La rilevanza usuraria degli interessi di mora: un dilemma irrisolto

di Roberto Notaro

Il contenzioso bancario e finanziario è costellato da numerosi contrasti interpretativi di difficile soluzione, nonostante i notevoli sforzi profusi sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza. L’esigenza di trovare una linea interpretativa unitaria è sempre più impellente tenuto conto delle ricadute che hanno le decisioni dei tribunali sul sistema bancario e, conseguentemente, sull’intero sistema economico nazionale.Non è un caso che negli ultimi mesi per ben tre volte le Sezioni Unite della Cassazione siano state chiamate a dirimere gli accesi contrasti giurisprudenziali sorti su questioni di particolare rilevanza quali la configurabilità dell’usura sopravvenuta (Cass. S.U. Sent. n. 24675/2017), la validità del contratto monofirma (Cass. S.U. Sent. n. 898/2018) e la rilevanza usuraria delle cms (Cass. S.U. Sent. n. 16303/2018).

All’orizzonte si profilano già ulteriori decisioni delle SSUU, tenuto conto che su altre due questioni ancora controverse la Prima sezione della Cassazione ha richiesto l’intervento nomofilattico. In particolare, con l’ordinanza n. 27680 del 30 ottobre 2018, la prima sezione civile della Corte di Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione di massima importanza concernente le modalità di formulazione dell’eccezione di prescrizione sollevata dalla banca allorchè il correntista domandi la restituzione di somme indebitamente versate, chiedendosi in particolare se l’eccezione di prescrizione, per essere validamente proposta, debba contenere anche l’allegazione delle singole rimesse aventi natura solutoria operate nel corso del rapporto.

Con ordinanza di poco precedente, la n. 23927 del 2 ottobre 2018, la medesima sezione ha rimesso alle Sezioni Unite anche la questione concernente la possibilità per l’investitore, nell’ambito di un contratto quadro dichiarato nullo per vizio di forma, di limitare l’eccezione di nullità a solo alcuni ordini di acquisto (cd. nullità selettiva).

Sorprendentemente, però, tra tutte le questioni per le quali è stato richiesto l’intervento delle SSUU non vi è ancora quella del rapporto tra gli interessi di mora e l’usura. Eppure la rilevanza usuraria degli interessi di mora occupa una grossa fetta del contenzioso bancario e finanziario, ha una notevolissima rilevanza economico-sociale e, soprattutto, da sempre ha generato accesissimi contrasti giurisprudenziali esistenti oggi più che mai.

Affrontare in poche pagine il tema del rapporto tra mora ed usura non è facile, trattandosi di una questione così complessa che meriterebbe di essere vagliata approfonditamente. La soluzione di quello che rappresenta un vero e proprio dilemma coinvolge, infatti, molteplici aspetti tra loro strettamente intrecciati, ciascuno dei quali non ha una soluzione univoca. Per dare un’idea della complessità e del numero delle questioni che l’interprete si trova ad affrontare basti pensare che, prima di poter affermare o negare la rilevanza usuraria degli interessi di mora, è indispensabile accertare quale sia la natura degli interessi moratori e il loro rapporto con gli interessi corrispettivi.

Il problema non è secondario in quanto, affermare la diversità di natura e funzione degli interessi di mora rispetto a quelli corrispettivi, vuol dire escludere a monte la rilevanza usuraria dei primi e l’assoggettabilità alla norma imperativa solo dei secondi.

Il tema è da sempre oggetto di un acceso dibattito in dottrina, ma soprattutto nella giurisprudenza di merito.

Molte pronunce di merito (tra le tante: Trib. Milano 27 settembre 2017, n. 9709; Trib. Napoli 10 luglio 2017, n. 7906; Trib. Brescia 8 giugno 2017, n. 1828; Trib. Monza 19 giugno 2017, n. 1911; Trib. Modena 13 gennaio 2017; Trib. Verona 30 giugno 2016, n. 1966; Trib. Roma 7 maggio 2015, n. 9168; Trib. Roma 16 settembre 2014; Trib. Verona 23 aprile 2014) escludono dalla verifica di usurarietà gli interessi moratori in ragione della loro diversa natura rispetto agli interessi corrispettivi.

Gli interessi di mora, si afferma, non sarebbero il “corrispettivo di una prestazione”, rappresentando una sanzione per l’inadempimento del debitore; dunque, non potrebbero essere inclusi nella categoria degli interessi usurari in quanto sia l’art. 644 cp e che l’art. 1815 c.c. fanno riferimento ad un interesse, dato o promesso, quale corrispettivo di una prestazione.

Secondo questa tesi, dunque, la normativa in tema di usura farebbe riferimento alle sole prestazioni di natura corrispettiva legate alla fisiologica attuazione del rapporto, restando così escluse tutte quelle prestazioni eventuali riconducibili ad un incerto e futuro inadempimento.

È ciò che avviene, ad esempio, anche per la clausola penale e per la penale di estinzione anticipata del mutuo, clausole escluse dalla giurisprudenza dal computo del tasso soglia, proprio in quanto oneri eventuali ed incerti, derivanti(rispettivamente) dall’inadempimento o dalla libera scelta del mutuatario di risolvere anticipatamente il rapporto.

L’estraneità della mora al fenomeno dell’usura, secondo la tesi in esame, troverebbe conferma nella l. n. 162/2014 di conversione del D.L. n. 132/2014, norma che ha modificato l’art. 1284 c.c. introducendo un regime speciale per gli interessi legali maturati successivamente alla proposizione della domanda giudiziale. Il nuovo art. 1284, comma 4, c.c., stabilisce infatti che “se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale, il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali‘, tasso che per talune categorie di operazioni, quali i mutui, è superiore al tasso soglia.

La norma, per come formulata, confermerebbela funzione eminentemente indennitaria/risarcitoria degli interessi di mora, interessi per loro natura destinati a risarcire il danno causato dall’ingiustificato ritardo nel pagamento.

Inoltre, l’aver previsto tassi di mora superiori ai limiti stabiliti dalla disciplina antiusura, escluderebbedi per sè che il tasso di mora possa rientrare nel perimetro applicativo della norma antiusura. Sarebbe illogico, infatti, pensare che il legislatore abbia voluto da un lato vietare la pattuizione di interessi moratori superiori alle soglie, consentendo, dall’altro tale superamento per la fase successiva all’instaurazione del giudizio.

In definitiva, secondo l’impostazione appena riferita, gli interessi di mora non potrebbero essere mai computati ai fini della determinazione del tasso soglia, avendo una funzione completamente diversa dagli interessi corrispettivi e trovando la loro causa non nella concessione del credito, bensì nel risarcimento del danno da inadempimento.

Questa impostazione, molto diffusa tra i giudici di merito, pur essendo probabilmente quella teoricamente più solida e conforme ai principi generali del nostro ordinamento, non ha mai trovato molto seguito in sede di legittimità.

Sono tantissime ed assai note le pronunce della Cassazione, sia civile che penale, nelle quali si afferma che gli interessi moratori devono essere presi in considerazione ai fini usuraritenuto conto che l’art. 1, comma 4, della L. n. 108/1996 fa riferimento a “commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e spese [escluse quelle per imposte e tasse], collegate alla erogazione del credito” e che la norma di interpretazione autentica (di cui al D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1) ha precisato che “Ai fini dell’applicazione dell’articolo 644 del codice penale e dell’articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”(cfr., ad es., Cass. 22 aprile 2000, n. 5286, in Banca, borsa, tit. cred., 2000, II, 620 ss.; Cass. 4 aprile 2003, n. 5324; Cass. 11 gennaio 2013, nn. 602 e 603; e, soprattutto, Cass. 9 gennaio 2013, n. 350, in Banca, borsa, tit. cred., 2013, 501 ss. (con nota di A.A. Dolmetta).

Tale interpretazione è stata di recente ribadita da una interessante pronuncia della III Sezione civile (Cass. 30.10.2018, n. 27442). Nell’ordinanza indicata la III Sezione ha ribadito che gli interessi convenzionali di mora non sfuggono alla regola generale per cui, se pattuiti ad un tasso eccedente quello stabilito dall’art. 2, comma 4, l. 7.3.1996 n. 108, vanno qualificati ipso iure come usurari.

Ciò in quanto l’art. 2 l. 108/96, che vieta di pattuire interessi eccedenti la misura massima ivi prevista, si applica sia agli interessi promessi a titolo di remunerazione d’un capitale o della dilazione d’un pagamento (interessi corrispettivi: art. 1282 c.c.), sia agli interessi dovuti in conseguenza della costituzione in mora (interessi moratori: art. 1224 c.c.).

Secondo la Cassazione tale conclusione è l’unica consentita da tutti e quattro i tradizionali criteri di ermeneutica legale: l’interpretazione letterale, l’interpretazione sistematica, l’interpretazione finalistica e quella storica.

1.4. (A) L’interpretazione letterale.

Dal punto di vista dell’interpretazione letterale, nessuna delle norme che vietano la pattuizione di interessi usurari esclude dal suo ambito applicativo gli interessi usurari … La conclusione appena raggiunta è confermata dai lavori preparatori della l. 24/01 (che, come s’è detto, convertì in legge il d.l. 394/00, che a sua volta interpretò autenticamente l’art. 644 c.p.): nella relazione che accompagnò, nella XIII legislatura, l’esame in aula del d.d.l. n. S-4941 si legge, infatti, al § 4, che il decreto aveva lo scopo di chiarire come si dovesse valutare la usurarietà di qualunque tipo di tasso di interesse, “sia esso corrispettivo, compensativo o moratorio”

(…)

1.5. (B)L’interpretazione sistematica

Interessi corrispettivi ed interessi convenzionali moratori sono ambedue soggetti al divieto di interessi usurari, perché ambedue costituiscono la remunerazione d’un capitale di cui il creditore non ha goduto: nel primo caso volontariamente, nel secondo caso involontariamente …

Tanto gli interessi compensativi, quanto quelli convenzionali moratori ristorano dunque il differimento nel tempo del godimento d’un capitale: essi differiscono dunque nella fonte (solo il contratto nel primo caso, il contratto e la mora nel secondo) e nella decorrenza (immediata per i primi, differita ed eventuale per i secondi), ma non nella funzione

(…)

1.6. (C) L’interpretazione finalistica

Che gli interessi convenzionali moratori non sfuggano alle previsioni della della l. 108/96 è confermato dalla ratio di tale legge (…) La legge 108/96 ha introdotto un criterio oggettivo al duplice scopo di tutelare da un lato le vittime dell’usura, e dall’altro il superiore interesse pubblico all’ordinato e corretto svolgimento delle attività economiche.

Escludere pertanto, dall’applicazione di quella legge il patto di interessi convenzionali moratori da un lato sarebbe incoerente con la finalità da essa perseguita; dall’altro condurrebbe al risultato paradossale che per il creditore sarebbe più vantaggioso l’inadempimento che l’adempimento; per altro verso ancora potrebbe consentire pratiche fraudolente, come quella di fissare termini di adempimento brevissimi, per far scattare la mora e lucrare interessi non soggetti ad alcun limite.

1.7. (D) L’interpretazione storica

Che anche gli interessi convenzionali di mora soggiacciono alle previsioni dettate dalla legge antiusura è conclusione imposta da una millenaria evoluzione storica, dalla quale non può prescindere l’interprete che volesse degli istituti giuridici non già ritenere il vuoto nome, ma intenderne la vimacpotestatem.

L’analisi storica dell’istituto in esame conferma infatti che:

(a)    gli interessi moratori sorsero per compensare il creditore dei perduti frutti del capitale non restituito, e quindi per riprodurre, sotto forma di risarcimento, la remunerazione del capitale; non è dunque storicamente vero che le due categorie di interessi siano “funzionalmente”differenti;

(b)   l’opinione secondo cui gli interessi moratori avrebbero una funzione diversa da quelli corrispettivi sorse non per sottrarre gli interessi moratori alle leggi antiusura, ma per aggirare il divieto canonistico di pattuire interessi tout court;

(c)     la presenza nel nostro codice civile di due diverse norme, l’una dedicata agli interessi moratori (art. 1224 c.c.) l’altra agli interessi corrispettivi (art. 1282 c.c.) non si spiega con la distinzione tra le due categorie di interessi e non ne giustifica un diverso trattamento rispetto alle pratiche usurarie, ma è retaggio dell’unificazione del codice civile e di quello di commercio, che avevano risolto in termini diversi il problema della decorrenza degli effetti della mora.

La pretesa distinzione “ontologica e funzionale” tra le due categorie di interessi non solo è dunque un falso storico, ma sorse e si affermò per circoscritti e non più attuali fini. Tale inesistente distinzione “funzionale” non giustifica affatto la pretesa che gli interessi moratori sfuggano all’applicazione della l. 108/96”

L’interpretazione sistematica della Cassazione, anche alla luce di quest’ultima pronuncia, appare oramai consolidata, per cui appare poco probabile che in futuro si possa affermare in sede di legittimità l’irrilevanza a fini usurari degli interessi di mora.

Ciò posto, una volta accertato che anche gli interessi di mora sono sottoposti ai limiti della normativa antiusura, si pongono altri due problemi di non facile soluzione: 1) in che modo calcolare il costo negoziale connesso agli interessi di mora e con quale parametro confrontarlo; 2) qual è la conseguenza del superamento delle soglie dovuto all’applicazione degli interessi di mora.

Partendo dal primo punto, la questione che si pone è di stabilire in che modo gli interessi di mora concorrano alla determinazione del costo del contratto; fatta questa scelta, occorrerà stabilire quale sia il parametro cui fare riferimento per verificare il superamento del limite normativo.

Determinare quale sia il costo negoziale connesso agli interessi di mora non è operazione scontata, trattandosi di quesito che ha visto la giurisprudenza elaborare almeno tre tipi di soluzioni.

Secondo un primo orientamento (avallato dalla recente sentenza del 30.10.2018, n. 27442) l’interesse moratorio indicato nel contratto andrebbe, puramente e semplicemente, confrontato con il tasso soglia degli interessi corrispettivi previsto dai decreti ministeriali in relazione alla categoria negoziale di riferimento. Esemplificando, se nel contratto è previsto un tasso di mora del 10%, tale percentuale andrebbe confrontata con il tasso soglia.

Questa interpretazione ha certamente il pregio di consentire di verificare il superamento delle soglie di usura in maniera estremamente agevole, risparmiando al giudice la necessità di ricorrere ad un tecnico per l’esecuzione dei complessi calcoli propri della formula del TEG. Essa, tuttavia, appare francamente sin troppo semplicistica e non tiene conto di due circostanze che depongono contro la sua concreta applicabilità.

Il confronto tra il tasso nominale di mora puro (ossia del solo dato numerico come individuato in contratto) e il TEGM andrebbe in primo luogo contro il principio di simmetria, determinando una comparazione tra due misure assolutamente disomogenee. Né può sostenersi che l’esigenza di confronto tra dati simmetrici sia avvertita solo da una parte della giurisprudenza, trattandosi di principio richiamato ed affermato come valido anche dalle SUnella pronuncia in tema dirilevanza usuraria delle cms (Cass. S.U. Sent. n. 16303/2018). In quella sede, infatti, è stato ribadito che il confronto andrebbe fatto tra dati omogenei e, dunque, tra dati numerici ottenuti tramite analoghi procedimenti matematici.

Ma vi è un’altra ragione che depone contro la correttezza della tesi espressa dalla III Sezione della Cassazione.

Confrontare il tasso nominale di mora con il TEGM vuol dire far uscire sostanzialmente gli interessi di mora dall’usura. Questo in quanto, nella pratica, mai le parti pattuiscono interessi di mora che, isolatamente considerati, superino già le soglie di legge. Il superamento, infatti, avviene esclusivamente aggiungendo agli interessi di mora tutti gli altri costi negoziali.

D’altronde non ha molto senso prendere in considerazione il solo tasso nominale di mora in quanto esso non rappresenta che una parte del costo effettivo del contratto, costo al quale si aggiungono necessariamente tutti gli altri negozialmente pattuiti che continuano ad essere dovuti anche in caso di operatività della clausola moratoria. Proprio per tale ragione il legislatore richiede che si individui il costo effettivo del contratto, ossia quel costo ottenuto aggiungendo agli interessi ogni altro onere connesso all’erogazione del credito, con esclusione delle sole imposte e tasse. È solo tale costo effettivo (individuato dalla normativa attuativa con la formula del TEG) che può essere confrontato con i tassi soglia (TEGM).

Per tali ragioni mi sembra più corretto affermare che il tasso di mora non abbia rilevanza autonoma, ma debba essere inserito nella formula del TEG dettata dalla Banca d’Italia, determinandosi in tal modo quale sia il costo effettivo del contratto per effetto della mora.

A questo punto, però, va fatta un’ulteriore scelta ermeneutica.

Come è noto, la formula del TEG elaborata dalla Banca d’Italia presuppone che siano noti (perché determinati o determinabili) i costi imposti al cliente. La formula del TEG = [(INTERESSI X 36.500)/ NUMERI DEBITORI + (ONERI ANNUI X 100)/ACCORDATO] presuppone, infatti, che si conosca il valore numerico di ciascun fattore, ossia: la misura degli interessi corrisposti o da corrispondere, il capitale erogato o inadempiuto, gli oneri e il relativo fido accordato. Ebbene, sin dalla sottoscrizione del contratto è sempre nota la misura degli interri corrispettivi, in quanto essi sono dovuti in una determinata percentuale annua sul capitale erogato, motivo per il quale sin dalla sottoscrizione è sempre possibile determinare quale sia il TEG negoziale, essendo sufficiente inserire nella formula del TEG la misura degli interessi corrispettivi che il cliente si è obbligato a corrispondere nell’anno. Così non è per gli interessi di mora, per i quali sin dalla sottoscrizione conosciamo solo la misura percentuale teorica; a differenza degli interessi corrispettivi, gli interessi moratori rappresentano un onere eventuale, in quanto dipendono dal periodo di inadempimento e dall’entità del capitale impagato. Non è dunque possibile indicare a priori quanto dovrà pagare il cliente ogni anno a titolo di interessi moratori, dovendosi prima accertare per quanti giorni al mese sarà in mora (tra l’altro la mora massima mensile è di 29 giorni!) e per quale parte di capitale. Tutto ciò vuol dire che non è concretamente possibile determinare a priori quale sia il TEG negoziale dovuto all’applicazione della clausola moratoria, dovendosi attendere l’effettiva applicazione degli interessi di mora.

Ed è proprio questa la soluzione prescelta dalla giurisprudenza più interessante, secondo la quale l’accertamento del superamento delle soglie usurarie per effetto degli interessi di mora ha un senso e può essere eseguito solo ed esclusivamente se gli interessi di mora siano stati concretamente addebitati al cliente. Solo in tal caso, infatti, sarebbe possibile verificare il TEG del contratto confrontandolo con il relativo TEGM.

Vi è, infine, una variante a tale orientamento (non molto diffusa e poco condivisibile) che ritenendo di dover dare rilevanza alla mera pattuizione degli interessi di mora, effettua il calcolo del TEG ipotizzando tutti gli scenari possibili di mora (a prescindere dal loro possibile verificarsi), fino al cd.worst case ossia all’inadempimento più grave possibile a cui potrebbe andare incontro il cliente. Se anche in uno solo dei possibili casi ipotetici si verifichi il superamento delle soglie il contratto sarebbe illecito perché usurario.

Questa impostazione appare francamente eccessiva in quanto collega l’illiceità del contratto ad ipotesi che nella pratica potrebbero non verificarsi mai o, peggio ancora, ad ipotesi che non certamente non si sono verificate e non potrebbero più presentarsi. Seguendo tale impostazione, infatti, spesso capita che il superamento delle soglie avverrebbe solo in caso di inadempimento delle prime rate del finanziamento, sebbene le stesse siano già state corrisposte. Conseguentemente, si dovrebbe dichiarare l’usurarietà del contratto prefigurando uno scenario negoziale assolutamente ipotetico e irrealizzabile, con evidente distorsione dello spirito della legge antiusura.

Scelta una delle tre linee interpretative sopra indicate, bisogna individuare con quale parametro confrontare il tasso di mora negoziale.

Secondo alcuni (tra cui la più volte citata III Sez. Civile, nonchèTribunale di Milano, 28.04.2016 n.5279 e Tribunale di Treviso, 12.11.2015 | n.2476) l’interesse di mora andrebbe confrontato con il TEGM previsto per quella categoria contrattuale, mentre secondo altri dovrebbe tenersi conto della rilevazione statistica operata dalla Banca d’Italia (e riportata nei DM) nella quale si da atto che mediamente i tassi mora subiscono un aumento del 1,9% del TEGM (Tribunale di Roma, 22 novembre 2018, n. 22543). Secondo quest’ultimo orientamento, ancora minoritario, le esigenze di simmetria richiederebbero il confronto degli interessi di mora con il TEGM maggiorato dell’aumento percentuale indicato dalla Banca d’Italia.

Dopo aver risolto tutti questi contrasti, prendendo posizione per una o l’altra delle varie tesi in campo, resta un ultimo problema da dirimere: qual è la conseguenza del superamento dei tassi soglia per effetto dell’applicazione degli interessi di mora.

Anche in tal caso le diverse teorie abbondano.

Secondo un orientamento, che valorizza l’art. 185 co. 2 c.c., l’illiceità degli interessi di mora si riverserebbe sull’intero contratto, determinando un’illiceità originaria di tutto il negozio, con conseguente gratuità. In sostanza, l’aver promesso o fatto pagare interessi usurari sarebbe sanzionato dall’ordinamento con la completa gratuità del rapporto in quanto l’intenzione del legislatore sarebbe quella di proibire qualsiasi patto negoziale determinante un eccessivo squilibrio delle prestazioni. Una clausola relativa ad interessi moratori eccessivamente onerosi determinerebbe nel debitore un metuseccessivo, collegato al suo inadempimento, che non sarebbe meritevole di tutela in quanto contrario alla norma antiusura.

Un secondo orientamento pone l’attenzione sul dato letterale dell’art. 1815 co II c.c., secondo il quale “se sono convenuti interessi usurari la clausola è nulla e non sono dovuti interessi”. La norma, testualmente, non afferma che l’usurarietà determina la gratuità del contratto, ma si limita a prevedere la nullità della clausola avente ad oggetto gli interessi. Ciò vuol dire che, se gli interessi illeciti sono i corrispettivi, certamente il contratto sarà gratuito, in quanto non vi saranno altri interessi da corrispondere; viceversa, se la nullità riguardasse la clausola degli interessi moratori, solo tale clausola dovrebbe essere dichiarata nulla, non sarebbero dovuti interessi moratori, mentre resterebbe valida ed efficace la clausola relativa agli interessi corrispettivi.

Infine, con l’ordinanza n. 27442 del 30.10.2018 la III Sez. Civile ha delineato un terzo orientamento, sostenendo che l’art. 1815 co. II c.c. non sarebbe applicabile agli interessi moratori in quanto norma dettata solo per gli interessi corrispettivi. La nullità degli interessi moratori ultra soglia non potrebbe quindi determinare né la gratuità dell’intero contratto, né il venir meno degli interessi moratori tout court, in quanto dovrebbe farsi luogo al meccanismo legale di sostituzione degli interessi illeciti con il tasso legale.

Come è evidente troppe questioni sono ancora aperte e non si vede ancora all’orizzonte un possibile intervento nomofilattico delle Sezioni Unite, motivo per il quale per molto tempo ancora assisteremo ad un susseguirsi di pronunce di senso contrastante senza poter scrivere la parola fine sul controverso rapporto tra mora ed usura.