Legittima difesa: legge n. 36/2019

CLASSIFICAZIONE
CAUSE DI NON PUNIBILITA’ – LEGITTIMA DIFESA DOMICILIARE – ECCESSO DI DIFESA – DIRITTO ALLA VITA – PROPORZIONE TRA OFFESA E DIFESA – ATTUALITA’ DEL PERICOLO – NECESSARIETA’ DELLA CONDOTTA

RIFERIMENTI NORMATIVI
Convenzione E.D.U., art. 2
Patto internazionale sui diritti civili e politici, art. 6, par. 1
Codice penale, artt. 52, 55, 59
Legge 13 febbraio 2006, n. 59, art. 1
Legge 6 aprile 2019 n. 36, art. 1, comma 1, lett. a) e lett. c)

RIFERIMENTI GIURISPRUDENZIALI

Corte E.D.U., 9 giugno 1998, ricorso n. 23413/94, L.C.B. v. U.K.; Corte E.D.U., 15 gennaio 2009, ricorso n. 46598/06, Branko Tomašić and others v. Croatia; Corte E.D.U., 25 agosto 2009, ricorso n. 23458/02, Giuliani and Gaggio v. Italia; Corte E.D.U., Grande Camera, 24 marzo 2011, ricorso n. 23458/02, Giuliani and Gaggio v. Italia; Corte E.D.U., 14 giugno 2011, ricorso n. 30812/07, Trévalec v. Belgium; Corte E.D.U., 19 luglio 2018, ricorso n. 58240/08, Sarishvili-Bolkvadze v. Georgia.

Corte cost., sent. n. 148 del 02/06/1983; Corte cost., sent. n. 225 del 03/06/1987; Corte cost., sent. n. 278 del 23/05/1990; Corte cost., sent. n. 140 del 04/05/2009.

PRONUNCIA SEGNALATA
Cass. pen., sez. 3, sent. n. 49883 del 10 ottobre 2019, Capozzo (depositata il 10 dicembre 2019)

Abstract

– La causa di giustificazione della legittima difesa prevista dall’art. 52, primo comma, cod. pen., postula tre elementi: il pericolo attuale di un’offesa ingiusta ad un diritto proprio o altrui; la necessità di reagire a scopo difensivo; la proporzione tra la difesa e l’offesa.

– L’art. 1 della L. 13 febbraio 2006 n. 59 ha aggiunto il secondo comma dell’art. 52, cod. pen., in base al quale nei casi previsti dall’art. 614, primo e secondo comma, sussiste sempre (avverbio inserito dall’art. 1, comma 1, lett. a), della L. 26 aprile 2019, n. 36) il rapporto di proporzione tra la difesa e l’offesa se taluno presente in uno dei luoghi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o altrui incolumità; b) i beni propri o altrui quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione.

– L’art. 1, comma 1, lett. c), della L. 26 aprile 2019, n. 36 ha aggiunto il quarto comma dell’art. 52 cod. pen., in base al quale, nei casi di cui al secondo e terzo comma, agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione, posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone.

– La Terza sezione penale ha delineato i confini di applicabilità della nuova fattispecie di legittima difesa domiciliare, introdotta con legge del 26 aprile 2019 n. 36 al fine di inasprire la reazione penale avverso le aggressioni domiciliari e guardare con indulgenza alle condotte di autodifesa del cittadino, superando la rigidità della presunzione di proporzione tra difesa e offesa introdotta dal legislatore mediante l’inserimento dell’avverbio “sempre” nel testo dell’art. 52, secondo comma, cod. pen., nel senso di ribadire l’ordine e il rapporto di rango tra i beni costituzionali anche alla luce delle norme di matrice internazionale.

LA SENTENZA DELLA 3^ SEZIONE PENALE (n. 49883 del 10/10/2019, Capozzo)

Il caso

1. L’imputato è stato condannato in primo grado per omicidio doloso e sottrazione e soppressione di cadavere, per avere sparato e, conseguentemente, ucciso un uomo che stava tentando di entrare in casa sua e, successivamente, trasportato e gettato il suo cadavere nel fiume Volturno. La Corte d’assise d’appello di Napoli, accogliendo parzialmente il gravame dell’imputato, ha riqualificato il primo reato in omicidio colposo per eccesso di reazione in legittima difesa, confermando la responsabilità per il delitto di cui all’art. 411 cod. pen.

2. Secondo la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di appello, l’imputato – svegliato da rumori sospetti – si era accorto della presenza di un uomo che stava tentando di accedere in casa sua dal balcone della camera da letto in cui dormivano i suoi tre figli. Accertata la presenza di complici, pur non visti dall’agente, costui, persuaso di dover difendere se stesso, la propria famiglia e i propri beni dall’altrui ingiusta aggressione, aveva affrontato i ladri armandosi con il fucile da caccia legalmente detenuto e sparando più colpi all’indirizzo dell’uomo. Il malintenzionato aveva desistito, momentaneamente, dall’azione illecita, allontanandosi dal balcone per posizionarsi nel cortile, sotto a un albero, onde verificare la possibilità di persistere nell’azione illecita intrapresa.

Nonostante la distanza che lo separava dal ladro, l’imputato, non considerando che il parziale allontanamento dell’aggressore non rendeva più necessaria la lesione fisica di costui, aveva sparato ad altezza d’uomo, cagionandone la morte. Tale condotta è stata considerata gravemente imprudente e non più proporzionata all’offesa effettivamente in essere nel momento in cui il colpo era stato esploso. Di qui il riconosciuto eccesso colposo in legittima difesa, non avendo il giudice d’appello ritenuto provato che la vittima impugnasse un’arma – o un oggetto che potesse essere scambiato per un’arma – nulla essendo stato rinvenuto nei pressi del cadavere, benché l’imputato fosse immediatamente sceso per accertarsi dell’accaduto e avesse caricato il cadavere sul proprio mezzo fuoristrada, trasportandolo su un ponte del vicino fiume Volturno e gettandolo in acqua.

3. Per quanto qui d’interesse, va rilevato che la difesa aveva dedotto, tra le altre doglianze, la violazione della legge sostanziale e processuale, quanto alla negata ricorrenza dei presupposti di operatività della scriminante della legittima difesa, al più putativa ai sensi dell’art. 59 cod. pen., lamentando la mancata applicazione della nuova, più favorevole disciplina introdotta dalla legge 26 aprile 2019, n. 36. La Terza sezione penale ha ritenuto tali motivi infondati e corretta, dunque, l’esclusione della sussistenza della causa di giustificazione della legittima difesa, sia reale, che putativa, nonostante la recente novella che ha riguardato l’art. 52 cod. pen., operando innanzitutto una ricognizione dell’articolo, all’esito degli interventi modificativi, prima ad opera della legge 13 febbraio 2006, n. 59, quindi, della legge n. 36 del 2019 citata. Modifiche che hanno entrambe attinto la valutazione delle reazioni difensive poste in essere contro coloro che commettono fatti di violazione del domicilio (o, ai sensi dell’art. 52 comma 3, cod. pen., di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale).

Esclusa l’operatività (invero neppure invocata dal ricorrente) della nuova previsione di cui all’ultimo capoverso della disposizione, inserito dall’art. 1, comma 1, lett. c) della legge 36/2019 («agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone»), per difetto del presupposto dell’introduzione armata, violenta o minacciosa, i giudici di legittimità hanno altresì escluso l’applicazione del primo capoverso della disposizione (già introdotto dall’art. 1 della legge 13 febbraio 2006, n. 59, a mente del quale, nei medesimi luoghi, «sussiste sempre» – e l’introduzione dell’avverbio costituisce l’unica modifica apportata dalla legge 36/2019 alla norma introdotta con la novella meno recente – «il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere: a) la propria o altrui incolumità; b) i beni propri o altrui quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione»), affermando che l’inserimento dell’avverbio “sempre” ha un significato rafforzativo della sola presunzione di proporzionalità tra offesa e difesa.

Poiché tale presunzione riguarda solo uno degli elementi costitutivi della fattispecie scriminante (che, secondo consolidato orientamento interpretativo, postula anche il pericolo attuale di un’offesa ingiusta a un diritto proprio o altrui e la necessità di reagire a scopo difensivo), ai fini della verifica in esame andava scrutinata anche la necessità di reagire ad un’offesa in atto, distinguendosi il caso in cui il pericolo riguardi l’aggressione alla persona, da quello in cui esso riguardi i beni.

In quest’ottica, i giudici di legittimità hanno affermato che l’uso di un’arma – purché legittimamente detenuta – può dirsi reazione sempre proporzionata nei confronti di chi si sia illecitamente introdotto, o illecitamente si trattenga, all’interno del domicilio o dei luoghi a questo equiparati, nei quali il legislatore ha ritenuto maggiormente avvertita l’esigenza dell’autodifesa, a patto che, per l’appunto, il pericolo di offesa sia attuale e che l’impiego dell’arma quale in concreto avvenuto sia necessario a difendere l’incolumità propria o altrui, ovvero i beni, sempre che ricorra un pericolo di aggressione personale.

Nella specie, in base a una ricostruzione dei fatti non scalfita dalle doglianze difensive, i giudici della Terza sezione penale hanno ritenuto che la situazione di pericolo non fosse attuale al punto da giustificare l’uso preventivo della micidiale arma impiegata per far fuoco contro la persona e non potesse operare la presunzione di proporzione tra offesa in atto e difesa attuata poiché, quanto all’offesa alla persona, era insussistente una situazione di necessità della difesa posta da un pericolo attuale che l’art. 52, primo comma, cod. pen. continua a richiedere; quanto al pericolo di offesa ai beni, difettava – stante la distanza e la reciproca posizione dell’agente e della vittima – un pericolo di aggressione alla persona ai sensi dell’art. 52, secondo comma, lett. b), ultima parte, cod. pen.

4. Per completezza, pur restando il tema estraneo all’interpretazione convenzionalmente orientata dell’art. 52 cod. pen. che interessa in questa sede, va precisato che la Corte di cassazione ha escluso anche la putatività della scriminante invocata, ritenendo che la motivazione sul punto non prestasse il fianco a censure e fosse corretta in diritto alla luce dei principi già affermati dalla giurisprudenza di legittimità. Ha, tuttavia, accolto il secondo motivo di ricorso, ritenendo la violazione dell’art. 55 cod. pen. e annullando la sentenza con rinvio per nuovo giudizio in ordine alla configurabilità dell’eccesso colposo alla stregua della previsione contenuta nel secondo comma della norma, aggiunto dall’art. 2 della legge 26 aprile 2019, n. 36, con particolare riferimento alla ricostruzione della condizione psicologica del «grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto», tale da rendere inesigibile una razionale valutazione sull’eccesso di difesa, oggetto del rimprovero mosso a titolo di colpa.

La consistent interpretation dell’art. 52 cod. pen.

5. L’interpretazione dell’art. 52 cod. pen. novellato, nel senso di ritenere che la presunzione di sussistenza del rapporto di proporzione tra difesa e offesa nei casi descritti dalla disposizione non ha efficacia scriminante la condotta di colui che agisce contro l’aggressore che ha violato il domicilio in assenza della necessità di difendersi da un pericolo attuale, offerta dai giudici della Terza sezione penale, è stata ritenuta, innanzitutto, coerente con la previsione del secondo comma dell’art. 55 cod. pen., aggiunto dall’art. 2 della stessa legge n. 36 del 2019 («Nei casi di cui ai commi secondo, terzo e quarto dell’art. 52, la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o dell’altrui incolumità ha agito nelle condizioni  di cui all’art. 61, primo comma, n. 5) ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto»).

Inoltre, per quanto qui di maggiore interesse, la vicenda ha offerto alla Corte di legittimità lo spunto per operare un’ampia riflessione sulle cause scriminanti e sulla necessità di bilanciare ragionevolmente, in un’ottica costituzionalmente e convenzionalmente orientata, i beni in gioco.

6. In particolare, quanto ai parametri costituzionali, nella sentenza si è operato un rinvio alle decisioni del giudice delle leggi in materia di cause di non punibilità in generale, richiamato il principio costante per il quale, costituendo esse deroghe a norme penali generali, la loro valutazione comporta strutturalmente un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra le diverse e confliggenti ragioni che sorreggono la norma generale e quelle che sorreggono la norma derogatoria. Tale giudizio costituisce sì appannaggio prioritario del legislatore (C. Cost. n. 140 del 04/05/2009), ma questi è tenuto a operare un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali in gioco (C. Cost. n. 148 del 02/06/1983). Alla stregua delle pronunce concernenti specificamente la scriminante della legittima difesa, poi, i giudici di legittimità hanno ribadito che essa postula necessariamente la reazione ad un’offesa in atto (il rinvio è alle sentenze della Corte Cost., sent. n. 225 del 03/06/1987 e n. 278 del 23/05/1990).

7. Hanno, inoltre, ritenuto l’interpretazione normativa adottata coerente con gli obblighi internazionali assunti dall’Italia, vincolanti per il legislatore anche in forza del principio affermato dall’art. 117, primo comma, Cost., operando un rinvio all’art. 2 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, uno degli articoli fondamentali della Convenzione, non suscettibili di deroga, ai sensi dell’art. 15, in tempo di pace; e all’art. 6, par. 1, del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966 e ratificato con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, del pari fonte di obblighi internazionali.

Con specifico riferimento al parametro di cui all’art. 2 citato, si è affermato che esso, lungi dal tollerare presunzioni di necessità, impone, nel tutelare il diritto fondamentale alla vita, una puntuale e concreta verifica della necessità della condotta realizzata per la quale è invocata la scriminante della legittima difesa.

La disposizione, dopo aver sancito al par. 1 la protezione del diritto alla vita ed il divieto di provocare volontariamente la morte di alcuno, nel par. 2, lett. a), per quanto qui di specifico interesse, considera come non data in violazione di detto articolo la morte di una persona «determinata da un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario: a) per difendere ogni persona da una violenza illegittima».

A tale proposito, i giudici di legittimità hanno richiamato la giurisprudenza della Corte E.D.U. che conduce ad una riflessione giuridica – e non solo – sull’indiscussa valenza e sul necessario rispetto del diritto alla vita, inteso sotto un duplice profilo: sostanziale e/o procedurale. Il primo comporta che gli Stati sono obbligati a creare forme di legislazione dissuasive di comportamenti violenti (soprattutto da parte delle autorità che godono del potere di uso legittimo della forza); il secondo riguarda il dovere delle autorità di effettuare indagini effettive in grado di assicurare che le violazioni del diritto siano represse e sanzionate.

Benché nella casistica della giurisprudenza della Corte di Strasburgo la previsione sia stata di regola analizzata in vicende in cui il ricorso alla forza lesivo del diritto alla vita era stato attuato da organi pubblici, specialmente da forze di polizia – come avvenuto in alcuni dei casi richiamati in sentenza – purtuttavia i principi formulati con riferimento a quelle specifiche vicende sono stati ritenuti applicabili anche in un contesto di autodifesa tra privati, essi delineando la necessità del bilanciamento tra opposti beni e di una rigorosa valutazione delle circostanze alla stregua delle quali la privazione della vita può dirsi giustificata (il riferimento in sentenza è a Corte EDU, Grand Chambre, 24/03/2011, Giuliani e Gaggio v. Italia).

I giudici di Strasburgo, infatti, nell’affermare la primazia del diritto alla vita, quale sintesi dei diritti fondamentali, si sono più volte espressi a favore della restrizione delle circostanze in cui la privazione della vita può trovare giustificazione, sancendo, tra l’altro, l’obbligo per gli Stati di adottare misure atte a salvaguardare la vita di quanti si trovino sotto la loro giurisdizione.

Le sentenze CEDU richiamate

8. Nella sentenza L.C.B. c. Regno Unito del 9 giugno 1998, relativa alla correlazione tra l’esposizione a particolari forme di radiazione dei genitori e la leucemia contratta dai figli, la Corte E.D.U. ha affermato chiaramente il principio in virtù del quale l’art. 2 della Convenzione impone allo Stato il dovere di fare tutto il possibile per impedire che la vita delle persone soggette alla sua giurisdizione sia inutilmente posta a repentaglio, compreso fornire consulenza alle famiglie e monitorare la salute dei bambini.

Nella sentenza Branko Tomašić and others v. Croatia del 15 gennaio 2009, inoltre, i giudici sovranazionali, invocando l’art. 2 CEDU, hanno sancito la sussistenza di obblighi positivi a carico degli Stati, atti a proteggere un individuo la cui vita sia a rischio a causa di azioni criminose di un altro individuo. Tali obblighi positivi si sostanziano principalmente in una serie di doveri di protezione, consistenti nell’adozione di disposizioni di diritto penale efficaci a prevenire la commissione di crimini contro la persona accompagnati da un meccanismo di esecuzione delle leggi per la prevenzione, la soppressione e la punizione delle violazioni di tali disposizioni.

Più conosciuta è la vicenda che fa da sfondo alle sentenze Giuliani and Gaggio v. Italia.

Il caso com’è noto, ha riguardato le manifestazioni no-global svoltesi nel corso del G8 di Genova, durante il quale si scatenarono scontri di estrema violenza tra i manifestanti e le forze dell’ordine. I ricorrenti avevano lamentato che il decesso del figlio e fratello, Carlo GIULIANI, era ascrivibile a un ricorso eccessivo alla forza, accusando lo Stato convenuto di non avere adottato le disposizioni legislative, amministrative e regolamentari necessarie per limitare al massimo le conseguenze nefaste dell’uso della forza, di non avere organizzato e pianificato le operazioni di polizia in modo conforme all’obbligo di tutelare la vita e di non avere svolto un’inchiesta efficace sulle circostanze del decesso del loro familiare.

Con la sentenza del 25 agosto 2009, una camera della quarta sezione, con specifico riferimento al parametro di cui all’art. 2 CEDU, non ha riconosciuto la sua violazione sotto il profilo materiale quanto all’uso eccessivo della forza e neppure sotto il profilo materiale quanto agli obblighi positivi di tutelare la vita, ritenendone però la violazione sotto quello procedurale.

In quella sede, la CEDU ha ribadito l’importanza dell’art. 2 della Convenzione – che garantisce il diritto alla vita e indica le circostanze nelle quali può essere giustificato infliggere la morte – e la necessità che il ricorso alla forza sia “assolutamente necessario” e restrittivamente inteso in termini di stretta proporzione rispetto agli scopi permessi. Per i giudici sovranazionali, lo Stato ha il dovere fondamentale di assicurare il diritto alla vita predisponendo un quadro giuridico e amministrativo che possa dissuadere dal commettere azioni dannose per la persona, mediante un meccanismo d’applicazione concepito per prevenirne, reprimerne e sanzionarne le violazioni. Alla stregua di tali considerazioni, nella specie, la CEDU non ha constatato una violazione dell’art. 2 sotto il profilo della cagionata morte del Giuliani, giacché ha ritenuto applicabili le eccezioni di cui all’art. 2, comma 2, lett. a) (uso legittimo della forza); non ha constatato la violazione del parametro esaminato sotto il profilo degli obblighi di protezione, perché le modalità organizzative dell’evento del G8 non potevano essere considerate insufficienti per la tutela dell’incolumità e della vita dei manifestanti; ha, tuttavia, constatato la violazione dell’art. 2 sotto il profilo dell’adeguatezza dell’adempimento degli obblighi processuali, ritenendo non sufficiente la ricerca della verità svolta nell’inchiesta penale che ne era seguita.

Successivamente, il Governo e i ricorrenti hanno chiesto il rinvio della causa dinanzi alla Grand Chambre in virtù degli articoli 43 della Convenzione e 73 del regolamento.

Nella sentenza del 24 marzo 2011, la Corte ha precisato che il ricorso alla forza, per essere legittimo, deve essere “assolutamente necessario” per il conseguimento di uno degli obiettivi di cui all’art. 2, par. 2, lettere a) b) e c), oltre che strettamente proporzionato agli scopi permessi. Inoltre, le circostanze in cui la privazione della vita può trovare giustificazione devono essere interpretate in modo stretto. L’oggetto e lo scopo della Convenzione quale strumento di tutela dei diritti dei privati cittadini esigono anche che l’articolo 2 sia interpretato ed applicato in modo da rendere le sue garanzie concrete ed effettive.

Nel caso di specie, si è ritenuto che il ricorso alla forza omicida fosse assolutamente necessario «per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale», ai sensi dell’articolo 2 par. 2 lettera a) della Convenzione e riconosciuto che le autorità italiane non erano venute meno all’obbligo di fare tutto quanto ci si poteva ragionevolmente aspettare da loro per fornire il livello di protezione richiesto in occasione di operazioni che comportavano un potenziale rischio di ricorso alla forza letale. Contrariamente alle conclusioni cui era pervenuta la camera (che aveva deplorato che l’inchiesta interna fosse stata limitata all’esame della responsabilità dei singoli agenti, senza che fosse analizzato il «contesto generale» al fine di determinare se le autorità avessero pianificato e gestito le operazioni di mantenimento dell’ordine in modo da evitare il tipo di incidente che aveva causato il decesso di Carlo Giuliani),  infine, la Grand Chambre ha escluso anche la violazione dell’art. 2 della Convenzione sotto l’aspetto procedurale.

I medesimi principi sono stati riaffermati con la sentenza Trévalec c. Belgio del 14 giugno 2011, relativa alle gravi ferite causate a un reporter che aveva ottenuto l’autorizzazione a riprendere le attività di una squadra speciale di polizia (nucleo PAB). Durante l’operazione, due agenti di polizia sopravvenuti, non appartenenti al PAB, sparavano sette colpi di fuoco al sig. Trévalec, che si trovava a pochi metri di distanza da loro, perforandone la gamba destra. Nella specie, la Corte ha riscontrato una violazione dell’art. 2, atteso che le autorità PAB, uniche consce della presenza del Sig. Trévalec, nonché responsabili per la sua sicurezza in un contesto in cui era potenzialmente in pericolo la sua vita, non erano state sufficientemente attente. La mancanza di vigilanza degli agenti PAB era stata, invero, causa essenziale dell’uso di forza potenzialmente letale da parte degli agenti sopravvenuti, incorsi in un evidente errore circa il ruolo del ricorrente.

Ed ancora, recentemente, la Corte Europea nella sentenza Sarishvili-Bolkvadze c. Georgia del 19 luglio 2018, tornando sulla questione con riferimento ad un caso di colpa medica, ha ribadito che gli Stati, nel rispetto degli obblighi positivi loro riconosciuti ai sensi dell’art. 2 della Convenzione, anche in ambito di tutela della salute e di responsabilità per colpa medica, devono prevedere adeguate disposizioni finalizzate a garantire la protezione della vita dei pazienti e sono tenuti, pertanto, a garantire elevati standards professionali tra gli operatori sanitari.