’art. 5 del d.lgs. 28/10 (il che sembra del tutto evidente se si considera che per le materie di cui al citato comma 1bisè già prevista una forma di mediazione obbligatoria ed a nulla varrebbe la mediazione ex officio iudicis). 

Pure Trib. Firenze, sez. II civile, 19.3.2014 ritiene che la mediazione ex officio iudicis  possa essere disposta anche per i procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della legge 98/13 (e ciò in forza del principio per cui tempus regit actum). Con riferimento ai giudizi pendenti va poi osservato che nelle materie già selezionate dal Legislatore per la mediazione obbligatoria ex lege può ritenersi sussistente una “presunzione semplice” di opportunità, avendo già la normativa formulato ex anteuna prognosi favorevole quanto all’efficacia del procedimento di mediazione.

Inoltre, secondo Trib. Roma, sez. XIII, 28.11.2013 la mediazione ex officioiudicis  sarebbe ammissibile anche nei giudizi di querela di falso in quanto, essendo ammissibile tra i mezzi istruttori anche la confessione (pure tramite interrogatorio formale), allora verrebbero in questione diritti disponibili. Tale soluzione non trova comunque molti consensi.

Ancora, per Trib. Firenze, sez. II civile, 27.11.2013 l’esistenza di una clausola arbitrale non impedisce il ricorso alla mediazione ex officio iudicis.

La mediazione è poi certamente utile per i conflitti che riguardino rapporti destinati a proiettarsi nel tempo, come quelli di vicinato o come le relazioni commerciali.

Ed anche la sussistenza di legami tra le parti è un elemento rivelatore dell’opportunità della mediazione (es. liti tra coniugi).

Si è poi reputata adeguata la mediazione in caso di controversie recanti un valore così contenuto da far apparire l’utilizzo del processo sproporzionato. Recentemente si è pure ritenuto che il giudice possa far uso dell’istituto anche per far fronte ad eventuali fasi di stasi del processo per motivi che prescindono dalle parti, come lo smarrimento di atti di causa (cfr. Trib. Brescia, sez. II, 28 novembre 2013).

Trib. Verona (dott. M. Vaccari) 27.1.2014 ha infine inviato le parti in mediazione tenendo pure conto della probabilità che l’iter del contenzioso si sarebbe complicato per la possibile proposizione di un regolamento di competenza e per l’eventualità di dover dar corso ad un’attività istruttoria diretta a chiarire il rapporto intercorso tra le parti, con conseguente lievitazione dei costi per le parti.

Trib. Milano (sez. IX Civile, est. Buffone) 29 ottobre 2013 ha ritenuto che la mediazione ex officio iudicis possa avere grande utilità quando tra le parti vi siano anche altre controversie senza la cui contestuale definizione sarebbe difficile trovare una composizione conciliativa. In un caso relativo ad un appello su un’opposizione a precetto per crediti di mantenimento non integralmente pagati il Tribunale di Milano osserva che “i mediatori ben potrebbero estendere la “trattativa (rectius: mediazione)” ai crediti maturati successivamente alla instaurazione dell’odierna lite e non fatti valere in questo processo, così essendo evidente che l’eventuale soluzione conciliativa potrebbe definire il conflitto, nel suo complesso, mentre la sentenza di appello potrebbe definire, tout court, solo una lite, in modo parziale”.

Presso il Tribunale di Caltanissetta la mediazione ex officio iudicis ha avuto ottimi risultati (il 90% delle cause inviate in mediazione si è estinto ex art. 309 c.p.c.), è stata solitamente disposta dopo che le parti avevano depositato le memorieexart. 183 c.p.c. in modo da valutare compiutamente la loro posizione, ma è stata pure disposta alla prima udienza (soprattutto nel caso di liti tra parenti o vicini) o al termine dell’istruttoria (ad esempio nel contenzioso bancario).

Anche il Tribunale di Trapani ha usato non di rado l’istituto della mediazione ex officio iudicis e con buoni risultati.

In altri Tribunali ha invece avuto un esito parecchio negativo, probabilmente perché è difficile pervenire  a soluzioni conciliative in certi tipi di contenzioso.

Quel che bisogna ora mettere in evidenza è che devono comunque venire in questione diritti disponibili.

Invero, tutti i tipi di mediazione (e quindi anche quella ex officio iudicis) sono esperibili se relativi a controversie civili e commerciali vertenti su diritti disponibili. Ciò pare piuttosto evidente in considerazione della natura negoziale della conciliazione e del fatto che la materia dei diritti disponibili costituisce un limite naturale di qualsiasi atto negoziale dispositivo.

Certo, è bene precisare che la causa è nella disponibilità delle parti anche quando riguardi situazioni giuridiche soggettive indisponibili allorché oggetto del processo non sia l’an del diritto soggettivo ma la riparazione monetaria di natura patrimoniale che consegue alla violazione dello stesso (v. quanto ha precisato, in tempi recenti, la Suprema Corte in tema di Legge cd. Pinto: «il diritto al processo giusto e di durata ragionevole è indisponibile e, come tale, non è soggetto a conciliazione; esso è però sicuramente diverso da quello alla riparazione monetaria di natura patrimoniale della sua violazione di certo disponibile» – Cass. Civ., SS.UU., sentenza 22 luglio 2013 n. 17781, Pres. Trifone, rel. Forte). È chiaro, dunque, come il fascio applicativo dell’istituto sia ampio e, soprattutto, come esso certamente includa le controversie in cui il giudice sia chiamato a monetizzare la lesione arrecata ad un diritto della persona.

La mediazione ex officio iudicis può poi essere disposta anche se una delle parti del processo è una Amministrazione Pubblica. Nelle fonti normative non si rinvengono, infatti, disposizioni che escludono le pubbliche amministrazioni dall’ambito di applicazione della disciplina introdotta. Pertanto, la normativa in materia di mediazione in ambito civile e commerciale trova applicazione anche in riferimento al settore pubblico, come pure si legge nella circolare del Dipartimento della funzione pubblica n. 9/2012.

Né è ostativo al procedimento di mediazione il fatto che una delle parti sia sottoposta ad una misura di protezione (es. interdizione o amministrazione di sostegno): in questo caso, però, in ragione delle eventuali limitazioni previsti nel decreto di amministrazione o di quelle discendenti dalla sentenza di interdizione, occorrerà, per l’eventuale conciliazione/transazione, esplicita autorizzazione dell’Autorità giudiziaria competente (Tribunale o giudice tutelare).

A tal ultimo proposito si noti che, con riferimento al procedimento di mediazione ci si è interrogati, tra le altre cose, sulle modalità di partecipazione al tavolo della mediazione dei soggetti incapaci. In proposito Trib. Varese (decreto Giudice tutelare) 13 febbraio 2012 ha autorizzato il tutore a partecipare a tutti gli incontri dei mediatori, in sostituzione dell’interdetto e ciò in considerazione del fatto che la valida trattazione del procedimento di mediazione richiede la piena capacità di colui che vi partecipa. Il giudice varesino ha poi anche precisato sia che è compito dei mediatori quello di accertare che al tavolo di mediazione si presentino soggetti con la piena capacità di disporre del diritto conteso, tenuto conto delle pubblicità ex lege sottese alle misure di protezione degli adulti incapaci e della diligenza professionale cui deve godere il mediatore, sia che, in caso di possibile ipotesi transattiva, il tutore deve comunque munirsi, per l’adesione e la sottoscrizione, dell’autorizzazione di cui all’art. 375, comma 1, n. 4 c.c.

Pare poi opportuno osservare che, come tutte le ordinanze, anche quella che dispone la mediazioneex officio è da ritenere revocabile ai sensi dell’art. 177 c.p.c. Rispetto a tale ordinanza, non impugnabile, è quindi ammissibile lo ius poenitendi  di cui all’art. 177 c.p.c.

Del pari abbastanza pacifico deve poi ritenersi l’esclusione del fatto che la sospensione del giudizio possa determinare anche sospensione del procedimento di mediazione che sia stato disposto nel corso di esso, dal momento che questo incidente, pur inserendosi nel giudizio, ha una propria autonomia, ricollegabile alla sua esclusiva finalità conciliativa, cosicché non pare risentire delle sorti del processo (in questo senso Trib. Verona 27.1.2014, che aggiunge che un riscontro a tale ricostruzione è rinvenibile nel disposto dell’art. 6,. comma 2, d. Lgs. 28/2010 che prevede che il termine per lo svolgimento della mediazione non è soggetto a a sospensione feriale).

Ci si deve invece interrogare sulle conseguenze derivanti dalla mancata attivazione ad opera delle parti della mediazione prescritta dal giudice.

La soluzione preferibile è quella che ritiene necessaria l’emissione di una sentenza di improcedibilità della domanda.

Resta però da chiarire se tale tipo di decisione sia da ritenere non adottabile ogniqualvolta venga instaurato il procedimento di mediazione disposto dal giudice o se occorra qualcosa di più per ritenere adempiuto l’ordine giudiziale.

5.     A quali condizioni può ritenersi adempiuto l’ordine del giudice.

Il ricordato provvedimento del Trib. Firenze, sez. II civile, 19.3.2014 chiarisce le condizioni verificatesi le quali può ritenersi correttamente eseguito l’ordine del giudice e può quindi considerarsi formata la condizione di procedibilità. Esse sono: 1) che vi sia stata la presenza personale delle parti; 2) che le parti abbiano effettuato un tentativo di mediazione vero e proprio.

Ed anche per Trib. Firenze, sez. spec. impresa, 17.3.2014 occorre la comparizione personale delle parti. Ecco che, avendo nel caso di specie i difensori delle parti, all’uopo delegati, manifestato al mediatore la mera volontà dei deleganti di non procedere all’esperimento della mediazione, il Tribunale di Firenze ha rimesso le parti di nuovo davanti al mediatore. In altri termini, secondo il Tribunale di Firenze nel caso in cui il giudice disponga la mediazione la condizione di procedibilità non è soddisfatta quando i difensori si recano dal mediatore e, ricevuti i suoi chiarimenti su funzione e modalità della mediazione, dichiarano il rifiuto di procedere oltre. In caso di mediazione ex officioè necessario che le parti compaiano personalmente (assistite dai propri difensori come previsto dall’art. 8 d.lgs. n. 28/2010) e che la mediazione sia effettivamente avviata.

Nel suo articolato e ben strutturato ragionamento il giudice fiorentino (ord. 19.3.2014) parte dalla considerazione per cui l’art. 5 e l’art. 8 del d.lgs. 28/10 sono formulati in modo ambiguo, posto che nell’art. 8 sembra che il primo incontro sia destinato solo alle informazioni date dal mediatore ed a verificare la volontà di iniziare la mediazione (l’art. 8 prevede, infatti, che “durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento”). Tuttavia, nell’art. 5, comma 2bis, si parla di “primo incontro concluso senza l’accordo’‘. Sembra dunque che il primo incontro non sia una fase estranea alla mediazione vera e propria. Non avrebbe molto senso, secondo il Tribunale di Firenze, parlare di ‘mancato accordo’ se il primo incontro fosse destinato non a ricercare l’accordo tra le parti rispetto alla lite, ma solo la volontà di iniziare la mediazione vera e propria. Ciò a prescindere dalle difficoltà di individuare con precisione scientifica il confine tra la fase c.d. preliminare e la mediazione vera e propria (difficoltà ben nota a chi ha pratica della mediazione), data la non felice formulazione della norma.

Pertanto, il Tribunale di Firenze ha ritenuto necessario, al fine di spiegare la detta ambiguità interpretativa, ricostruire la regola avendo presente lo scopo della disciplina, anche alla luce del contesto europeo in cui si inserisce (direttiva 2008/52/CE).

Sei sono gli argomenti che hanno portato il Tribunale di Firenze a ritenere necessaria, per la formazione della condizione di procedibilità della domanda giudiziale dopo la mediazione ex officio iudicis, la presenza effettiva delle parti nel procedimento di mediazione e l’effettivo avvio di un sostanziale tentativo di mediazione:

1) i difensori, definiti mediatori di diritto dalla stessa legge, hanno sicuramente già conoscenza della natura della mediazione e delle sue finalità. Se così non fosse non si vede come potrebbero fornire al cliente l’informazione prescritta dall’art. 4, comma 3,  del d.lgs 28/2010, senza contare che obblighi informativi in tal senso si desumono già sul piano deontologico (art. 40 codice deontologico ). Non avrebbe dunque senso imporre l’incontro tra i soli difensori e il mediatore solo in vista di un’informativa;

2) la natura della mediazione esige che siano presenti di persona anche le parti: l’istituto mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto: questo implica necessariamente che sia possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore. L’assenza delle parti, rappresentate dai soli difensori, dà vita ad altro sistema di soluzione dei conflitti, che può avere la sua utilità, ma non può considerarsi mediazione. D’altronde, questa conclusione emerge anche dall’interpretazione letterale: l’art. 5, comma 1 bis e l’art. 8 prevedono che le parti esperiscano il (o partecipino al) procedimento mediativo con l’assistenza degli avvocati, e questo implica la presenza degli assistiti;

3) ritenere che la condizione di procedibilità sia assolta dopo un primo incontro in cui il mediatore si limiti a chiarire alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione vuol dire in realtà ridurre ad un’inaccettabile dimensione notarile il ruolo del giudice, quello del mediatore e quello dei difensori. Non avrebbe ragion d’essere una dilazione del processo civile per un adempimento burocratico del genere. La dilazione si giustifica solo quando una mediazione sia effettivamente svolta e vi sia stata un’effettiva chance di raggiungimento dell’accordo alle parti. Pertanto occorre che sia svolta una vera e propria sessione di mediazione. Altrimenti, si porrebbe un ostacolo non giustificabile all’accesso alla giurisdizione;

4) l’informazione sulle finalità della mediazione e le modalità di svolgimento ben possono in realtà essere rapidamente assicurate in altro modo: 1. Dall’informativa che i difensori hanno l’obbligo di fornireexart. 4 cit., come si è detto; 2. dalla possibilità di sessioni informative presso luoghi adeguati (v. direttiva europea) e, per quanto concerne il Tribunale di Firenze, presso l’URP (v. articolo 11 del protocollo  Progetto  Nausicaa2 ) e  da ultimo, sempre nell’ambito di tale Progetto, presso l’ufficio di orientamento gestito dal Laboratorio Unaltromodo dell’Università di Firenze;

5) l’ipotesi che la condizione si verifichi con il solo incontro tra gli avvocati e il mediatore per le informazioni appare particolarmente irrazionale nella mediazione disposta dal giudice: in tal caso, infatti, si presuppone che il giudice abbia già svolto la valutazione di ‘mediabilità’ del conflitto  (come prevede l’art. 5 cit.: che impone al giudice di valutare ”la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti”), e che tale valutazione si sia svolta nel colloquio processuale con i difensori. Questo presuppone anche un’adeguata informazione ai clienti da parte dei difensori; inoltre, in caso di lacuna al riguardo, lo stesso giudice, qualora verifichi la mancata allegazione del documento informativo, deve a sua volta informare la parte della facoltà di chiedere la mediazione. Come si vede, dunque, sono previsti plurimi livelli informativi e non è pensabile che il processo venga momentaneamente interrotto per un’ulteriore informazione anziché per un serio tentativo di risolvere il conflitto;

6) l’art. 5 della direttiva europea 2008/52/CE distingue le ipotesi in cui il giudice invia le parti in mediazione rispetto all’invito (sempre da parte del giudice) per una semplice sessione informativa: un ulteriore motivo per ritenere che nella mediazione disposta dal giudice viene chiesto alle parti (e ai difensori) di esperire la mediazione e cioè l’attività svolta dal terzo imparziale finalizzata ad assistere due o più soggetti nella ricerca di un accordo amichevole (secondo la definizione  data dall’art. 1 del d.lgs. n. 28/2010) e non di acquisire una mera informazione e di rendere al mediatore una dichiarazione sulla volontà o meno di iniziare la procedura mediativa.

Alla luce delle considerazioni che precedono il giudice fiorentino ha considerato quale criterio fondamentale la ragion d’essere della mediazione, che ruota attorno all’esigenza di tentare realmente di pervenire ad una soluzione non giudiziale della controversia, ed ha affermato la necessità che le parti compaiano personalmente (assistite dai propri difensori come previsto dall’art. 8 d.lgs. n. 28/2010) e che la mediazione sia effettivamente avviata.

Un’altra strada interpretativa è quella seguita (allo stato) dal Tribunale di Milano (strada, però, inaugurata prima della presa di posizione di Firenze): la condizione di procedibilità è soddisfatta anche quanto sia tenuto solo il primo incontro di mediazione senza accordo (l’incontro di cui all’art. 8 comma I d.lgs. 28/2010). Le differenze non sono di scarsa rilevanza. Nel primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti ed i loro avvocati ad esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento. Si tratta, dunque, secondo il Tribunale di Milano, dell’incontro dedicato alla cd. valutazione di mediabilità e, cioè, dell’anticamera del procedimento mediativo.

Secondo il primo indirizzo illustrato (Tribunale di Firenze), per soddisfare la condizione di procedibilità questo primo incontro non basta: occorre dare effettivamente inizio alla procedura. Per il secondo indirizzo segnalato (Tribunale di Milano) questa prima relazione al tavolo di mediazione è già sufficiente.

La lettura che conferisce maggiore razionalità all’istituto è certamente quella fiorentina e ciò almeno per quanto riguarda l’effettivo tentativo di mediazione, considerato che è invece difficile sostenere che le parti debbano essere personalmente presenti, essendo loro diritto conferire eventualmente una procura di carattere sostanziale ad un altro soggetto (che può pure essere l’avvocato difensore).

Sussiste, però, un nodo interpretativo da risolvere. Il Legislatore ha espressamente regolato il regime giuridico sotteso alla condizione di procedibilità e previsto, all’art. 5 comma 2 bis, che «quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo». La disposizione, dunque, sembra richiamare espressamente “il primo incontro” di cui all’art. 8 comma I cit.

Il giudice non potrebbe quindi esigere, al fine di ritenere correttamente formata la condizione di procedibilità, che le mediazione sia stata tentata anche oltre il primo incontro.

Tuttavia, egli può comunque richiedere che in questo primo incontro il tentativo di mediazione sia stato effettivo.

Certo, è vero che può sembrare che in questo primo incontro il mediatore potrebbe non avere neppure la possibilità di tentare un accordo se le parti non vogliono che ciò accada. Infatti, secondo quanto previsto dall’art. 8 del nuovo d.lgs. 28/10, “durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione. Il mediatore, sempre nello stesso primo incontro, invita poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento”.

Una prima lettura delle disposizioni normative pare giustificare un’interpretazione per cui se le parti e i loro avvocati non vogliono effettuare un vero tentativo di conciliazione (magari per non pagare il compenso all’organismo di mediazione) ben possono esprimere in questa prima parte del primo incontro, di natura preliminare, la loro volontà contraria all’inizio di una mediazione e il tuto finisce lì. La disposizione normativa in questione, così interpretata, sarebbe molto discutibile in quanto rischierebbe di rendere la mediazione di fatto facoltativa. Il mediatore potrebbe pure pensare, alla luce di tale disposizione normativa, di non potere neppure tentare di verificare se effettivamente le posizioni delle parti sono inconciliabili. Se, infatti, in quest’ultimo caso si può parlare di un fallimento della mediazione, nel caso teoricamente consentito dal legislatore di manifestazione (anche ad opera di una sola delle parti) della sua volontà contraria alla mediazione vi sarebbe un aborto legale della mediazione. Peraltro, se si ritiene che ogni parte può impedire fin dall’inizio l’effettivo svolgimento del procedimento di mediazione, ognuno dei partecipanti sarebbe titolare di un diritto potestativo alla chiusura del procedimento e gli altri sarebbero tutti in una posizione di soggezione. Ed è da credere che tale diritto potestativo verrebbe spesso esercitato se si considera che, come accennato, è stato aggiunto il comma 5terdell’art. 17 del d.lgs. 28/10, secondo cui nel caso di mancato accordo all’esito del primo incontro nessun compenso è dovuto per l’organismo di mediazione.

Tuttavia, una corretta interpretazione (in linea con la ratio della direttiva europea – ed è noto che gli operatori nazionali sono tenuti, secondo la Corte di giustizia UE, a tentare un’interpretazione delle disposizioni nazionali conforme alle norme europee – che mira ad agevolare il più possibile la soluzione delle controversie in modo alternativo a quello giudiziario) è quella che ritiene che il mediatore, nell’invitare le parti e i loro procuratori a esprimersi sulla “possibilità” di iniziare la procedura di mediazione, deve verificare se vi siano i presupposti per poter procedere nell’effettivo svolgimento della mediazione (il cui procedimento comunque già inizia con il deposito dell’istanza di mediazione). Tali presupposti sono, ad esempio, l’esistenza di una delibera che autorizza l’amministratore di condominio a stare in mediazione (così come previsto dalla legge 220/12) o l’esistenza di un’autorizzazione del giudice tutelare se a partecipare alla mediazione deve anche essere un minore ovvero la presenza di tutti i litisconsorti necessari. Il mediatore non dovrebbe chiedere, come invece ritenuto da molti, se le parti vogliono andare avanti. Egli non deve verificare la “volontà” delle parti e dei procuratori, ma li invita ad esprimersi sulla “possibilità ” di iniziare la procedura di mediazione. E nel punto in cui la norma dice che “nel caso positivo, procede con lo svolgimento” essa non va intesa nel senso che se gli avvocati dicono che c’è tale possibilità si va avanti, mentre se dicono che non sussiste questa possibilità non si procede oltre. È il mediatore che, tenuto conto di quello che dicono le parti e gli avvocati, valuta se sussiste questa possibilità (nella norma, infatti, non si legge “nel caso di risposta positiva”, ma “nel caso positivo”). Si comprende, quindi, il motivo per cui il comma 5 ter dell’art. 17 del d.lgs. 28/10 contempla (come il comma 2 bisdell’art. 5) la possibilità di un accordo tra le parti in sede di primo incontro (prevedendo che in caso di mancato incontro non è dovuto compenso all’organismo).

Questa interpretazione è stata fatta propria nel 2014 dal Tribunale di Palermo (I Sezione civile), che, sulla base degli argomenti sopra indicati, ha affermato che la mediazione disposta dal giudice in corso di causa deve svolgersi in modo effettivo durante il primo incontro tra le parti e il mediatore, pena l’improcedibilità sopravvenuta del giudizio.

Con questa ordinanza del 16 luglio 2014, resa in una causa in materia di responsabilità sanitaria nella quale disposta ed effettuata la CTU, il giudice ha ritenuto di formulare in primo luogo una proposta conciliativa ai sensi dell’articolo 185 bis c.p.c. (con effetti ex articolo 91 c.p.c.

La proposta formulata dal giudice siciliano ha recepito sostanzialmente la CTU ed ha invitato le parti a riflettere sui rispettivi “vantaggi” di tale possibile soluzione negoziale, evidenziando sia per l’attore sia per il convenuto le diverse opportunità derivanti dall’adesione alla proposta conciliativa giudiziale. Il tribunale ha motivato brevemente le ragioni che erano alla base della proposta e le ragioni che dovevano indurre le parti a valutare con attenzione l’opportunità di una loro adesione.

Nell’ordinanza in questione il Tribunale di Palermo, dopo aver formulato la proposta conciliativa, ha preannunciato alle parti che in caso di mancata conciliazione in conseguenza della proposta formulata sarebbe stata disposta dal giudice la mediazione ex officio (ritenendola possibile per i processi già pendenti all’entrata in vigore della riforma del 2013 e precisando che, anzi, nelle materie già selezionate dal legislatore per la mediazione obbligatoria ex lege ,come la responsabilità medico-sanitaria di cui al giudizio in questione, poteva ritenersi sussistente una “presunzione semplice” di opportunità, avendo già la normativa formulato ex ante una prognosi favorevole quanto all’efficacia del procedimento di mediazione). Nel preannunciare questo tipo di provvedimento sono stati pure richiamati espressamente gli orientamenti del Tribunale di Milano e del Tribunale di Firenze.

Il giudice palermitano ha nella sostanza condiviso la sostanza dell’impostazione fiorentina, ritenendo che la mediazione debba effettivamente svolgersi (aggiungendo qualche argomento al riguardo, tratto da una interpretazione della lettera dell’art. 8 d.lgs. 28/2010, da leggere nel senso dell’impossibilità che il mediatore si accontenti dell’accertamento della volontà delle parti di procedere oltre, dovendo invece verificare l’effettiva possibilità del tentativo di conciliazione), ma discostandosi dall’interpretazione del giudice fiorentino sotto il profilo della presenza personale delle parti (“considerato che è invece difficile sostenere che le parti debbano essere personalmente presenti, essendo loro diritto conferire eventualmente una procura di carattere sostanziale ad un altro soggetto”).

Nell’ordinanza palermitana si precisa, quindi, che secondo la normativa vigente il mediatore al primo incontro non debba verificare la “volontà” delle parti e dei procuratori, ma debba accertare la “possibilità” di iniziare la procedura di mediazione. Aderire all’orientamento milanese che ritiene sufficiente per la condizione di procedibilità un primo incontro destinato alla informativa ed a una formale valutazione della mediabilità condurrebbe, peraltro, ad un “aborto legale della mediazione”.

In conclusione, il Tribunale di Palermo formula alle parti una proposta conciliativa e fissa per la verifica della posizione delle parti sulla proposta conciliativa un’udienza riservandosi di disporre in tale udienza, in caso di mancata accettazione della proposta conciliativa, l’esperimento del procedimento di mediazione ex officio iudicis quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, condizione che si riterrà formata soltanto se nel primo incontro il tentativo di mediazione sia stato effettuato dalle parti in modo effettivo.

Richiamando in particolar modo quest’ultimo provvedimento del Tribunale di Palermo e tutte gli altri argomenti già fatti valere per la mediazione ex officio, di recente il Tribunale di Firenze ha ritenuto necessario l’espletamento effettivo del tentativo di conciliazione (alla presenza personale delle parti) anche nella mediazione obbligatoria ex lege (ordinanza del 26.11.2014, est. Breggia).

Analogamente, con l’ordinanza del 16 luglio 2014 il Tribunale di Roma (XIII Sezione civile – Giudice Moriconi) nel corso di un giudizio (in materia di responsabilità medica) nel quale era stata acquisita una CTU disposta nel procedimento ai fini della conciliazione della lite (articolo 696-bis del Cpc.) ed in sede di trasformazione del rito ex articolo 702-ter, comma 3, Cpc, ha formulato una proposta conciliativa ed ha disposto immediatamente per il caso della mancata adesione delle parti la mediazione delegata, con l’avvertenza che è richiesta alle parti l’effettiva partecipazione al procedimento di mediazione demandata e che la mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione demandata dal giudice, oltre a poter attingere alla stessa procedibilità della domanda, è in ogni caso comportamento valutabile nel merito della causa. Principio di effettività della mediazione applicato dunque alla mediazione demandata dal giudice (articolo 5, comma 2, Dlgs 28/2010) ma che già viene ritenuta applicabile anche alla mediazione obbligatoria preventiva ex lege (articolo 5, comma 1-bis, Dlgs 28/2010).

6.     La proposta conciliativaexart. 185 bis c.p.c.

Ai sensi dell’art. 185 bis c.p.c. (Proposta di conciliazione del giudice), «il giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione, formula alle parti ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa. La proposta di conciliazione non può costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice».

Anche questa previsione normativa, di carattere processuale, è applicabile ai procedimenti pendenti e ciò in applicazione del principio tempus regit actum (Trib. Milano, sez. X civ., ordinanza 4 luglio 2013, est. A. Simonetti[2]). Ma oltre al fatto che l’art. 185 bis c.p.c. è norma processuale, e quindi applicabile ai processi pendenti in virtù del principiotempus regit actum, vi è anche il fatto che l’art. 77 del decreto legge 69/2013, che introduce la proposta di conciliazione del giudice, non contempla disposizioni transitorie ed il suo regime di efficacia temporale discende dalla norma finale (art 86), secondo la quale il decreto entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione.

Il Legislatore ha voluto espressamente tenere distinte, da un lato, la proposta “transattiva” e dall’altra quella “conciliativa” (e, infatti, modifica, in questi termini, anche il contenuto dell’art. 420 c.p.c.). La proposta avente natura transattiva è diretta a provocare nelle parti la transazione (art. 1966 c.c.), ovvero il contratto col quale i litiganti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine alla loro lite. La proposta conciliativa, invece, propone la composizione di una controversia a seguito dello svolgimento di una attività di mediazione che può anche prescindere da reciproche concessioni e non risolversi in una esternazione negoziale.

Per meglio comprendere la distinzione tra proposta transattiva e proposta conciliativa si valutino le due ordinanze di seguito indicate.

Trib. Fermo (ordinanza 17 ottobre 2013, est. Marziale) propone la soluzione “transattiva della lite” mediante accordo compositivo della controversia con cui si realizzi la “corresponsione, da parte dell’opponente, della somma relativa alla sola sorte capitale con esclusione degli accessori vari; spese compensate”.

Trib. Milano (ordinanza 27 novembre 2013, est. Vannicelli) propone una “soluzione conciliativa” della lite invitando i litiganti a valutare “la possibilità di rinunciare reciprocamente a qualsiasi pretesa e contro pretesa creditoria”.

Evidentemente, sia la proposta conciliativa che quella transattiva sono tanto più facilmente accoglibili quanto più chiaro è il panorama normativo-giurisprudenziale di riferimento.

Infatti, secondo Trib. Roma, sez. XIII, ordinanza 23 settembre 2013 (M. Morriconi) l’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, che legittima l’applicazione dell’art. 185 bis c.p.c., trova il suo fondamento logico nell’evidente dato comune che è meno arduo pervenire ad un accordo conciliativo o transattivo se il quadro normativo dentro il quale si muovono le richieste, le pretese e le articolazioni argomentative delle parti sia fin dall’inizio sufficientemente stabile, chiaro e in quanto tale prevedibile nell’esito applicativo che il Giudice ne dovrà fare.

La giurisprudenza di merito ha poi giudicato applicabile l’art. 185bisc.p.c. anche alle liti familiari, come strumento per potere proporre un assetto compositivo della lite e dunque per raggiungere un accordo omologabile dal giudice (v. art. 337octiesc.c.).

In particolare, con decreto del 26 giugno 2013 il Tribunale di Milano, sez. IX civ., ha affermato che l’art. 185bisc.p.c., pur non espressamente richiamato nel rito famiglia, costituisce l’espressione di un principio generale (e infatti si rinviene anche nell’art. 420 c.p.c.), pure per il fatto di distinguere espressamente tra proposta transattiva e conciliativa e per la difficoltà di ammettere settori o comparti divisi dell’ordinamento in cui il giudice possa o non possa aiutare i litiganti a pervenire ad un assetto condiviso per la soluzione pacifica della causa.

L’applicazione dell’istituto della proposta conciliativa ha poi condotto la Sezione IX civile del Tribunale di Milano ad una sperimentazione che vede concludersi con accordo l’80% dei procedimenti ex artt. 316 comma IV c.c. (cd. rito partecipativo).

Si è anche ritenuto che con la propostaexart. 185 bis c.p.c. si possa tenere pure conto delle altre liti tra le parti, non oggetto dello specifico processo pendente, ma pur sempre connesse con lo stesso, in modo che l’assetto conciliativo vada a comporre il conflitto nel suo complesso non limitandosi a definire la singola controversia. E così Trib. Milano, sez. IX, 14 novembre 2013, Pres. rel. Dell’Arciprete, ha formulato alle parti la seguente proposta conciliativa: “la ex moglie potrebbe acquistare la quota di casa del marito (avendone fatto proposta): euro 160.000,00 (valore della quota da liquidare) da cui detrarre la quota del TFR che le spetta (euro 30.000,00= con residuo da versare di euro 130.000,00. Per l’effetto, l’assegno divorzile verrebbe ridotto ad euro 550,00 mensili)”. La proposta è stata accolta dalle parti con delle modifiche apportate dalle stesse. Ed effettivamente è da ritenere possibile la formulazione da parte del giudice di una proposta conciliativa che comprenda anche pretese delle parti relative a liti diverse da quella oggetto di causa o addirittura ancora da instaurare. Invero, se il mediatore non è limitato nella sua attività conciliativa alle richieste formulate in giudizio dalle parti, anche il giudice, nel congegnare una proposta conciliativa, può fare riferimento a pretese estranee al contenzioso davanti a lui pendente.

7.     Alcune particolari questioni in tema di proposta conciliativa.

a)      La proposta conciliativa va motivata?

Generalmente i giudici o non motivano o motivano comunque poco le loro proposte conciliative e ciò per evitare anticipazioni di giudizio. Certo, qualcuno inserisce un minimo di motivazione (anche a costo di anticipare non tanto il giudizio, quanto gli elementi di cui si terrà conto in sede di definizione della causa[3]) perché questo aiuta le parti ad acquisire una maggiore consapevolezza della convenienza della soluzione proposta.

In questo senso si è orientato anche il Tribunale di Roma (sez. XIII, ordinanza del 4/11/2013, inGuida al diritto 2013, 49-50, ins., IV), che ha affermato che “benché la legge non preveda che la proposta formulata dal giudice ai sensi dell’art. 185 bis c.p.c. debba essere motivata (le motivazioni dei provvedimenti sono funzionali alla loro impugnazione, e la proposta ovviamente non lo è, non avendo natura decisionale), possono essere indicate alcune fondamentali direttrici utili a orientare le parti nella riflessione sul contenuto della proposta e nell’opportunità e convenienza di farla propria, ovvero di svilupparla autonomamente”[4].

Spesso accade che il giudice formuli ai procuratori o anche alle parti, se presenti, la proposta conciliativa in modo informale e se gli avvocati o le parti presenti si dimostrano disponibili viene fissata un’udienza apposita per la formulazione formale della proposta. Ciò pare un modo di procedere che può anche essere condivisibile, ma che, se non perviene alla formale formulazione della proposta, impedisce di applicare l’art. 91 c.p.c., con il venir meno, quindi, di un elemento (quello della possibile condanna alle spese anche in caso di vittoria del giudizio) che può eliminare qualche residuo dubbio nelle parti nell’accettare la proposta.

b)      In quale tipo di contenzioso la proposta conciliativa può produrre migliori risultati?

Generalmente è il settore delle pretese di carattere economico quello in cui le proposte conciliative possono portare risultati particolarmente positivi.

Grande successo ottiene, poi, la proposta formulata nei giudizi di separazione e divorzio o comunque in quelli relativi all’ambito familiare[5]. A quest’ultimo proposito si ribadisce che l’art. 185 bis c.p.c., pur non espressamente richiamato nel rito famiglia (per difetto di coordinamento) costituisce l’espressione di un principio generale (anche nell’art. 420 c.p.c. come riformato), anche perché sarebbe difficile distinguere settori dell’ordinamento in cui il giudice possa o non possa aiutare i litiganti a pervenire ad un assetto condiviso per la soluzione pacifica della causa (così Trib. Milano, sez.  IX  civ., decreto 26 giugno 2013).

Pure ottimi risultati sono stati ottenuti nei giudizi possessori o cautelari, nelle cause in materia di sinistri stradali e di risarcimenti danni da infiltrazioni.

È abbastanza difficile che la proposta possa portare a buoni risultati con riferimento alle cause ereditarie. Prescindendo dal tipo di contenzioso secondo Tribunale Milano 21/3/2014 al cospetto di una causa che, già in itinere, abbia avuto un corso sproporzionato rispetto ai termini reali della controversia, è opportuno che il giudice formuli una proposta conciliativa, sulla base dei fatti pacifici e non contestati.

Comunque, in generale la proposta conciliativa o la mediazione possono essere sperimentate in qualunque tipo di controversia se si percepisce che le parti sono disponibili a trovare una modalità alternativa di definizione della lite. Spesso non è una questione di materie, ma di tipologia di parti.

c)      In quale momento processuale è opportuno formulare la proposta conciliativa?

Non si può dire in astratto quando è bene formulare la proposta conciliativa. In alcuni casi potrebbe essere fatta subito (soprattutto se i fatti essenziali della causa sono pacifici). In altri giudizi può attendersi il momento dell’ammissione delle prove, mentre talvolta essa può avere margini di successo dolo dopo l’espletamento della CTU. Per esempio, è meglio aspettare l’esito della CTU nelle cause di responsabilità medica, considerato che in assenza di un elaborato del CTU che accerti la responsabilità del medico, né quest’ultimo né la struttura si accorderanno mai. Quando, invece, la CTU è stata espletata si andrà a sentenza se è stata esclusa l’imperizia del medico e si potrà, invece, formulare una proposta conciliativa se il CTU ha concluso per la responsabilità del medico. Peraltro, la proposta conciliativa formulata dal giudice è ritenuta dai dirigenti delle strutture mediche idonea per escludere loro responsabilità per il caso di transazione.

Secondo alcuni nei giudizi risarcitori è meglio formulare la proposta prima della CTU sul quantum del danno subito, se le prove orali danno prova dell’an, riducendo di circa un 40% le richieste di parte attrice. Infatti, dopo la CTU in questione si conosce l’ammontare del danno e l’unico ad avere interesse alla proposta conciliativa è il convenuto e non l’attore, il cui unico vantaggio sarebbe quello di ottenere prima quello che potrebbe comunque ottenere dopo.

Alcuni giudici ritengono di formulare la proposta conciliativa dopo avere sollecitato gli avvocati ad addivenire ad un accordo stragiudiziale e dopo avere constatato il fallimento delle trattative per questioni “di principio”.

Diversi giudici provano a formulare proposte conciliative talvolta in prima udienza, ma più spesso dopo un minimo di attività istruttoria o quantomeno dopo avere deciso sull’ammissione dei mezzi istruttori. È vero che la proposta avanzata prima dell’ammissione dei mezzi di prova evita di “sbilanciare” le posizioni. Tuttavia, ciò che importa non è fornire la soluzione maggiormente imparziale, ma quella che possa essere accettata da entrambe le parti con meno difficoltà, quella, cioè, che le scontenti meno e le scontenti (e le accontenti) sostanzialmente nella stessa misura. Pertanto, anche formulare la proposta dopo l’ammissione delle prove e dopo l’inizio della fase istruttoria può solo compromettere l’accettazione della stessa da parte di chi ritiene che il giudizio si sia orientato in suo favore. Tuttavia, sarà compito del giudice saper individuare quelle condizioni della proposta che possano essere accettate dalle parti a quel punto del giudizio e tenuto conto dell’attività istruttoria compiuta.

In alcuni casi la proposta è stata anche formulata alla fine dell’istruttoria. Sulla possibilità di formulare proposte conciliative anche ad istruttoria finita occorre comunque svolgere qualche ulteriore considerazione. 

d)      Può formularsi la proposta conciliativa dopo la fine dell’istruttoria?

Attenendosi al dato letterale dell’art. 185 bis c.p.c. il potere del giudice di formulare la proposta in questione trova un evidente limite è temporale. La norma prevede che “il giudice, alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione, formula alle parti ove possibile, avuto riguardo alla natura del giudizio, al valore della controversia e all’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto, una proposta transattiva o conciliativa”.

L’inciso normativo “sino a quando è esaurita l’istruzione” indica, quindi, come limite temporale per la formulazione della proposta conciliativa, quello della fase istruttoria. Alla base di quest’impostazione legislativa sta sicuramente la considerazione per cui, dovendo la proposta essere congegnata in termini sufficientemente specifici e dettagliati, in una fase processuale in cui è già chiusa l’attività istruttoria al giudice non resta che rimettere le parti alla decisione, posto che, altrimenti, si rischierebbe anticipare il contenuto della probabile decisione finale.

Tuttavia, il limite temporale costituito dalla chiusura della fase istruttoria riguarda il dovere di formulare la proposta conciliativa fissato dall’art. 185 bis c.p.c.,

Nell’art. 185 bis c.p.c. non si prevede la possibilità di una proposta conciliativa ma un obbligo di formularla, sempre che ciò sia possibile. In generale vi è una differenza tra la facoltà di esercitare un potere e l’obbligo di compiere una certa attività quando questa è possibile (in questo caso in considerazione della natura del giudizio, del valore della controversia e dell’esistenza di questioni di facile e pronta soluzione di diritto).

Certo, poiché si può sempre dire che le circostanze del caso concreto impediscono di formulare la proposta conciliativa, allora potrebbe sembrare facoltativa anche la formulazione della proposta conciliativa. In realtà, se l’art. 185 bis c.p.c. avesse previsto che il giudice “può formulare”, allora si sarebbe trattato di un vero potere discrezionale. Poiché la norma stabilisce che il giudice “formula” sempre una proposta conciliativa alle parti “ove possibile avuto riguardo” ad una serie di circostanze, allora il giudice dovrebbe sempre almeno motivare sull’esistenza nel caso di specie della possibilità o meno di formulare la proposta.

Quindi, l’art. 185 bis c.p.c. esclude l’obbligo del giudice di formulare la proposta dopo la chiusura dell’istruttoria.

Ma sembra preclusa anche la semplice facoltà di formulare una proposta conciliativa dopo la chiusura dell’istruttoria.

Infatti, l’art. 185 c.p.c. stabilisce  che “il giudice istruttore, in caso di richiesta congiunta delle parti, fissa la comparizione delle medesime al fine di interrogarle liberamente e di provocarne la conciliazione. Il giudice istruttore ha altresì facoltà di fissare la predetta udienza di comparizione personale a norma dell’articolo 117… Il tentativo di conciliazione può essere rinnovato in qualunque momento dell’istruzione. Quando le parti si sono conciliate, si forma processo verbale della convenzione conclusa. Il processo verbale costituisce titolo esecutivo”.

Pertanto, poiché il tentativo di conciliazione “può essere rinnovato in qualunque momento dell’istruzione”, chiusa l’istruttoria non vi è più né l’obbligo né la facoltà di formulare la proposta conciliativa.

Invece, secondo Trib. Milano, Sez. X, ord. 4.7.2013 quando il giudice è chiamato non a farsi promotore del contenuto di una transazione/conciliazione da sottoporre all’accettazione delle parti, ma più semplicemente ad esperire il tentativo di conciliazioneexart 185 cpc,, allora la legge non pone momenti preclusivi, stabilendo che la facoltà del giudice può essere esercitata in qualunque stato e grado del processoexartt. 117 e 185 comma 1 cpc.

In tal modo si tende a differenziare una funzione facilitativa della composizione della lite, priva di una specifica proposta, ed una funzione più specificamente propositiva.

Comunque, l’esigenza che porta ad operare queste differenze è il fatto che, se è vero che una proposta di composizione della lite che venga fatta ad istruttoria chiusa presenta un vantaggio per il sistema e per le stesse parti (anche in termini di risparmio sulle spese processuali) più modesto rispetto ad una composizione che avviene all’inizio della causa, tuttavia è anche vero che l’accordo raggiunto alla fine della causa ragionevolmente preclude ulteriori gradi di giudizio, che , quanto a tempi , sono spesso superiori a quelli di primo grado.

Non sembra cogliere nel segno, poi, l’obiezione relativa alla possibile anticipazione del giudizio contenuta in una proposta operata ad istruttoria conclusa.

Non solo, infatti, il giudice si pronuncia spesso in corso di causa sul merito della stessa (ammettendo le prove, negando o concedendo la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo, statuendo sull’emissione dell’ordinanza provvisoria di rilascio in materia di sfratti, modificando l’ordinanza presidenziale nel giudizi di separazione e divorzio, emettendo cautelari in corso di causa, ecc.), ma ciò che più conta è che la proposta spesso viene fatta tenendo conto soprattutto del possibile punto di incontro tra le parti e di quelle soluzioni “digeribili” ad opera delle stesse, senza granchè valutare “torti” e “ragioni” se non nei limiti in cui questi siano tali che portano uno e entrambe le parti ad accettare determinate condizioni.

Inoltre, questo pericolo di anticipazione (magari parziale, relativamente ad alcune questioni che non necessitano istruttoria) del giudizio finale esiste anche se la proposta viene fatta in corso di istruttoria, tanto che è lo stesso art. 185 bis c.p.c. che prevede che la formulazione della proposta non può costituire causa di ricusazione.

Ancora si osservi che, di contro, la proposta avanzata all’inizio del giudizio si presta all’obiezione per cui il giudice non avrebbe ancora sufficienti elementi e si affiderebbe solo al suo intuito, con l’alea che ne deriva.

e)      Le parti devono prendere posizione sulla proposta conciliativa?

Secondo il Tribunale di Roma (sez. XIII, 29/05/2014 n. 14521, in Guida al diritto 2014, 24, ins., II, 53, con nota di MARINARO) in relazione alla proposta conciliativa del giudice non può ontologicamente affermarsi a carico di alcuna delle parti l’obbligo cogente di accogliere la stessa. Ma il fatto stesso che la legge preveda la possibilità che il giudice formuli la proposta implica che non è consentito alle parti non prenderla in alcuna considerazione. Le parti hanno infatti l’obbligo di prendere in esame con attenzione e diligenza la proposta del giudice, e di fare quanto in loro potere per aprire e intraprendere su di essa un dialogo, una discussione fruttuosa, e, in caso di non raggiunto accordo, di fare emergere a verbale dell’udienza di verifica, lealmente, la rispettiva posizione al riguardo. Ne consegue che l’irragionevole e ingiustificato rifiuto sia della proposta conciliativa del giudice sia dell’invito a partecipare alla mediazione demandata può condurre a ritenere sussistente una responsabilità aggravata a carico della parte soccombente.

In particolare, sempre per il Tribunale di Roma (sez. XIII, 30/10/2014, in Guida al diritto 2014, 49-50, 24) è censurabile perché dolosa, grave e ingiustificata la condotta del professionista chiamato in giudizio per risarcire un danno connesso alla sua attività che dichiari tardivamente di voler aderire alla proposta conciliativa del giudice formulata ai sensi dell’art. 185 bis c.p.c., nonostante non l’avesse formalmente accettata nei termini prescritti. Per tali motivi il Tribunale di Roma con due sentenze di identica portata ha condannato a pagare un risarcimento oltre che una penale un notaio e un avvocato rispettivamente chiamati a risarcire un danno connesso alla stipula di una compravendita di un immobile.

Molti giudici fissano udienza per verificare la posizione delle parti sulla proposta conciliativa, posizione che rileva anche per la condanna alle speseexart. 91 c.p.c. In qualche caso è stato dato un termine alle parti fino all’udienza per decidere.

f)       Come si chiude il giudizio dopo l’accettazione della proposta?

Nei giudizi di separazione l’accoglimento della proposta conciliativa può portare ad una trasformazione della separazione giudiziale in consensuale. Nei giudizi di divorzio può portare all’emissione di una sentenza che recepisce le condizioni dell’accordo raggiunto.

Negli altri casi il giudizio può concludersiexart. 309 c.p.c. per inattività delle parti o con un verbale di conciliazione (che costituisce titolo esecutivo ex art. 185 c.p.c. e che richiede la procura speciale del difensore se manca la parte) o con una sentenza che prende atto dell’accordo e dichiara la cessazione della materia del contendere oppure con una sentenza che accoglie le conclusioni congiunte delle parti.

Sul punto ha affermato il Tribunale di Nocera Inferiore (con provvedimento del 07/11/2013) che “ove le parti del processo aderiscano alla proposta conciliativa del giudice, formulata ex art. 185 bis c.p.c., il tribunale può dichiarare estinto il giudizio, ratificando l’accordo conciliativo intervenuto che, se raccolto nel verbale di udienza, costituisce titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c.“. Tale organo giudicante ha rilevato che all’udienza tutte le parti avevano concordemente aderito alla proposta transattiva o conciliativa formulataexart. 185bisc.p.c. dal Giudice con ordinanza (“corresponsione all’attore della somma di euro 2.600,00 all’attualità e ad integrale ristoro – di cui euro 1.000,00 a carico della S. ed euro 800,00 a carico di ciascuno dei convenuti D’A. e S.- il tutto, con integrale compensazione delle spese di lite fra le parti”) ed ha pure evidenziato che, poiché la redazione di un verbale separato da quello di udienza prevista dall’art. 88 disp. att. c.p.c. non è requisito di validità dell’atto, la conciliazione giudiziale – che produce per effetto dell’accordo delle parti effetti sostanziali e processuali – costituisce, in presenza dei requisiti di legge, titolo esecutivoexart. 474 c.p.c., anche se sia inserita nel verbale d’udienza, come avvenuto nel caso di specie (v. Cass. Civ., Sez. III, 18 aprile 2003, n. 6288). Il dispositivo dell’ordinanza del Tribunale di Nocera Inferiore del 07/11/2013 è il seguente: “ratifica l’accordo conciliativo intervenuto fra le parti, di cui in parte motiva. Dispone la cancellazione della causa dal ruolo e dichiara estinto il giudizio”.

g)      Gli avvocati vedono bene la proposta conciliativa?

Generalmente gli avvocati non sono contrari alla proposta conciliativa formulata dal giudice. Ciò anche perché i clienti sono propensi ad accettarla in quanto proveniente non dalla controparte ma da un soggetto terzo ed imparziale come il giudice. Peraltro, tramite la proposta conciliativa formulata dal giudice l’avvocato può riuscire a far chiudere alcuni contenziosi di difficile soluzione e con riferimento ai quali non era possibile trovare l’accordo tra i legali delle parti senza che uno di essi sembrasse agli occhi del cliente meno pronto a difenderne gli interessi. Ancora, si osservi che con la proposta conciliativa l’avvocato viene a perdere, a livello di onorari, soltanto i compensi per la fase conclusiva, mentre spettano quelli per le altre fasi.

h)      L’art. 91 c.p.c. e la condanna alle spese di lite.

È noto che l’art. 91 c.p.c. prevede che il giudice, “se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salvo quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 92”.

Ne deriva che il rifiuto della proposta di conciliazione, ai sensi del combinato disposto dell’art. 185bisc.p.c (come novellato dal Decreto Fare) e degli art. 91 e 92 c.p.c., deve sempre essere motivato per non incorrere nelle conseguenze di legge previste da queste ultime disposizioni (così Tribunale Nocera Inferiore, sez. I, 27/8/2013, in Diritto & Giustizia 2013, 2 settembre).

8.     Il Tribunale di Fermo e l’applicazione sistematica della proposta conciliativa.

In un provvedimento del 21.11.2013 il Tribunale di Fermo ha ritenuto che sussista la necessità, più che la possibilità, di iniziare sistematicamente una conciliazione secondo le seguenti direttive:

1) responsabilizzazione dei difensori che, sia pure su impulso ed indirizzo del giudice, si vedono investiti di una proposta che possono gestire ulteriormente con i loro assistiti , ai fini di una composizione;

2) necessità di attivare programmi sistematici di fuoriuscita dal processo nelle controversie di modesto valore, inferiore ad euro 10.000, salvo casi particolari da individuare con criteri predeterminati;

3) necessità che non si protragga un contenzioso praticamente inutile in quanto in tutto o in parte si tratta di questioni “seriali” su cui il giudice si è già pronunciato, magari con sentenze “pilota” (es. rapporti bancari in materia di anatocismo e commissione massimo scoperto).

Si è quindi continuata la scelta, già seguita nel corso di tutto l’anno 2011 e di parte del 2012, di operare in prima battuta con proposta “transattiva”, che coinvolga anche la possibilità di comunicazione e colloquio, sul punto, cliente/avvocato.

9.     Come può combinarsi l’invio in mediazione con la proposta conciliativaexart. 185 bis c.p.c.

Sulla combinazione tra proposta conciliativa ai sensi dell’art. 185 bis c.p.c. e mediazione ex officio si sono registrati diversi orientamenti. È bene riportare in sintesi i provvedimenti della giurisprudenza di merito maggiormente interessanti:

1) Trib. Roma, sez. XIII, 28.11.2013 ha effettuato una proposta conciliativa (dettagliatamente motivata) e ha inviato le parti in mediazione solo in caso di mancato accordo entro il termine concesso dal giudice per accettare la proposta conciliativa. Lo schema applicato può definirsi in termini di “proposta con invio in mediazione sub condicione“. Così anche Trib. Palermo 16.7.2014;

2) Trib. Roma, sez. XIII, 14.11.2013 ha stabilito che qualora vi sia il rischio di una decisione che acclari un concorso di colpa con riferimento ad un sinistro stradale, allora la mediazione ex officiopuò rivelarsi molto utile. In questo caso le parti sono state inviate in mediazione con avviso che in caso di mancato accordo si sarebbero ammesse e poi espletate le prove e successivamente sarebbe stata formulata una proposta conciliativaexart. 185 bis c.p.c. Questo modo di procedere risponde allo schema della “mediazione ex officio con riserva di proposta conciliativa”;

3) Trib. Milano, sez. Impresa, 27 novembre 2013, est. Vannicelli, ha invece formulato una proposta transattivo-conciliativa e ha rinviato il processo ad un’altra udienza per sentire le parti riservandosi in quella udienza di prescrivere il procedimento di mediazione ex officio. Si tratta di “proposta con riserva di mediazione”. La stessa soluzione ha adottato il Tribunale di Verona (est. Vaccari) nell’ordinanza del 17.6.2014 con la quale ha avanzato alle parti una proposta conciliativa anticipando la futura valutazione, alla successiva udienza ed al fine di agevolare la soluzione conciliativa o altra eventualmente ipotizzabile, della possibilità di demandare la mediazione. Anche per Trib. Milano 21.3.2014 “ove le parti rifiutino immotivatamente la proposta, il giudice ben può avviarle alla mediazione ai sensi dell’art. 5 comma 2 d.lg. 28/2010 (cd. mediazione ex officio)”;

4) Trib. Milano, sez. spec. Impresa B, 11.11.2013 ha formulato una proposta conciliativa (non motivata) e ha disposto la mediazione ex officio (all’interno della quale la proposta del giudice poteva costituire un punto di riferimento per pervenire alla conciliazione). In questo caso lo schema applicato non è quello della proposta con riserva di mediazione, ma quello della “proposta con mediazione”.

Sempre in relazione a tale ultimo provvedimento mette poi conto osservare che probabilmente la mancata (o comunque succinta) motivazione della proposta è, secondo chi scrive, la scelta maggiormente opportuna. In generale nelle proposte conciliative è preferibile al più spiegare i motivi per cui nella specifica causa è da ritenere possibile una conciliazione della lite, ma non anche i motivi per cui si effettua quella specifica proposta e come il Giudice sia arrivato alla determinazione degli specifici termini della proposta. Certo, l’art. 185bisc.p.c. esclude espressamente che la proposta di conciliazione possa costituire motivo di ricusazione o astensione del giudice. Tuttavia, l’esplicitazione dell’iter logico posto a fondamento dell’individuazione delle concrete condizioni della proposta non aggiunge molto all’eventuale bontà intrinseca della stessa e rischia di determinare un’anticipazione di giudizio non gradita alle parti (o almeno non ad entrambe). Senza contare, infine, che una proposta può essere ben congegnata anche senza valutare le ragioni ed i torti emergenti dagli atti processuali ma tenendo soltanto conto del fascio di soluzioni “digeribili” ad opera delle parti al fine comunque di porre fine al contenzioso ed ai suoi costi.  

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Michele Ruvolo


[1] Relazione di Michele Ruvolo, giudice del Tribunale di Palermo.

[2] Sulla possibile formulazione della proposta conciliativa anche in tutti i procedimenti pendenti v. anche Trib. Nocera Inferiore, I Sez. Civile, ord. 27/8/2013; Trib. Milano, sez. IX civ., decr. 26.6.2013 e Trib. Roma Sez. XIII, 23.9.2013, 30.9.2013 e 4.11.2013.

[3] Sembra sul punto interessante quanto affermato da Tribunale Roma, sez. XIII, 17/03/2014, secondo il quale la relazione redatta dal consulente tecnico nel corso di un procedimento di mediazione, che si concluda senza accordo può essere prodotta nel successivo giudizio ad opera di una delle parti senza violare le regole sulla riservatezza, in virtù di un equilibrato contemperamento fra la citata esigenza di riservatezza che ispira il procedimento di mediazione e quella di economicità e utilità delle attività che si compiono nel corso ed all’interno di tale procedimento. Ne consegue che il giudice potrà utilizzare tale relazione “secondo scienza e coscienza con prudenza, secondo le circostanze e le prospettazioni, istanze, e rilievi delle parti” più che per fondare la sentenza “per trarne argomenti ed elementi utili di formazione del suo giudizio” ovvero anche “per costituire il fondamento conoscitivo ed il supporto motivazionale (più o meno espresso) della proposta del giudice ai sensi dell’art. 185 bis c.p.c.”.

[4] Così anche Tribunale Roma, sez. XIII, 30/9/2013, in Guida al diritto 2013, 45, ins., III, con nota di MARINARO e Tribunale Roma 23/9/2013 in Guida al diritto 2013, 41, 17 con nota di MARINARO..

[5] E così, ad esempio, il Tribunale di Milano ha, con ordinanza del 29.10.2013 ritenuto di dover iniziare un percorso conciliativo (anche se tramite mediazione ex officio iudicis e non attraverso la proposta conciliativa) in una causa per opposizione a precetto relativo al mancato pagamento di parte delle somme dovute a titolo di contributo per il mantenimento. Queste le ragioni che hanno portato il Tribunale di Milano a ritenere opportuno avviare un percorso conciliativo: “in primo luogo, la controversia involge due parti legate da pregresso rapporto affettivo; rapporto destinato a proiettarsi nel tempo, in quanto i litiganti, non più coniugi, sono tuttavia ancora genitori; quanto, inoltre, dovrebbe indurre le parti stesse ad agire tenendo sempre fermo e presente l’interesse “preminente” dei figli minori, che meglio è preservato ove gli stessi non diventino – seppur indirettamente – oggetto di procedure giudiziali (anche là dove le suddette procedure abbiano ad oggetto diritti disponibili – come nel caso di specie: recupero di un credito – che, però si ricollegano, intimamente, alla vita biologica del nucleo familiare). L’opportunità di un tentativo di conciliazione è pur resa evidente dal fatto che, in passato, i genitori sono stati in grado di pervenire ad accordi (v. ricorso congiunto per la fase del divorzio): hanno, dunque, rivelato la capacità di confrontarsi e di adottare soluzioni condivise. Vi è, poi, da segnalare come lo strumento giudiziale – almeno in questa fattispecie – si sia rivelato inidoneo a prevenire ulteriore contenzioso: risulta ad acta che la odierna appellante ha già notificato all’appellato un altro atto di precetto. Va, infine, rivelato come – sempre guardando all’odierna fattispecie – vi sia un evidente iato tra il diritto fatto valere (guardando al valore del credito secondo la prospettazione attorea) e lo strumento azionato per tutelarlo (due gradi di giudizio), nel senso che, tenuto conto del peso effettivo della controversia, in termini monetari, lo stesso creditore avrebbe potuto anteporre alla scelta sposata in via diretta (sistema di risoluzione pubblico delle controversie), l’opportunità di un sistema di risoluzione alternativo della controversia (es. mediazione familiare; mediazione civile; diritto collaborativo; etc.) e riservare, dunque, il percorso giurisdizionale solo alla res litigiosa residuata all’esito del fallimento delle procedure di confronto amichevole”.

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