L’avvento della riforma Cartabia sull’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto

A cura di Giuseppe Palumbo (giudice penale il Tribunale di Nocera Inferiore)

Non è più ora di sussultare se le ambiguità dogmatiche sottese alla struttura dell’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto ed il suo riflesso applicativo – invero polimorfo e modesto, perlomeno rispetto alle esigenze dichiaratamente avute di mira – lo abbiano consegnato a recenti destini tumultuosi ed imperscrutabili.

Era appena il 29 Ottobre 2019 quando venne presentata alla Camera dei Deputati la proposta di Legge A.C. 2024 avente ad oggetto l’abrogazione dell’art. 131 bis c.p., addirittura sospettato di contrastare con l’art. 3 Cost., nella misura in cui farebbe dipendere la punibilità di un fatto riconosciuto come reato, secondo manifestazioni di discrezionalità giudiziale, da esprimersi sulla tenuità dell’offesa, ma nei termini di cui all’art. 133 c.p., benché proprio tale nucleo di cognizione sia strutturalmente e funzionalmente limitato alla sola e complementare dimensione quantificatoria della sanzione. Ulteriormente, l’istituto era perfino additato di collidere con l’art. 122 Cost, vanificando il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale ogni qual volta, a fronte di un reato perfezionatosi in tutti i suoi elementi – oggettivi e soggettivi – lo Stato non azionasse lo ius terribile volto alla necessità di punire il trasgressore. Infine, l’esimente pareva spezzare pure quel presunto legame necessario tra l’affermazione della responsabilità penale e la retribuzione di una pena con funzione rieducativa, per come imposto dall’art. 27 Cost1.

In realtà, a meno di un lustro di distanza dall’introduzione di un istituto coniato per (r-)innovare i principi della Teoria generale del reato – la cui vocazione applicativa, altrettanto generale ed ormai congenita alla valutazione dell’interprete penale, si intuiva fin dalla strategica collocazione topografica della disposizione, emblematicamente localizzata nella Parte generale del Codice Penale – il rischio che una differente impostazione politico-criminale fosse capace di consegnarlo ad una prematura ed ingloriosa estinzione è stato immediatamente spazzato via da un’autentica sollevazione di sfavore registratasi in seno alla comunità scientifica del diritto che, attraverso alcuni dei propri più illustri esponenti2, ha rivendicato la necessità di preservare uno dei più efficaci strumenti di conformazione e relativizzazione della determinazione giudiziale alle connotazioni specifiche del caso concreto. L’adesione al fronte antagonista, sul versante delle Corti, è apparsa implicita nell’esigenza di non disancorarsi da una valvola di sfogo di un contenzioso ormai sempre più schiacciante, plasticamente sottintesa nelle prassi applicative dell’istituto, talvolta perfino distorsive dei principi fondanti, purché se ne potesse estendere il campo d’efficacia.

In altre parole, alla tutela penale dei consociati sancita come quel male necessario di copertura costituzionale, la non punibilità dei casi tenui si è posta nei termini di amara medicina, dalla natura ancora ibrida e misteriosa, eppure con proprietà idonee a diluire la domanda di giustizia e correggerne alcuni effetti secondari.     

Il punto di scaturigine di ogni riflessione legata alla non punibilità per particolare tenuità del fatto giace nella rassegna, in realtà solo parziale, di alcune delle anomalie ed eccentricità che hanno esposto l’esimente fino alle soglie della propria abolizione legislativa.

Al netto di uno strisciante e mai dichiarato argomento demagogico, per cui il sentimento popolare tenda ad arridere alle opere di rimozione di ostacoli all’effettività della sanzione penale, esistono più tangibili difficoltà, di principio ed applicative, che hanno condotto l’elaborazione, legislativa, pretoria e scientifica, ad interrogarsi sulla sopravvivenza dell’istituto.

Un primo equivoco si è posto sulla ratio ispiratrice dell’esimente, invero tralaticiamente assurta, dalla propria genesi in poi, a finalità principalmente deflattive, sub specie di accelerazione e concentrazione dei tempi del procedimento penale. Eppure, fin dalla  Relazione allo schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, trasmesso alla Presidenza del Senato il 23 Dicembre 2014, era indicato come scopo dell’istituto l’agevolazione della fuoriuscita dal sistema giudiziario di condotte che, pur integrando gli estremi del fatto tipico, antigiuridico e colpevole, si disvelino, in concreto, non meritevoli di pena “in ragione dei principi generalissimi di economia processuale e proporzione”. Non oltre, non altro.

Sotto diverso profilo, il riconoscimento, nel diritto applicato, della natura giuridica sostanziale di causa di non punibilità in senso stretto3, ne ha certificato la collocazione nello stadio terminativo dell’affermazione di responsabilità penale, in senso elisivo della stessa ma, all’un tempo, salvaguardandone il riconoscimento di corrispondenza al tipo incriminatore e gli effetti consequenziali del relativo giudicato (in primis, ex art. 651-bis c.p.p.).  

Dunque, a qualsiasi latitudine del procedimento penale l’istituto sia evocato, la cognizione giudiziale –  seppur relativizzata allo stato, al grado, alla fase ed agli atti utilizzabili –  resta piena,  integra e devota alla valutazione di ciascuna delle singole categorie che scandiscono il crimen4, soltanto subordinatamente al positivo accertamento delle quali è consentito trascorrere sull’orbita più esterna al reato, ossia quella della punibilità del proprio autore, in cui misurare la tenuità, in concreto, di offese per cui è opportuno che de minimis non curat praetor.

L’indulgenza per i fatti tenui, dunque, non ammette mai contrazioni del ragionamento probatorio ovvero salti logici nel convincimento giudiziale, in quanto risponde all’opportunità di disattivare la comminatoria edittale allorquando finanche i propri limiti minimi risultino sproporzionati e sovrabbondanti a fronte delle più modeste espressioni concrete di tipicità della fattispecie, in coerenza con i principi di residualità della tutela penale e (di effettivo bisogno) di rieducazione della sanzione da applicarsi al suo autore, tanto potendo emergere perfino nell’ultimo dei gradi di giudizio del processo penale5, al culmine, quindi, dei maggiori tempi e risorse impiegate per decifrare la sussistenza dell’esimente.

In altre parole, la cognizione valutativa, in sede di applicazione dell’art. 131-bis c.p., non solo sconosce e rifugge da parametri motivazionali di serialità casistica, maggior liquidità ed assorbenza, ma, al contrario, si approfondisce e si aggrava lungo una dorsale prima inedita, relativa alla commisurazione della tenuità dell’offesa in concreto e la comparazione proporzionale con il minimo edittale sancito per la fattispecie di reato. Tale logica non ammette di essere doppiata dal traguardo deflattivo, all’interno della quale il raggiungimento di quest’ultimo appare sì possibile, ma soltanto in termini eventuali e di ancillarità.

Transitando, poi, nella complementare dimensione processuale dell’istituto, le ricadute di approcci operativi non del tutto coerenti con la propria natura, di diritto sostanziale, e le predette rationes, si rileggono in tendenze pretorie, più o meno consapevoli e strutturate, a riespandere esigenze di deflazione anche valicando i limiti, temporali e cognitivi, propri dello stato in cui si cala la valutazione giudiziale. È stato il caso, peraltro dai tratti complessi e non infrequenti, relativo alla dilatazione, fino alla trasfigurazione, dei connotati dell’art. 469 co.1-bis c.p.p., nella cui sede predibattimentale, per mantenere fede alla natura di proscioglimento in merito ed allo standard di concretezza nella valutazione dell’offesa, non è risultato insolito che, in un malinteso senso delle simmetrie giuridiche, venisse analogicamente applicato alla fase l’art. 135 disp. att. c.p.p., così da assicurare al Giudice, pur al solo fine di esaminare la tenuità del fatto, un contatto valutativo con gli atti del fascicolo del P.M6. L’anelito di una precoce utilizzazione di tutto quanto già pertenga il patrimonio conoscitivo del procedimento, tuttavia, collide con gli imperituri insegnamenti resi dal Giudice delle Leggi che, in subiecta materia, ha rilevato l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 469 c.p.p. perfino «nella parte in cui non prevede che il giudice conosca ed utilizzi gli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero al fine di dichiarare l’estinzione del reato ovvero per negare l’effetto di una causa di estinzione e disporre che si proceda al dibattimento» (Corte cost., 9 marzo 1992, n. 91), folgorando così, a maiori causa, delle prassi foriere di introdurre nel sistema sentenze apparentabili a quelle esitate da un rito abbreviato mai richiesto, in corto circuito con l’art. 651-bis c.p.p. –  per cui il proscioglimento anticipato in forza della non punibilità del fatto tenue è privo di efficacia di giudicato nei giudizi civili o amministrativi –  fino a determinare l’inopinata incompatibilità del Giudice, che dovesse denegare la definizione anticipata, a celebrare le seguenti fasi dibattimentali.     

Altrettanto indubbiamente, tuttavia, non può tacersi che tali tendenze abbiano trovato abbrivio nella struttura, cangiante e versatile, multiforme e proteiforme, di cui la causa di non punibilità si connota, dinamicamente, nella sequenza procedimentale. In questa sede, è solo il caso di sottolineare come il legislatore, proprio nell’ambito del proscioglimento predibattimentale ai sensi dell’art. 469 co.1-bis c.p.p. abbia ammantato l’ineludibile valutazione sul merito della precondizionante tipicità del fatto delle forme processuali proprie di un proscioglimento in rito, quali certamente sono quelle relative all’emanazione di una sentenza di “non doversi procedere”, pur non trattandosi di una causa di non procedibilità dell’azione penale.

Prolungando idealmente tale versante applicativo fino alla definizione del procedimento nelle forme dell’applicazione della pena su richiesta delle parti, un’ulteriore breccia nella coerenza sistematica dell’istituto è stata aperta da quella particolare impostazione ermeneutica, ma invero consolidata nella giurisprudenza di legittimità, per cui “E’ inammissibile il ricorso per cassazione avverso sentenza di patteggiamento sul motivo del mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto, in quanto siffatta causa di non punibilità non rientra nel novero delle ragioni di immediato proscioglimento previste dall’art. 129 cod. proc. pen., alla cui insussistenza è subordinata la pronuncia che accoglie la richiesta di applicazione di pena concordata. (In motivazione, la S.C. ha osservato che l’istituto introdotto dall’art. 131-bis cod. proc. pen. esige un apprezzamento di merito, finalizzato al riscontro dei presupposti applicativi, incompatibile con la natura del rito).” (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 9204 del 01/02/2018 Cc.  (dep. 28/02/2018 ) Rv. 272265 – 01), benché un omologo rilievo dell’esimente, pure officioso, sia dallo stesso Supremo Consesso ammesso, in via generalizzata, anche per la prima volta in sede di giudizio d’appello, proprio sul presupposto che l’accertamento della tenuità del fatto rientri tra le cause di immediato proscioglimento il cui riscontro è certamente connaturato alla cognizione giudiziale: “La causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. può essere rilevata di ufficio dal giudice d’appello in quanto, per assimilazione alle altre cause di proscioglimento per le quali vi è l’obbligo di immediata declaratoria in ogni stato e grado del processo, la stessa può farsi rientrare nella previsione di cui all’art. 129 cod. proc. pen.. (Fattispecie in cui la richiesta di applicazione della causa di non punibilità era stata avanzata per la prima volta nella fase delle conclusioni orali del giudizio di appello).” (Cass.  Sez. 6, Sentenza n. 2175 del 25/11/2020 Ud.  (dep. 19/01/2021).

Si comprende, quindi, che le ambiguità dogmatiche che contrassegnano l’intelaiatura dell’istituto e ne frastagliano l’efficacia esorbitino da un piano puramente scientifico, ribaltandosi gli assi del dibattito sulla possibilità di recuperare una coerenza sistematica, a valle, nella mediazione accertativa dell’interprete ovvero, solo a monte, con una restaurazione dell’esimente per mano legislativa.      

Procedendo per gradi, dunque, è solo a questo punto che si può effettivamente cogliere come il primo e principale impatto della Riforma Cartabia sull’istituto si sia manifestato nella scelta, null’affatto scontata, di custodire il fuoco e non adorare le ceneri.

Così soppiantata la voluntas abolitrice, dalla novella in commento, invero, la non punibilità dei casi tenui trae un notevole rinvigorimento applicativo, trasfuso all’interno dell’art. 131-bis c.p. per il medio di un rovesciamento della tecnica normativa, concretizzato slittando l’originario sbarramento orizzontale – fissato nel limite massimo di cinque anni di detenzione, anche congiunti alla sanzione pecuniaria – verso l’opposto polo del minimo della comminatoria di ciascun reato, in due anni di pena detentiva, anche congiunti a quella pecuniaria.

L’arretramento del baricentro edittale della disposizione – assiologicamente più coerente con il proprio riflesso operativo, invero destinato a proiettarsi sulla valutazione dei soli casi meno gravi – giunge a sintetizzare i più recenti approdi della giurisprudenza costituzionale che ha interpolato l’art.131-bis c.p. con le anomalie e le limitazioni denunciate nella prassi giudiziaria, maturata all’interno delle rigide paratie normative erette in ossequio al generale divieto legislativo di applicazione analogica delle norme eccezionali.

Si è al cospetto di un ripensamento anche tardivo e formalmente sollecitato dal recente richiamo del Giudice della Leggi che, evocato a sindacare la conformità dell’istituto con un’incriminazione – quella della ricettazione – dotata di un’escursione edittale particolarmente profonda, dapprima, ha preservato, temporaneamente e condizionatamente, la ragionevolezza dell’esclusione edittale dell’esimente alla ricettazione di particolare tenuità ex art. 648, co. 2 c.p., ingiungendo un intervento “per evitare il protrarsi di trattamenti penali generalmente avvertiti come iniqui”, consistente nel monito a prevedere “anche una pena minima, al di sotto della quale i fatti possano comunque essere considerati di particolare tenuità7. Tuttavia, a fronte del perdurante torpore legislativo – peraltro occasionalmente rotto ma con interventi di segno contrario, mirati soltanto ad aggiornare, incrementandoli, i casi di specifico sbarramento dell’esclusione da pena – la Corte Costituzionale, con una seconda sentenza, ha aperto uno profondo squarcio nelle trame dispositive dell’art. 131-bis c.p., attraverso una declaratoria additiva di principio per cui la norma è stata giudicata incostituzionale “nella parte in cui non consente l’applicazione della causa di non punibilità ai reati per i quali non è previsto un minimo edittale di pena detentiva” poiché “in linea generale, l’opzione del legislatore di consentire l’irrogazione della pena detentiva nella misura minima assoluta rivela inequivocabilmente che egli prevede possano rientrare nella sfera applicativa della norma incriminatrice anche condotte della più tenue offensività è dunque manifestamente irragionevole l’aprioristica esclusione dell’applicazione dell’esimente di cui all’art. 131-bis c.p., quale discende da un massimo edittale superiore ai cinque anni di reclusione” (Corte cost., sent. 21 luglio 2020, n. 156, Pres. Cartabia, Red. Petitti.).

Nondimeno, la prassi delle Corti restituiva esperienze, peraltro afferenti fenomenologie di notevole diffusione nella realtà giudiziaria, di sempre più manifesta inidoneità dei vincoli edittali dell’istituto, non solo e non tanto a defluire il traffico processuale, quanto più a tener fede all’impegno originario di stemperare le sproporzionate pretese punitive a fronte di vicende di minimo disvalore sociale, alimentando l’imbarazzante strepitus per tutti quegli episodi, invero meglio noti alla manualistica dei casi di scuola, in cui la conformazione strutturale della disposizione non ne precludeva l’accesso nelle aule della giustizia penale. Così, per il delitto di furto aggravato di una melenzana8, ospitato per tre gradi di giudizio, nei quali sono state profuse risorse che non potevano non far interrogare, in via immediata ed intermedia, sugli effetti collaterali dell’originaria disposizione esimente, da cui transitava, in via mediata ma finale, la credibilità dell’intero sistema.

La risposta novellistica del riformatore, nell’ambito di una più lata missione ricodificatrice volta a conformare l’intero sistema penale a valori o, rectius, obiettivi di deflazione e minimalizzazione dell’intervento penalistico, ha perfino doppiato i dicta della giurisprudenza costituzionale, dilatando il catalogo dei reati compatibili con la non punibilità dei casi tenui. L’assetto ordinamentale, sempre più policentrico e multilivello, ha ormai sfatato il mito della riserva di sovranità domestica in ambito penale e la nuova formulazione dell’art. 131-bis c.p. riflette esattamente la proiezione finalistica delle riforma verso gli impegni assunti a livello sovrannazionale. 

In ciò, si coglie anzitutto, la mancata previsione anche di un tetto edittale massimo, pur espressamente ingiunto dai Giudici delle Leggi, dilatando in misura ancor più incisiva la base di reati suscettibili di essere esonerati da pena in ragione del solo sbarramento comminatorio minimo. Sicché dalle nuove fondamenta dell’art.131-bis c.p., tuttavia, si edificano nuove e speculari questioni di ragionevolezza nell’estensione delle aree di non punibilità verso fenomeni delittuosi in ordine ai quali l’effettività della sanzione penale ed il bisogno di tutele intercettano le percezioni sociali più vive e diffuse. Non vi è intento né interesse di snidare quali specifici delitti possano, più o meno irragionevolmente, restare attratti dal campo di operatività della riscritta esimente, trattandosi di riflessioni, specialmente comparative, correlate ad estemporanee e suggestive tendenze di politica criminale proprie del contesto storico-sociale più che al substrato normativo, costituzionale e/o primario, in cui deve saggiarsene la solidità delle radici in esso affondate. Tuttavia, la dirompenza della previsione riformatrice risiede proprio nella sua portata generale che dialoga con tutte le ipotesi incriminatrici dalla stessa non escluse, ratione poenae nominatimque, che, più o meno consapevolmente, congloba, ad esempio, la fattispecie di omicidio colposo. Non si tratta affatto di voler misurare la cifra di ragionevolezza insita in tale manifestazione di discrezionalità normativa quanto, invero, di rilevare il grado distorsivo e di esacerbamento dei suoi effetti all’interno di quelli che sono ormai divenuti speciali sottosistemi del diritto penale. In particolare, si potrebbe presto scorgere una nuova alba, nebulosa e plumbea, nell’orizzonte della responsabilità penale degli esercenti delle professioni sanitarie, in cui alla speciale esimente sancita dall’art. 590-sexies si affiancherebbe quella generale prevista dall’art. 131-bis c.p.: a meno di non voler ritenere, contro le previsioni edittali ed oltre le espunzioni nominative, l’omicidio colposo non lambito dal raggio d’applicazione della disposizione in commento – restaurando l’illogica incomunicabilità dell’istituto con l’unico reato posto a presidio di un bene giuridico non comprimibile e quindi con offesa non graduabile – l’interprete penale ricadrebbe fatalmente al cospetto di un concorso di norme esimenti, per la decifrazione della natura, apparente o reale, del quale si potrebbe materializzare il rischio di dover ridiscutere le recenti e risolutive acquisizioni raggiunte nel diritto applicato9.

La rifondazione eurocentrica dell’istituto risalta sia nella tecnica normativa di previsione generale degli spazi di applicazione della disposizione che nella estromissione puntiforme di fattispecie che, in parziale distonia con le statistiche giudiziarie e le manifestazioni ampiamente variegate che di esse riconsegna la prassi delle Corti, sono oggetto di una tutela penale cristallizzata negli impegni assunti a livello internazionale. È il caso dei reati riconducibili alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, sottoscritta ad Istanbul il 11 maggio 2011, ratificata ai sensi della legge 27 giugno 2013, n. 77, indicati con il riferimento agli artt. 558-bis, 582, nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, 583, secondo comma, 583-bis, 593-ter, 600-bis, 600-ter, primo comma, 609-bis, 609-quater, 609- quinquies, 609-undecies, 612-bis, 612-ter, 613-bis c.p. Anche su tale versante, la devozione ortodossa agli obblighi internazionali, concretizzatasi nella scelta di richiamare il delitto di atti persecutori tra le esclusioni testuali e puntiformi della formulazione – invero mai lontanamente apparentato al relativo campo d’efficacia in ragione della natura necessariamente abituale della condotta10 –  se non meglio certificati in chiave meramente ricognitiva, potrebbe generare fondati interrogativi su segnali di mutazione genotipica relativi al portato definitorio di cui all’art. 131-bis co.3 c.p. ovvero a nuovi e più estesi contorni applicativi del cd. stalking

In riferimento all’inapplicabilità dell’istituto nei procedimenti per ulteriori reati di particolare gravità o allarme sociale, è opportuno specificare che l’elencazione tipica delle fattispecie estraniate è stata puntualmente doppiata dalla previsione delle varianti tentate, considerato che la relativa riconosciuta autonomia aveva già creato questioni interpretative non dissimili nell’ambito dell’omologa esimente di cui all’art. 649 c.p.11.

Il secondo correttivo innestato all’interno della disposizione, al dichiarato fine di ampliare il campo di applicazione della causa di non punibilità, è senz’altro costituito dal qualificato rilievo riconosciuto alla condotta “susseguente al reato”.

Il sacrificio della coerenza dogmatica dell’esimente sull’altare degli obiettivi deflazionistici di sistema (multilivello) che, si ribadisce una volta di più essere solo eventuali rispetto alla finalità istituzionale di arretrare la pretesa punitiva ai soli casi non tenui, si rivela in quella che era l’impostazione tradizionale e costante della giurisprudenza di legittimità in subiecta materia, per cui “ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, non rileva il comportamento tenuto dall’agente “post delictum”, atteso che la norma di cui all’art. 131-bis c.p. correla l’esiguità del disvalore ad una valutazione congiunta delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile, dell’entità del danno o del pericolo, da apprezzare in relazione ai soli profili di cui all’art. 133, co. 1 c.p., e non invece con riguardo a quelli, indicativi di capacità a delinquere, di cui al secondo comma, includenti la condotta susseguente al reato” (Cass. Sez. V, 2 dicembre 2019, n. 660, rv. 278555-01)”.

La ricomposizione di una chiara frattura con le premesse strutturali dell’istituto dovrebbe essere affidata la congiunzione “anche”, che apre l’inciso immediatamente successivo al rinvio all’art. 133, co. 1 c.p., che sottolinea come la condotta susseguente al reato rilevi, al pari ed in aggiunta ai criteri di cui alla citata disposizione codicistica, come criterio di valutazione dell’esiguità del danno o del pericolo e delle modalità della condotta, cioè degli indici o requisiti dai quali, congiuntamente, continua a dipendere la tenuità dell’offesa. Ciò significa che condotte post delictum, come quelle riparatorie o ripristinatorie, non potranno di per sé sole rendere l’offesa di particolare tenuità – dando luogo ad una esiguità sopravvenuta di un’offesa in precedenza non tenue – ma potranno essere valorizzate nel complessivo giudizio di tenuità dell’offesa, che, dovendo tener conto delle modalità della condotta, contemporanea al reato, ha come necessario e fondamentale termine di relazione il momento della commissione del fatto: la condotta contemporanea al reato e il danno o il pericolo con essa posto in essere. Tuttavia, la vis espansiva della riformulazione additiva sconta non trascurabili difficoltà di coordinamento operativo con l’art. 133 co.2 n.3) c.p., in cui il medesimo parametro di valutazione deve orientare il nucleo più propriamente discrezionale del potere giurisdizionale nell’esercizio della potestà sanzionatoria.

Quello che potrebbe sembrare un pieno richiamo testuale operato dall’art. 131-bis co.1 c.p. all’espressione “condotta susseguente al reato”, il cui significato è però tradizionalmente sublimato nella medesima locuzione dell’art. 133 co.2 n.3) c.p., si rivela un insidioso gioco di specchi deformanti, in cui tale parametro è imbibito di ben altra sostanza. Come si apprende dalla Relazione illustrativa di accompagnamento alla Riforma Cartabia, l’opzione tecnico normativa di richiamare ad litteramcondotta susseguente al reato” evitando contaminazioni o rinvii chiusi alla sua sede elettiva, l’art. 133 co.2 n.3) c.p., si spiega poiché “Nel diverso contesto della causa di esclusione della punibilità di cui all’art. 131 bis c.p., la condotta susseguente al reato non viene in considerazione come indice della capacità a delinquere dell’agente, bensì, secondo l’intenzione della legge delega, quale criterio che, nell’ambito di una valutazione complessiva, può incidere sulla valutazione del grado dell’offesa al bene giuridico tutelato, concorrendo a delineare un’offesa di particolare tenuità” (p. 357 Relazione Illustrativa cit.). Sicché la condotta susseguente al reato sarà apprezzabile, rispetto all’art. 131-bis c.p., ma solo quando concorri alla tenuità dell’offesa e non anche quando, al contrario, la aggravi: il rischio latente è che la sperimentazione giudiziale di tale indice valutativo possa essere riconvertita all’estremo ossequio all’intentio legis di fagocitare ipertroficamente i più ampi spazi d’applicazione concreta, legandone l’applicazione ad una rinnovata lettura di un tradizionale parametro di valutazione giudiziale, rilevante nella sola misura in cui sia capace di ridondare a favore del colpevole ed apparendone perlomeno dubbia l’insensibilità verso fenomeni di aggravamento postumo del fatto e/o di paradossale vendetta dell’impune.

Così esaurita l’analisi dei nova oggetto dell’interpolazione legislativa dell’art.131-bis c.p., non può farsi a meno di notare come, paradossalmente, un reale effetto di rinvigorimento dell’istituto e della concorrente missione deflattiva di fondo potrebbe reperirsi in un parallelo intervento riformativo, invero estraneo alla costruzione della disposizione de qua.

Si è già dinanzi accennato all’ormai previgente declinazione predibattimentale del proscioglimento per tenuità del fatto: un sepolcro imbiancato localizzato nell’intersezione tra fasi processuali ed aree di cognizione giudiziale così rarefatte, le prime, e ridotte, le seconde, da consegnare alla desuetudine giudiziaria ogni velleità di scongiurare l’imminente esito dibattimentale con una valutazione, in limine litis, sull’effettiva espressione minimale dell’offesa in concreto, invero più contigua all’esercizio di facoltà di chiaroveggenza che di giudizio. Ebbene, l’istituzione dell’udienza di comparizione predibattimentale a seguito di decreto di citazione diretta a giudizio, introdotta per un catalogo sempre più numeroso di reati, sembra finalmente poter riempire di  contenuti le ambiziose mire deflazionistiche nutrite, nella ratio legis, fin dalla fase predibattimentale, consegnando al primo Giudice della sequenza, nella piena disponibilità degli atti delle indagini preliminari, uno strumento concretamente capace di quantificare l’esatto coefficiente di offensività del caso azionato verso la così non più ineluttabile destinazione dibattimentale.  

Infine, relativamente ai profili intertemporali, la riconosciuta natura giuridica di causa di esclusione della punibilità in senso stretto, protesa ad escludere la sottoposizione di un colpevole alla pena per ragioni di opportunità legislativa, ne certifica l’applicabilità dell’art. 2, comma quarto c.p., con la conseguenza che l’estensione dell’ambito di applicazione dell’art. 131-bis, comma 1, c.p. a nuove figure delittuose ricavabili quoad poenam ha, senz’altro, effetto retroattivo relativamente ai procedimenti e processi pendenti per reati commessi prima dell’entrata in vigore della novella, ossia fino al 29 Dicembre 2022. Del pari, in quanto servente rispetto ad una norma di diritto sostanziale, si applica retroattivamente ai procedimenti in corso anche il nuovo parametro di valutazione della tenuità dell’offesa alla luce della condotta susseguente al reato, con l’effetto che, nell’ambito degli stessi, la condotta valutabile, oltre che post-delictum potrebbe essere addirittura post-legem.

In altre parole, pare si sia dinanzi ad una provocatio ad reum il quale, nella più lata logica riparativa che ispira il complessivo intervento riformatore, viene invitato a guadagnarsi la non punibilità mediante contegni suscettibili di positivo apprezzamento. La mediazione accertativa dell’interprete penale sarà quanto mai decisiva per evitare che la non trascurabile casistica di fenomeni delittuosi di particolare tenuità – proprio perché sovente caratterizzati dalle condizioni economiche, sociali e culturali straordinariamente disagiate degli autori (piccoli furti, intemperanze violente di modesta entità et similia) – si infranga contro la loro complementare incapacità di fronteggiare le pur minime conseguenze offensive delle proprie azioni. D’altra parte, nel moderno diritto penale del fatto qualsiasi logica censitaria, fossile di epoche connotate da impianti penalistici inspirati a classi di autori (vagabondi, disoccupati, tossicodipendenti) sarebbe avulsa al volto personalistico che la Costituzione ha inderogabilmente impresso all’affermazione di responsabilità penale, talché, a dispetto di istituti funzionalmente affini – in primis la sospensione del procedimento con messa alla prova ed i neonati programmi di giustizia riparativa, nei quali la condotta susseguente al reato è strettamente precondizionante della non punibilità – in sede di proscioglimento per particolare tenuità del fatto, la centralità che quest’ultimo non può mai disperdere nel convincimento giudiziale e nella sua determinazione conclusiva, non potrà che ridurre intensamente la portata innovativa del criterio valutativo.

L’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto è un microcosmo nel quale si racchiudono e sintetizzano disparate implicazioni di Teoria Generale del Reato, per cui ogni intervento sull’art. 131-bis c.p. deve essere mosso dalla consapevolezza che si incida nel cuore del sistema penale ed i suoi effetti non potranno che dipanarsi verso ogni sua stazione periferica. Fin dalla sua introduzione, la discussa natura giuridica, la policentrica collocazione sistematica nonché la mutevole e policroma struttura dispositiva capace di proiettarsi nell’intero snodo procedimentale con forme ed effetti discrepanti e disomogenei pare abbiano interessato quasi esclusivamente le dispute accademiche e dottrinarie, salvo riproporsi a fronte delle patenti irragionevolezze di volta in volta segnalatesi nella realtà giudiziaria e non raramente giunte (per-)fino al cospetto del Giudice delle regole primarie.

La riforma Cartabia non ha inteso incidere frontalmente sulla struttura dell’istituto, eppure sembra che ne abbia rovesciato la gerarchia tra le finalità di fondo, anteponendo la contrazione del carico giudiziario e dei tempi processuali all’estremizzazione della sanzione penale per i casi tenui. La novella muove dalla premessa che decenni, neanche troppo risalenti, di reclamizzata corsa al (ri)armamento penalistico siano costati un prezzo troppo caro, riversato sulla macchina della giustizia penale, ormai gravemente ingolfata da un contenzioso arretrato sempre più ingombrante e dispendioso di energie processuali sproporzionatamente sempre più ridotte. Nella trasfigurazione del nuovo volto deflazionistico dell’art.131-bis c.p. si fotografa l’intenzione di dotare il sistema di un efficace rimedio per compiere, uno actu, i predetti propositi di economia processuale: laddove non possano arrivare massicce iniezioni delle risorse carenti, umane e materiali, interventi, articolati ma organici, di depenalizzazione nonché di reale ed efficace incentivazione degli itinerari alternativi di definizione del procedimento penale si immagina che giungerà la riformata esimente, nel fine dichiarato di rendere sempre più casi non punibili e sempre più rapidamente espungibili dal perimetro della giustizia penale.

Alcune tradizionali questioni, di carattere dogmatico e sistematico, giacciono ancora invariate ed inestricate nelle radici strutturali dell’istituto e nei riflessi applicativi della prassi giudiziaria. Ma l’istituto è considerato oggettivamente indispensabile alla sopravvivenza del sistema e l’interesse a rilanciarlo ed irrobustirne la portata applicativa si è dimostrato esclusivo, totalizzante ed unidirezionalmente votato alla riduzione degli affari penali ed alla concentrazione dei tempi del processo.

Questi gli strumenti che dal 30 Dicembre 2022 saranno affidati agli operatori della giustizia penale, responsabilizzati ad un’affannosa rincorsa verso traguardi particolarmente ambiziosi da conseguire in tempi certi e iugulatori, quali condizioni risolutive dei patti corrispettivi stipulati a livello sovrannazionale. In un sistema ormai ostinatamente votato al conseguimento di economie processuali di larga scala, all’interprete resta affidata la delicata missione di non divorziare frettolosamente dai principi fondamentali dell’ordinamento penale, dal rispetto delle categorie del reato e di non tradire, nella logica applicativa, il rispetto dei valori costituzionali sousjacenti agli istituti con moderne forme di devozione ai “numeri” che incombono a valutarne l’operato.   


1 La proposta di legge è consultabile al sito: https://www.camera.it/uri-res/N2Ls?urn:camera-it:parlamento:scheda.progetto.legge:camera;18.legislatura;1184.

2La non-punibilità: una buona carta da giocare oculatamente”, pubblicato il 19.12.19 dal Prof. Francesco Palazzo su www.sistemapenale.it; “La proposta di legge per l’abrogazione dell’art. 131 bis c.p.”, pubblicato  il 19.12.19 dal Prof. Gian Luigi Gatta, su www.sistemapenale.it.

3 Sempre conforme, fin da Cass. Sez. U, Sentenza n. 13681 del 25/02/2016 Ud.  (dep. 06/04/2016 ), per cui “  In realtà il nuovo istituto è esplicitamente, indiscutibilmente definito e disciplinato come causa di non punibilità e costituisce dunque figura di diritto penale sostanziale. Esso persegue finalità connesse ai principi di proporzione ed extrema ratio; con effetti anche in tema di deflazione. Lo scopo primario è quello di espungere dal circuito penale fatti marginali, che non mostrano bisogno di pena e, dunque, neppure la necessità di impegnare i complessi meccanismi del processo”.

4Non è abnorme il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta di archiviazione ex art. 131–bis cod. pen., disponga invece archiviazione per infondatezza della “notitia criminis” (nella specie perché il fatto non è previsto dalla legge come reato), atteso che la verifica della fondatezza della notizia di reato si inserisce nella progressione delle questioni che il giudice è tenuto a sciogliere prima di addivenire all’esame della particolare tenuità. “ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 41104 del 13/09/2019 Cc.  (dep. 07/10/2019). 

5 In cui, tuttavia, l’applicazione dell’art. 131-bis c.p. non può essere operata dalla Corte di Cassazione ma esclusivamente, e con ulteriore prosecuzione del procedimento, dal Giudice del merito, in sede di rinvio, che ne ha negato illegittimamente il riconoscimento.

6 Ex pluris, Trib. Bari 20 aprile 2015, n. 1523, secondo il quale l’acquisizione del fascicolo del Pubblico Ministero è «suggerita, in via analogica, da quanto è previsto per il patteggiamento della pena, ipotesi che più si avvicina processualmente alla situazione prospettata e che richiede, per l’appunto, l’acquisizione del fascicolo del pubblico ministero ai fini del decidere».

7 Corte cost., sent. 17 luglio 2017, n. 207, Pres. Grossi, Red. Lattanzi.

8 Cass., Sez. V, 2.11.2017 (dep. 20.3.2018), n. 12823, Pres. Fumo, Rel. Micheli, ric. Saba.

9 Il riferimento, nella complementare prospettiva diacronica del concorso di norme esimenti, si coglie SS.UU. Mariotti del 22 febbraio 2018, n. 8770, che non solo hanno precisato i contorni applicativi dell’attuale portato normativo dell’art. 590-sexies c.p. ma, soprattutto, ne hanno tracciato le regole successorie con la non punibilità sancita, in parte qua, dal previgente art. 3 della Legge 8 novembre 2012, n. 189 di conversione del cd. Decreto Balduzzi.

10 In questo senso, ex multiis, Cass. Sez. 5, Sentenza n. 14845 del 28/02/2017 Ud.  (dep. 27/03/2017 ) Rv. 270021 – 01, per cui : “La causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen., non può essere applicata ai reati integrati da condotte plurime, abituali e reiterate, tra i quali rientra il delitto di atti persecutori la cui integrazione richiede la reiterazione della condotta tipica, ostativa “ex lege” al giudizio sulla tenuità ex art. 131 bis cod. pen., senza necessità di esplicita motivazione.”.

11  Per cui si è affermato il principio di diritto che “l’autonomia del delitto tentato comporta che gli effetti giuridici sfavorevoli previsti con 363 specifico richiamo di determinate norme incriminatrici vanno riferiti alle sole ipotesi di reato consumato e ciò in quanto le norme sfavorevoli sono di stretta interpretazione e, in difetto di espressa previsione, non possono trovare applicazione anche per le corrispondenti ipotesi di delitto tentato” (Cass. Sez. II, 18.4.2019, n. 25242, rv. 275825 – 01).”.

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