L’elaborazione giurisprudenziale sulle nuove disposizioni in tema cautelare

di Vittorio Pazienza

Sommario: 1. Premessa. – 2. La giurisprudenza sulle nuove disposizioni in tema di esigenze cautelari. – 2.1. Le sentenze in tema di attualità del pericolo. – 2.2. (Segue): attualità del pericolo e presunzione relativa di sussistenza delle esigenze. – 2.3. Esigenze cautelari e “gravità del titolo di reato”. – 3. La giurisprudenza sulle nuove disposizioni in tema di scelta della misura.- 3.1. Custodia in carcere e valutazione prognostica sulla pena che sarà irrogata. – 3.2. Scelta della misura e “braccialetto elettronico”. – 4. La giurisprudenza sulle nuove disposizioni in tema di motivazione dell’ordinanza cautelare. 5. La giurisprudenza sul coinvolgimento della persona offesa nei procedimenti di revoca o sostituzione delle misure cautelari. – 6. – La giurisprudenza sulle modifiche al procedimento di riesame personale. – 6.1. La partecipazione del ricorrente all’udienza camerale. – 6.2. Il termine per il deposito dell’ordinanza. – 6.3. Il divieto di rinnovazione della misura divenuta inefficace. 7. La giurisprudenza sulle modifiche al procedimento di riesame reale.

1. Premessa.

Nel corso degli ultimi tre anni, com’è noto, il legislatore ha ripetutamente modificato il “sottosistema cautelare”, con una serie di interventi spesso risultati di particolare incidenza  nella prassi applicativa, oltre che di rilevante impatto sull’impianto del codice di rito.

Basti qui richiamare, in ordine cronologico: l’innalzamento da quattro a cinque anni di reclusione della soglia edittale necessaria per l’applicazione della custodia in carcere (artt. 280, comma 2 e 274 lett. c, come modificati dal decreto legge 2 luglio 2013, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 94); il coinvolgimento della persona offesa di reati con violenza alla persona nel procedimento di revoca o modifica delle misure cautelari disposte nei confronti dell’imputato (art. 299, commi 2-bis, 3 e 4-bis, come modificati dal decreto legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119); la riduzione, per il giudice procedente, degli spazi discrezionali nella prescrizione di particolari modalità di controllo – c.d. braccialetto elettronico – in sede applicativa degli arresti domiciliari (art. 275-bis, come modificato dal decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 febbraio 2014, n. 10);  il divieto di applicazione della custodia cautelare in carcere – fatte salve alcune particolari ipotesi – qualora il giudice ritenga che, all’esito del giudizio, verrà irrogata una pena non superiore a tre anni (art. 275, comma 2-bis, come modificato dal decreto legge 26 giugno 2014, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 117).

A tali interventi, quasi tutti di portata settoriale, ha fatto seguito, da ultimo, la legge 15 aprile 2015, n. 47 (d’ora in avanti: legge n. 47), che ha non solo apportato ulteriori modifiche ad alcune disposizioni da poco “ritoccate” (ad es. gravando il giudice della cautela di un particolare onere motivazionale, in caso di ritenuta inidoneità degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico), ma ha anche introdotto una serie di importanti novità nell’intero sistema: si allude, tra l’altro, agli interventi in tema di esigenze cautelari (art. 274), alla completa revisione degli automatismi nell’applicazione della custodia in carcere (artt. 275 comma 3, 276 comma 1-ter,  284 comma 5-bis), al rafforzamento delle misure interdittive (artt. 289, 308), all’individuazione di ulteriori requisiti della motivazione dell’ordinanza cautelare (artt. 292, 309), alle rilevanti modifiche in tema di procedimento di riesame ed appello cautelare, personale e reale (artt. 309, 310, 324).

Il numero ed il rilievo degli interventi modificativi non poteva non dar luogo a divergenze interpretative, talora rilevabili anche nell’evoluzione della giurisprudenza di legittimità.

Nei paragrafi seguenti, si farà riferimento ad alcuni di questi aspetti problematici, per come emersi dall’analisi delle sentenze depositate nel corso del 2015. Per ragioni di coerenza e chiarezza espositiva, si è ritenuto di esaminare le questioni non secondo la richiamata successione cronologica delle modifiche legislative, ma nell’ordine in cui, nel codice di rito, sono previsti e regolati i diversi aspetti della disciplina cautelare interessati dagli interventi di riforma.

2.La giurisprudenza sulle nuove disposizioni in tema di esigenze cautelari.

La legge n.47 hamodificato l’art. 274 cod. proc. pen. effettuando un duplice, “simmetrico” intervento sulle lettere b) e c), all’interno delle quali sono delineati i requisiti che il pericolo di fuga e quello di reiterazione di condotte criminose devono necessariamente presentare, per poter assurgere a presupposto applicativo di una misura cautelare personale.

In particolare, da un lato, si è previsto che il pericolo di fuga – come quello di reiterazione – sia non solo “concreto”, ma anche “attuale”; dall’altro, si è escluso che le situazioni di concreto e attuale pericolo, di fuga o di reiterazione, possano “essere desunte dalla gravità del titolo di reato per il quale si procede”.

Nelle pagine seguenti, si darà conto dell’interpretazione elaborata dalla Suprema corte in ordine a tali innovazioni, con particolare riferimento al loro “impatto” sugli orientamenti consolidatisi nella vigenza della precedente formulazione dell’art. 274 cod. proc. pen..

2.1.Le sentenze in tema di attualità del pericolo.

Nella giurisprudenza di legittimità non sembra esservi unanimità di vedute, anzitutto,  quanto alla reale portata innovativa dell’introduzione del requisito dell’attualità del pericolo (accanto a quello della concretezza).

Invero, già all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 47,Sez. IV, 21 maggio 2015 n. 24861, Iorio, Rv. 263727– nel ritenere adeguatamente motivata un’ordinanza cautelare emessa prima della novella, che aveva ravvisato il pericolo di reiterazione nella recidiva, nei carichi pendenti e nella mancanza di segni di ravvedimento da parte dell’indagato – ha precisato che “una più puntuale motivazione sul punto si imporrebbe” alla luce del nuovo testo dell’art. 274 lett. c) cod. proc. pen: disposizione peraltro ritenuta non applicabile nel caso di specie, in forza del principio tempus regit actum (per l’operatività di tale principio in tema di esigenze cautelari, e la conseguente necessità di valutare la legittimità dell’ordinanza alla luce delle norme vigenti al tempo della sua emissione, v. diffusamente, tra le altre, Sez. IV, 18 giugno 2015, n. 28153, Cassano, Rv. 264043,con ampi richiami ai principi espressi al riguardo dalle Sezioni unite, con le sentenze 31 marzo 2011, n. 27919, Ambrogio, Rv. 250195, e 17 luglio 2014, n. 44895, Pinna, Rv. 260927).

La sentenza Cassano qui appena richiamata ha peraltro inteso sottolineare, in motivazione, che il requisito dell’attualità era già stato “recepito quale presupposto implicito della misura cautelare dalla giurisprudenza di legittimità nel vigore della precedente normativa” (con un esplicito richiamo a Sez. VI, 26 novembre 2014, n. 52404, Alessi, Rv. 261670, che in tema di associazione ex art. 74 T.U. Stup., aveva affermato la necessità di desumere la sussistenza delle esigenze cautelari – rispetto a condotte esecutive risalenti nel tempo – da specifici elementi di fatto idonei a dimostrarne l’attualità). In senso analogo v. anche, più di recente, Sez. VI, 18 settembre 2015, n. 42630,Tortora, e Sez. V, 24 settembre 2015, n. 43083, Maio, Rv. 264902, secondo le quali il difetto dell’attualità era già rilevabile in base alla preesistente previsione di cui all’art. 292, lett. c), cod. proc. pen.; nonché Sez. VI, 1 ottobre 2015, n. 44605, De Lucia, la quale – richiamando la già citata sentenza Alessi del 2014 – ha posto in rilievo che la giurisprudenza aveva “già considerato l’attualità come necessariamente insita nella concretezza, quindi ritenendola una condizione necessaria al fine di applicazione della misura cautelare”.

È opportuno poi richiamare Sez. IV, 28 maggio 2015, n. 24865, Cuscinà , secondo cui, anche nella vigenza della precedente formulazione dell’art. 274, il giudice era tenuto a motivare rigorosamente sull’attualità delle esigenze cautelari (oltre che sulla scelta della misura) nelle ipotesi in cui il titolo cautelare venga emesso ad un’apprezzabile distanza temporale dai fatti, come del resto affermato già da Sez. un., 24 settembre 2009, n. 40538, Lattanzi, Rv. 244377. Intale prospettiva, l’inserimento del requisito dell’attualità accanto a quello della concretezza, all’interno dell’art. 274, dovrebbe piuttosto segnare – ad avviso della Quarta Sezione – il superamento del diffuso indirizzo interpretativo secondo cui il pericolo di reiterazione “può essere desunto anche dalla molteplicità dei fatti contestati, in quanto la stessa, considerata alla luce delle modalità della condotta concretamente tenuta, può essere indice sintomatico di una personalità proclive al delitto, indipendentemente dall’attualità di detta condotta e quindi anche nel caso in cui essa sia risalente nel tempo” (cfr. ad es. Sez. III, 17 dicembre 2013, n. 3661/2014, Tripicchio, Rv. 258053).

Va tuttavia sottolineato che, nonostante tale revisione critica – fondata anche, se non soprattutto, sull’esplicito richiamo all’attualità oggi contenuto nell’art. 274 – l’orientamento qui appena richiamato è stato ribadito da diverse decisioni, emesse sia subito dopo l’entrata in vigore della l. n. 47 (cfr. Sez. VI, 12 maggio 2015, n. 23304, Vecchi), sia nei mesi successivi (cfr. Sez. III, 10 luglio 2015, n. 33423, Accaputo; Sez. Fer., 28 luglio 2015, n. 34287, Abbinante). Si è anzi ulteriormente precisato, da ultimo, che la motivazione in ordine all’attualità e concretezza del pericolo di recidiva può basarsi “non solo sull’intrinseco disvalore del fatto, ma altresì su un’accertata e immanente proclività al delitto del soggetto attivo (ravvisata, nella specie, sulla base delle modalità particolarmente riprovevoli della sua condotta e della peculiare posizione fiduciaria rivestita rispetto alle persone offese), pur laddove il fatto contestato sia risalente nel tempo e indipendentemente dal fatto che il soggetto attivo non risulti aver posto in essere ulteriori condotte criminose” (Sez. IV, 5 novembre 2015, n. 46442, D.V.).

Una posizione di segno nettamente diverso è stata assunta, rispetto al panorama giurisprudenziale fin qui richiamato, da Sez. III, 19 maggio 2015, n. 37087, Marino, Rv. 264688, che ha attribuito alla modifica dell’art. 274 lett. c) una valenza innovativa di particolare rilievo. Muovendo dall’affermazione consolidatasi nella giurisprudenza anteriore alla novella, secondo cui il requisito della concretezza del pericolo di reiterazione non doveva identificarsi “con quello dell’attualità, derivante dalla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati” (cfr. ad es. Sez. VI, 5 aprile 2013, n. 28618, Vignali, Rv. 255857),la Terzasezione ha osservato che l’inserimento dell’attualità accanto alla concretezza, all’interno dell’art. 274, imponeva di includere nella valutazione prognostica anche tale specifico aspetto, nei termini delineati dall’interpretazione giurisprudenziale appena ricordata. Si è affermato, in altri termini, che, per poter ritenere che un pericolo “concreto” di reiterazione sia anche “attuale”, non è più sufficiente ritenere – con certezza o alta probabilità – che l’imputato tornerebbe a delinquere, qualora se ne presentasse l’occasione, essendo necessario prevedere anche (negli stessi termini di certezza o alta probabilità) che una ulteriore occasione per compiere nuovi delitti si presenti effettivamente. In senso conforme, cfr. Sez. III, 15 settembre 2015, n. 43113, Kamis; Sez. III, 13  ottobre 2015, n. 45280, D.L.,nonché, da ultimo, Sez. III,  27 ottobre 2015, n. 49318, Barone, secondo la quale il riferimento all’attualità delle esigenze specialpreventive, introdotto dalla novella, richiede che l’ordinanza applicativa o confermativa della misura contenga specifiche indicazioni al riguardo, “da ricavare dalla riconosciuta esistenza di occasioni prossime favorevoli alla commissione di nuovi reati. Occasioni, quindi, non meramente ipotetiche ed astratte, ma probabili nel loro vicino verificarsi”.

Discostandosi consapevolmente da tale impostazione, la già citata Sez. V, 24 settembre 2015, n. 43083, Maio, Rv.264092 haperaltro evidenziato che la portata innovativa della modifica apportata all’art. 274 lett. c) non può essere enfatizzata oltre misura, in quanto già nell’assetto previgente incombeva sul giudice uno specifico onere motivazionale (art. 292, comma 2, lett. c, cod. proc. pen.) circa l’attualità delle esigenze, in ragione del tempo trascorso dalla commissione del reato contestato.

La distinzione tra “attualità” e “concretezza” tracciata nelle sentenze della Terza sezione poc’anzi richiamate sembra essere stata valutata criticamente, da ultimo, anche da Sez. VI, 29 ottobre 2015, n. 50027, Aurisicchio, che ha ribadito l’indirizzo secondo cui l’attualità deve ritenersi insita nella concretezza. Ad avviso della Sesta sezione, in particolare, l’aspetto innovativo riconducibile alla legge n. 47 “non consiste nella necessità di ricercare una «attualità» che vada oltre quella richiesta dalla giurisprudenza citata, ma nel fatto che non è più consentita la misura secondo la interpretazione restrittiva della «concretezza». Il codice continua a distinguere tra «esigenze cautelari» ed «eccezionali esigenze cautelari», a dimostrazione che l’attualità non è «nell’immediatezza»”.

In relazione all’inserimento dell’attualità anche nella lett. b) dell’art. 274, si segnala infine Sez. II, 13 ottobre 2015, n. 44526, Castillo Quintana, Rv. 265042, la quale ha riconosciuto a tale modifica una specifica portata innovativa, affermando – in linea con la relazione di accompagnamento al disegno di legge – la necessità che il pericolo di fuga sia non solo concreto, ma anche attuale, “nel senso che il rischio che la persona possa fuggire debba essere imminente”. 

2.2.(Segue): attualità del pericolo e presunzione relativa di sussistenza delle esigenze.

Si è visto nel paragrafo precedente che, sulla questione dell’attualità delle esigenze cautelari – con particolare riguardo alla configurabilità di uno specifico onere motivazionale a carico del giudice emittente la misura – la giurisprudenza della Corte di cassazione ha fornito risposte non del tutto univoche, prima dell’entrata in vigore della legge n. 47.

È utile segnalare che, in relazione alla particolare ipotesi in cui il titolo cautelare venga emesso in relazione ad uno dei reati per i quali vige la presunzione (relativa) di sussistenza delle esigenze cautelari, ai sensi dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. (come modificato, da ultimo, dalla predetta legge n. 47), il panorama giurisprudenziale appare tuttora – ovvero anche dopo l’entrata in vigore della novella – alquanto controverso.

Infatti, secondo un primo orientamento, “non è necessario che l’ordinanza cautelare motivi anche in ordine alla rilevanza del tempo trascorso dalla commissione del fatto, così come richiesto dall’art. 292, comma secondo, lett. c), dello stesso codice, in quanto per tali reati vale la presunzione di adeguatezza di cui al predetto art. 275, che impone di ritenere sussistenti le esigenze cautelari salvo prova contraria”: ferma restando, peraltro, la necessità che il giudice emittente valuti “se tale presunzione non possa essere vinta proprio dal distacco temporale intervenuto dai fatti laddove lo stesso, per la sua significativa durata e per la combinazione con altri fattori soggettivi ed oggettivi, possa dare dimostrazione della insussistenza delle esigenze cautelari” (Sez. III, 15 luglio 2015, n.33037, G., Rv. 264190; in senso analogo, v. ad es. Sez. III, 1 aprile 2014, n. 27439, Cetrullo, Rv. 259723).

In una diversa prospettiva, si è invece affermato che, anche qualora si proceda per uno dei reati per cui vige una presunzione relativa di adeguatezza della custodia in carcere, “la considerevole distanza temporale tra i fatti contestati e l’applicazione della misura costituisce elemento che impone al giudice di dare adeguata motivazione non solo della sussistenza della pericolosità sociale dell’indagato in termini di attualità, ma anche della necessità di dover applicare la misura di maggior rigore per fronteggiare adeguatamente ipericula libertatis” (Sez. VI, 10 giugno 2015, n. 27544, Rechichi, Rv. 263942; in senso conforme, v. Sez. VI, n. 52404 del 2014, Alesse, cit.;Sez. IV, 11 giugno 2015, n. 26570, Flora, secondo cui tale orientamento risulta preferibile anche avuto riguardo alle modifiche apportate dalla l. n. 47 al terzo comma dell’art. 275).

In tale prospettiva – che in sostanza ritiene pregiudiziale ed indefettibile l’indagine sull’attualità delle esigenze, prima di poter ritenere operante la presunzione – è stata di recente valorizzata la collocazione in sequenza degli artt. 274 lett. c) e 275 comma 3: collocazione che evidenzia “icasticamente le tappe del procedimento decisorio che il giudice è tenuto a compiere nell’applicazione delle misure cautelari personali: appare evidente, infatti, che la valutazione in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari deve precedere temporalmente e logicamente quella riferita alla scelta della misura concretamente adottabile e pertanto risulta parimenti evidente che, una volta esclusa per qualsiasi ragione e quindi anche per il decorso di un significativo lasso temporale (art. 292 lett. c cod. proc. pen.), la sussistenza delle esigenze special – preventive non residua alcuna necessità di ordine prima logico che giuridico di procedere a valutazioni inerenti la scelta di una misura che si è già escluso di dover applicare” (Sez. VI, 18 settembre 2015, n. 42630, Tortora, Rv. 264984).

A tale impostazione si è peraltro replicato, altrettanto recentemente (ed in linea con il primo orientamento qui richiamato), che “l’esistenza di una presunzione relativaex legedi sussistenza delle esigenze cautelari (art. 275 co. 3 cod. proc. pen.) inverte gli ordinari «poli» del ragionamento giustificativo, nel senso che il giudice che applica o che conferma la misura cautelare non ha un obbligo di dimostrazione «in positivo» della ricorrenza dei  pericula libertatis… ma ha un obbligo di apprezzamento delle eventuali «ragioni di esclusione» , tali da smentire, nel caso concreto, l’effetto di detta presunzione” (Sez I, 6 ottobre 2015, n. 45657, Varzaru).

2.3.Esigenze cautelari e “gravità del titolo di reato”. Si è già accennato al fatto che il secondo intervento, operato “simmetricamente” dalla l. n. 47 sulle lettere b) e c) dell’art. 274 cod. proc. pen., è consistito nell’inserimento della locuzione “le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere desunte dalla gravità del titolo di reato per il quale si procede” (nella lett. c, si precisa che tale preclusione opera “anche in relazione alla personalità dell’imputato”). Il riferimento alla “gravità del titolo di reato” richiama quindi, con ogni evidenza, la fattispecie incriminatrice astratta contestata nel procedimento.

Peraltro, l’originaria stesura della legge di riforma aveva previsto il divieto di desumere il pericolo di reiterazione “esclusivamente dalle modalità del fatto per cui si procede”: si era osservato, in proposito, che tale locuzione aveva il chiaro intento di superare l’orientamento, largamente maggioritario nella giurisprudenza della Suprema corte, secondo cui gli elementi apprezzabili per la configurabilità del pericolo “possono essere tratti anche dalle specifiche modalità e circostanze del fatto, considerate nella loro obiettività, giacché la valutazione negativa della personalità dell’indagato può desumersi dai criteri oggettivi e dettagliati stabiliti dall’art. 133 cod. pen. tra i quali sono comprese le modalità e la gravità del fatto reato” (Sez. II, 16 ottobre 2013, n. 51843, Caterino, Rv. 258070).

Dopo l’entrata in vigore della legge n. 47, tale indirizzo – che in sostanza consente di operare, nel giudizio prognostico di cui all’art. 274 lett. c), una duplice valutazione degli elementi fattuali della vicenda: sia quanto alla sua gravità, sia quanto alla capacità a delinquere dell’imputato – è stato ripetutamente ribadito da varie Sezioni della Suprema corte: v., tra le altre, Sez. I, 22 luglio 2015, n. 32199, Vasquez; Sez. I, 16 luglio 2015, n. 35948, Santoro; Sez. II, 16 settembre 2015, n. 41359, De Girolamo; Sez. III, 15 ottobre 2015, n. 45911, Cojocari; Sez. III, 27 ottobre 2015, n. 45285, Peritore. In particolare,Sez. II, 20 ottobre 2015, n. 42746, Femia, ha esplicitamente escluso che un divieto di valutare la personalità dell’imputato sulla base delle condotte poste in essere sia ricavabile dal nuovo testo dell’art. 274, dal momento che, ai sensi di tale articolo, “è vietato trarre un giudizio sulla personalità dell’imputato dalla gravità del titolo del reato e non dalla gravità concreta del reato stesso”. V. anche, da ultimo, Sez. VI, 28 ottobre 2015, n. 46803, Polverino, che, nel ribadire la persistente validità dell’orientamento giurisprudenziale maturato prima della novella, ha valorizzato la radicale diversità – cui si è già accennato all’inizio del presente paragrafo – della locuzione introdotta nella stesura definitiva della legge, rispetto a quelle proposte nel corso dei lavori preparatori (cfr.supra).

È tuttavia utile segnalare che, in alcune pronunce (Sez. II, 29 settembre 2015, n. 41771, Caputo; Sez. II, 14 ottobre 2015, n. 43352, Tatti; Sez. II, 20 ottobre 2015, n. 45512, Russo), si è invece affermato che la nuova formulazione dell’art. 274  “lascia chiaramente intendere la necessità di superare l’indirizzo interpretativo” favorevole alla valutazione della personalità sulla scorta delle modalità e della gravità del reato; tali pronunce sottolineano, comunque, la necessità che il pericolo di reiterazione si basi, alla luce della novella, su “un giudizio prognostico basato su dati concreti necessariamente considerati nell’attualità”.

3.La giurisprudenza sulle nuove disposizioni in tema di scelta della misura.

Già dai cenni introduttivi svolti in premessa (cfr.supra, § 1), emerge chiaramente che quello dei criteri di individuazione della misura cautelare applicabile nel caso concreto costituisce forse l’aspetto che ha subito le più ampie e rilevanti modifiche, da parte degli interventi legislativi degli ultimi anni: basti pensare, da ultimo, alla completa ridefinizione dell’ambito applicativo delle presunzioni di adeguatezza della custodia in carcere, operata dalla l. n.47 inpiena sintonia con la ben nota opera “demolitoria” del sistema codificato nel 2009, progressivamente attuata dalle sentenze della Corte costituzionale.

In questa sede, si ritiene peraltro di soffermare l’attenzione su altri rilevanti aspetti della problematica in esame, alla luce di alcune pronunce emesse nel corso del 2015: si allude, da un lato, al divieto di applicazione della custodia in carcere introdotto nell’art. 275, comma 2 bis, cod. proc. pen., e, dall’altro, alle questioni emerse in tema di arresti domiciliari con le “particolari modalità di controllo” di cui all’art. 275 bis del codice di rito.

3.1.Custodia in carcere e valutazione prognostica sulla pena che sarà irrogata.

Sono note le vivaci reazioni dottrinali alle modifiche apportate, dal d.l. n. 92 del 2014 e dalla relativa legge di conversione n. 117 del 2014, all’art. 275, comma 2 bis, cod. proc. pen., il cui secondo e terzo periodo prevedono che “salvo quanto previsto dal comma 3 e ferma restando l’applicabilità degli articoli 276, comma 1-ter, e 280, comma 3, non può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni. Tale disposizione non si applica nei procedimenti per i delitti di cui agli articoli 423-bis, 572, 612-bis e 624-bis del codice penale, nonché all’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, e quando, rilevata l’inadeguatezza di ogni altra misura, gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell’articolo 284, comma 1, del presente codice”.  Altrettanto noto è il fatto che, in sede di conversione, sono state introdotte le eccezioni qui appena richiamate alla regola generale dell’inapplicabilità della misura carceraria, ed è stata sostituita – quale oggetto del giudizio prognostico – la locuzione “pena detentiva da eseguire” (che aveva dato luogo a plurimi rilievi, anche per le criticità connesse allo scomputo del presofferto) con l’attuale riferimento alla “pena irrogata”.

Una prima questione, emergente dall’analisi delle pronunce emesse nel corso del 2015, concerne la funzione che, nel sottosistema cautelare, deve essere attribuita alle nuove disposizioni qui richiamate.

Al riguardo, è opportuno richiamare Sez. I, 1 ottobre 2015, n. 40887, Alesse, secondo cui la novella “ha introdotto un espresso «divieto» di applicazione della custodia in carcere”, divieto peraltro non operante ove ricorrano talune circostanze di fatto (trasgressione di misura già applicata, indisponibilità di un luogo di esecuzione degli arresti domiciliari) ovvero si proceda per determinati titoli di reato. Ad avviso della Prima Sezione, si tratta di una ulteriore concretizzazione dei noti principi di proporzionalità e adeguatezza della misura cautelare rispetto al prevedibile esito del giudizio, essendo chiara la correlazione con il sistema delle misure alternative alla detenzione: in altri termini, la novella ha introdotto “un evidente limite al potere discrezionale del giudice”nell’individuazione della misura applicabile, “posto che – tranne le ipotesi prima descritte – lì dove la prognosi quoad poenam risulti contenuta nel limite dei tre anni la misura «massima» applicabile risulta quella degli arresti domiciliari”. Da tali premesse ricostruttive, consegue – perla Prima Sezione- un ineludibile onere, per il giudice emittente la misura e per quello investito del riesame, di formulare il giudizio prognostico sulla pena che sarà irrogata: si è in presenza “di un limite posto direttamente dalla legge” all’applicazione della misura inframuraria, il cui superamento postula appunto la previsione di una pena irrogata in misura superiore ai tre anni, ovvero la ricorrenza di una delle situazioni eccezionali codificate nello stesso comma 2-bis dell’art. 275.

In senso analogo – ovvero per una ricostruzione in termini di vero e proprio “divieto” di applicazione della misura carceraria, con una prognosi di pena irrogata inferiore a tre anni – si sono espresse, tra le altre, Sez. V, 4 febbraio 2015, n. 7742, Rv. 262838 (relativa ad una fattispecie in cui, peraltro, il divieto non è stato ritenuto applicabile per l’indisponibilità di un luogo di esecuzione degli arresti domiciliari, stante l’imminente scadenza del contratto di locazione dell’immobile); Sez. II, 14 gennaio 2015, n. 4418, Rv. 262377, secondo cui il divieto in questione non riguarda gli arresti domiciliari (né le misure ulteriormente gradate), perciò applicabili anche qualora il giudice ritenga che verrà irrogata una pena inferiore a tre anni.

È peraltro necessario ricordare che una posizione radicalmente diversa è stata assunta da Sez. III, 27 febbraio 2015, n. 32702, Jabbar, Rv. 264261, secondo la quale i limiti di applicabilità della misura inframuraria, introdotti dalla novella, “possono essere superati dal giudice qualora ritenga, secondo quanto previsto dal successivo comma terzo, prima parte, della norma citata, comunque inadeguata a soddisfare le esigenze cautelari ogni altra misura meno afflittiva”. Ad avviso della Terza sezione, in sostanza, il richiamo al comma 3 dell’art. 275, contenuto nel comma 2-bis, deve intendersi riferito non solo alle disposizioni che regolano la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere, ma anche a quella che apre il predetto comma 3, secondo cui “la custodia in carcere può essere applicata soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata”. In tale prospettiva, pertanto, “nonostante i limiti e le preclusioni previste dall’art. 275, comma 2 bis, secondo paragrafo, la misura della custodia cautelare in carcere può essere applicata quando il giudice ritenga possibile una condanna a pena uguale o inferiore a tre anni di reclusione e contestualmente reputi inutile, sul piano cautelare, ogni altra misura meno afflittiva (tanto varrebbe, allora, non applicare affatto alcuna misura cautelare)”.

Un secondo aspetto su cui sono riscontrabili posizioni non univoche, nella giurisprudenza della Corte di cassazione, concerne il rapporto tra le disposizioni qui in esame, da un lato, e, dall’altro, il divieto di concessione degli arresti domiciliari a chi sia stato condannato per evasione nei cinque anni precedenti al fatto per cui si procede (art. 284, comma 5 bis).

Secondo un primo indirizzo, tale divieto di concessione degli arresti domiciliari “ha carattere assoluto e, pertanto, prevale sulla disposizione di cui all’art. 275, comma 2 bis, cod. proc. pen., in base alla quale non può essere applicata la misura della custodia in carcere quando il giudice ritiene che la pena irrogata non sarà superiore a tre anni” (Sez. II, 12 marzo 2015, n. 14111, Rondinone, Rv. 262960; in senso analogo, v. Sez. VI, 24 giugno 2015, n. 34025, Annoscia).

In una diversa ed anzi opposta prospettiva, si è invece affermato (Sez. VI, 12 febbraio 2015, n. 17657, Caradonna), che il divieto di applicazione della custodia in carcere in caso di prognosi sanzionatoria inferiore ai tre anni, di cui all’art. 275 comma 2 bis, prevede quale eccezione la sola ipotesi della violazione delle prescrizioni imposte con gli arresti domiciliari: deve pertanto escludersi l’applicazione dell’art. 284, comma 5 bis, “perché tale disposizione presuppone chiaramente che per il reato in questione possa essere disposta la custodia in carcere” (principio affermato in una fattispecie in cui l’imputato era stato condannato, in primo grado, alla pena di anni uno, mesi sei di reclusione).

Nella successiva evoluzione giurisprudenziale in materia, potrebbe assumere rilevanza il fatto che, a seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 47 al comma 5 bis dell’art. 284, il divieto di concessione degli arresti domiciliari al condannato per evasione nel quinquennio non è più assoluto (laddove l’assolutezza veniva valorizzata, come si è visto, dalle pronunce orientate per la prevalenza di tale divieto sulla disposizione di cui all’art. 275, comma 2 bis): il novellato comma 5 bis fa infatti salva l’ipotesi “che il giudice ritenga, sulla base di specifici elementi, che il fatto sia di lieve entità e che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con tale misura”.

Per ciò che riguarda, infine, il momento in cui il giudice procedente è chiamato ad operare la valutazione prognostica sulla pena che sarà irrogata, la giurisprudenza ha affermato che “il limite di tre anni di pena detentiva necessario per l’applicazione della custodia in carcere, previsto dall’art. 275, comma secondo bis, cod. proc. pen., come novellato dal D.L. 26 giugno 2014, n. 92, nel testo anteriore alle modificazioni introdotte dalla legge di conversione 11 agosto 2014, n. 117, deve essere oggetto di valutazione prognostica solo al momento di applicazione della misura, ma non anche nel corso della protrazione della stessa, con la conseguenza che il presupposto assume rilievo non in termini di automatismo, ma solo ai fini del giudizio di perdurante adeguatezza del provvedimento coercitivo, a norma dell’art. 299, cod. proc. pen.” (Sez. VI, 16 dicembre 2014, n. 1798/2015, Ila, Rv. 262059).

Tale percorso argomentativo è stato successivamente confermato, da diverse pronunce, anche in relazione alle ordinanze cautelari emesse dopo l’entrata in vigore della legge di conversione n. 117 del 2014 (e quindi in relazione alla pena detentiva che sarà irrogata, e non alla pena “da eseguire”): cfr.. Sez. IV, 26 marzo 2015, n. 13025, Iengo, Rv. 262961; Sez. IV, 3 giugno 2015, n. 33836, Nadir; Sez. IV, 6 luglio 2015, n. 33848, Bruno, la quale ha tra l’altro posto in evidenza che la scelta del legislatore è stata quella di tener ferma una cesura tra custodia cautelare (in cui rileva il necessario bilanciamento tra esigenze di libertà e di sicurezza dei cittadini) ed esecuzione della pena (in cui rileva invece l’individuazione delle più idonee possibilità di recupero per il condannato):“tale differenza non permette l’applicazione dei criteri di cui all’art. 275 c.p.p., comma 2 bis nel corso del procedimento, quando la misura cautelare sia già in atto; la circostanza delimita la necessità di tale prognosi alla fase applicativa della misura, come del resto previsto dalla collocazione della disposizione invocata, ed esclude la presenza di un obbligo di costante analisi, sulla base degli effettivi e concreti sviluppi del procedimento, con valutazione che deve avere quale orizzonte valutativo l’esito del giudizio e non le determinazioni che intervengono nelle fasi intermedie, con la considerazione del presofferto”.

3.2.Scelta della misura e “braccialetto elettronico”.

Com’è noto, la disciplina delle “particolari modalità di controllo” correlate alla misura degli arresti domiciliari ha subito un duplice ordine di modifiche, negli anni qui presi in considerazione.

Da un lato, la prescrizione del c.d. braccialetto elettronico deve oggi essere senz’altro disposta dal giudice (accertata la disponibilità dei necessari apparati da parte della polizia giudiziaria), salvo che venga ritenuta non necessaria in relazione alle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto (art. 275-bis, comma 1, cod. proc. pen., come modificato dal d.l. n. 146 del 2013 conv. in l. n. 10 2014): laddove invece, prima della novella, il controllo elettronico veniva disposto dal giudice solo se ritenuto necessario. D’altro lato, la legge n.47 haintrodotto – inserendo un comma 3 bis all’interno dell’art. 275 – uno specifico onere motivazionale a carico del giudice che intenda disporre la custodia in carcere, essendo egli tenuto ad “indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all’art. 275 bis, comma 1”.

Nella più recente giurisprudenza della Corte di cassazione, non si registra unanimità di vedute per ciò che riguarda il problema della eventuale indisponibilità degli strumenti elettronici da parte della polizia giudiziaria, ed in particolare delle conseguenze di tale indisponibilità sulla misura da applicare nel caso concreto.

Secondo una prima opinione, “in tema di arresti domiciliari con la prescrizione dell’adozione del cosiddetto “braccialetto elettronico”, qualora il giudice – ritenendo che tale strumento di controllo sia nel caso concreto una modalità di esecuzione degli arresti domiciliari necessaria ed idonea per fronteggiare le esigenze cautelari – non accolga un’istanza di sostituzione della custodia in carcere, a causa della indisponibilità di “braccialetti” da parte della P.G., non sussiste alcun “vulnus” ai principi di cui agli artt. 3 e 13 Cost., perché la impossibilità della concessione degli arresti domiciliari senza controllo elettronico a distanza dipende pur sempre dalla intensità delle esigenze cautelari e, pertanto, è ascrivibile alla persona dell’indagato. (Conf. Sez. 1, n. 520 del 2015, non massimata)” (Sez. II, 19 giugno 2015, n. 28115, Candolfi, Rv. 264230). In tale prospettiva – che in sostanza impone di includere l’indisponibilità degli strumenti di controllo, pur non imputabile all’indagato, tra i fattori da considerare nella valutazione dell’adeguatezza degli arresti domiciliari – si è ulteriormente precisato, da ultimo (Sez. II, 10 novembre 2015, n. 46238, Pappalardo), che, dopo la ricordata modifica dell’art. 275 bis, l’applicazione delle modalità di controllo non può essere più considerata una mera modalità di esecuzione degli arresti domiciliari, come finora reiteratamente affermato dalla giurisprudenza, ma piuttosto la regola generale, “con la sola eccezione rimessa alla prudente valutazione del giudice in relazione alle esigenze cautelari sottese alla privazione della libertà personale dell’indagato. Ma tuttora l’applicazione della misura, con le descritte modalità, è subordinata all’accertamento preventivo della disponibilità dei mezzi elettronici o tecnici (cosiddetto braccialetto elettronico) da parte della polizia giudiziaria. A ciò consegue che, in caso di accertata indisponibilità dei suddetti mezzi di controllo, al giudice, sarà necessariamente imposta l’adozione della misura della custodia in carcere. Difatti le stesse esigenze cautelari che imponevano l’adozione della misura degli arresti domiciliari con adozione degli strumenti di controllo si prestano ad essere adeguatamente tutelate solo con l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere“.

In un’ottica ricostruttiva totalmente diversa, si è invece affermato (Sez. I, 10 settembre 2015, n. 39529, Quici, Rv. 264943) che la modifica dell’art. 275-bis ha confermato la natura di mera modalità esecutiva degli arresti domiciliari, che deve essere attribuita alle procedure di controllo elettronico. Pertanto, “se viene ritenuta dal giudice la idoneità della misura degli arresti domiciliari a soddisfare le concrete esigenze cautelari, la applicazione ed esecuzione di detta misura non può essere condizionata da eventuali difficoltà di natura tecnica e/o amministrativa per l’esecuzione della misura, trattandosi di presupposti, all’evidenza, non comparabili tra loro”. In buona sostanza, ad avviso della Prima Sezione, “una volta valutata la adeguatezza della misura domiciliare secondo i criteri di cui all’art. 275 cod. proc. pen., il detenuto dovrà essere controllato con i mezzi tradizionali se risulti la indisponibilità degli strumenti elettronici”.

Per ciò che riguarda invece la seconda modifica legislativa sopra richiamata, riguardante il nuovo onere motivazionale imposto al giudice in sede di applicazione della custodia in carcere, è opportuno richiamare Sez. III, 27 ottobre 2015, n. 45699, Nannavecchia, che ha accolto un’interpretazione rigorosa del nuovo comma 3 bis dell’art.275. Inparticolare, è stata annullata un’ordinanza emessa in sede di riesame che non aveva assolto al predetto obbligo, essendosi limitata “solo a chiarire le ragioni dell’inadeguatezza degli arresti domiciliari “semplici” a salvaguardare l’esigenza cautelare richiamata, senza tuttavia argomentare specificamente – come oggi richiesto dalla novella del 2015 – in ordine all’inidoneità a fronteggiare la predetta esigenza cautelare mediante la predetta misura domiciliare “aggravata””. Sulla stessa linea interpretativa v. altresì, da ultimo, Sez. II, 4 dicembre 2015, n. 49105, Bacio Terracino, che ha ricollegato la necessità di un puntuale adempimento del nuovo onere motivazionale al fatto che, ai sensi del novellato art. 275 bis, l’applicazione degli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico costituisce ormai la “regola generale”. V. anche Sez. III, 25 novembre 2015, n. 48700, Buscema, la quale ha sottolineato che la carenza argomentativa qui in esame, rilevata nel provvedimento impositivo della misura custodiale, può comunque essere colmata dal tribunale del riesame, attraverso i propri poteri di integrazione della motivazione.

In senso nettamente diverso appare peraltro orientata Sez. VI, 28 ottobre 2015, n. 46806, Zanga, secondo la quale deve escludersi la sussistenza del difetto di motivazione ex art. 275 comma 3 bis qualora il giudice – sulla base della pericolosità dell’indagato e delle circostanze del caso concreto – abbia adeguatamente motivato sull’inadeguatezza degli arresti domiciliari per fronteggiare il rischio di recidiva, in quanto, in tale ipotesi, “il mancato cenno alla previsione del possibile utilizzo del braccialetto risulta assorbito dalla argomentazione complessivamente spesa per escludere l’adeguatezza in sé degli arresti”. Sull’ammissibilità di una motivazione implicita, agli specifici fini che qui interessano, v. anche Sez. I, 16 luglio 2015, n. 35948, Santoro.

In una posizione per così dire intermedia sembra possibile collocare Sez. III, 1 dicembre 2015, n. 48962, D.R., che ha sottolineato la necessità di una compiuta analisi della motivazione dell’ordinanza, per verificare la sua rispondenza ai nuovi requisiti motivazionali (nella specie, la S.C. ha posto in evidenza che l’ordinanza impugnata non si era limitata ad osservare che “l’utilizzo del braccialetto elettronico non neutralizzerebbe ogni possibilità di movimento criminale dell’indagato”– locuzione censurata dalla difesa per il suo carattere tautologico – ma aveva evidenziato l’assoluta necessità di far cessare radicalmente le comunicazioni con gli altri associati, per le quali l’indagato aveva fatto uso anche di apparecchi intestati a persone inesistenti. In tale contesto, perla Terza Sezione, non era necessario aggiungere alcun’altra “specifica ragione” per motivare l’inadeguatezza degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico).

Sempre in tema di onere motivazionale ex art. 275, comma 3-bis, si segnala anche Sez. I, 5 giugno 2105, n. 27335, Margari, la quale ha escluso che la nuova disposizione sia applicabile alle ordinanze cautelari emesse in relazione a reati per i quali vige la presunzione relativa di adeguatezza della sola custodia in carcere, ai sensi del comma 3 dello stesso art. 275: infatti, per tali fattispecie, il legislatore – privilegiando non irragionevolmente le esigenze di tutela della collettività – ha ritenuto non idonea “la modalità di esecuzione della custodia domiciliare con braccialetto elettronico, riferibile soltanto agli altri reati meno gravi per i quali non opera alcuna presunzione e la sottoposizione a custodia in carcere sia frutto di scelta discrezionale del giudice, da giustificare in modo puntuale anche sotto il profilo dell’insufficienza dei dispositivi di controllo applicabili”.

Sul rapporto tra braccialetto elettronico e presunzione di adeguatezza, si era in precedenza affermato che, “nei reati con presunzione relativa di idoneità della custodia cautelare in carcere, la disponibilità ad indossare il predetto dispositivo presuppone che la presunzione sia già vinta, ossia che il giudice, valutando gli elementi specifici del singolo caso, ritenga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con misure diverse dalla detenzione carceraria” (Sez. III, 3 dicembre 2014, n. 7421/2015, F., Rv. 262418).

4.La giurisprudenza sulle nuove disposizioni in tema di motivazione dell’ordinanza cautelare.

Com’è noto, la legge n. 47 ha introdotto rilevanti modifiche alle disposizioni del codice di rito concernenti i requisiti dell’ordinanza cautelare, modifiche chiaramente volte – come emerge dai lavori parlamentari – ad evitare la redazione di motivazioni “appiattite” su quelle del pubblico ministero richiedente. In particolare, da un lato, è stato inserito nelle lettere c) e c-bis) dell’art. 292, accanto a quello della “esposizione”, il requisito della “autonoma valutazione” degli elementi ivi indicati (esigenze cautelari, indizi, ritenuta irrilevanza delle argomentazioni difensive, inadeguatezza di misure gradate rispetto a quella carceraria); dall’altro, sono stati corrispondentemente rivisti i poteri decisori del tribunale del riesame, aggiungendo all’art. 309, comma 9 – che prevede tra l’altro il potere, rimasto immutato, di confermare l’ordinanza impugnata anche per ragioni diverse da quelle ivi indicate – il seguente periodo conclusivo: “Il tribunale annulla il provvedimento impugnato se la motivazione manca o non contiene l’autonoma valutazione, a norma dell’art. 292, delle esigenze cautelari, degli indizi e degli elementi forniti dalla difesa”.

Tra le pronunce emesse dalla Suprema corte in argomento, va anzitutto segnalata Sez. VI, 15 settembre 2015, n. 40978, De Luca, Rv. 264567, che ha attribuito alle nuove disposizioni una valenza meramente ricognitiva dei rigorosi approdi ermeneutici già raggiunti da una parte della giurisprudenza (cfr. Sez. VI, 13 marzo 2014, Sanjust, Rv. 259462), secondo i quali il tribunale del riesame non può ricorrere al proprio potere integrativo per completare la motivazione di un’ordinanza cautelare che sia priva dell’autonoma valutazione, da parte del giudice emittente, del materiale posto a sostegno della richiesta. In altri termini, ad avviso della Sesta sezione, “il riferimento alla «autonoma valutazione» non aggiunge, a quelli preesistenti, un nuovo requisito a pena di nullità bensì ritiene corretta quell’interpretazione secondo la quale il provvedimento di custodia deve sia avere il necessario contenuto «informativo» che dimostrare la effettiva valutazione da parte del giudicante e, quindi, il reale esercizio della giurisdizione”; in tale prospettiva, l’annullamento previsto dal novellato comma 9 dell’art. 309, per l’ipotesi in cui la motivazione “manca” o “non contiene l’autonoma valutazione”, va inteso nel senso che “la nullità ricorre quando, pur a fronte di un contenuto ineccepibile dell’atto sul piano formale di completezza, si tratta chiaramente di una mera adesione acritica alle scelte dell’accusa”. In senso analogo, v. anche Sez. VI,1 ottobre 2015, n. 44607, Di Marzo; Sez. VI, 22 ottobre 2015, n. 45934, Perricciolo, Rv. 265068; Sez. VI, 29 ottobre 2015, n. 47233, Moffa;Sez. II, 28 ottobre 2015, n. 46136, Campanella, la quale ha evidenziato che la dimensione “autonoma” della valutazione giudiziale, relativa alla consistenza e legittimità degli elementi disponibili, è “connaturata alla funzione di controllo affidata al giudice per le indagini preliminari”, pur se è stata richiesta espressamente solo dalla legge n. 47. Da ultimo, cfr. la già citata Sez. III, n. 48962 del 2015, D.R., la quale ha precisato che lo sforzo motivazionale richiesto dalla novella “non può essere inteso come finalizzato ad una «originale esposizione» dei fatti; la necessità del vaglio critico degli elementi indiziari e delle esigenze cautelari non si traduce infatti nella necessità di una riscrittura del testo della richiesta del P.M., ciò che finirebbe per risolversi in un impegno letterario che poco aggiungerebbe alla tutela del diritto di difesa, cui tende l’intervento riformatore”. Tale pronuncia si segnala anche per aver ricondotto l’onere motivazionale in questione anche al provvedimento emesso dal tribunale del riesame ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen.

Diverse sentenze hanno poi affrontato la questione – di assoluto rilievo nella pratica giudiziaria, oltre che strettamente correlata a quella fin qui discussa – della compatibilità, con le nuove disposizioni, della motivazione c.d.per relationem: questione ripetutamente risolta in senso positivo.

Si è in particolare affermato (Sez. Fer., 12 agosto 2015, n. 34858, Liotta) che l’espressa previsione di un obbligo di autonoma valutazione dei presupposti dell’intervento cautelare non sembra potersi tradurre tout court nel divieto di motivare per relationem, dovendosi invece ancorare la legittimità dell’ordinanza “alla dimostrazione che il giudice, nel riportarsi al contenuto di un atto del procedimento ovvero nel riprodurlo nel corpo della motivazione, ne abbia non solo preso cognizione, ma altresì effettivamente soppesato la coerenza con la decisione assunta. Che è esattamente una delle condizioni già individuate dalla giurisprudenza per legittimare il ricorso alla motivazione  per relationem, condizione che il legislatore si è dunque limitato a recepire”. Nello stesso senso, v. tra le altre Sez. VI, 29 ottobre 2015, n. 45166, Esposito, secondo la quale le disposizioni introdotte dalla legge n. 47, lungi dal vietare la motivazione per relationem, si pongono in una linea di continuità con i principi costantemente affermati dalla Suprema corte sin da Sez. un.,  21 giugno 2000, Primavera, Rv. 216664; cfr. anche le già citate Sez. II, n. 45934 del 2015, Perricciolo  e, da ultimo, Sez. II, n. 46136 del 2015, Campanella, secondo la quale “la tecnica del rinvio testuale è legittima nella misura confinata nell’area della «esposizione» degli elementi posti a sostegno della misura, ma non può estendersi fino all’assorbimento dei contenuti valutativi della richiesta cautelare, confliggendo tale operazione con la strutturale funzione di controllo affidata al giudice per le indagini preliminari in materia di misure cautelari”.

La giurisprudenza della Suprema corte ha anche sottolineato, per altro verso, che le nuove disposizioni introdotte dalla l. n. 47 non hanno fatto venir meno il potere integrativo esercitabile, dal tribunale del riesame, ai sensi del comma 9 dell’art. 309 (cfr.supra): fermo restando, ovviamente, che tale potere potrà oggi essere esercitato solo ove non ricorrano le nuove ipotesi di annullamento (motivazione mancante o priva dell’autonoma valutazione). In tal senso, v. Sez. VI, 22 ottobre 2015, n. 44433, Bellinghieri;Sez. VI, 5 novembre 2015, n. 46623, Orsi, secondo la quale il potere integrativo di cui trattasi è pienamente esercitabile, in presenza dell’autonoma valutazione di cui si è detto, per integrare la “esposizione” degli elementi previsti, a pena di nullità, dalle lettere c) e c-bis) del comma 2 dell’art. 292 cod. proc. pen..

5.La giurisprudenza sul coinvolgimento della persona offesa nei procedimenti di revoca o sostituzione delle misure cautelari.

Si è già accennato, in premessa, alle importanti modifiche introdotte nell’art. 299 cod. proc. pen. – con riferimento ai procedimenti aventi ad oggetto delitti commessi con violenza alla persona – dal d.l. n. 93 del 2013, convertito dalla l. n. 119 del 2013: le nuove disposizioni prevedono infatti una forma di interlocuzione obbligatoria con la persona offesa, qualora venga proposta una richiesta di revoca o sostituzione delle misure cautelari coercitive diverse dal divieto di espatrio e dall’obbligo di presentazione alla p.g.. Invero, sia nella fase delle indagini che in quelle successive, le richieste di revoca o sostituzione devono essere contestualmente notificate al difensore della persona offesa (ovvero, in mancanza, a quest’ultima), a pena di inammissibilità delle richieste medesime.

A tale ultimo proposito, la giurisprudenza della Suprema corte è ripetutamente intervenuta, nel corso del 2015, chiarendo tra l’altro che la predetta sanzione deve ritenersi applicabile anche quando l’oggetto della richiesta sia costituito dalla revoca o dalla sostituzione della misura, ma dall’applicazione di quest’ultima con modalità meno gravose (Sez. VI, 5 febbraio 2015, n. 6717, D. Rv. 262272). La stessa pronuncia ha anche sottolineato che, con le nuove disposizioni, si intende rendere la persona offesa partecipe dell’evoluzione della posizione cautelare dell’indagato o imputato, “consentendole di presentare, entro un breve lasso temporale, memorie ai sensi dell’art. 121 c.p.p., al fine di offrire all’autorità giudiziaria procedente la conoscenza di ulteriori elementi di valutazione pertinenti all’oggetto della richiesta e garantire in tal modo la possibilità di instaurare un adeguato contraddittorio con la vittima del reato all’interno dell’incidente cautelare”; in senso conforme, v. anche Sez. VI, 23 luglio 2015, n. 35613, T., Rv. 264342. Un’interpretazione rigorosa della sanzione di inammissibilità era stata del resto già fornita dalle decisioni meno recenti, sia quanto alla rilevabilità d’ufficio, sia quanto alla “insanabilità” della situazione fino al giudicato (cfr. ad es. Sez. IV, 26 luglio 2014, n. 29045, Isoldi, Rv. 259984).

È tuttavia necessario sottolineare che, di recente, è stata proposta dalla Suprema corte un’interpretazione volta a ridimensionare sensibilmente la portata applicativa delle nuove disposizioni. Si è in particolare sostenuto (Sez. II, 14 ottobre 2015, n. 43353, Quadrelli, Rv. 265094) che queste ultime dovrebbero riguardare solo i procedimenti per reati con violenza alla persona connotati da un pregresso rapporto personale tra vittima e imputato, non anche quelli in cui l’azione violenta è risultata del tutto occasionale.

A sostegno di tale assunto,la Secondasezione ha affermato che – nonostante anche le vittime occasionali siano esposte al rischio di ulteriori episodi delittuosi, magari per finalità ritorsive correlate alla loro decisione di sporgere denuncia – solo un pregresso rapporto tra vittima e aggressore può “presumibilmente” consentire alla prima di avere a disposizione ulteriori elementi di conoscenza, da offrire al giudicante attraverso la presentazione di memorie ex art. 121 cod. proc. pen.: “Fuori da questo ambito, il rapporto di maggior tutela, rivolto indiscriminatamente a tutte le vittime di reati con violenza alla persona, appare ridursi ad un mero formalismo, in quanto alla vittima occasionale della rapina, di regola solo casualmente – anche nella “scelta” dell’aggressore – vittima del reato, non può derivare ragionevolmente alcun pregiudizio dalla circostanza che all’imputato si revochi o si modifichi l’originaria misura cautelare”. Su tali basi,la Secondasezione – in una fattispecie relativa a misura cautelare disposta per più delitti di rapina aggravata in danno di istituti di credito – ha annullato l’ordinanza emessa dal tribunale, ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen., che aveva d’ufficio ritenuto sussistente l’inammissibilità dell’istanza, per la mancata notifica della stessa alle persone offese.

6.La giurisprudenza sulle modifiche al procedimento di riesame personale.

Nel corso della presente esposizione, si è già avuto modo di accennare ad un’importante modifica apportata dalla legge n. 47 all’art. 309 del codice di rito, concernente la ridefinizione dei poteri decisori del tribunale investito dell’impugnazione cautelare (cfr.supra, § 4). Va peraltro evidenziato che la predetta legge ha profondamente innovato anche altri aspetti del procedimento di riesame, tra i quali la partecipazione del ricorrente all’udienza camerale, i termini perentori (oggi previsti non solo per la trasmissione degli atti e per la decisione, ma anche per il deposito dell’ordinanza), le conseguenze derivanti dalla violazione dei predetti termini (oggi non più limitate alla perdita di efficacia della misura).

Nelle pagine seguenti, si farà cenno ad alcune pronunce della Suprema corte che – talora con risultati non convergenti – si sono occupate delle questioni interpretative sollevate dalle nuove disposizioni.

6.1. La partecipazione del ricorrente all’udienza camerale.

Com’è noto, la materia era finora regolata dal comma 8 dell’art. 309 cod. proc. pen., con un rinvio alle disposizioni generali dettate, per il procedimento camerale a partecipazione non necessaria, dall’art. 127 del codice di rito: rinvio che aveva dato luogo a marcate divergenze interpretative, soprattutto quanto alla posizione del detenuto “fuori distretto”. Era stata infatti sostenuta sia l’insussistenza di un diritto a presenziare (avendo il detenuto solo il diritto di essere ascoltato dal magistrato di sorveglianza del luogo di detenzione: cfr. Sez. IV, 12 luglio 2007, Cammarata, Rv. 237886); sia – all’opposto – la necessità di tradurre all’udienza camerale, a pena di nullità assoluta ed insanabile, il detenuto che ne avesse fatto richiesta (opinione maggioritaria: cfr. da ultimo Sez. VI, 21 maggio 2015, n. 21849, Farina, Rv. 263630); sia anche – in un’ottica intermedia dai marcati contorni “sostanzialisti” – la necessità di condizionare la traduzione alla manifestazione di volontà, da parte del detenuto richiedente, “di rendere dichiarazioni su questioni di fatto concernenti la propria condotta” (cfr .Sez. II, 5 novembre 2014, n. 6023/2015, Di Tella, Rv. 262312). Quanto poi alla questione della tempestività della richiesta di traduzione (di intuitivo rilievo, in un procedimento come quello ex art. 309), la giurisprudenza aveva fornito indicazioni che, ovviamente, risentivano della mancanza di specifiche indicazioni normative (cfr. ad es. Sez. VI, 4 novembre 2011, n. 42710, Ventrici, Rv. 251277, secondo cui la richiesta di traduzione doveva essere formulata “nella ragionevole immediatezza della ricezione della notificazione dell’avviso della data fissata per l’udienza camerale”).

La legge n. 47 ha apportato modifiche sostanziali all’art. 309, pur lasciando intatto il rinvio all’art. 127 contenuto nel comma8. Inparticolare, da un lato, al comma 6 del predetto articolo si prevede che “l’imputato può chiedere di comparire personalmente”; dall’altro, il novellato comma 8-bis dispone che “l’imputato che ne abbia fatto richiesta ai sensi del comma6 hadiritto di comparire personalmente”.

Tali disposizioni sono state diffusamente analizzate da Sez. I, 6 ottobre 2015, n. 49882, Pernagallo, secondo cui esse paiono “affermare, in modo inequivoco, il diritto del ricorrente di comparire all’udienza camerale fissata per la trattazione, anche se eventualmente detenuto fuori distretto; la possibilità di esercitare tale diritto, peraltro, risulta strettamente correlata, per l’impugnante detenuto o internato, alla formulazione della richiesta nell’atto di riesame”. In altri termini, ad avviso della Prima sezione, la novella ha inteso superare ogni pregressa incertezza sia quanto alla sussistenza del diritto a presenziare, sia quanto alla tempestività della relativa richiesta: né la previsione relativa al necessario inserimento di quest’ultima nell’atto di impugnazione può dirsi lesiva dei diritti di difesa, sia perché il ricorrente ha già potuto avere un contatto con l’organo che ha emesso la misura (a seconda dei casi, in sede di convalida o di interrogatorio di garanzia), sia perché l’impugnazione ex art. 309, con la eventuale richiesta di presenziare all’udienza, può comunque essere anche presentata dal (solo) difensore.

Infine, ad avviso della Prima sezione, deve oggi escludersi – pur essendo rimasto immutato, nel comma 8 dell’art. 309, il rinvio all’art. 127 cod. proc. pen. – che il detenuto fuori distretto possa chiedere di essere sentito prima dell’udienza dal magistrato di sorveglianza: le nuove disposizioni in tema di riesame costituiscono infatti una lex specialis  destinata a prevalere sulle disposizioni generali di cui all’art. 127 (diversamente opinando, si avrebbe per la sentenza “una irragionevole «rimessione in termini» a beneficio esclusivo di chi è detenuto o internato in luogo posto fuori del circondario del Tribunale competente”).

6.2. Il termine per il deposito dell’ordinanza.

Nel richiamare le pronunce emesse nel 2015 dalla Suprema corte in tema di esigenze cautelari (cfr.supra, § 2), si è già accennato al fatto che la giurisprudenza ha ripetutamente escluso – in applicazione del principio tempus regit actum– che le modifiche introdotte dal codice di rito dalla legge n. 47 (con particolare riguardo al requisito dell’attualità dei pericoli di cui alle lettere b e c dell’art. 274) possano incidere sulla legittimità delle ordinanze cautelari emesse in applicazione della previgente normativa: con la conseguente impossibilità di ritenere carente di motivazione un provvedimento che non abbia esaminato aspetti non contemplati dalle norme in vigore al momento della emissione (cfr. in tal senso, oltre alle sentenze già richiamate al § 2, Sez. II, 16 settembre 2015, n. 44515, Ax).

Una divergenza interpretativa in ordine alle implicazioni concrete del principio tempus regit actumsi è invece registrata con riferimento ad una delle più rilevanti innovazioni apportate dalla l. n. 47 al procedimento di riesame. Si allude all’introduzione, nell’art. 309 comma 10 cod. proc. pen., di un termine perentorio per il deposito dell’ordinanza in cancelleria (trenta giorni decorrenti dalla decisione, salva l’indicazione di un termine non superiore a quarantacinque, qualora la motivazione si riveli particolarmente complessa): termine che va ad aggiungersi a quelli – anch’essi perentori, a pena di inefficacia della misura –  concernenti la mancata trasmissione al tribunale degli atti posti a sostegno della misura entro i cinque giorni dalla richiesta, e la mancata decisione sulla richiesta di riesame entro dieci giorni dalla ricezione degli atti.

Il contrasto interpretativo cui si accennava concerne la particolare ipotesi in cui la decisione del tribunale sia ritualmente intervenuta prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni (con il deposito del dispositivo nei dieci giorni dalla trasmissione degli atti), ma l’ordinanza, completa della motivazione, sia stata depositata in cancelleria dopo la novella.

Da un lato, infatti, Sez. V, 17 settembre 2015, n. 40342, Ricciardi, Rv.264939, haritenuto applicabile la nuova normativa, dichiarando la perdita di efficacia della misura per il mancato deposito dell’ordinanza nei trenta giorni dalla decisione. A sostegno di tali conclusioni ,la Quinta Sezione ha escluso che esse conseguano ad un’applicazione retroattiva della legge n. 47, essendo invece necessario individuare quale segmento dell’attività procedimentale debba essere regolato secondo le nuove disposizioni: “attività che deve senz’altro essere identificata nella redazione della motivazione dell’ordinanza decisoria della procedura di riesame, e non più nella precedente ed ormai esaurita emissione del dispositivo della stessa”. In buona sostanza, tale pronuncia conferisce decisiva rilevanza al fatto che, al momento dell’entrata in vigore della nuova legge, i termini per la stesura della motivazione dell’ordinanza erano ancora pendenti, e come tali assoggettati alla nuova disciplina, sia quanto alla loro durata sia quanto alla sanzione prevista, in caso di inosservanza.

A diverse ed anzi opposte conclusioni è invece pervenuta Sez. I, 6 ottobre 2015, n. 43804, Farina, secondo la quale deve attribuirsi un rilievo dirimente al fatto che la decisione sulla richiesta di riesame intervenga prima della novella: anche attraverso un esplicito richiamo alla già citata sentenza Ambrogio delle Sezioni unite, la Prima sezione ha infatti affermato che “il principio tempus regit actum comporta che, di regola, la norma vigente al momento del compimento di ciascun atto ne segna definitivamente, irrevocabilmente, le condizioni di legittimità, ne costituisce lo statuto regolativo: un atto, una norma…poiché, al momento della pronuncia dell’ordinanza, il termine suddetto non esisteva, esso non può trovare applicazione con riferimento a quel provvedimento”. In senso del tutto conforme, v. anche Sez. VI, 21 settembre 2015, n. 41322, Policastri, la quale ha altresì posto in evidenza che la motivazione “non rappresenta un atto diverso e separato dal tipo di provvedimento giurisdizionale cui inerisce quale elemento costitutivo, ma ne seguein totola disciplina normativa in vigore al momento dell’adozione”.

6.3. Il divieto di rinnovazione della misura divenuta inefficace.

Com’è noto, la l. n.47 haintrodotto un’ulteriore, rilevantissima modifica al comma 10 dell’art. 309, prevedendo che, in caso di mancato rispetto di uno dei tre termini perentori cui si è poc’anzi accennato, “l’ordinanza che dispone la misura coercitiva perde efficacia e, salve eccezionali esigenze cautelari, non può essere rinnovata”.

Al riguardo, è opportuno segnalare, da un lato, Sez. VI, 12 maggio 2015, n. 23304, Vecchi, la quale ha escluso – in base all’appena richiamato principio tempus regit actum, ed alla conseguente necessità di valutare un atto in relazione alla norma vigente al momento della sua emanazione – che il divieto di rinnovazione in parola possa applicarsi con riferimento ad ordinanze cautelari che abbiano perso efficacia prima dell’entrata in vigore della l. n. 47.

D’altro lato, viene in rilievo la già citata Sez. III, 27 ottobre 2015, n. 45285, Peritore, secondo cui il divieto di rinnovazione di cui al novellato comma 10 dell’art. 309 opera esclusivamente nelle ipotesi di perdita di efficacia della misura causata dal mancato rispetto dei termini previsti per la trasmissione degli atti, per la decisione sulla richiesta di riesame e per il deposito dell’ordinanza: non anche nelle ipotesi (quale quella ricorrente nella fattispecie) di annullamento del titolo cautelare per motivi formali. Ad avviso della Terza Sezione, deve altresì escludersi qualsiasi possibilità di estensione analogica delle nuove disposizioni, “in quanto la specificazione che il legislatore ha inteso fare nell’art. 309 comma 10 prevedendo il divieto (peraltro non assoluto) di rinnovare una misura cautelare dichiarata inefficace per inosservanza dei termini indicati, non incide minimamente sulla reiterabilità della misura cautelare divenuta inefficace per questioni puramente formali la cui ammissibilità trova il suo fondamento – e perciò non ha formato oggetto di specifica previsione – nel generale principio del “ne bis in idem”, che è ostativoalla reiterazione della misura solo quando il giudice sia chiamato a riesaminare nel merito quegli stessi elementi che già siano stati ritenuti insussistenti o insufficienti, e non quando tali elementi non siano stati valutati nel merito”.

7. La giurisprudenza sulle modifiche al procedimento di riesame reale.

Come già accennato in premessa, la legge n.47 hamodificato anche il procedimento di riesame avverso i provvedimenti di sequestro preventivo, conservativo e probatorio, delineato dall’art. 324 cod. proc. pen.: prima della novella, il comma 7 del predetto articolo richiamava  – quali disposizioni applicabili anche nel procedimento di riesame reale  – i commi 9 e 10 dell’art. 309. La legge n.47 hainserito anche il richiamo al comma 9-bis dell’art. 309 (il quale ha introdotto, com’è noto, la possibilità per il ricorrente di richiedere il differimento dell’udienza camerale): sicchè, nel testo novellato, il comma 7 dell’art. 324 dispone che nel procedimento di riesame reale “si applicano le disposizioni dell’art. 309, commi 9, 9-bis e10”.

Una prima questione affrontata dalla giurisprudenza, dopo l’entrata in vigore della l. n. 47, è quella dell’applicabilità anche ai riesami reali del termine perentorio di cinque giorni per la trasmissione degli atti (previsto per i procedimenti di riesame personale dal comma 5 dell’art. 309) e della relativa “sanzione” costituita dalla perdita di efficacia della misura, ai sensi del comma 10 del medesimo art. 309. Prima della novella, com’è noto, il quesito era stato risolto dal Supremo consesso in senso negativo (Sez. un., 28 marzo 2013, Cavalli, Rv. 255581-255584).

Al riguardo, si è affermato che, anche nella vigenza delle nuove disposizioni, “non è applicabile, nel procedimento di riesame del provvedimento di sequestro, il termine perentorio di cinque giorni per la trasmissione degli atti al tribunale, previsto dall’art. 309, comma quinto, cod. proc. pen., con conseguente perdita di efficacia della misura cautelare impugnata in caso di trasmissione tardiva, ma il diverso termine indicato dall’art. 324, comma terzo, cod. proc. pen., che ha natura meramente ordinatoria sicché il termine perentorio di dieci giorni, entro cui deve intervenire la decisione a pena di inefficacia della misura, decorre, nel caso di trasmissione frazionata degli atti, dal momento in cui il tribunale ritenga completa l’acquisizione degli atti mancanti, nei limiti dell’effetto devolutivo dell’impugnazione” (Sez. III, 29 settembre 2015, n. 44640, Zullo). La persistente validità dei principi affermati dalle Sezioni unite nella sentenza Cavalli è stata esplicitamente ribadita – senza peraltro alcun richiamo alla legge n. 47 – anche da Sez. V, 26 giugno 2015, n. 48021, Attia; Sez. III, 24 settembre 2015, n. 465531, Antenori; Sez. III, 22 ottobre 2015, n. 45638, Vaudi..

Un diverso profilo problematico, conseguente all’entrata in vigore della novella, concerne poi la natura del rinvio operato dal comma 7 dell’art. 324 ai commi 9, 9-bis e 10 dell’art. 309: occorre infatti tener presente che, secondo la più volte citata sentenza Cavalli del 2013, tale rinvio era di natura statica o recettizia, nel senso che oggetto del richiamo erano i commi 9 e 10 nella formulazione originaria (ovvero, quanto al comma 10, quella antecedente alle modifiche apportate dalla legge 8 agosto 1995, n. 332, proprio in tema di termine per la trasmissione degli atti e relativa perdita di efficacia della misura, in caso di inosservanza).

Il problema che si pone, evidentemente, è quello di stabilire se tali conclusioni debbano esser tenute ferme – in tutto o in parte – anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 47: si tratta di una questione di grande rilievo anche pratico, essendo in gioco l’applicazione ai riesami reali delle importanti innovazioni introdotte dalla medesima legge nei commi 9 e 10 dell’art. 309 (annullamento dell’ordinanza in caso di motivazione mancante o difettosa nella “autonoma valutazione”; termine perentorio anche per il deposito dell’ordinanza; divieto di rinnovazione della misura divenuta inefficace per la scadenza dei termini, salva l’esistenza di esigenze eccezionali).

Al riguardo, occorre per un verso segnalare che, secondo quanto incidentalmente affermato dalla già citata sentenza Zullo della Terza Sezione, “sembrerebbe sostenibile”  che al rinvio debba oggi riconoscersi natura formale o dinamica (con conseguente applicazione ai riesami reali anche delle nuove disposizioni introdotte nei commi 9 e 10 dell’art. 309), avendo la legge n. 47 modificato anche la struttura dell’art. 324, con il ricordato intervento sul comma 7.

Per altro verso, va posto in evidenza che la stessa Terza Sezione della Suprema corte, con ordinanza 26 novembre 2015, n. 50581, Capasso, ha rimesso la questione alle Sezioni unite: sarà quindi il Supremo consesso a stabilire – con le conseguenze applicative cui si è in precedenza accennato – se il novellato art. 324 comma 7 richiami i commi 9 e 10 dell’art. 309 nella nuova o nella previgente formulazione. La rimessione è stata motivata prospettando la possibilità di un contrasto interpretativo nella giurisprudenza di legittimità, anche alla luce delle divergenti posizioni espresse in dottrina.

In particolare, a sostegno della tesi della persistente natura recettizia (o statica) del rinvio,la Terzasezione ha tra l’altro evidenziato che le nuove disposizioni potrebbero essere ritenute giustificabili solo con riguardo alle misure cautelari personali, ma non anche quanto a quelle reali,“alla luce del bene interesse coinvolto, di rango costituzionale ma suscettibile di compressione maggiore rispetto alla libertà personale”. Con specifico riguardo al divieto di rinnovazione, si è evidenziato il suo carattere “non proporzionato all’oggetto della tutela e potenzialmente idoneo ad annullare – senza alcuna possibilità di recupero – la funzione conservatrice e preventiva propria del vincolo, al di fuori dei casi di cui all’art. 240, comma 2, cod. pen. comunque “fatti salvi” dall’art. 324, comma 7″. Sempre in un’ottica volta a sostenere la natura recettizia del rinvio,la Terzasezione ha altresì posto in evidenza, da un lato, che la legge n.47 haintrodotto nel solo procedimento di riesame personale analoghe disposizioni anche nel giudizio di rinvio (cfr. art. 311 comma 5 bis, relativo appunto ai termini perentori per la decisione e per il deposito dell’ordinanza, nonché al divieto di rinnovazione): disposizioni certamente non applicabili al giudizio di rinvio a seguito di annullamento di un provvedimento impositivo di un sequestro, non essendovi alcun richiamo al predetto comma 5 bis all’interno degli artt. 324 e 325 cod. proc. pen.. D’altro lato, l’ordinanza di rimessione ha valorizzato la specifica modalità di intervento del legislatore sul comma 7 dell’art. 324: intervento consistito nella sostituzione delle parole “articolo 309 commi9″con le parole “articolo 309 commi 9, 9 bis”, senza alcun richiamo al comma 10.

Quali argomenti di possibile sostegno della tesi volta a riconoscere natura “dinamica” al rinvio, il Collegio rimettente ha invece richiamato, in primo luogo, il fatto che la legge n. 47 è intervenuta anche nel settore del riesame reale, modificando l’art. 324 con il richiamo anche del comma 9-bis dell’art. 309 (laddove invece l’intervento operato dalla l. n. 332 del 1995, analizzato dalla sentenza Cavalli, aveva riguardato il solo settore delle misure personali). In tale prospettiva, l’inserimento del comma 9 bis accanto ai commi 9 e 10 potrebbe indurre ad interpretare tali disposizioni come uncorpus unico posto a tutela dei diritti di difesa, indipendentemente dall’oggetto (personale o reale) del giudizio di riesame. Inoltre, il riferimento alla possibilità di differire anche il termine per il deposito della decisione, contenuto nel comma 9-bis, avrebbe senso solo applicando il novellato comma 10 dell’art. 309. Infine, quanto alla tecnica di modifica legislativa, l’omessa menzione del comma 10 da parte della l. n. 47 non sarebbe decisiva, essendo stato necessario richiamare il solo comma 9, per collegarvi il comma 9-bis.

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