La riforma del sistema cautelare vive nelle procedure camerali incidentali (le ragioni della privazione del diritto alla libertà personale)

di Massimo Perrotti


La riforma del sistema cautelare vive nelle procedure camerali incidentali (le ragioni della privazione del diritto alla libertà personale)

di Massimo Perrotti

Io penso, scriveva Luigi Ferrajoli quarant’anni or sono, che la stessa ammissione in via di principio della carcerazione ante iudicium, qualunque fine le si voglia associare, contraddice alla radice il principio di giurisdizionalità: che non consiste nel poter esser ristretti solo per ordine di un giudice, ma nel poterlo essere solo sulla base di un giudizio (1). A pochi mesi dall’entrata in vigore dell’ultima “riforma cautelare” (2), che sembra avere ambizioni di organicità, possiamo azzardare, forse, un primo timido bilancio, attraverso un monitoraggio sul campo camerale, senza tuttavia alcuna pretesa di esaustività.
 La lettura del testo novellato (3) affatica, ma non stupisce l’occhio dell’osservatore intraneo al sistema cautelare. L’adozione di formule perentorie, nei toni e nei contenuti (4), il ricorso ad una sanzione che rende ineffettivo il disposto della giurisdizione e ne limita la rianimazione (5) non è chiave nuova nelle serramenta di un legislatore che nutre ambizioni di “moralizzatore” delle prassi giudiziarie ritenute non ortodosse. Può solo osservarsi, con un certo timore, che tale forma del legiferare appare indizio della volontà di trasformare lo Stato di diritto in Stato etico; uno Stato che avverte la necessità di dettagliare i percorsi, tracciare netti i sentieri più erti, coartare la discrezionalità di quelle migliaia di sartine, che sono pagate per ritagliare, in tempi da guinness, un abito su misura sui numeri della grande distribuzione. E’ un legislatore già conosciuto, che sembra vestire i panni del rigido maestro ottocentesco, quando usa la bacchetta per indicare il percorso tortuoso da seguire ed il frustino per colpire la deviazione eretica (6) .Questo l’effetto emotivo offerto dalla prima lettura della novella n. 47/2015. L’analisi, tuttavia, è altro: chi voglia superare le quinte del proscenio, sollevandone i pesanti velluti, deve sforzarsi di capire perché, da alcuni lustri, il legislatore manifesti all’evidenza di non fidarsi degli organi della giurisdizione, avvertendo quindi la necessità di veicolare, in canali molto angusti, la discrezionalità tecnica che ne caratterizza l’opera remunerata (7).
 I divieti di accesso nel procedere, le nullità assolute, le categorie nuove della inutilizzabilità, le sanzioni di inefficacia, le presunzioni assolute, sono tutti strumenti di perimetrazione esogena del percorso processuale che conduce al traguardo della decisione. Un percorso che, nel nostro Paese, da sempre tormentato dal dubbio di sentirsi realmente democratico (nel senso della indipendenza assoluta da fattori di etero direzione delle scelte politiche), è stato perennemente caratterizzato dalla stretta osservanza della legge del pendolo, che oscilla, con immutato periodo, tra gli estremi della sicurezza sociale e della libertà individuale, con la massa costantemente volta alla tutela sindacale delle ragioni della classe forense.
 Questa riforma, che, come abbiamo detto in apertura, vanta ambizioni di organicità, segue certamente il faro delle indicazioni sovranazionali (8) quando insiste nel proposito di convincere gli organi della giurisdizione preposti alla cautela, che la custodia intramuraria deve essere disposta solo quando sia assolutamente necessaria e quando ogni altra veste cautelare approntata dall’ordinamento sia palesemente inane (9). E’ questo un concetto che il legislatore ripete da almeno un quarto di secolo e, ormai, non sa davvero più quali formule semantiche usare per esprimerne la cogenza. E’ in questa direzione, dunque, che bisogna orientare gli sforzi dell’analisi, perché solo così riusciremo a comprendere come mai, nel nostro Paese, il legislatore usi formule lessicali così autoritarie nei confronti di quelle sartine che devono ritagliare, in tempi ridottissimi, l’abito su misura per le miriadi di utenti del servizio giustizia (10). Ed allora, anche un po’ di sana autocritica bisogna pur farla: è dovuto intervenire il legislatore nel 2001 (11) per ricordare (anche alla suprema Corte) che, nella valutazione cautelare dei gravi indizi di colpevolezza, non potevano usarsi regole di giudizio diverse da quelle dettate in tema di valutazione della penale responsabilità dagli artt. 192 co. 3 e 4, 195 co. 7, 203, 271 comma 1 c.p.p. Ancora, il legislatore è più volte dovuto intervenire e lo ha fatto anche in questa ultima occasione, per ricordare alla giurisdizione che, laddove si ipotizzi all’esito del giudizio l’applicazione di una sanzione non carceraria, la cautela non può vestire le forme della restrizione intramuraria. Sono concetti quanto mai ovvi, eppure non sono stati compresi da larga parte della giurisdizione, che ha continuato ad (ab)usare della custodia carceraria, come se questa fosse la regola, nel processo, e non l’eccezione assoluta (12).
 Dietro questa riottosa ostinazione si cela forse un gap culturale difficile da rimuovere, si sente ancor oggi dalle stanze della Procura echeggiare un concetto della cautela (funzione e strumento dell’attività di indagine) che non appare compatibile con la struttura del processo, oltre che con i principi fondamentali della Costituzione. La cautela, a modesto ma fermissimo avviso di chi scrive, è strumento di conservazione, della situazione oggetto di giudizio (intesa come ambito personale, oggettivo o misto), nell’ambito del processo ed è funzione di tutela della sicurezza della collettività dai pericoli che possono sortire dalla libertà di soggetti che, anche per la loro appartenenza a comunità organizzate nel malaffare, siano manifestamente insofferenti al rispetto delle regole della convivenza; funzione, quest’ultima, che va attentamente perimetrata, giacché si presta a scivolare facilmente verso la punizione preventiva del sospetto, verso l’applicazione della pena senza processo. Libertà che, proprio in uno sforzo di gradazione funzionale a mantenere la cautela nel suo alveo proprio, può esser ristretta in varie forme, a seconda del grado di trasgressività che gli atti ed il percorso di vita dell’agente rendono manifesto.
Non sapendo più come esprime questi eterni concetti, il legislatore ha oggi usato le formule semantiche che leggiamo nel testo riformato dell’articolato. Si parte così dal richiamo, che non potrebbe essere più esplicito, alla attualità delle esigenze cautelari, attualità che non può esser desunta esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede, ma va oggi, necessariamente, riempita di considerazioni logiche che trovino fonte in fatti, non necessariamente compresi in imputazione, che siano in grado di sprigionare allarme cautelare (13). Il che non esclude che possa ritenersi ragionevolmente attuale l’esigenza coercitiva anche per la imputazione di fatti non recenti; occorre tuttavia che il p.m. alleghi, avvalendosi anche della polizia giudiziaria, l’esistenza di condizioni di fatto, estranee alla imputazione, in grado di trascinare nel tempo all’attualità i pericula libertatis (come, ad es. l’attualità della funzione svolta dal p.u., nel medesimo ufficio e con gli stessi collaboratori, rispetto a fatti di corruzione risalenti a date non recentissime).L’orientamento che appare formarsi nell’esperienza camerale del riesame sembra proprio andare in questo senso (14).
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 Sul piano delle presunzioni di adeguatezza della custodia carceraria, il nuovo testo dell’art. 275 comma 3 c.p.p.15, opera una evidente, quanto parcellizzata, gradazione. Questo comma rappresenta, a parere di chi scrive, il trionfo della sfiducia nei confronti della giurisdizione. Il legislatore segue un percorso di regole ed eccezioni, semi regole e semi eccezioni, che sembra ricalcare il sistema preilluministico delle prove legali, piene e semipiene. Chi scrive resta invece fermamente convinto, pur nell’isolamento assordante degli intelletti prestati alla giurisdizione, che le presunzioni assolute, in materia processuale penale, possano soltanto affollare, come comari ipocritamente addolorate, il corteo funebre della ragione. Sul piano dei danni collaterali, inoltre, le presunzioni inducono -nell’operatore ignavo- la pessima abitudine a cullarsi nella comoda concavità creata, una volta per tutte, dalla legge, per rinunziare a dimostrare i fatti o le circostanze che evidenzino il grado delle esigenze di cautela e l’adeguatezza, rispetto ad esse, della misura eletta.Rispetto ad imputazioni per fattispecie associative di rango mafioso o terroristico-eversivo, in presenza di gravi indizi di colpevolezza e di esigenze cautelari (si badi, non attuali, per quanto solitamente connesse alla tendenziale stabilità del vincolo associativo mafioso), l’applicazione della misura di massima afflittività è sostenuta da una presunzione assoluta di adeguatezza. Il che manifesta il perfetto allineamento delle scelte operate dal legislatore con il percorso seguito, ormai da un lustro, dalla Corte costituzionale (16), che connette solo all’enorme pericolo, che la sodalità mafiosa o terroristico-evesiva rappresenta per la stessa democrazia, il sacrificio massimo ed automatico dei diritti fondamentali della persona. Anche sotto questo profilo, nulla di nuovo sotto la rete protettiva dei massimi garanti della Costituzione. Correva l’anno 1861, quando la voce di Francesco Crispi tuonava nell’aula del Parlamento di Torino (salus publica suprema lex esto!) invocando la tutela dell’ordine pubblico -turbato da alcune centinaia di ragazzotti cattivissimi male equipaggiati e verosimilmente mal finanziati dal Borbone-sopra ogni altro diritto o interesse della persona. Solo che, in allora, il sacrificio era quello della vita, sottratta alle membra dei partecipi alle associazioni dei malfattori e dei loro manutengoli dalla baionetta del bersagliere, dal fucile del Real Carabiniere o dalla forca edificata per eseguire i verdetti frettolosamente emessi, senza diritto alla difesa tecnica, dai tribunali speciali delle giberne. Da allora, qualche passo in avanti sui mezzi (ad es. gli introvabili braccialetti elettronici) si è forse compiuto; pochi timidi passetti laterali, però, sulla tenuta dei diritti fondamentali della persona e sulla inderogabilità di quei principi.La ricaduta attuale e concreta di simili presunzioni, per quanto interessi forse a pochi, è quella di vedere ancor oggi applicate misure cautelari carcerarie a soggetti già detenuti per una pluralità (talvolta oltre mezza dozzina) di condanne irrevocabili senza termine. Il che si può evitare, per chi ne voglia assumere la responsabilità, solo motivando in ordine alla carenza (assoluta) di esigenze cautelari.
 Quanto alle categorie criminali ritenute di più contenuto pericolo per la società (quelle di cui alla seconda parte della declinazione che avvince i cattivi), la presunzione viene mitigata dalla possibilità, per il giudice, di motivare circa la adeguatezza, nelcaso concreto, delle altre, meno afflittive, misure cautelari. Il giudice torna a respirare aria di giurisdizione e dismette, per queste fattispecie, i panni del boia vincolato.
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 Sorvoliamo, per carità di patria, sulla sponsorizzazione degli introvabili mezzi elettronici di controllo a distanza, di cui al comma 1 dell’art. 275 bis c.p.p., richiamato, in punto di necessità di motivarne il diniego, dal comma 3 bis dell’art. 275 c.p.p. Le riforme, perfino quelle processuali, talvolta hanno bisogno di copertura finanziaria effettiva, altrimenti restano solo parole vuote a sporcare di inchiostro la pergamena.
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 La cassa toracica della nostra sartina riprende ad espandersi, in uno all’allentamento della garrotanormativa, con la modifica del comma 1 ter dell’art. 276 c.p.p. Laddove riconosca che il fatto di evasione sia di lieve entità, il giudice può evitare di aggravare il presidio detentivo in corso di applicazione. E’ una vittoria dell’illuminismo, finalmente la ragione torna ad orientare le opzioni della giurisdizione cautelare. La medesima ratio presiede alla modifica dell’ultimo comma dell’art. 284 c.p.p., questo moderato relativismo giudiziario consente di derogare al divieto di applicare la misura degli arresti domiciliari a chi risulti evaso nel quinquennio. Naturalmente, la valutazione consentita postula che il giudice debba conoscere gli atti della precedente evasione e non solo i caratteri alfanumerici delle appostazioni contenute nel certificato del casellario, il che non è sempre agevole, soprattutto nei tempi ristrettissimi delle ordinanze connesse alle convalide degli atti precautelari.
 La modifica dell’art. 289 c.p.p. razionalizza i momenti del procedere nel caso di applicazione di misure interdittive in melius rispetto alla mozione cautelare del p.m. In questi casi non è necessario il previo contraddittorio, così da rendere compatibili le esigenze di riservatezza (in caso di mozioni cautelari soggettivamente complesse) con la necessità di garantire un sollecito confronto con il giudice che procede in cautela. La modifica operata era di semplice attuazione, era attesa dagli operatori e rivela anche all’utente più critico una sua, razionale, utilità. Come pure era attesa la riforma della durata massima delle misure interdittive, poco praticate proprio in ragione della limitatissima durata (17).
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 Altro differente piano di intervento pedagogico del nostro legislatore/istitutore (bacchetta e frustino alla mano) è quello che scandisce esplicitamente la necessità, per la giurisdizione cautelare, di manifestare, attraverso gli atti (le ordinanze cautelari), che la decisione è propria, è maturata dalla lettura del materiale indiziario e dalle ragioni talvolta offerte dall’indagato (interrogatorio di convalida che, di solito, precede l’emissione della misura), è autonoma rispetto alle suggestioni che inevitabilmente provengono dalla parte pubblica che avanza l’istanza. Qui il discorso si fa più complesso, giacché partecipa della struttura propria del procedimento incidentale cautelare, dal quale non si può prescindere (provvedimenti a sorpresa e necessità di risposta sollecita).
 La quasi totalità dei provvedimenti cautelari è emessa, nel corso delle indagini preliminari, da un giudice monocratico, che tutti ormai siamo abituati a chiamare, confidenzialmente, GIP. Va detto subito, forte e chiaro, che la figura di questa sartina, solitaria più che monocratica, merita massimo rispetto istituzionale, giacché l’ordinamento (quindi la scelta politica attuata nelle norme) ha deciso di affidare nelle sue mani (sovente inesperte, quanto operose) la più alta responsabilità dell’intero sistema cautelare. Il GIP deve decidere della libertà personale dei suoi simili senza accertamento dei fatti, in tempi ragionevolmente ristretti (18) e, soprattutto, avendo dei fatti una conoscenza solo unilaterale e filtrata (non sempre obiettivamente), giacché gli atti che deve valutare, autonomamente, si sono formati in un ufficio diverso. Il GIP è un solista, che ascolta in monofonia e si esprime in polifonia. E’ il primo garante del merito, oltre che della correttezza del percorso procedurale, che, tuttavia, non dispone delle risorse umane delle quali può giovarsi il p.m. (soprattutto quello distrettuale, che operi nel settore di cui all’art. 51 co. 3 bis c.p.p.), per l’esame degli atti e la redazione delle minute da spendere nell’incidente cautelare. E’ la vittima sacrificale del sistema cautelare, stretto tra le legittime istanze di speditezza prospettate dal p.m., la necessità di verificare la fondatezza della domanda, oltre che assicurare il rispetto massimo delle garanzie per il destinatario della afflizione ante iudicium. Ed è ancora l’oggetto delle reprimende, oltre che delle parti, una delle quali necessariamente insoddisfatta dall’esito della decisione, anche del tribunale per il riesame, che sovente non lesina censure sull’operato di quel solista assediato.
 Il lavoro del GIP, se svolto con laboriosità, coscienza, attenzione e dedizione, è certamente il più difficile del settore cautelare; ma, forse per i medesimi motivi, anche il più appagante. Occorre saper leggere le carte (oggi i files) inviati riservatamente dal p.m. con un occhio critico che, contemporaneamente, sappia metterne in discussione quella pregnanza indiziaria rappresentata come univoca, prendendo anche le parti di un soggetto che, al momento della decisione, manca (salvo i casi di ordinanza coercitiva emessa all’esito della convalida) e non può far sentire la sua voce.
 E’ a questo soggetto processuale che il legislatore del 2015 rivolge la parte più sensibile, almeno ad avviso di chi scrive, della riforma (art. 292 lett. c e c bis c.p.p., art. 309 comma 9 c.p.p.). La necessità (prevista oggi esplicitamente a pena di nullità del titolo) di far comprendere, senza possibilità di equivoci, a chi legge il provvedimento cautelare che quella sartina ha saputo valutare autonomamente, senza quindi cadere nella comoda rete informatica tessuta dal p.m. con la sua ben imbandita mozione cautelare, ogni passo della sua (propria) decisione incidentale (19).
 Anche in questo caso, il principio era ovvio, il sistema processuale chiedeva già esplicitamente al GIP di decidere della cautela in perfetta autonomia; tuttavia, come sovente accade per gli ovvi principi, la concreta attuazione dello stesso porgeva il volto alle suole delle calzature di non poche malaccortesartine. Naturalmente, nessuno ha mai contestato al GIP la facoltà di avvalersi dell’informatica per riportare dati narrativi e discorsivi assunti dalla polizia giudiziaria o dal p.m.; il punto dolente è l’analisi critica, la rilevanza decisionale del materiale raccolto da altri. In questo l’opera del GIP deve essere autonoma, o meglio, non solo deve essere autonoma, ma deve anche apparire tale. Dal testo del provvedimento deve quindi trasudare la fatica, il lavoro attento che il GIP ha svolto per valutare criticamente il materiale sottoposto alla sua attenzione. Come possa esprimersi l’autonomia è difficile a dirsi, certamente non con mere formule di stile, che, come soprabiti adatti ad ogni stagione, rivestano di apparenza il vuoto valutativo (la motivazione apparente). E’ auspicabile forse che quella sartina renda evidente -con il ricamo e la definizione dei dettagli, magari valorizzando una parte del tessuto grezzo che il p.m. e la polizia giudiziaria avevano solo imbastito grossolanamente- di aver fatto proprio il modello da cucire addosso alla fattispecie cautelare concreta, cogliendo anche nella trama ordita in altri uffici aspetti critici della mozione. Ovviamente, la dimostrazione di aver lavorato in autonomia sarà tanto più agevole, quanto più ci si discosti dalla mozione della parte pubblica, mentre resterà faticoso convincere le parti ed i giudici della revisione che la valutazione autonoma c’è stata, anche quando si è deciso di condividere in toto la richiesta del p.m. Non è semplice definire uno schema duttile ed efficace, ma è proprio questo che voleva il legislatore, per costringere quelle sartine soliste a lavorare di fino e su misura, senza ausilio di veloci cucitrici automatiche, che snaturerebbero l’opera loro assegnata dall’art 13 della Costituzione repubblicana.
 L’obbligo motivazionale dettato per il giudice che procede, già contenuto, sebbene meno enfaticamente, nella precedente stesura dell’art. 292 c.p.p. e già sanzionato a pena di nullità, avrebbe rischiato, tuttavia, di restare lettera morta, se un legislatore, questa volta attentissimo ai richiami della più recente ed avveduta giurisprudenza (20), non avesse avvertito la necessità di precisare, con la modifica della norma che definisce i poteri del tribunale per il riesame, quali debbano essere le conseguenze ineludibili di quella riscontrata assenza di motivazione (21).
 La precisazione era quanto mai necessaria, giacché una consistente fascia conservatrice di revisori cautelari, favorita anche da un orientamento di legittimità piuttosto autoreferenziale e, forse, troppo legato a parallelismi con la decisione di merito, che tuttavia non sembravano percorribili anche sotto l’egida della precedente formulazione dell’art. 292 c.p.p.22, era radicalmente convinta dell’obbligo, per il giudice del riesame (23), di integrare anche la motivazione omessa o solo apparente, essendo le due decisioni di merito, quella genetica e quella emessa su sollecitazione dell’indagato, parte di un unicummotivazionale a formazione progressiva. Disegno, quello della conservazione, forse anche nobile, ma disancorato, ad avviso di chi scrive, dal dettato normativo in allora vigente, che già deponeva (art. 292 c.p.p. ante novella del 2015) per la nullità rilevabile in sede di merito. Del resto non è mai stato chiarito dalla Corte di legittimità, perché mai quelle letterine contenute nel corpo dell’art. 292 c.p.p. dovessero intendersi indirizzate solo al più alto consesso della giurisdizione e non anche ai peones dei distretti periferici.
 Di questa necessaria novella si avvertono i primi vagiti nella giurisdizione di merito, che ha già colpito ordinanze del GIP rese con mere formule adesive ritenute di stile, senza che fosse reso manifesto il percorso autonomo della valutazione incidentale (24).Così pure è stata falcidiata una recente ordinanza emessa dal GIP, ex art. 27 c.p.p., resa senza l’inequivoca esposizione di autonomia motivazionale, rispetto alla ordinanza ad effetti precari emessa (ai sensi dell’art. 291 co. 2 c.p.p.) dal giudice dichiaratosi incompetente (25).La decisione, diffusamente ed acutamente argomentata, dovrà tuttavia confrontarsi con le resistenze di un orientamento della Corte di legittimità piuttosto coeso in tema di rapporto motivazionale osmotico tra ordinanza precaria ed ordinanza emessa dal giudice competente (26).
 Del resto, se è vero che l’ordinanza interinale è per sua natura precaria, è pur vero che l’ordinanza emessa dal giudice competente, che ne richiami il contenuto narrativo, ove tenga conto, valutandoli espressamente, degli elementi rappresentati dall’indagato innanzi al giudice incompetente e di quelli emersi nel corso dell’eventuale fase incidentale di riesame, ben può limitarsi ad esplicitare le ragioni della condivisione, quale che sia la veste grafica scelta per rendere intellegibile tale decisione. Giacché, ed è forse questo il punto dirimente che occorre cogliere nella voluntas legis, in questo caso la motivazione condivisa è quella di un giudice (sebbene incompetente) e non quella della parte pubblica, che sovente si limita ad offrire in un diverso formato grafico l’informativa redatta dalla polizia giudiziaria, così evirando dalla giurisdizione il momento della proposizione, con le conseguenti aporie del momento genetico e con buona pace di quanto disposto, in forma non equivocabile, dall’art. 13 della nostra Carta fondamentale.
 Si può allora sinteticamente definire l’intervento normativo in parte qua, come un necessario, quanto forse mortificante richiamo, alla giurisdizione di frontiera (quella che soffoca sotto il peso dei numeri e non viene adeguatamente assistita dalla componente amministrativa del complesso Giustizia), affinché non dimentichi, nella redazione degli atti che conculcano la libertà, quale è stata la funzione che la Costituzione ha voluto attribuirle………….. 
 Sul piano delle regole del procedere incidentale, il legislatore ha poi offerto la necessaria massima espansione al diritto dell’indagato di rendere, di persona, le proprie ragioni al collegio deputato alla revisione della sua posizione cautelare (27). Il detenuto fuori distretto avrà quindi la facoltà di esser tradotto per l’udienza di riesame (28), potendo così rendere al suo giudice le ragioni personali della impugnazione, senza mediazioni da parte del magistrato di sorveglianza. E’ un’opzione di civiltà, funzionale anche a favorire una più diretta conoscenza dei fatti da parte del giudice della revisione. Restano sul tappeto della ordinaria quotidianità i problemi relativi ai tempi della traduzione in udienza, posto che la richiesta di presenziare potrà, certo, esser anticipata con la richiesta di riesame (ove fosse presentata personalmente), ma, del pari certamente, non potrà restare negletta se comunicata all’atto della comunicazione della data di udienza. Anche in questo caso occorre prender atto che le garanzie non sono a km. zero, costano denaro e dilatano i tempi della decisione, basta esserne consapevoli.
 Nella medesima direzione volge l’interpolazione del comma 9 bis dell’art. 309 c.p.p. (29). Il termine perentorio per la decisione incidentale di riesame perde una fetta della sua perentorietà, in favore della disponibilità dei diritti personali. E’ solo il soggetto nel cui interesse era stata pensata quella perentorietà che ne può, limitatamente, disporre. Per questo motivo non ne è stata prevista l’estensione anche ad iniziativa di ufficio del tribunale per il riesame, che certo avrebbe potuto goderne, magari per favorire una migliore conoscenza degli atti. Tuttavia, non può che concordarsi con la scelta operata dal legislatore, solo la parte nel cui interesse è posto un diritto (quello alla sollecita decisione collegiale sulla sorte della propria libertà) può rinunciarvi.
 Del pari è a dirsi per l’ampliamento della scure dell’inefficacia (30), che ha già registrato molte osservazioni critiche sul versante requirente della giurisdizione. L’incidente cautelare, è vero, rischia apparentemente di trasformarsi, più di quanto già non fosse, in una moderna e poco ludica versione delgioco dell’oca. Solo che, mentre prima della novella in commento poteva porsi rimedio alla declaratoria di inefficacia con la immediata e, talvolta fin troppo tempestiva, riemissione della ordinanza, oggi tale ancora di salvezza resta confinata alle ipotesi in cui ricorrano eccezionali esigenze cautelari, specificamente motivate. Ad avviso dei più malevoli commentatori si tratterebbe di una forma di salvacondotto per i professionisti della latitanza, o meglio, per chi è aduso a muoversi in maniera obliqua nei meandri delle difficoltà operative delle cancellerie. Può anche darsi che un tale effetto (non voluto, fino a dimostrazione del contrario) possa sortire dalla norma così novellata. Tuttavia, sono fatti salvi i casi delle eccezionali esigenze cautelari, da motivare specificamente, il che porta ad escludere che la riemissione sia inibita nel caso si tratti dei professionisti di cui sopra. Anche qui, non può, per onestà intellettuale, calare l’oblio sulle disfunzioni (non sempre incolpevoli) del sistema cautelare incidentale: non sarà addebitabile a responsabilità individuali di alcuno, tuttavia il soggetto ristretto ha certamente diritto a conoscere, in tempi rapidissimi, la decisione collegiale sul suo destino di coercizione; del pari ha diritto di conoscere i motivi di quella decisione, anche per orientare le successive scelte processuali (accesso a riti alternativi, ammissione degli addebiti, risarcimento dei danni). In questa prospettiva, una ineccepibile motivazione della ordinanza di riesame, che intervenga a sei mesi o ad un anno dal deposito del dispositivo (ed è purtroppo capitato, non una sola volta, nel distretto di Napoli) non è utile alle parti, ritarda oltre misura i tempi già dilatati della impugnazione in sede di legittimità e, non da ultimo, appare anche poco dignitosa per chi la rende. Spiace doverlo ammettere, ma non c’è altro modo, che la sanzione processuale di inefficacia, per convincere gli organi preposti alla decisione incidentale che la risposta, quando si tratta della libertà personale, deve esser rapida, giacché, se non è rapida, neppure è utile.
In termini esattamente simmetrici la scure della inefficacia volge la sua lama anche nella sede di rinvio, a seguito dell’annullamento disposto dalla Corte di Cassazione (31). Sarà difficile da digerire per i ruoli già carichi dei tribunali distrettuali, ma se il principio che orienta i tempi dell’incidente cautelare è quello poco sopra indicato, la soluzione pare ineccepibile. L’indagato ha diritto di sapere, in tempi ragionevolmente brevi, se deve restare ristretto e per quali motivi, senza che le inettitudini e le inefficienze dell’amministrazione possano ridondare in danno della sua libertà personale.Questi i principali spunti di interesse della recente novella. Altri aspetti minori hanno gettato lo sguardo anche verso il procedimento di appello (art. 310 c.p.p.), senza tuttavia snaturarne la funzione (controllo della legittimità e di merito del titolo cautelare nel tempo, non nel suo momento genetico), con le ovvie conseguenze in termini di non perentorietà dei tempi per la decisione.Abbiamo aperto queste brevi considerazioni con le parole di Luigi Ferrajoli, che meritano di esser conosciute anche a quarant’anni dalla loro stesura su carta. Al termine di questo percorso di riflessioni dobbiamo, con lui, ancor oggi, chiederci se la custodia preventiva sia davvero una “necessaria ingiustizia”, come pensava Carrara, o se invece sia solo il prodotto di una inconfessata concezione inquisitoria del processo, che vuole l’imputato, al di là di virtuose, quanto ipocrite, declamazioni del contrario, presunto colpevole. A sommesso avviso di chi scrive, finché il legislatore non prenderà coscienza della necessità, ormai non più eludibile, di distinguere e diversamente disciplinare gli strumenti materiali della coercizione cautelare da quelli della sanzione, continueremo ad oscillare, disordinati e disorientati, tra gli estremi inconciliabili del periodo pendolare. Il luogo ed il momento della custodia non possono rozzamente identificarsi col carcere, giacché diversi sono i presupposti e diverse le funzioni. Non credo occorrano grandi intelligenze per comprenderlo; occorrono invece molte risorse, non solo finanziarie, per dare concretezza a queste nude parole.

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 1 Diritto e Ragione, Laterza editore, parte terza, cap. IX, paragrafo 3.

2 Il d.d.l. 1232-B è stato approvato in via definitiva dal Senato il 9 aprile 2015, pubblicato nella G.U. del 23.4.2015, con entrata in vigore l’8 maggio 2015, dopo l’ordinaria vacatio legis.

3 Per una attenta analisi strutturale della novella cautelare in commento si segnala Paola Borrelli, Una prima lettura delle novità della legge 47 del 2015 in tema di misure cautelari personali, in Diritto Penale Contemporaneo, giugno 2015.

4 Art. 274 comma I lett. c- c.p.p.: le situazionidiconcreto ed attuale pericolo,anche in relazione alla personalità dell’imputatonon possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo del reato per cui si procede.

5 Il “nuovo” comma 10 dell’art. 309 c.p.p. recita: “Se la trasmissione degli atti non avviene nei termini di cui al comma 5 o se la decisione sulla richiesta di riesame o il deposito dell’ordinanza del tribunale in cancelleria non intervengono nei termini prescritti, l’ordinanza che dispone la misura coercitiva perde efficacia e, salve eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate, non può essere rinnovata. L’ordinanza del tribunale deve essere depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione salvi i casi in cui la stesura della motivazione sia particolarmente complessa per il numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni. In tali casi, il giudice può disporre per il deposito un termine più lungo, comunque non eccedente il quarantacinquesimo giorno da quello della decisione.

6 Si pensi al comma 1 bis, aggiunto già nel 2001 all’art. 273 c.p.p. per condurre il contrasto giurisprudenziale interno alla Corte regolatrice, in materia di valutazione cautelare della chiamata di correo, verso approdi più conformi al sentire comune; o al comma 2 bis art. 275 c.p.p., ultimo approdo dello sciame di correttivi seguiti allebacchettate  inferte dalla Corte EDU, Torregiani c. Italia dell’8.1.2013. Per un excursus  storico, in chiave critica, della legislazione succedutasi in materia cautelare, delle prassi applicative e per una traccia delle prospettive di riforma, si veda E. AMODIO, Inviolabilità della libertà personale e coercizione cautelare minima, in Cassazione Penale, fasc.1, 2014, 0012B. Il d.l. n. 78/2013, convertito, con modificazioni, nella L. 94 / 13 ha novellato, in primo luogo, l’art. 280 co. 2 codice di rito, prevedendo la possibilità di adottare la custodia carceraria solo per i delitti, consumati o tentati, per cui è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni -incrementando il limite precedente, pari a quattro anni- ovvero nel caso di delitto di finanziamento illecito dei partiti. Per evidenti esigenze di coordinamento, è stato novellato l’art. 274, co. 1, lett. C), c.p.p., introducendo la locuzione per cui la custodia cautelare in carcere è disposta solo se si tratta di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni. L’art. 275 co. 2-bis, c.p.p. è stato novellato dal d.l. n. 94/2014, convertito, con modificazioni, nella L. 117/14; il primo periodo del comma 2-bis ha imposto come necessaria la prognosi sulla futura sospensione condizionale della pena anche in vista dell’applicazione degli arresti domiciliari, oltre che per la custodia in carcere. Il secondo periodo ha subito importanti innovazioni: accanto alla previsione secondo cui non può applicarsi “la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni”, vi sono diverse eccezioni. La prognosi sulla pena irroganda non sarà necessaria nelle ipotesi previste dagli artt. 275, co. 3, 276 co. 1-ter e 280 co. 3, c.p.p. ovvero quando si proceda per i delitti di cui agli artt. 423-bis, incendio boschivo, 572, maltrattamenti contro familiari e conviventi, 612-bis, atti persecutori, 624-bis, furto in abitazione e furto con strappo c.p., nonché per i delitti indicati all’art. 4-bis ord. penit., ovvero, ancora, qualora non possano essere disposti gli arresti domiciliari per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione di cui all’art. 284 co. 1 c.p.p. Altra modifica riguarda le “particolari modalità di controllo”per i detenuti agli arresti domiciliari di cui all’art. 275-bis c.p.p. che, secondo le modifiche del d.l. n. 146/2013, convertito, con modificazioni, nella L. n. 10/2014, non vanno più disposte se il giudice lo ritenga necessario in relazione alla natura ed al grado delle esigenze da soddisfare nel caso concreto, ma “salvo che le ritenga non necessarie”.

7 Dello “scopo di limitare la discrezionalità del giudice nella valutazione delle esigenze cautelari “quale obiettivo della novella dell’art. 274 c.p.p., si legge nel Dossier del Servizio Studi del Senato sull’A.S. n. 1232 – “Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali” n. 95 del gennaio 2014.

8 Anche per la cogenza delle sanzioni pecuniarie connesse alla inosservanza delle direttive, oltre che per la crescente mole di condanne al risarcimento dei danni patiti da chi si è trovato ingiustamente ristretto o indegnamente mal trattato negli ambienti della coercizione intramuraria.

9 (Il comma 3 dell’art. 275 c.p.p. ora così recita: “La custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando le altre misure coercitive o interdittive, anche se applicate cumulativamente, risultino inadeguate. Quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 270, 270-bis e 416-bis del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari. Salvo quanto previsto dal secondo periodo del presente comma, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del presente codice nonché in ordine ai delitti di cui agli articoli 575, 600-bis, primo comma, 600-ter, escluso il quarto comma, 600-quinquies e, quando non ricorrano le circostanze attenuanti contemplate, 609-bis, 609-quater e 609-octies del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelaripossono essere soddisfatte con altre misure”.

10 Utenti che, forse, sono così numerosi ed esuberanti giacché nello stivale la devianza dalla regola è regola, più che devianza, e, dunque, numeri così alti mal si prestano ad esser trattati con strumenti da extrema ratio, ma questa è una riflessione sulle cause sociali e sulle responsabilità della politica, che esula dal profilo tecnico che deve informare questo lavoro.

11 Art. 11 della legge n. 63 sul giusto processo.

12 Si ricordano, nell’esperienza cautelare del distretto di Napoli le centinaia di ordinanze della massima afflittività emesse, nei primi anni del nuovo secolo, per fattispecie omicidiarie, benché certamente gravissime, commesse negli anni ’80 del secolo precedente, nel contesto di conflitti tra consorterie criminali non più esistenti da alcuni lustri. Già in allora c’era chi si domandava quale attualità di esigenze cautelari sgorgasse da quei poveri resti organici ridotti a polvere.

13 Si segnala in proposito l’interessante soluzione motivazionale che si legge nella ord. n. 228/2015, emessa dal giudice per indagini preliminari del Tribunale di Napoli, sezione 26°, in data 8 maggio 2015, ove si descrive, in tema di pluralità di episodi di cessione di stupefacenti in concorso, commessi in forma organizzata fino al giugno 2014, una dimostrata abitualità e costanza dell’attività illecita osservata nel corso delle indagini, ad opera di un soggetto che, come dimostrato dalla lettura del certificato del casellario, ha fatto della cessione di stupefacenti uno stile di vita, il che rende contezza della attualità e concretezza del pericolo di reiterazione, da intendersi come esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati.)

14 VIII sezione penale del Tribunale di Napoli, in funzione di riesame dei provvedimenti restrittivi della libertà personale e dei sequestri, udienza del 29 maggio 2015, RIMC n. 2733-34/2015, “In punto di esigenze cautelari, sebbene non vi siano dubbi sulla gravità delle condotte ascritte agli indagati e sulla ripetitività delle stesse, circostanza che ha permesso di fare dell’attività illecita in commento la principale fonte di guadagno dei ricorrenti, occorre soffermarsi sulla datazione delle condotte: le attività di indagine, poste a base del presente procedimento, si sono fermate all’ottobre 2012, e da quel momento non è stato svolto alcun accertamento o monitoraggio che possa consentire a questo giudice di ritenere che l’attività di spaccio sia continuata, sì da valutare l’attualità del pericolo. La legge 9 aprile 2015 n. 47 ha novellato la disposizione di cui all’art. 274 c.p.p., in modo particolare la lettera c), relativa al pericolo di reiterazione dei reati, richiedendo, oltre alla concretezza, anche l’attualità del menzionato pericolo (… quando … sussiste il concreto e attuale pericolo …) ed aggiungendo, tra l’altro, il seguente periodo: Le situazioni di concreto pericolo, anche in relazione alla personalità dell’imputato, non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede. Ebbene, pur trovandoci dinanzi a reati gravi posti in essere con condotte reiterate, espressione di attività organizzata, non è possibile giungere ad una prognosi positiva in ordine alla sussistenza di esigenze specialpreventive così come richieste dal legislatore, per difetto del requisito dell’attualità del pericolo. Del resto, proprio in relazione alla figura di reato in esame una recente sentenza della Corte di Cassazione, VI sezione penale, decisione del 26 novembre 2015, depositata il 17 dicembre 2014, anteriore anche all’indicata novella legislativa, ha richiamato – per escludere in quel caso la ricorrenza delle esigenze cautelari – la natura del reato ex art. 74 d.P.R. n. 309/1990, così come illustrata nella sentenza della Corte Costituzionale n. 231 del 2011, specificando che si risolve in una forma speciale di delitto di associazione a delinquere, qualificata unicamente dalla natura dei reati- fine e non postula necessariamente la creazione di una struttura complessa e gerarchicamente ordinata, o l’esistenza di radicamenti sul territorio o di particolari collegamenti personali e, soprattutto, di specifiche connotazioni del vincolo associativo, cosicché rispetto ad essa difettano quelle peculiari caratteristiche, più proprie del reato di cui all’art. 416 bis c.p., idonee a fornire una congrua regola di esperienza, riguardante la sua tendenziale stabilità, in difetto di elementi contrari che attestino il recesso individuale o lo scioglimento del gruppo. In sostanza, nell’associazione in esame la diretta connessione con la realizzazione dei reati-fine, che costituisce l’estrinsecazione della struttura associativa, ne dimostra la persistenza, sicché, rispetto a tale figura associativa, risulta essere essenziale individuare gli elementi di fatto che giustificano l’attualità delle esigenze, rispetto a condotte esecutive distanti nel tempo. Nel caso che ne occupa, il reato associativo ipotizzato racchiude condotte che si sviluppano in un periodo che va dal marzo 2011 all’ottobre 2012, data della consumazione dell’ultimo reato-fine, mentre nella motivazione dell’ordinanza impugnata – benché emessa in data 7 aprile 2015 – manca qualsiasi considerazione sull’irrilevanza del tempo trascorso, né l’accusa ha prodotto elementi, che consentano a questo Tribunale di poter colmare tale lacuna: di qui l’impossibilità di motivare sulla correlazione, necessariamente esistente, tra il pericolo di recidiva ed il tempo del commesso reato, in ossequio alla novella legislativa su richiamata, ma anche alla specifica previsione di cui all’art. 292, comma 2, lett. c), c.p.p., essendo un dato di comune esperienza che il decorso di un arco temporale significativo può essere sintomo di un proporzionale affievolimento del pericolo di reiterazione (sentenza Corte di Cassazione, sezione VI, del 26 giugno 2013 n. 20112). Va solo precisato che non convince la tesi del pubblico ministero, che, in udienza, ha cercato di sostenere l’attualità del pericolo in ragione della asserita protrazione della condotta criminosa in contestazione: la nota della Guardia di Finanza (priva, peraltro, di data e di sottoscrizione) che ha rilevato – in sede di esecuzione dei provvedimenti cautelari emessi nel presente procedimento – diverse anomalie (cancellature ed annulli di incassi) nel registro dei corrispettivi della ditta individuale … omissis … non vale a dimostrare che tali anomalie costituiscano effettivamente un espediente per occultare temporaneamente, versandoli in cassa, i proventi dell’attività di spaccio, così sottraendoli ad eventuali controlli delle forze dell’ordine. Non appare significativo in tal senso il contenuto della conversazione tra omissis e omissis– risalente al 5 febbraio 2012 – richiamata nella predetta nota dei medesimi inquirenti, che, peraltro, come emerge da una semplice lettura, si esprimono, al riguardo, in termini di mera probabilità, come tale tutta da verificare. Del resto, non è neppure da escludere che le segnalate anomalie possano nascondere intenti di evasione fiscale. L’ordinanza impugnata va, quindi, annullata per assenza di esigenze cautelari attuali che legittimino l’applicazione della misura cautelare.”.

15 Già poco sopra riportato.

16 Da ultimo, sentenza 26 marzo 2015 n. 48, in ordine al reato di concorso esterno in associazione mafiosa; sentenza 23 luglio 2013, n. 232, in ordine al delitto di cui all’articolo 609 octies c.p.; sentenza 18 luglio 2013, n. 213, in ordine al delitto di cui all’articolo 630 c.p.; sentenza 29 marzo 2013, n. 57 in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo; sentenza 3 maggio 2012, n. 110, in ordine al delitto di cui all’art. 416 c.p., realizzato allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 c.p.; sentenza 22 luglio 2011, n. 231, in ordine al delitto di cui all’art. 74, D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309; sentenza 12 maggio 2011, n. 164, in ordine al delitto di cui all’art. 575 c.p.; sentenza 21 luglio 2010, n. 265, in ordine ai delitti di cui agli articoli 600-bis co. 1, 609-bis e 609 quater c.p. Si veda, altresì, la sentenza n. 331 del 16 dicembre 2011, con cui la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 12, comma 4-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 -Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero-, che pure prevedeva una presunzione assoluta analoga a quella dell’art. 275 co. 3 c.p.p. Sul tema, si vedano V. MANES, Lo “sciame di precedenti” della Corte costituzionale sulle presunzioni in materia cautelare, in Dir. Pen. e Processo, 2014, 4, 457; F. VERGINE, Art. 275, comma 3, c.p.p.: una norma dall’utilizzo eccessivo, in Dir. Pen. e Processo, 2014, 4, 430; F. GIUNCHEDI, La presunzione di adeguatezza della custodia cautelare. Frammenti di storia ed equilibri nuovi, in Giur. It., 2013, 3, P. TONINI, La carcerazione cautelare per gravi delitti: dalle logiche dell’allarme sociale alla gestione in chiave probatoria, in Dir. Pen. e Processo, 2014, 3, 261, G. BARROCU, La presunzione di adeguatezza esclusiva della custodia in carcere: evoluzione normativa e giurisprudenziale, in Dir. Pen. e Processo, 2012, 2, 224. Sull’ispirazione degli interventi della Consulta, si veda V. MANES, Lo “sciame di precedenti” cit., in Dir. Pen. e Processo, 2014, 4, 457: ” Quanto alle indicazioni più generali, le numerose pronunce di accoglimento – tutte sentenze “additive di regola”, direttamente fruibili per il giudice comune – poggiano su un chiaro denominatore comune, che rappresenta lo starting point del percorso argomentativo: il principio di fondo, cui è sotteso un preciso ethos costituzionale, è quello del “massimo livello di tutela dei diritti”, cui fa da pendant il principio del minimo sacrificio possibile dei diritti fondamentali, e, nella specie, del “minor sacrificio necessario” della libertà dell’indagato in sede cautelare.”

17 L’art. 308 co. 2 c.p.p. è stato integralmente sostituito ed il comma 2-bis è stato abrogato. La norma di nuovo conio. recita: “Le misure interdittive non possono avere durata superiore a dodici mesi e perdono efficacia quando è decorso il termine fissato dal giudice nell’ordinanza. In ogni caso, qualora siano state disposte per esigenze probatorie, il giudice può disporne la rinnovazione nei limiti temporali previsti dal primo periodo del presente comma”.

18 Talvolta irragionevolmente ristrettissimi, allorquando si trova a dover assecondare le scelte scellerate di qualche p.m., che procede al fermo di molte diecine di persone, per reati associativi mafiosi o altre complesse fattispecie plurisoggettive.

19 L’ordinanza che dispone la misura cautelare dovrà contenere, infatti, a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio: “c) l’esposizione el’autonoma valutazionedelle specifiche esigenze cautelari e degli indizi che giustificano in concreto la misura disposta, con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per i quali essi assumono rilevanza, tenuto conto anche del tempo trascorso dalla commissione del reato; c-bis) l’esposizione el’autonoma valutazionedei motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi forniti dalla difesa, nonché, in caso di applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, l’esposizione el’autonoma valutazionedelle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all’articolo 274 non possono essere soddisfatte con altre misure;”.

20 Cfr. Cass. Pen. Sez. VI, 4 marzo 2014, n. 12032, Cass. Pen. Sez. II, 4 dicembre 2013, n. 12537, Cass. Pen. Sez. VI, 24 maggio 2012, n. 22327, Cass. Pen. Sez. VI, 24 maggio 2012 n. 25631, Cass. Pen. Sez. II, 14 giugno 2012, n. 25513, Cass. Pen. Sez. III, 15 luglio 2010 n. 33753, Cass. Pen. Sez. II, 8 ottobre 2008 n. 39383, Cass. Pen. Sez. III, 11 ottobre 2007 n. 41569, Cass. Pen. Sez. IV, 8 luglio 2004 n. 45847.

21 Il legislatore ha, infatti, così riscritto il comma 9 dell’art. 309: “Entro dieci giorni dalla ricezione degli atti il tribunale, se non deve dichiarare l’inammissibilità della richiesta, annulla, riforma o conferma l’ordinanza oggetto del riesame decidendo anche sulla base degli elementi addotti dalle parti nel corso dell’udienza. Il tribunale può annullare il provvedimento impugnato o riformarlo in senso favorevole all’imputato anche per motivi diversi da quelli enunciati ovvero può confermarlo per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del provvedimento stesso.Il tribunale annulla il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, a norma dell’articolo 292, delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa”.

22 Le argomentazioni dell’orientamento più conservativo fondavano anche sulla riflessione autoreferenziale secondo cui la possibilità di annullare per vizio motivazionale esula dai poteri del t. d r., spettando solo alla Corte di Cassazione, si vedano Cass. Pen. Sez. II, 20 aprile 2012, n. 30696, Cass. Pen. Sez. II, 30 novembre 2011, n. 7967, Cass. Pen. Sez. III, 2 febbraio 2011, n. 15416, Cass. Pen. Sez. VI, 16 gennaio 2006, n. 8590, Cass. Pen. Sez. VI, 14 giugno 2004, n. 35993, Cass. Pen. Sez. II, 4 dicembre 2006, n. 1102, Cass. Pen. Sez. II, 21 novembre 2006, n. 6322.

23 Che può ancor oggi confermare o riformare l’ordinanza genetica anche per motivi diversi da quelli esposti dal giudice che procede.

24 Tribunale distrettuale di Napoli, sez. XII, ord. n. 2503/2015, del 19.5.2015: “All’udienza del 19 maggio 2015, i difensori dei ricorrenti hanno chiesto, tutti, l’annullamento dell’ordinanza impugnata. Il Tribunale ritiene, però, di dover, in via principale, affrontare la questione relativa alla “tenuta” dell’ordinanza qui in esame a fronte delle modiche introdotte dalla L. 47/2015 agli artt. 292 e 309 c.p.p. Va, al riguardo, innanzitutto, rilevato che l’art. 8 L. 47/2015, entrato in vigore solo l’8 maggio 2015, da un lato, ha “arricchito” le lettere c) e c-bis) dell’art. 292 c.p.p. di un ulteriore requisito motivazionale: si prevede, infatti, che l’ordinanza cautelare debba contenere non solo “l’esposizione”, ma anche “l’autonoma valutazione” degli elementi ivi rispettivamente indicati -esigenze cautelari, indizi, irrilevanza delle argomentazioni difensive- e, dall’altro lato, ha modificato anche i poteri attribuiti, in fase decisoria, al Tribunale del Riesame: in particolare, è stato aggiunto al nono comma dell’art. 309 c.p.p. il seguente periodo conclusivo: “Il Tribunale annulla il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292, delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa”. Va, poi, ritenuto, alla luce del combinato disposto di tali due norme, che il potere integrativo è, in primo luogo, precluso “se la motivazione manca”: trova, quindi, oggi, un’esplicita conferma, nel codice, l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui il Tribunale del Riesame deve annullare il provvedimento cautelare nelle ipotesi di motivazione mancante -in senso grafico-, alla quale sembra doversi continuare ad equiparare quella in cui la motivazione è meramente apparente. E tale situazione è riscontrabile allorquando l’apparato argomentativo si risolva in mere clausole di stile o in proposizioni apodittiche. In secondo luogo, il dovere di annullare l’ordinanza, senza poter procedere ad integrazioni, viene codificato anche proprio con riferimento all’ipotesi in cui la motivazione sia viziata nel requisito di nuovo conio, vale a dire se la stessa non contenga “l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292, delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa”. E tale situazione ricorre nell’ipotesi di redazione di motivazioni per così dire “appiattite su quelle del Pubblico Ministero richiedente”. La frase è virgolettata poiché l’espressione è mutuata dalla relazione a cura dell’ufficio del massimario della Corte di Cassazione. Tanto premesso, ad avviso del Collegio, nel caso di specie, nell’ordinanza impugnata, fa difetto proprio il requisito dell’autonoma valutazione da parte del GIP dei gravi indizi a carico di … omissis … in ordine ai reati loro rispettivamente ascritti. Ciò in quanto l’ordinanza qui in esame si limita a ripetere pedissequamente il contenuto della richiesta del PM, addirittura riproducendo la medesima suddivisione in paragrafi e utilizzando le stesse parole, senza alcuna ulteriore aggiunta, commento o osservazione da parte del GIP e quindi senza alcuna autonoma valutazione da parte di quest’ultimo. Ne consegue, quindi, alla luce delle modifiche introdotte con la L. 47/2015, entrata in vigore solo l’8 maggio 2015, che l’ordinanza del GIP del Tribunale di Napoli del 18 marzo 2015 va annullata e … omissis … vanno immediatamente liberati, se non detenuti o in custodia per altro caso. A fronte dell’accertamento circa la assenza, da parte del giudice impugnato, di una sia pur sintetica valutazione autonoma dei fatti rappresentati dal P.M. e trasfusi pedissequamente nell’ordinanza cautelare senza alcuna rielaborazione, sia per quanto attiene alla sussistenza dei gravi indizi, sia per quanto riguarda le esigenze cautelari -a quest’ultimo riguardo le difese hanno a lungo argomentato, eccependo proprio la assenza di un giudizio autonomo e specificamente inerente le singole posizioni-, il collegio non può che prendere atto della preclusione normativa derivante dalla norma succitata, che – ridisegnando i poteri decisori attribuiti al Tribunale del Riesame nelle ipotesi di carenza motivazionale – ha sottratto al Tribunale il potere di integrare, argomentare o valutare “ex novo” elementi fondanti il titolo custodiale, imponendo senz’altro di annullare l’ordinanza sottoposta al suo vaglio quando rilevi dette carenze. Nella citata relazione, infatti, si ipotizza (o meglio si propugna), l’annullamento senza rinvio (ad opera della Corte di Cassazione adita dal ricorrente) dell’ordinanza emessa dal Tribunale del Riesame ad integrazione di un’ordinanza carente di autonoma valutazione in ordine alla gravità indiziaria o alle esigenze cautelari.

25 Tribunale distrettuale di Napoli, sezione X, ord. n. 2729/2015 del 4.6.2015: “… Si può, quindi, affermare che secondo la più recente giurisprudenza di legittimità determina la nullità dell’ordinanza cautelare, non sanabile con l’esercizio dei poteri integrativi della motivazione spettanti al tribunale del riesame, anche l’ipotesi in cui il giudice non ha rispettato la tecnica di redazione consistente nel rinvio, o nella materiale ricezione, di altro provvedimento giurisdizionale. Il recente approdo dei giudici di legittimità, anche se non ancora consolidatosi, ha trovato una più solida e univoca base normativa nella modifica dell’art. 309, comma 9, c.p.p. introdotta dall’art. 11, comma 3, della L. n. 47/15. In particolare, il legislatore ha imposto al giudice del riesame di annullare il provvedimento cautelare qualora la motivazione manchi o non contenga l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292 c.p.p., degli indizi, delle esigenze cautelari e degli elementi forniti dalla difesa. Ad avviso del Collegio in seguito alla novella legislativa il potere integrativo dell’ordinanza spettante al tribunale del riesame non può, quindi, essere esercitato nel caso in cui il giudice della cautela, nel recepire integralmente il contenuto di altro atto del procedimento o nel rinviare allo stesso, si sia limitato all’impiego di mere clausole di stile o all’uso di frasi apodittiche, senza dare alcuna contezza delle ragioni per cui abbia fatto proprio il contenuto dell’atto recepito o richiamato oppure lo abbia comunque considerato coerente con la sua decisione. Tale ipotesi, infatti, integra una violazione di legge (cfr. il novellato art. 292 comma 2 lett. c) e c-bis), c.p.p.), rilevabile anche in sede di riesame (cfr. il novellato art. 309, comma 9, c,.p.p.). Tanto premesso, ritiene il Tribunale che nel caso in esame il G.I.P. non abbia rispettato i requisiti previsti per la tipologia di motivazione consistente nel rinvio, o nella materiale ricezione, di altro provvedimento giurisdizionale (in questo caso l’ordinanza cautelare emessa dal G.I.P. dichiaratosi incompetente). Manca, infatti, nell’ordinanza impugnata l’indicazione delle ragioni, sia pure sintetiche, dell’adesione alla motivazione espressa nel precedente provvedimento cautelare, così come è del tutto carente qualsiasi accenno di autonoma valutazione in ordine agli indizi, alle esigenze cautelari e agli elementi forniti dalla difesa. In base alla motivazione riportata in premessa, non risulta in alcun modo che il G.I.P. del Tribunale di Napoli abbia preso cognizione del contenuto delle ‘ragioni’ dell’atto richiamato, ritenendole condivisibili a tal punto da ‘rifarsi’ completamente a esse, attraverso un iter logico che possa essere controllato da questo giudice dell’impugnazione. In conclusione, si ritiene di affermare che nella presente procedura non si può esercitare il potere integrativo dell’ordinanza cautelare spettante al tribunale del riesame, poiché si è verificata una sostanziale mancanza di motivazione, che ha, di fatto, privato la parte di un grado di giudizio. Ad avviso del Collegio la totale assenza di autonoma motivazione è, quindi, indiscutibile. Né la carenza assoluta di motivazione può ritenersi superata dalla adeguatezza di motivazione dell’ordinanza emessa dal giudice dichiaratosi incompetente, che senza dubbio ha consentito ai destinatari dell’ordinanza – come si desume dalla memoria versata in atti – di conoscere gli elementi a loro carico così come indicati nella richiesta del P.M., per disporre un’adeguata difesa.Non si rileva, infatti, l’inadeguatezza dell’atto a conseguire il suo fine, ma si pone il problema se, non esistendo motivazione del giudice competente, si realizzi la nullità prevista dall’articolo 292 c.p.p., non emendabile con i poteri del Tribunale del riesame di integrazione della motivazione. Nel caso in esame, infatti, appare evidente come la tecnica redazionale utilizzata nei modi prima riportati dal giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, imponga di escludere che il G.I.P. abbia realmente preso cognizione del contenuto delle ragioni esposte nell’ordinanza del giudice dichiaratosi incompetente, ritenendole coerenti alla decisione adottata. In proposito è appena il caso di evidenziare che il provvedimento di custodia cautelare disposto dal giudice per le indagini preliminari che, contestualmente, si dichiari incompetente viene, a tutti gli effetti, sostituito dall’ordinanza pronunciata, come nel caso in esame, tempestivamente dal giudice competente, cioè entro i venti giorni previsti dall’art. 27 c.p.p. Ritiene questo Tribunale che l’art. 291 c.p.p. conferisce un potere eccezionale in materia cautelare in relazione a situazioni in cui le ragioni di urgenza impongono l’adozione di una misura personale che garantisca un presidio alle esigenze cautelari esistenti in attesa dell’intervento del giudice naturale del processo, che, laddove emetta a sua volta un’ordinanza custodiale, si sostituisce integralmente al primo giudice. Da questo momento, in caso di emissione della nuova misura, a parere del tribunale, la valutazione indiziaria sulla cui scorta si limita la libertà individuale e, quindi, oggetto di possibile riesame, è quella contenuta nella seconda ordinanza alla quale seguirà lo svolgimento del procedimento fino allo sbocco naturale dell’esercizio dell’azione penale o della decisione di archiviare la procedura. Alla luce delle considerazioni che precedono deve essere annullata l’ordinanza impugnata.

26 Cass. Sez. II, n. 6358 del 28.1.2015, rv. 262576.

27 Il comma 6 dell’art. 309, così come riformulato, recita: “Con la richiesta di riesame possono essere enunciati anche i motivi. Chi ha proposto la richiesta ha, inoltre, facoltà di enunciare nuovi motivi davanti al giudice del riesame facendone dare atto a verbale prima dell’inizio della discussione el’imputato può chiedere di comparire personalmente.“. A questa si collega la novella del comma 8-bis: “Il pubblico ministero che ha richiesto l’applicazione della misura può partecipare all’udienza in luogo del pubblico ministero presso il tribunale indicato nel comma 7.L’imputato che ne abbia fatto richiesta ai sensi del comma 6 ha diritto di comparire personalmente.”.

28 Salvo i casi di cui all’art. 45 bis disp. att. c.p.p., collegamento a distanza.

29 “Su richiesta formulata personalmente dall’imputato entro due giorni dalla notificazione dell’avviso, il tribunale differisce la data dell’udienza da un minimo di cinque ad un massimo di dieci giorni se vi siano giustificati motivi. In tal caso il termine per la decisione e quello per il deposito dell’ordinanza sono prorogati nella stessa misura“.

30 Il “nuovo” comma 10 dell’art. 309 c.p.p., così recita: “Se la trasmissione degli atti non avviene nei termini di cui al comma 5 o se la decisione sulla richiesta di riesame o il deposito dell’ordinanza del tribunale in cancelleria non intervengono nei termini prescritti, l’ordinanza che dispone la misura coercitiva perde efficacia e, salve eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate, non può essere rinnovata. L’ordinanza del tribunale deve essere depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione salvi i casi in cui la stesura della motivazione sia particolarmente complessa per il numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni. In tali casi, il giudice può disporre per il deposito un termine più lungo, comunque non eccedente il quarantacinquesimo giorno da quello della decisione.

31 Comma 5-bis dell’art. 311 c.p.p.: “Se è stata annullata con rinvio, su ricorso dell’imputato, un’ordinanza che ha disposto o confermato la misura coercitiva ai sensi dell’articolo 309, comma 9, il giudice decide entro dieci giorni dalla ricezione degli atti e l’ordinanza è depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione. Se la decisione ovvero il deposito dell’ordinanza non intervengono entro i termini prescritti, l’ordinanza che ha disposto la misura coercitiva perde efficacia, salvo che l’esecuzione sia sospesa ai sensi dell’articolo 310 comma 3, e, salve eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate, non può essere rinnovata”.

Massimo Perrotti

 
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